Breve storia della libertà religiosa in Italia. Aspetti giuridici e problemi pratici

Cristiani d'Italia (2011)

Breve storia della liberta religiosa in Italia. Aspetti giuridici e problemi pratici

Michele Madonna

Premessa

La libertà religiosa, secondo una celebre definizione di Francesco Ruffini, è la «facoltà spettante all’individuo di credere quello che più gli piace, o di non credere, se più gli piace, a nulla». Si tratta, per l’autore, di un concetto o principio non «filosofico», e neppure «teologico», ma «essenzialmente giuridico»1.

Questi brevi passaggi dell’insegnamento del primo e più importante studioso italiano del tema costituiscono la necessaria premessa metodologica per chiarire obiettivi e confini di una ricerca incentrata sull’emergere e sul diverso atteggiarsi del diritto di libertà religiosa nell’ordinamento italiano dal Risorgimento ai nostri giorni, con speciale riferimento alla condizione giuridica delle minoranze religiose in generale e dei culti protestanti in particolare.

L’attenzione sarà quindi rivolta principalmente alla libertà religiosa nel suo contenuto giuridico e nell’ambito dell’ordinamento dello Stato. Non si prenderà in esame la nozione confessionale di libertà religiosa, con riguardo alla Chiesa cattolica e al diritto canonico2, e nel diritto interno dei culti protestanti3. Verranno, d’altra parte, brevemente richiamate l’impostazione di fondo e l’evoluzione dell’atteggiamento delle confessioni, e specialmente della Chiesa cattolica, nei confronti della normativa statale in materia nel periodo considerato.

È bene inoltre chiarire che non saranno trattati, se non per sommari cenni, gli aspetti più propriamente tecnico-giuridici del tema4. Si cercherà quindi di tratteggiarne l’evoluzione storico-giuridica, nel tentativo di dipanare il groviglio di quelli che il più importante allievo di Ruffini, Arturo Carlo Jemolo, sin dal titolo di una sua celebre opera, definisce icasticamente i «problemi pratici della libertà»5. Si allude a quei nodi problematici che vanno considerati non solo nel loro aspetto formale, ma anche nella concretezza della vita giuridica, a livello amministrativo e giurisprudenziale. Il diritto di libertà religiosa, infatti, deve essere studiato anche nella sua attuazione, al di là dei riconoscimenti e dis-conoscimenti normativi, e alla luce delle complesse e cangianti dinamiche della società civile, di cui lo Stato è solo un «aspetto», così come «il diritto non esaurisce la serie delle norme che operano in seno a quella società»6.

Lo si prenderà in esame dall’affermazione confessionista in senso cattolico dello Statuto albertino al progressivo affermarsi della tolleranza e della libertà religiosa nel periodo liberale, dalla ‘rinconfessionalizzazione’ dello Stato attuata dal regime fascista, con i Patti del 1929 e la coeva legge sui culti ammessi, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, per poi analizzare il periodo che va dalla genesi della Costituzione repubblicana, con il suo ampio riconoscimento della libertà religiosa, alle prime pronunce della Corte costituzionale nella seconda metà degli anni Cinquanta, che danno una prima incisiva attuazione ai principi sanciti dalla Carta costituzionale. Si considera poi il tempo che conduce dal concilio Vaticano II, con i suoi insegnamenti sulla libertà religiosa, alla revisione concordataria del 1984, e al contestuale avvio della stagione delle intese con le confessioni diverse dalla cattolica. Si giunge così, nell’ultima parte della ricerca, a riflettere sui problemi dell’oggi e del domani della libertà religiosa, in una società profondamente mutata e in un contesto di pluralismo religioso e culturale sempre più accentuato nel passaggio dal vecchio al nuovo secolo.

Dallo Statuto albertino ai Patti Lateranensi

L’articolo 1 dello Statuto albertino del 1848, che sarà poi legge fondamentale del Regno d’Italia fino al 1948, proclama la religione cattolica apostolica e romana «sola religione dello Stato», attribuendo agli altri culti la qualifica di «tollerati conformemente alle leggi»7.

Il conte Camillo Benso di Cavour, che di lì a poco sarebbe divenuto il maggior protagonista della politica piemontese fino all’Unità d’Italia, si dichiara significativamente deluso dal mancato riconoscimento costituzionale della piena «libertà dei culti», principio che, a suo avviso, non dovrebbe essere introdotto «nella costituzione di un popolo altamente civile» per «via indiretta», ma proclamato come «una delle basi fondamentali del patto sociale»8. Il futuro statista esprime, tuttavia, l’augurio che l’art. 1 possa risolversi in pratica in un «semplice omaggio reso alla religione cattolica»9. Tale auspicio cavouriano trova, a ben guardare, riscontro nella realtà. Infatti, la chiara affermazione confessionista della disposizione non impedisce un coevo sviluppo della legislazione nel senso dell’eguaglianza dei cittadini a prescindere dalla loro appartenenza confessionale. Già qualche settimana prima dell’emanazione della costituzione, nel febbraio 1848, le «lettere patenti» del sovrano ‘emancipavano’ i valdesi10, mentre alla fine di marzo dello stesso anno sono riconosciuti i diritti civili, e in aprile l’accessibilità alle cariche militari, agli ebrei11. Ma soprattutto la legge Sineo (19 giugno 1848) stabilisce, nel suo articolo unico, che «la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici ed alla ammissibilità alle cariche civili e militari»12. Si tratta di un’ampia affermazione di eguaglianza dei cittadini, quale che sia il loro status confessionis, con una formula aperta anche ad altri e nuovi culti rispetto ai due precedentemente ‘emancipati’.

A partire dal 1849, si prospetta anche una legislazione specifica per valdesi ed ebrei. Tuttavia, mentre questi ultimi, dopo qualche anno, accedono a una regolamentazione particolare (la legge Rattazzi del 1857)13, i valdesi, come tutte le altre confessioni protestanti, anche per una loro precisa scelta ‘politica’ di tipo separatista, restano nell’ambito del diritto comune14.

Venendo in generale alla legislazione ecclesiastica dello Stato liberale, occorre segnalare che l’introduzione del matrimonio civile (1865), la ‘laicizzazione’ dell’istituto del giuramento (1876), che non impegna più la coscienza individuale dinanzi a Dio, e la ‘deconfessionalizzazione’ degli istituti di beneficenza (1890) tendono a ridurre gli indici di confessionismo in senso cattolico nell’ordinamento15. Quanto all’istruzione16, la legge Casati (1859) aveva sottratto gli istituti scolastici alla dipendenza organica delle autorità ecclesiastiche, ma aveva mantenuto il carattere obbligatorio dell’insegnamento della religione cattolica. Con la legge Coppino (1877), che prosegue nel processo di laicizzazione, tale insegnamento è eliminato dalle scuole secondarie, e perde la natura obbligatoria nelle scuole elementari, dove, per effetto di successivi regolamenti, continua di fatto a essere impartito17.

Tra le disposizioni più specificamente rilevanti in tema di libertà religiosa può senz’altro segnalarsi l’art. 2 (ultimo comma) della legge delle guarentigie (1871), secondo cui «la discussione in materia religiosa è pienamente libera». Se pure riferita alla religione cattolica, la norma è interpretata in modo da ricomprendervi tutti i culti18.

L’indirizzo del legislatore verso una progressiva elaborazione di un diritto comune applicabile alla generalità delle confessioni religiose in una condizione di tendenziale parità19 trova la sua più importante applicazione nella legislazione in materia di tutela penale dei culti, uno degli ambiti, come si vedrà, nei quali emerge più spiccatamente la politica ‘ecclesiastica’ di un regime politico-istituzionale. Il codice Zanardelli del 1889, a differenza del previgente codice sardo-piemontese del 1859, che riservava un trattamento di privilegio alla religione cattolica, prevede una tutela paritaria di tutte le confessioni religiose, collocando emblematicamente tale disciplina tra i «delitti contro la libertà» (libro II, titolo II), come «delitti contro la libertà dei culti»20.

A ben vedere, nel periodo liberale, pur in mancanza di un’esplicita enunciazione positiva sul piano normativo, si ha un ampio riconoscimento della libertà religiosa, ma esclusivamente nella sua dimensione individuale, come mera sfera di autonomia del singolo nei confronti dello Stato21. Si considera libera «ogni forma di propaganda religiosa», e «non necessitante autorizzazione ogni cerimonia» che non si svolga «in luogo pubblico»22. Quanto all’aspetto collettivo-istituzionale, la giurisprudenza23 ricomprende tra i ‘culti ammessi’, espressione del codice penale seguita anche nella successiva legislazione, anche i culti esistenti di fatto, privi di uno specifico riconoscimento da parte del legislatore o dell’autorità amministrativa.

In definitiva, l’art. 1 dello Statuto non determina, fino alla fine dello Stato liberale, conseguenze lesive per la libertà religiosa e per l’uguaglianza delle confessioni, e la dottrina interpreta riduttivamente il principio confessionista, limitandolo all’obbligo dello Stato di seguire il culto cattolico nelle sue cerimonie pubbliche24, secondo una lettura propugnata anche in ambito governativo25 oppure addirittura considerandolo una «pura dichiarazione» senza alcuna conseguenza giuridica «né mediata né immediata»26.

Tuttavia, come ben rilevato da Jemolo, proprio dalle lontane «radici» confessioniste dello Statuto albertino, che sembravano «disseccate», può rifiorire, con l’avvento del fascismo, un «nuovo confessionismo», che si rivelerà nel tempo ben più dannoso per la libertà religiosa27.

Il nuovo regime avvia una politica di «riconfessionalizzazione» dello Stato in senso cattolico28, che culmina nei Patti Lateranensi del 1929. Il primo articolo del trattato ‘riafferma’ il valore della norma statutaria sulla religione dello Stato. La riproposizione del confessionismo, che si evince anche da svariate disposizioni concordatarie (per esempio in materia di insegnamento della religione cattolica, di cui si sancisce l’obbligatorietà nelle scuole d’ogni ordine e grado29, e riconoscimento degli effetti civili del matrimonio canonico e della relativa giurisdizione ecclesiastica), genera qualche cauto timore nel mondo protestante, e qualche speranza negli ambienti cattolici, di una politica limitativa della presenza acattolica nel paese30. Ma Mussolini, nella relazione sui Patti presentata alla camera, sembra fugare ogni dubbio in proposito, affermando chiaramente che il Concordato non riporta il «Medioevo in Italia», non «sopprime la libertà di coscienza e di culto» e non tocca l’«uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, qualunque sia la religione che essi professano»31.

Dalla legge sui culti ammessi alla fine della Seconda guerra mondiale

Subito dopo la conciliazione, si prospetta una legislazione organica anche per i culti acattolici. Il progetto è presentato alla camera alla fine di aprile del 1929 dal ministro della Giustizia e dei culti Alfredo Rocco. La sua principale finalità, si legge nella relazione ministeriale, è quella di «consentire», dopo aver riservato una «particolare condizione giuridica» alla religione dello Stato, il libero esercizio di tutti i culti, «in omaggio al principio della libertà di coscienza, che nessuno Stato moderno potrebbe ripudiare»32. Nonostante questo chiaro riferimento alla libertà religiosa, le relazioni delle commissioni parlamentari «non sono benevole» per gli acattolici33. Quella della camera, con relatore Ernesto Vassallo, chiede alle «autorità preposte» di vigilare sul proselitismo protestante, per impedire che il

«settarismo, il quale sta in agguato contro il fascismo e il cattolicismo, tragga pretesto […] dalla riaffermata libertà religiosa, per intensificare […] una subdola, camuffata attività di propaganda antifascista»34.

Quella della commissione speciale del senato (relatore Paolo Boselli), distingue la «libera predicazione», che è «legittima», dalla propaganda che diviene «perturbazione ed insidia contro la fede altrui», invitando le competenti autorità a conciliare «la libera vitalità dei culti ammessi con l’integrità della religione dello Stato»35.

La legge 24 giugno 1929 n. 1159, che detta disposizioni «sull’esercizio dei culti ammessi e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi», è approvata senza modifiche e discussioni36. Le confessioni acattoliche si dichiarano sostanzialmente soddisfatte, fino a definirla «Magna Charta» delle loro libertà37, mentre la Chiesa cattolica non si dimostra certo entusiasta di fronte a una simile normativa38.

Particolarmente significativa è la stessa scelta della locuzione «culti ammessi», utilizzata per tutte le confessioni nel codice penale del 1889 e nella legislazione successiva, invece che «culti tollerati», usata nello Statuto albertino, considerata più restrittiva e offensiva dai protestanti, e di cui i valdesi, nella primavera del 1929, avevano ottenuto il superamento dal ministro Rocco39. Pio XI, in una lettera al Segretario di Stato Pietro Gasparri del 30 maggio 192940, tende a sminuire tale differenza terminologica41, ma chiede che sia chiaramente e lealmente inteso che

«la Religione cattolica è, sol’essa, secondo lo Statuto e i Trattati, la Religione dello Stato con le logiche e giuridiche conseguenze di una tale situazione di diritto costitutivo, segnatamente in ordine alla propaganda».

Il guardasigilli, peraltro, nella relazione alla legge, osserva che l’espressione ‘culti ammessi’, «se pur giustamente più riguardosa di quella dello Statuto», non ha, «dal punto di vista giuridico, sostanzialmente diverso significato»42.

Nel complesso, la legge è «relativamente liberale»43, e contiene sia norme di riconoscimento della libertà dei culti, sia disposizioni di carattere ‘giurisdizionalista’ di controllo nei confronti delle confessioni.

Secondo l’art. 1, sono «ammessi» nel regno culti diversi dalla religione cattolica, purché non professino principi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume». Per il capoverso della medesima disposizione, «l’esercizio, anche pubblico, di tali culti è libero». L’art. 2 disciplina il riconoscimento come enti morali degli «istituti» dei culti ammessi, mentre l’art. 3 prevede l’«approvazione» governativa della nomina dei ministri di culto. L’art. 6 garantisce la possibilità per i genitori di chiedere per i loro figli la «dispensa» dall’insegnamento della religione cattolica, mentre gli artt. 7-12 regolano minuziosamente il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio dinanzi ai ministri dei culti ammessi.

L’art. 4 dispone che «la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici ed all’ammissibilità alle cariche civili e militari». Tale formulazione44 ripropone significativamente il principio di uguaglianza a prescindere dall’appartenenza religiosa, già sancito dalla legge Sineo del 1848.

Un’altra norma di grande importanza, definita vera e propria «pietra angolare della legge»45, è racchiusa nell’art. 5, secondo cui «la discussione in materia religiosa è pienamente libera». La disposizione, che riprende il succitato art. 2 della legge delle guarentigie, è variamente interpretata in dottrina: per alcuni, la libertà di discussione postula anche quella di propaganda46, per altri invece il diritto in questione non comprende il proselitismo47. Del resto, lo stesso Pio XI chiede in svariate occasioni alle pubbliche autorità di limitare il proselitismo acattolico, e in particolare protestante, in tutto il Paese, e soprattutto a Roma, riconosciuta come ‘città sacra’ dall’art. 1 del Concordato48. La questione della propaganda protestante è sollevata dal papa anche nell’unico incontro con Mussolini dell’11 febbraio 193249. E il Duce sembra condividere in parte tali istanze, sia pure per motivi non religiosi, ma politici, considerando, in un discorso del 1934, l’«unità religiosa una delle grandi forze di un popolo», e un «delitto di lesa nazione» il «comprometterla o anche solo incrinarla»50.

Per l’art. 14 della legge 24 giugno 1929 n. 1159, il governo ha facoltà di «rivedere le norme legislative esistenti che disciplinano i culti acattolici». Si apre così la strada a disposizioni specifiche per le diverse confessioni, ma una legislazione speciale giunge solo per le comunità israelitiche con il regio decreto 30 ottobre 1930 n. 173151, in un significativo parallelismo con la legge Rattazzi del periodo liberale. La disciplina è, nel complesso, in linea con le richieste dell’ebraismo italiano, poiché a essa contribuisce ampiamente lo studioso ebreo Mario Falco, allievo di Ruffini nonché fraterno amico di Jemolo. Tra i suoi aspetti più importanti vanno segnalati il principio dell’appartenenza obbligatoria alle comunità, che non appare, invero, coerente con il diritto di libertà religiosa, e l’equiparazione delle comunità stesse agli enti pubblici, con la previsione anche di una loro capacità impositiva. L’impostazione giurisdizionalista della normativa suscita le acute critiche di Jemolo52, che la considera una vera e propria «costituzione civile di una confessione religiosa», in contrasto con la libertà di organizzazione dei culti.

Le norme di attuazione della legge sui culti ammessi, emanate con il regio decreto 28 febbraio 1930 n. 28953, stabiliscono diverse limitazioni alla libertà religiosa, sottoponendo le confessioni acattoliche a un’imponente mole di controlli e autorizzazioni, per l’attività degli enti, con poteri d’ispezione e di nomina di un commissario governativo (art. 14), e per l’approvazione della nomina dei ministri di culto (artt. 20-22). Particolarmente restrittive sono le condizioni richieste per l’apertura di un «tempio od oratorio» (art. 1), per cui è necessaria un’apposita richiesta di un ministro di culto approvato, e la prova che il luogo di culto è necessario «per soddisfare effettivi bisogni di importanti nuclei di fedeli».

Nel 1932, la competenza in materia di culti passa dal Ministero della Giustizia al Ministero dell’Interno, e ciò contribuisce ad accentuare una mentalità e una prassi di carattere poliziesco nei confronti degli acattolici, anche sulla base del testo unico di pubblica sicurezza del 193154.

Questo insieme di circostanze comporta, al di là della lettera stessa della legge n. 1159, pesanti restrizioni alla libertà delle confessioni acattoliche, in particolare protestanti, e dei loro appartenenti, con il diffondersi, secondo la preoccupata espressione dello studioso valdese Mario Piacentini, di un’«intolleranza di fatto, la quale è peggiore di quella sancita nelle leggi»55.

Tale tendenza è evidente riguardo alle riunioni religiose. Secondo l’art. 2 del regio decreto n. 289, i fedeli di un culto ammesso possono tenere «riunioni pubbliche» negli edifici aperti al culto, a condizione che esse siano presiedute o autorizzate da un ministro di culto approvato. In tale ipotesi, non è necessaria la preventiva autorizzazione prevista dall’art. 18 del testo unico di Pubblica sicurezza. Tuttavia, lo stesso art. 18 prevede che sia considerata pubblica anche una riunione che, «sebbene indetta in forma privata», per il luogo in cui sarà tenuta o per il numero di persone o per lo scopo o per l’oggetto, ha «carattere di riunione non privata». La prassi di polizia, con l’avallo della giurisprudenza56, applica tale ultima disposizione alle riunioni di acattolici in luoghi privati, vietando e sciogliendo con la forza quelle non autorizzate in varie parti del paese57. Si arriva così, «tornando indietro di secoli»58, persino a negare quella devotio domestica che storicamente è uno dei primi aspetti della libertà religiosa a essere riconosciuto.

Il codice penale del 1930 sancisce una maggior tutela per la religione cattolica rispetto ai culti ammessi59: sono sanzionati il vilipendio (art. 402 del codice penale) e la bestemmia (art. 724 c.p.) solo nei confronti della religione dello Stato, mentre le altre ipotesi di delitto contro il sentimento religioso (offese alla religione mediante vilipendio di persone o di cose, e turbatio sacrorum) sono punite anche per le altre confessioni, ma con pena diminuita (artt. 403-406 c.p.). L’impostazione è di chiara impronta confessionista, decisamente diversa, anche dal punto di vista politico-criminale, da quella del codice Zanardelli. Infatti, il bene giuridico tutelato non è la libertà religiosa, ma la religione nella sua dimensione istituzionale, con un evidente favor per il cattolicesimo60.

Quanto alla politica ecclesiastica del fascismo nei confronti dei culti acattolici, con riguardo soprattutto agli aspetti connessi alla libertà religiosa, non si coglie una strategia di azione coerente. Essa appare piuttosto, come è stato ben rilevato61, il risultato di un «equilibrio mutevole» fra tre fattori: gli atteggiamenti delle stesse confessioni, in particolare dei gruppi protestanti, gli orientamenti della Chiesa cattolica e le direttive del regime.

I protestanti, che avevano vissuto una «forte identificazione»62 con lo Stato liberale, hanno nei confronti del fascismo un atteggiamento più articolato e, nel complesso, meno entusiasta. Se non maturano una vera e propria opposizione alla dittatura, certamente la «distanza sul piano ideologico» tra evangelici e regime rimane «ben definita e incolmabile»63.

Da parte sua, la Chiesa cattolica chiede a più riprese alle pubbliche autorità di limitare la diffusione e il proselitismo dei culti protestanti. Se le pressioni cattoliche «di base», esercitate da singoli vescovi, parroci, gruppi di fedeli, si muovono secondo «esigenze locali e spinte personali»64, di maggior rilievo sono le pressioni «di vertice» delle gerarchie ecclesiastiche. Già nel 1927, due anni prima della conciliazione, il Segretario di Stato Gasparri invitava i vescovi a sorvegliare e contenere, «con i più solleciti ed efficaci rimedi», la propaganda protestante promossa da «varie sette», per difendere «il patrimonio più sacro del nostro popolo»65. Nel 1934, la Santa Sede trasmette riservatamente al governo una nota sul «proselitismo dei protestanti in Italia»66. La Chiesa cattolica, vi si legge, «non si duole che la nuova legislazione italiana ammetta gli acattolici all’esercizio del loro culto per i propri correligionari», ma protesta contro la loro attività di propaganda per «insidiare» la fede dei cattolici.

A fronte di tali segnalazioni e richieste, il regime e il suo spregiudicato capo considerano i culti acattolici come una «piccola pedina di scambio» nei confronti della Chiesa67. Nell’atteggiamento governativo verso i protestanti, giocano anche i complessi rapporti dell’Italia con Inghilterra e Stati Uniti, paesi protettori di molti gruppi religiosi68. Il pendolo della politica ecclesiastica nei confronti dei culti ammessi oscilla, quindi, tra limitazioni di libertà, anche per venire incontro alle istanze della Chiesa cattolica, e concessioni, più o meno larghe, per assecondare richieste britanniche e americane o in funzione antivaticana. Tuttavia, com’è stato osservato, anche nei momenti di maggior tensione con la Santa Sede, mai Mussolini decise di «giocare la carta» degli acattolici contro il cattolicesimo69.

L’aspetto limitativo della libertà religiosa e repressivo nei confronti delle confessioni acattoliche, in particolare protestanti, risulta, a ben vedere, di gran lunga prevalente. Già nell’aprile del 1927, prima ancora della conciliazione e della legge sui culti ammessi, una circolare del capo della polizia Arturo Bocchini invitava i prefetti a vigilare sulle Chiese evangeliche che andavano svolgendo una «cauta azione antifascista»70. Nel maggio del 1934, con circolare del sottosegretario al Ministero dell’Interno Guido Buffarini Guidi71, si emanano disposizioni restrittive riguardo alle riunioni religiose degli acattolici, poi applicate con estremo rigore dalle autorità di polizia72. In tal modo, un «governo scettico», spesso per ragioni di mero opportunismo nei confronti della Chiesa cattolica, torna a «far rivivere odiosità che si credevano sparite per sempre dal suolo europeo»73.

Nei confronti dei pentecostali si giunge a una vera e propria persecuzione. La circolare Buffarini Guidi74, dell’aprile 1935, ordina ai prefetti di operare lo scioglimento delle loro associazioni, la chiusura dei luoghi di culto e il divieto di svolgere pratiche religiose, ritenute «contrarie all’ordine sociale e nocive dell’integrità fisica e psichica della razza». Oltre alla profonda ferita alla libertà religiosa, con il divieto di praticare il culto, merita attenzione anche l’uso, per giustificare la repressione, del termine ‘razza’, che acquisterà tristemente, di lì a qualche anno, un’importanza ben più ampia con la legislazione razziale. In applicazione delle direttive della circolare, si scatena una vera e propria ‘tempesta’ verso i pentecostali, a Roma, con la chiusura della sala di culto di via Adige, già più volte oggetto di segnalazioni cattoliche e attenzioni della polizia, e in tutta Italia75.

La situazione per la libertà religiosa muta in peggio nell’ultimo periodo del regime, negli anni immediatamente precedenti e durante la Seconda guerra mondiale, con un «crescendo della vigilanza e dei provvedimenti ostili» nei confronti degli acattolici, anche a causa della propaganda di molti gruppi evangelici a favore «della pace e dell’amore fraterno»76, oltre che per la loro vicinanza ai ‘nemici’ inglesi e americani77. Una circolare di Bocchini, dell’agosto 1939, rilancia la repressione dei pentecostali, estendendola anche ai testimoni di Geova78, mentre nel 1940 vengono sciolte le associazioni dell’Esercito della salvezza, con «viva soddisfazione» degli ambienti vaticani79.

Un cenno a parte merita la persecuzione degli ebrei con le leggi razziali del 193880, che si fonda essenzialmente sull’elemento della razza e che tocca anche la questione della libertà religiosa. In primo luogo perché, com’è stato ben rilevato a proposito dell’ebraismo, la discriminazione «basata sulla discendenza razziale è immediatamente collegata a quella fondata sull’appartenenza religiosa»81. In secondo luogo perché, con tale legislazione, il regime fascista, percorrendo «a ritroso il cammino che i governi liberali avevano compiuto nell’ottantennio precedente»82, infligge un profondo vulnus al principio di eguaglianza dei cittadini a prescindere dalla loro religione, consacrato sin dal 1848, e ribadito nella legge sui culti ammessi del 1929.

Il periodo costituente e la Costituzione repubblicana

La complessa genesi delle norme costituzionali in materia di libertà religiosa e di rapporti tra Stato e confessioni (artt. 7, 8, 19) è stata oggetto di diversi studi, soprattutto sull’art. 783, che regola le relazioni con la Chiesa cattolica, ma anche sull’art. 884, dedicato alla libertà delle confessioni e ai culti acattolici. In tale sede, l’origine di queste disposizioni, soprattutto degli artt. 8 e 19, sarà brevemente richiamata, con specifico riferimento alle istanze del protestantesimo italiano.

All’indomani della Guerra di liberazione, che vede una forte presenza protestante nelle file partigiane85, si costituisce, nella primavera del 1946, il Consiglio federale delle Chiese evangeliche in Italia, che rappresenta gran parte dell’universo protestante di fronte allo Stato86. Il Consiglio, che si avvale dell’opera dell’illustre giurista evangelico Giorgio Peyrot, come responsabile dell’ufficio legale87, rivolge numerosi appelli e presenta articolate proposte ai deputati dell’Assemblea costituente.

Si chiede, anzitutto, in diverse occasioni, pieno riconoscimento della libertà di coscienza e religione88. In tale ambito, il Consiglio vede ampiamente soddisfatte le sue richieste nell’art. 19 della Costituzione89, secondo cui

«tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda, e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume».

La norma, definita dal relatore Meuccio Ruini «affermazione vigorosa di libertà di coscienza e di fede, che […] farà onore alla nostra Costituzione»90, è approvata con un largo sostegno di tutte le forze politiche rappresentate in Assemblea, e con l’importante eliminazione, rispetto alla proposta originaria, del riferimento all’ordine pubblico, su cui nel recente passato si era fondata gran parte delle restrizioni alla libertà religiosa91.

I protestanti chiedono, inoltre, un’assoluta indipendenza di tutte le Chiese dallo Stato, e la libertà dei medesimi culti nell’ambito del diritto comune, secondo la loro tradizionale impostazione separatista92. Essi si mostrano, quindi, decisamente critici nei confronti dell’art. 793, fortemente voluto dai democristiani su sollecitazione della Santa Sede e votato anche dai comunisti di Togliatti, soprattutto per il suo esplicito richiamo ai Patti Lateranensi94. Viene però ritirato un emendamento, presentato da Mario Rodinò e da Ezio Coppa, sulla religione cattolica come «religione professata dalla enorme maggioranza del popolo italiano», mentre non è approvato l’emendamento di Gennaro Patricolo, che definiva il cattolicesimo «religione ufficiale della Repubblica italiana»95.

Quanto all’art. 896, i protestanti chiedono vigorosamente la proclamazione del principio di uguaglianza di tutte le confessioni religiose, mentre, com’è noto, la formula scelta nel primo comma, in base a un emendamento presentato da Giuseppe Cappi e Giovanni Gronchi, su suggerimento di Meuccio Ruini, è quella dell’‘eguale libertà’ delle confessioni dinanzi alla legge97. Anche il limite del rispetto dell’‘ordinamento giuridico italiano’, per l’autonomia statutaria dei culti acattolici, è accolto, da parte evangelica, con disappunto e preoccupazione98. Circa l’innovativo istituto delle intese, previsto dall’art. 8 (comma 3) per la regolazione dei rapporti tra Stato e confessioni diverse dalla cattolica, esso è introdotto su proposta di Umberto Terracini e Aldo Moro, senza alcuna indicazione o richiesta dei protestanti, che non mostrano, al riguardo, particolare entusiasmo99. Si tratta piuttosto di un tentativo delle sinistre, accettato anche da parte cattolica, di bilanciare l’art. 7 con una «regolamentazione in largo senso concordataria»100 anche per i culti di minoranza.

Tuttavia, a ben vedere, saranno proprio il primo e il terzo comma dell’art. 8, accettati come ‘male minore’ dal protestantesimo italiano, a gettare le basi, sia pure a distanza di anni, per una profonda evoluzione del diritto ecclesiastico in senso liberale e pluralista.

In definitiva, il progetto costituzionale di politica ecclesiastica, che corrisponde pienamente «al modello complessivo di democrazia delineato dalla Costituzione»101, al di là delle difficoltà e dei ritardi nella sua attuazione, contiene un ampio riconoscimento della libertà religiosa in tutti i suoi aspetti, individuale, collettivo e istituzionale102. In ciò allarga l’orizzonte prettamente individualistico della libertà religiosa dell’epoca liberale, recuperando l’importanza anche dell’aspetto istituzionale che, per altri motivi, fu l’unico preso in considerazione nel periodo buio della dittatura fascista, anche a scapito dei diritti della persona.

Dal 1948 alle prime pronunce della Corte costituzionale in materia di libertà religiosa (1956-1958)

Nonostante le ampie garanzie per la libertà religiosa previste nella Costituzione, fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, vi sono limitazioni rilevanti alla libera esplicazione dei culti acattolici, in particolare protestanti, con un’applicazione della legislazione in materia sostanzialmente simile a quella del periodo fascista103. Il governo, sotto la guida del partito cattolico, anche su sollecitazione delle gerarchie ecclesiastiche, attua una sorta di ‘congelamento’ dei principi costituzionali, mentre un confessionismo di fatto, che «non appare alla lettura della raccolta delle leggi», permea la società italiana104. In particolare, il potere esecutivo continua a porre restrizioni alle riunioni religiose acattoliche, sempre in base all’art. 18 del testo unico di pubblica sicurezza, nonostante la libertà di riunione sancita dall’art. 17 della Carta105.

La stessa efficacia della circolare Buffarini Guidi106 contro i pentecostali, già confermata nel luglio del 1944, è ulteriormente ribadita nel dicembre del 1947. Nel febbraio del 1953, lo stesso ministro dell’Interno Scelba precisa che il culto pentecostale non è ‘ammesso’, perché i suoi riti sono «nocivi alla salute fisica e psichica degli adepti». La revoca della circolare giunge solo nell’aprile del 1955.

Più volte, nel corso degli anni Cinquanta, il Consiglio federale delle Chiese evangeliche chiede di avviare trattative con il governo per addivenire a una legislazione su base di intesa107, scontrandosi con un atteggiamento di chiusura del Ministero dell’Interno, cui è devoluta anche l’attuazione dell’art. 8 della Costituzione. Si esclude l’avvio di trattative bilaterali, e si difende con vigore la legge sui culti ammessi, con la sua tradizionale interpretazione restrittiva108. Di fronte a tale immobilismo, soprattutto a partire dalla seconda legislatura (1953), i partiti ‘laici’ del governo e di opposizione chiedono, con interrogazioni e ordini del giorno, l’attuazione dell’art. 8 della Carta e un maggior rispetto della libertà religiosa, in armonia con i principi costituzionali109. Nel luglio del 1956, una proposta di legge del repubblicano Ugo La Malfa e di alcuni deputati socialisti, predisposta in collaborazione con il Consiglio federale delle Chiese evangeliche e poi rimasta senza esito, prevede l’abrogazione della legge 24 giugno 1929 n. 1159, e delinea procedure bilaterali per le intese110.

Il vero e proprio punto di svolta a favore della libertà religiosa è l’entrata in funzione della Corte costituzionale nell’aprile dello stesso anno111. Già nella sua prima sentenza (1956), la Consulta cancella alcune norme del testo unico di pubblica sicurezza (concernenti le affissioni di manifesti e la diffusione di stampati), che riguardavano indirettamente anche le confessioni di minoranza, ma soprattutto respinge la tesi che l’illegittimità riguardi solo le leggi posteriori alla Costituzione. Con la sentenza 18 marzo 1957 n. 45, si sancisce l’illegittimità dell’art. 25 dello stesso testo unico, sull’obbligo di preavviso per funzioni, cerimonie e pratiche religiose in luoghi aperti al pubblico. La pronuncia n. 27 del 1958 dichiara incostituzionale, perché in contrasto con l’art. 17 della Carta, il citato art. 18 del testo unico, per la parte riguardante le riunioni private e quelle in luogo aperto al pubblico. La sentenza 24 novembre 1958 n. 59 giudica illegittime le norme del regio decreto 28 febbraio 1930 n. 289, che prevedevano da un lato la necessità di autorizzazione del Ministero dell’Interno per l’apertura di templi e oratori acattolici e, dall’altro, che lo svolgimento delle funzioni religiose nei templi avvenisse sempre alla presenza di un ministro di culto.

Vengono così a cadere le disposizioni della legislazione fascista da cui erano derivate le più gravi ferite alla libertà religiosa. Cessata l’‘emergenza’, comincia un lento e accidentato percorso di riconoscimento.

Dal concilio Vaticano II ai giorni nostri

Il concilio Vaticano II rappresenta un momento di grande importanza nella storia della libertà religiosa, poiché rinnova e supera «ab imis fundamentis» la «dottrina cattolica tradizionale» in materia112.

Fermandosi solo al secolo XIX, senza risalire ulteriormente nella storia millenaria della Chiesa, possono ricordarsi i duri anatemi di Gregorio XVI contro il «deliramentum» della libertà di coscienza113, confermati nel Sillabo di Pio IX (1864)114. I toni sembrano attenuarsi, ma la condanna nel fondo rimane, con Leone XIII, che distingue la ‘tesi’, secondo cui il male e l’errore non devono essere protetti dalle leggi e propagati, dall’‘ipotesi’, per la quale uno Stato, per evitare maggiori mali, può tollerare in via di fatto culti diversi dalla vera religione115. Questa posizione resta sostanzialmente immutata nella prima parte del secolo XX, ma a partire dal secondo dopoguerra, si assiste ad alcune timide aperture. Pio XII, in un discorso dell’ottobre 1946, considera il principio della «tolleranza» e della «libertà di coscienza», seguito dalle autorità civili per «i sempre più frequenti contatti e la promiscuità delle diverse confessioni entro i confini di un medesimo popolo», un «dovere morale» in tali circostanze anche per i cattolici116.

Mentre il Concilio è in corso, nell’aprile del 1963, due mesi prima di morire, Giovanni XXIII dichiara, nell’enciclica Pacem in terris, che ogni essere umano ha diritto alla «libertà nella ricerca del vero» (n. 7). Si tratta di un primo importante riconoscimento del carattere universale della libertà di coscienza. Sulla scia del magistero giovanneo, la dichiarazione Dignitatis Humanae, del 7 dicembre 1965, contiene una solenne affermazione della libertà religiosa come diritto naturale di ogni uomo, che si «fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana» e «deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società» (n. 2). Il magistero di Giovanni Paolo II117 proseguirà decisamente su tale cammino, considerando la libertà religiosa vera e propria «pietra angolare» e «cuore» dei diritti umani, «alla radice di ogni altro diritto e di ogni altra libertà»118.

Il Vaticano II, con la citata dichiarazione Dignitatis Humanae, il decreto Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, e la dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni con le religioni non cristiane, costituisce, dunque, il «momento di rottura più profonda», che genera anche nel mondo cattolico italiano una nuova sensibilità ai valori della libertà religiosa119.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, comincia in modo deciso il travagliato cammino della revisione concordataria, che culmina nell’accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984. Il nuovo Concordato è profondamente diverso, nello spirito e negli istituti, da quello lateranense. Si tratta di un «accordo di libertà»120, che abbandona definitivamente ogni prospettiva confessionista. Il preambolo richiama i principi sanciti dalla Costituzione repubblicana, e le dichiarazioni del Vaticano II sulla libertà religiosa e i rapporti fra Chiesa e comunità politica. Per il punto 1 del protocollo addizionale, «si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato». All’impegno del governo di tutelare il «carattere sacro» della città eterna, si sostituisce il mero riconoscimento del «particolare significato» di Roma (art. 2.4), e l’insegnamento della religione cattolica, pur garantito nelle scuole pubbliche, diviene opzionale (art. 9). Viene profondamente modificata la disciplina del matrimonio concordatario (art. 8), e si pongono le basi (art. 7) per una riforma complessiva della materia degli enti ecclesiastici, realizzata poi con legge n. 222 del 1985, di derivazione pattizia, che prevede anche un nuovo meccanismo di finanziamento della Chiesa (ottopermille, e offerte deducibili).

Nello stesso periodo, trova finalmente attuazione il terzo comma dell’art. 8 della Costituzione, con l’avvio della «stagione delle intese»121. Il lungo periodo trascorso prima della conclusione delle intese, con il rifiuto da parte dello Stato di arrivare a tali accordi, aveva certamente avuto un «sapore di disapplicazione della Costituzione»122, relegando le confessioni diverse dalla cattolica in un «coacervo anonimo di indistinti»123. Nel 1976, valdesi e metodisti chiedono insieme ancora una volta al governo di aprire le trattative, trovando questa volta una risposta positiva. Il presidente del Consiglio Andreotti incarica formalmente della questione la stessa commissione che conduceva le trattative con la Santa Sede per la revisione concordataria, rompendo implicitamente la prerogativa del Ministero dell’Interno sulla materia124.

L’intesa con le Chiese rappresentate dalla Tavola valdese (valdesi e metodisti)125, firmata il 21 febbraio del 1984, a breve distanza dall’accordo di Villa Madama, getta una prima «luce» su «quella specie di notte in cui tutte le vacche sono nere»126, che aveva caratterizzato il periodo precedente. Il testo, che costituisce il modello per gli accordi successivi con le altre confessioni, sancisce il riconoscimento dell’autonomia e indipendenza dell’ordinamento valdese (art. 2), e la presa d’atto da parte della repubblica della convinzione della Tavola valdese «che la fede non necessita di tutela penale diretta». Vengono inoltre regolate tradizionali materie mixtae, come l’assistenza spirituale, gli enti, l’istruzione e il matrimonio.

Nel 1985, si delinea più compiutamente il procedimento per la stipulazione delle intese, affidando al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio la trattativa vera e propria, e a un’apposita commissione di studio, integrata da esperti della confessione interessata, la fase preliminare di valutazione delle richieste127. La competenza della Presidenza del Consiglio128 è confermata nelle norme che regolano il suo funzionamento (legge 23 agosto 1988 n. 400 e decreto legislativo 30 luglio 1999 n. 303): accanto alla Commissione per le intese, che nel 1997 diviene Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose, è istituita, sempre nel 1997, la Commissione consultiva per la libertà religiosa, cui viene chiesto un parere prima di avviare le trattative, ma che ha anche compiti più generali di «studio, informazione e proposta per tutte le questioni attinenti all’attuazione dei principi della Costituzione e delle leggi in materia di libertà di coscienza, di religione o credenza».

Il 29 dicembre 1986, sono firmate le intese con le Chiese cristiane avventiste del settimo giorno129, e con le Assemblee di Dio in Italia130. Nella prima, vi è una norma di particolare rilievo (art. 4) in tema di obiezione di coscienza, che prevede la possibilità per gli avventisti di svolgere il servizio civile al posto di quello militare, per la contrarietà della loro Chiesa all’uso delle armi. La seconda ha, di per sé, un grande significato storico, perché segna la chiusura definitiva delle ferite inferte ai pentecostali nel periodo fascista e nei primi anni della repubblica.

Il 27 febbraio 1987 è conclusa l’intesa con l’Unione delle comunità ebraiche131, la prima con una religione non cristiana, che si caratterizza per un ampio riconoscimento dei caratteri peculiari dell’ebraismo, oltre che per una maggior vicinanza con alcuni istituti concordatari (per esempio in materia matrimoniale).

Nel 1993 sono stipulate l’intesa con l’Unione cristiana evangelica battista in Italia132 e quella con la Chiesa evangelica luterana in Italia133, le ultime a essere trasposte in legge.

Negli ultimi anni, dopo l’avvento della seconda repubblica, sono firmate altre intese, con i buddisti e i testimoni di Geova, una prima volta nel 2000134, poi nel 2007, con la Chiesa apostolica d’Italia135, con gli induisti136, i mormoni137, gli ortodossi138, sempre nel 2007, ma per nessuna di esse si è ancora giunti a una legge di approvazione.

Si assiste quindi, in quest’ultimo periodo, a una fase di stallo legislativo dell’art. 8 (comma 3) della Costituzione, che, tenuto «nel cassetto per un quarantennio», sembra tornare mestamente nel novero delle «disposizioni costituzionali poco in voga»139. Tale situazione è particolarmente problematica, perché segna una distanza rilevante tra culti (Chiesa cattolica e confessioni con intesa) che hanno concluso accordi con lo Stato, facenti parte, almeno per ora, di un «ristretto G7 confessionale»140, e confessioni prive di intesa141, la cui condizione giuridica è ancora in larga parte regolata dall’«ormai antistorica»142 legislazione sui culti ammessi. Inoltre, solo le confessioni con intesa possono partecipare, con la Chiesa cattolica e lo Stato, alla ripartizione dell’ottopermille, e, a oggi, tutte loro, a eccezione dei battisti, vi concorrono effettivamente.

Ciò in un contesto in cui la geografia religiosa nel nostro paese all’alba del nuovo secolo143 è profondamente mutata anche per effetto dei flussi migratori, con la crescita della presenza ortodossa, la diffusione di nuovi movimenti religiosi e la progressiva perdita di importanza numerica dei gruppi protestanti tradizionali, e soprattutto il rapido diffondersi di una presenza islamica in Italia, difficilmente adattabile al principio regolatore delle intese che suppone un interlocutore unitario e nazionale.

In questa nuova complessa fase, si colloca il tentativo, ormai senza esito da oltre vent’anni, di un completo superamento della legge 24 giugno 1929 n. 1159 con una legge organica sulla libertà religiosa144. Già nel gennaio del 1984, contestualmente al compiersi della riforma concordataria e all’avvio della stagione delle intese, il presidente del Consiglio Bettino Craxi si era posto il problema delle confessioni senza intesa, auspicando una «normativa di diritto comune», per eliminare «gli ostacoli che impediscano l’effettivo esercizio della libertà», e «parificare tali religioni e i loro istituti ad altri organismi sociali»145. Il primo disegno di legge sulla libertà religiosa è presentato dal governo nel 1990, e negli oltre tre lustri successivi, vi sono altre proposte legislative, da parte governativa e parlamentare, senza alcun esito concreto146. I progetti di legge in questione, pur con alcune differenze, presentano una tendenziale omogeneità, con una prima parte dedicata alla libertà religiosa individuale e collettiva, una seconda alla posizione giuridica delle confessioni religiose, e una terza alle procedure per la stipula delle intese. Nonostante l’appoggio a tali iniziative di tutte le forze politiche di centro-destra e di centro-sinistra, con l’eccezione della Lega nord, e il generale favore, pur con qualche distinguo sui contenuti, della Chiesa cattolica e delle altre confessioni per l’impianto generale della proposta, non si è ancora giunti a una legge generale sulla libertà religiosa. A tal proposito, si è autorevolmente parlato di «vera occasione perduta»147 e di processo di riforma della legislazione ecclesiastica, avviato nel 1984, ancora «incompiuto»148.

In tale situazione di «impasse legislativa»149, è ancora la giurisprudenza della Corte costituzionale a dare risposta ai ‘problemi pratici’ più importanti della libertà religiosa150. La Consulta (sentenza 13 luglio 1984 n. 239) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’appartenenza obbligatoria alle comunità israelitiche e in seguito giudica contraria all’autonomia confessionale l’intera regolamentazione fascista delle comunità (sentenza 13 luglio 1988 n. 43), aprendo così la strada alla successiva intesa tra le comunità ebraiche e lo Stato. La ben nota sentenza 11 aprile 1989 n. 203, riconoscendo a coloro che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche uno «stato di non obbligo», individua tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale, la laicità dello Stato151. Questa, tuttavia, non è intesa in senso separatista, ma come «garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale». Proprio richiamando il principio di laicità, a partire dagli anni Novanta, la Corte costituzionale, con diversi interventi (sentenze 18 ottobre 1995 n. 440,  14 novembre 1997 n. 329, 13 novembre 2000 n. 508, 9 luglio 2002 n. 327, 18 aprile 2005 n. 168), dichiara illegittima la tutela privilegiaria sotto il profilo penale a favore della Chiesa cattolica, originariamente prevista nel codice Rocco. Sulla scia di tale giurisprudenza, la materia è integralmente riformata dal legislatore nel 2006, mettendo su un piano di parità tutte le confessioni religiose152. La Corte ha posto rimedio anche ad alcune discriminazioni a danno delle confessioni prive di intesa previste nella legislazione regionale in materia urbanistica (leggi della Regione Abruzzo del 1988 e della Regione Lombardia del 1992), che subordinava la concessione di benefici alla stipulazione di un’‘intesa’. I giudici costituzionali sanciscono l’illegittimità di tali norme favoritive, in attuazione del principio di eguale libertà di tutte le confessioni (sentenze 19 aprile 1993 n. 195 e 8 luglio 2002 n. 346).

Osservazioni conclusive

Giunti al termine di questa, necessariamente sommaria, ricostruzione storico-giuridica dei problemi della libertà religiosa in Italia in questi ultimi centocinquanta anni di storia, «breve momento, piccola vicenda nell’eterna storia dei rapporti tra umano e divino»153, può formularsi qualche osservazione in prospettiva, volgendo lo sguardo all’orizzonte che ci attende.

Il presente e il futuro prossimo affondano le loro radici in un passato denso di complessi passaggi, spesso difficili e dolorosi, nello sviluppo della normativa statale e nella sua concreta applicazione, nella vicenda delle confessioni protestanti in Italia, nella progressiva maturazione, e oggi solenne affermazione, del principio di libertà religiosa nel magistero della Chiesa e nella sensibilità del mondo cattolico.

A ben vedere, occorre soprattutto sottolineare, specie nel momento presente, l’attualità e vitalità della Costituzione repubblicana, caratterizzata da una «retta interpretazione del passato» e da una «singolare apertura verso il futuro»154, e ben capace di dare riconoscimento alla libertà religiosa in tutti i suoi aspetti (individuale, collettivo, istituzionale).

Forse, per chiudere il cerchio, e per affrontare i problemi di una società divenuta rapidamente multireligiosa e multiculturale, manca all’appello proprio una legge organica sulla libertà religiosa. Questa dovrebbe, a parer nostro, soprattutto richiamare i contenuti del diritto costituzionale ‘vivente’, delineato dalla giurisprudenza costituzionale, e regolare le questioni, sostanziali e procedurali, relative alle intese. Una legge siffatta potrebbe dare compiuta attuazione agli artt. 19 e 8 (comma 1) della Costituzione, e riportare l’art. 8 (comma 3) dalla funzione, sinora prevalentemente svolta, di garanzia di libertà alle singole confessioni, a quella più ‘naturale’ di tutela delle identità delle diverse religioni, e di riconoscimento delle loro specifiche esigenze nei rapporti con lo Stato.

Tuttavia, guardando alla storia del nostro Paese, bisogna sempre ricordare che il diritto è solo una parte della complessa realtà, e che la libertà religiosa, come acutamente osservato da Scoppola, ha certamente bisogno di garanzie giuridiche, ma trae soprattutto il suo «fondamento» in una larga e radicata convinzione del suo valore, senza la quale «nessuna norma […] può esorcizzare il male oscuro e profondo della intolleranza»155. La libertà, ricordava Jemolo, «non può giungere a tutto, non può prendere il posto dell’amore, la forza che nulla riesce a sostituire», pur soggiungendo significativamente che «l’amore non raggiunge la sua pienezza, non ottiene la sua dignità, non è pianta che si espanda, se non quando è libero»156.

Note

1 F. Ruffini, La libertà religiosa: storia dell’idea, Torino 1911, rist. Bologna 1992, p. 7. Cfr. anche Id., La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Torino 1924, rist. Bologna 1992.

2 Si vedano al riguardo P.A. D’Avack, s.v. Libertà religiosa a) Diritto canonico, in Enciclopedia del diritto, XXIV, Milano 1974, pp. 607-614; P. Colella, La libertà religiosa nell’ordinamento canonico, Napoli 1979; R. Astorri, La progressiva acquisizione del diritto di libertà di coscienza e di scelta religiosa nella dottrina canonistica italiana, in La libertà religiosa tra tradizione e moderni diritti dell’uomo. Le prospettive delle religioni, Torino 2003, pp. 41-60.

3 Cfr. in proposito G. Peyrot, Libertà e religione nelle chiese evangeliche, in Teoria a prassi delle libertà di religione, a cura di P. Bellini, Bologna 1975, pp. 551-669; P. Ricca, Protestantesimo storico e libertà religiosa, in La libertà religiosa, a cura di M. Tedeschi, 3 voll., Soveria Manelli 2002: II, pp. 626-635.

4 Su questi aspetti cfr. G. Catalano, Il diritto di libertà religiosa, Milano 1957; P. Fedele, La libertà religiosa, Milano 1963; A.C. Jemolo, s.v. Religione (libertà di), in Novissimo Digesto Italiano, diretto da A. Azara, E. Eula, 21 voll., Torino 1957-1979: XV, pp. 370-374; P.A. D’Avack, s.v. Libertà religiosa, cit., pp. 595-607; L. Musselli, s.v. Libertà religiosa e di coscienza, in Digesto delle discipline pubblicistiche, IX, 1994, pp. 214-231; P. Di Marzio, Contributo allo studio del diritto di libertà religiosa, Napoli 2000; S. Ferlito, Diritto soggettivo e libertà religiosa. Riflessioni per uno studio storico e concettuale, Napoli 2002; C. Mirabelli, s.v. Religione (libertà di), in Il diritto: enciclopedia giuridica del Sole 24 ore, a cura di S. Patti, Milano 2007, pp. 246-256.

5 A.C. Jemolo, I problemi pratici della libertà, Milano 1961.

6 Ibidem, pp. 76-77.

7 Sulla genesi e la portata di questa disposizione cfr. D. Jahier, Il 1º articolo dello Statuto e la libertà religiosa in Italia, Torino-Genova 1925; A. Sini, La religione dello Stato, in Studi per la revisione del Concordato, Padova 1970, pp. 164-176.

8 Cfr. «Il Risorgimento», 10 marzo 1848. Sul punto cfr. D. Jahier, Il 1º articolo dello Statuto, cit., pp. 8-9.

9 Ibidem.

10 Cfr. sul punto A. Bortolazzi, La tolleranza dei culti acattolici negli Stati sardi e nel Regno d’Italia, «Il Diritto ecclesiastico», 72, 1961, 1, p. 98.

11 Si veda in proposito A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1949, p. 74.

12 Cfr. sul punto F. De Gregorio, La legislazione sardo-piemontese e la reazione cattolica, Soveria Mannelli 1999, pp. 76-80.

13 Cfr. in proposito G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica». Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, Bologna 1991, pp. 142-143.

14 Per più ampie notizie, si vedano: A. Bortolazzi, La tolleranza dei culti acattolici, cit., pp. 110-112; G. Peyrot, La legislazione sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica, in La legislazione ecclesiastica, Atti del convegno celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Vicenza 1967, pp. 538-540.

15 In tal senso P. Lillo, I limiti all’esercizio della libertà religiosa nell’Italia liberale, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 20, 2003, 1, pp. 62-63.

16 Cfr. C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, Bologna 1996, pp. 414-415.

17 Secondo il regolamento del 6 febbraio 1908, qualora la maggioranza del consiglio comunale sia favorevole, l’insegnamento della religione è attivato a cura del comune; in caso contrario, esso è impartito a cura dei padri di famiglia che lo richiedano, in locali a ciò adibiti. Nei fatti, in quasi tutte le scuole elementari del regno, viene insegnata la religione cattolica.

18 Cfr. A. Sini, La religione dello Stato, cit., p. 172.

19 P. Lillo, I limiti all’esercizio della libertà religiosa, cit., pp. 67-69.

20 Si vedano in proposito D. Jahier, Il 1º articolo dello Statuto, cit., p. 28; G. Peyrot, La legislazione sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica, cit., p. 524.

21 P. Lillo, I limiti all’esercizio della libertà religiosa, cit., p. 38.

22 A.C. Jemolo, s.v. Culti (libertà dei), in Enciclopedia del diritto, XI, Milano 1962, p. 461.

23 Si veda, per esempio, Corte di cassazione, Roma, 27 marzo 1892, «Giurisprudenza italiana», 1892, 2, p. 229.

24 F. Scaduto, Libertà religiosa: conciliabile con quali sistemi? genesi, uguaglianza, «La Corte d’appello», 15, 1914, 5, p. 5. Per più ampie notizie sul dibattito dottrinale, cfr. A. Sini, La religione dello Stato, cit., pp. 174-177.

25 Il ministro dell’Interno Chiaves, rispondendo a un’interpellanza parlamentare nel 1866, aveva affermato che l’unico significato della norma è l’impegno dello Stato a seguire il rito cattolico in «tutto ciò che esso farà e dovrà fare con rito religioso». Cfr. D. Jahier, Il 1º articolo dello Statuto, cit., p. 24.

26 A.C. Jemolo, La natura e la portata dell’art. 1 dello Statuto, «Rivista di diritto pubblico», 1913, p. 263.

27 A.C. Jemolo, I problemi pratici della libertà, cit., p. 64

28 Si veda in proposito O. Giacchi, La legislazione italiana sui culti ammessi, Milano 1934, pp. 7-8.

29 Secondo l’art. 36 del Concordato lateranense, la religione cattolica è «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica», e il suo insegnamento è reso obbligatorio anche nelle scuole medie e superiori. L’obbligatorietà dell’insegnamento per le scuole elementari era già stata precedentemente sancita con r.d. n. 2185 del 1923.

30 Si veda al riguardo G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica», cit., pp. 21-22.

31 Cfr. M. Piacentini, I culti ammessi nello Stato italiano, Milano 1934, pp. 5-6.

32 Ibidem, pp. 6-7.

33 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, cit., p. 657.

34 Cfr. O. Giacchi, La legislazione italiana sui culti ammessi, cit., p. 101.

35 Ibidem, pp. 102-103.

36 Su tale legge, si vedano: O. Giacchi, La legislazione italiana sui culti ammessi, cit.; M. Piacentini, I culti ammessi nello Stato italiano, cit.; U. Della Seta, La legge fondamentale sui culti ammessi, Modena 1937; M. Tedeschi, La legge sui culti ammessi, in Dalla legge sui culti ammessi al progetto di legge sulla libertà religiosa, Atti del convegno (Ferrara 2002), a cura di G. Leziroli, Napoli 2004, pp. 35-47.

37 M. Piacentini, I culti ammessi nello Stato italiano, cit., p. 31.

38 Cfr. sul punto P. Scoppola, Il fascismo e le minoranze evangeliche, in Il fascismo e le autonomie locali, Bologna 1972, p. 341.

39 G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica», cit., p. 23.

40 AAS, 21, 1929, pp. 297-306. Cfr. sul punto M. Piacentini, I culti ammessi nello Stato italiano, cit., p. 41.

41 «Culti ‘tollerati, permessi, ammessi’», afferma il pontefice, «non saremo Noi a fare questione di parole. La questione viene, del resto, non inelegantemente risolta, distinguendo tra testo statutario e testo puramente legislativo, quello per sé stesso più teorico e dottrinale, e dove sta meglio ‘tollerati’; questo inteso alla pratica e dove può stare pure ‘permessi o ammessi’ […]».

42 Cfr. M. Piacentini, I culti ammessi nello Stato italiano, cit., pp. 41-42.

43 Così la definisce A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, cit., p. 656.

44 Si veda sul punto M. Piacentini, I culti ammessi nello Stato italiano, cit., pp. 60-62.

45 Ibidem, p. 62.

46 A.C. Jemolo, Religione dello Stato e confessioni ammesse, «Nuovi studi di diritto, economia e politica», 1930, 1, pp. 21-44; M. Piacentini, I culti ammessi nello Stato italiano, cit., pp. 62-64.

47 O. Giacchi, La legislazione italiana sui culti ammessi, cit., pp. 91-104; I. Greco, Il libero esercizio dei culti ammessi non consente facoltà di propaganda e di proselitismo, «Il Diritto concordatario», 1936, 2, pp. 50-55.

48 Nel discorso ai parroci e quaresimalisti di Roma, del febbraio 1931, il pontefice chiede che «dalla laguna allo Jonio», ma in particolare «nella Sua Roma», sia contrastato «il proselitismo protestante che si sviluppa con una protervia provocante». E nell’allocuzione concistoriale, del marzo 1933, torna a deprecare «l’ora cauto e subdolo, ora sfrontato e provocante proselitismo protestantico», che si diffonde «in tutta questa Italia, che è il proprio territorio della Nostra Dignità Primaziale, ed in questa Roma, la nostra Città e Sede Episcopale». Si veda sul punto M. Madonna, Dal carattere sacro al particolare significato. La città di Roma nel Concordato del 1929 e nell’Accordo del 1984. Aspetti giuridici e politici, Tricase 2009, p. 45.

49 Cfr. sul punto P. Scoppola, Il fascismo e le minoranze evangeliche, cit., p. 342.

50 Cfr. G. Peyrot, La legislazione sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica, cit., p. 525.

51 Cfr. G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica», cit., pp. 144-145.

52 A.C. Jemolo, Alcune considerazioni sul r.d. 30 ottobre 1930 n. 1731 sulle Comunità israelitiche, «Il Diritto ecclesiastico», 42, 1931, pp. 73- 81.

53 Cfr. G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica», cit., pp. 26-27.

54 Si vedano in proposito G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, Torino 1990, p. 128; G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica», cit., pp. 27-28.

55 M. Piacentini, I culti ammessi nello Stato italiano, cit., p. 24.

56 Cfr. per esempio Corte di cassazione, 11 giugno 1931, «Rivista penale», 1931, p. 632.

57 Per un’ampia panoramica delle restrizioni alle riunioni religiose dei protestanti, si veda G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, cit., pp. 141-145.

58 A.C. Jemolo, s.v. Culti (libertà dei), cit., p. 462.

59 Si vedano in proposito M. Piacentini, I culti ammessi nello Stato italiano, cit., pp. 16-17; O. Giacchi, La legislazione italiana sui culti ammessi, cit., pp. 81-86; U. Della Seta, Le minoranze religiose nel nuovo codice penale, Roma 1931.

60 Cfr. sul punto D. Barillaro, Considerazioni preliminari sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica, Milano 1968, pp. 62-64.

61 P. Scoppola, Il fascismo e le minoranze evangeliche, cit., pp. 331-332.

62 G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, cit., p. 13.

63 P. Scoppola, Il fascismo e le minoranze evangeliche, cit., p. 347.

64 G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, cit., p. 29.

65 Ibidem, pp. 33-34.

66 Ibidem, pp. 36-37.

67 Ibidem, p. 41.

68 Ibidem.

69 P. Scoppola, Il fascismo e le minoranze evangeliche, cit., p. 331.

70 Si vedano sul punto P. Scoppola, Il fascismo e le minoranze evangeliche, cit., pp. 333-334; G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, cit., pp. 42-44.

71 Cfr. G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, cit., pp. 143-144.

72 Ibidem, pp. 144-145.

73 A.C. Jemolo, Per la pace religiosa in Italia, Firenze 1944, p. 33.

74 Si vedano in proposito P. Scoppola, Il fascismo e le minoranze evangeliche, cit., pp. 359-362; G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, cit., pp. 245-248;

75 Per un’ampia ricostruzione, cfr. G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, cit., pp. 248-256.

76 P. Scoppola, Il fascismo e le minoranze evangeliche, cit., p. 352.

77 Cfr. G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, cit., pp. 42-44.

78 Ibidem, pp. 257-266.

79 Ibidem, pp. 303-306.

80 Nell’ambito dell’ampia bibliografia sulla normativa in questione, si vedano: M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei, Torino 1994; V. Di Porto, Le leggi della vergogna. Norme contro gli ebrei in Italia e in Germania, Firenze 2000.

81 F. Margiotta Broglio, Discriminazione razziale e discriminazione religiosa, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 17, 2000, 1, p. 269.

82 G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, Firenze 1998, p. 63.

83 Sull’origine della norma, si vedano: A. Capitini, P. Lacaita, Gli Atti dell’Assemblea Costituente sull’art. 7: con il testo dei Patti Lateranensi e il discorso di Croce al Senato, Perugia 1959; A. Tempestini, Laici e cattolici nel sistema politico italiano: la Costituente e l’art. 7, Milano 1987; L. Musselli, Chiesa e Stato dalla Resistenza alla Costituente, Torino 1991.

84 Sulla genesi della disposizione, cfr. G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale: il dibattito sulla liberta religiosa nell’età della Costituente, Bologna 1990, pp. 348-353; R. Astorri, Il principio costituzionale dell’uguaglianza delle confessioni religiose tra dibattito costituente, dottrina e giurisprudenza costituzionale, «Jus», 50, 2003, 3, pp. 499-528.

85 G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale, cit., pp. 251-252.

86 Ibidem, pp. 252-253.

87 Ibidem, p. 279.

88 Cfr. sul punto S. Lariccia, La libertà religiosa nella società italiana, in Teoria a prassi delle libertà di religione, cit., pp. 322-327; G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale, cit., pp. 267-274.

89 Sulla genesi della disposizione, si veda G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale, cit., pp. 344-348.

90 L’intervento di Ruini in Assemblea è del 12 aprile 1947. Cfr. G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale, cit., p. 346.

91 Ibidem, pp. 347-348.

92 Ibidem, pp. 268-270.

93 La norma così dispone: «Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle Parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale».

94 G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale, cit., pp. 275-276.

95 Cfr. A. Sini, La religione dello Stato, cit., p. 195.

96 Secondo tale disposizione, «tutte le confessioni religiose sono egualmente libere dinanzi alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze».

97 Cfr. in proposito G. Casuscelli, Concordati, intese e pluralismo confessionale, Milano 1974, pp. 134-144; R. Astorri, Il principio costituzionale dell’uguaglianza delle confessioni religiose, cit., pp. 508-509.

98 G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale, cit., p. 277.

99 Ibidem, pp. 277-278.

100 Così la definisce Aldo Moro nell’intervento del 23 gennaio 1947. Cfr. G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale, cit., p. 349.

101 C. Mirabelli, Alcune considerazioni preliminari sul principio pattizio, in Nuovi accordi fra Stato e confessioni religiose, Milano 1985, p. 381.

102 In tal senso C. Cardia, s.v. Pluralismo (dir. eccl.), in Enciclopedia del diritto, XXXIII, Milano 1984, pp. 989-990; C. Mirabelli, s.v. Religione (libertà di), cit., pp. 248-252.

103 Per un’ampia analisi, e un’articolata critica a tale tendenza, si veda A.C. Jemolo, Le libertà garantite dagli art. 8, 19 e 21 della Costituzione, «Il Diritto ecclesiastico», 53, 1952, 1, pp. 393-426. Cfr. anche G. Peyrot, Il problema delle minoranze religiose, in La libertà religiosa in Italia, a cura di A. Capitini, Firenze 1956, pp. 49-76.

104 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dall’unificazione agli anni settanta, Torino 1977, p. 314.

105 Per approfondimenti in proposito, si veda S. Lariccia, La libertà religiosa nella società italiana, cit., pp. 333-336.

106 Per una sintetica ricostruzione delle vicende della circolare dopo la caduta del fascismo, cfr. G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, cit., pp. 272-273.

107 Cfr. S. Lariccia, La libertà religiosa nella società italiana, cit., pp. 337-338.

108 Per più ampie notizie sul punto, cfr. G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica», cit., pp. 35-39.

109 Per una rassegna di tali iniziative, si veda S. Lariccia, La libertà religiosa nella società italiana, cit., pp. 339-344.

110 Ibidem, pp. 362-363.

111 Per una sintesi della giurisprudenza costituzionale in materia, nei primi anni di attività della Corte, cfr. G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica», cit., pp. 39-40. Più in generale, sulla giurisprudenza costituzionale in tema di libertà religiosa, si vedano: C. Mirabelli, La giurisprudenza costituzionale in materia di libertà religiosa: sintesi per una lettura d’insieme, in Dall’Accordo del 1984 al disegno di legge sulla libertà religiosa. Un quindicennio di politica e legislazione ecclesiastica, a cura di A. Nardini, G. Di Nucci, Roma 2001, pp. 51-55; La libertà religiosa nella giurisprudenza costituzionale, in La libertà religiosa, a cura di M. Tedeschi, 3 voll., I, cit., pp. 45-57; A.M. Punzi Nicolò, La libertà religiosa individuale e collettiva nelle sentenze della Corte Costituzionale, in Diritto ecclesiastico e Corte costituzionale, a cura di R. Botta, Napoli 2006, pp. 305-322.

112 P.A. D’Avack, s.v. Libertà religiosa, cit., p. 609.

113 Ci si riferisce all’enciclica Mirari vos, del 1832. Si veda in proposito G. Saraceni, Stato cattolico e tolleranza dei culti acattolici nella dottrina della Chiesa, «Il Diritto ecclesiastico», 68, 1957, 1, pp. 60-61.

114 Cfr. sul punto A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, cit., pp. 262-263.

115 Per un’attenta ricostruzione del pensiero di Papa Pecci sul punto, si veda G. Saraceni, Stato cattolico e tolleranza dei culti acattolici, cit., pp. 63-66.

116 Cfr. G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale, cit., pp. 214-215.

117 Sull’insegnamento di Giovanni Paolo II in tema di libertà religiosa si vedano: G. Feliciani, La libertà religiosa nel magistero di Giovanni Paolo II, «Rivista internazionale dei diritti dell’uomo», 12, 1999, pp. 158-167; La libertà religiosa negli insegnamenti di Giovanni Paolo II, a cura di A. Colombo, Milano 2000.

118 Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti del IX colloquio internazionale romanistico canonistico organizzato dalla Pontificia Università Lateranense, 11 dicembre 1993.

119 P. Scoppola, Il fascismo e le minoranze evangeliche, cit., p. 367.

120 Si veda in proposito Presidenza del Consiglio dei Ministri, Un accordo di libertà, Roma 1986 (in partic. F. Margiotta Broglio, Dalla questione romana al superamento dei Patti lateranensi, pp. 19-57).

121 Cfr. sul punto G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica», cit., pp. 43-53.

122 A.C. Jemolo, Premesse ai rapporti tra Stato e Chiesa, Milano 1969, p. 150.

123 G. Peyrot, Significato e portata delle intese, in Le intese tra Stato e confessioni religiose, a cura di C. Mirabelli, Milano 1978, p. 50.

124 G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica», cit., pp. 43-44.

125 Cfr. in proposito P. Ricca, L’«intesa» tra la Repubblica italiana e le chiese rappresentate dalla Tavola Valdese, in I diritti fondamentali della persona umana e la libertà religiosa, Atti del V Colloquio giuridico (Roma 1984), Roma 1985, pp. 567-574; G. Long, L’intesa con le Chiese rappresentate dalla Tavola valdese, «Coscienza e libertà», 21, 1998, pp. 9-15.

126 N. Colaianni, A vent’anni dalla prima intesa. Un’analisi economica, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 21, 2004, 1, p. 236.

127 G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica», cit., pp. 49-50.

128 Cfr. sul punto A. Nardini, Il percorso delle Intese, in La libertà religiosa alla luce dell’art. 8 della Costituzione, Atti del Convegno (Roma 2008), «Coscienza e libertà», 42, 2008, pp. 41-44.

129 Si vedano: T. Rimoldi, L’intesa con la Chiesa avventista, «Coscienza e libertà», 21, 1998, pp. 16-27; I. Barbuscia, L’intesa dell’Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7º giorno, «Quaderni della Scuola di specializzazione in diritto ecclesiastico e canonico», 6, 1999, pp. 49-64.

130 Per più ampie notizie, cfr. G. Di Masa, Le intese tra le Assemblee di Dio in Italia e il Governo italiano, «Quaderni della Scuola di specializzazione in diritto ecclesiastico e canonico», 6, 1999, pp. 99-108.

131 Si veda al riguardo G. Sacerdoti, L’intesa tra Stato e Unione delle comunità ebraiche del 1987 e la sua attuazione, in Dall’Accordo del 1984 al disegno di legge sulla libertà religiosa, cit., pp. 327-335.

132 Si veda in proposito F. Scaramuccia, L’intesa con la Chiesa battista, «Coscienza e libertà», 21, 1998, pp. 35-48.

133 Cfr. sul punto R. Bachrach, L’Intesa tra la Chiesa Evangelica Luterana in Italia e lo Stato italiano, «Quaderni della Scuola di specializzazione in diritto ecclesiastico e canonico», 6, 1999, pp. 91-98.

134 N. Colaianni, Le intese con i Buddisti e i Testimoni di Geova, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 17, 2000, 2, pp. 475-494; F. Pizzetti, Le intese con le confessioni religiose, con particolare riferimento all’esperienza, come Presidente della Commissione per le intese, delle trattative con i Buddhisti e i Testimoni di Geova, in Dall’Accordo del 1984 al disegno di legge sulla libertà religiosa, cit., pp. 309-319.

135 Si veda L. Graziano, Andando oltre la “standardizzazione” delle intese: la Chiesa apostolica in Italia e l’articolo 8, 3 della Costituzione, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 24, 2007, 1, pp. 353-370.

136 Cfr. R. Benigni, L’intesa con l’Unione Induista Italiana Sanatana Dharma Samgha, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 24, 2007, 1, pp. 413-430.

137 Si veda V. Pacillo, L’intesa con la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni: prime considerazioni, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 24, 2007, 1, pp. 371-398.

138 Cfr. G. Mori, Ortodossia e intesa con lo Stato italiano: il caso della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa meridionale, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 24, 2007, 1, pp. 399-412.

139 G. Long, Le confessioni «diverse dalla cattolica», cit., p. 53.

140 N. Colaianni, A vent’anni dalla prima intesa, cit., p. 239.

141 Cfr. sul punto G. Peyrot, Condizione giuridica delle confessioni religiose prive di intesa, in Nuovi accordi fra Stato e confessioni religiose, cit., pp. 383-421.

142 O. Fumagalli Carulli, Legge e libertà religiosa. Dai «culti ammessi» alla libertà religiosa: un cammino incompiuto, «Iustitia», 2004, 2-3, p. 171.

143 Cfr. E. Pace, La geografia religiosa dell’Italia di fine secolo, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 17, 2000, 1, pp. 35-50.

144 Si vedano in proposito C. Mirabelli, Il disegno di legge di riforma delle norme sulla libertà religiosa, in Dalla legge sui culti ammessi al progetto di legge sulla libertà religiosa, cit., pp. 131-144; O. Fumagalli Carulli, Legge e libertà religiosa. Dai «culti ammessi» alla libertà religiosa, cit., pp. 182-196; G. Casuscelli, Appunti sulle recenti proposte di legge in tema di libertà religiosa, «Il diritto ecclesiastico», 118, 2007, 1-2, pp. 67-81; G.B. Varnier, La ricerca di una legge generale sulla libertà religiosa tra silenzi e rinnovate vecchie proposte, ibidem, pp. 197-204.

145 Cfr. sul punto G. Peyrot, Condizione giuridica delle confessioni religiose prive di intesa, cit., pp. 395-399.

146 Limitandosi solo ai progetti di legge governativi, possono ricordarsi il disegno di legge del primo governo Prodi del 1997, e quello del secondo governo Berlusconi del 2002.

147 F. Margiotta Broglio, La riforma dei Patti Lateranensi dopo vent’anni, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 21, 2004, 1, p. 7.

148 C. Cardia, Concordato, intese, laicità dello Stato. Bilancio di una riforma, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 21, 2004, 1, p. 30.

149 R. Astorri, Stato e Chiesa in Italia: dalla revisione concordataria alla «seconda repubblica», «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 21, 2004, 1, p. 51.

150 Cfr. sul punto C. Mirabelli, La libertà religiosa nella giurisprudenza costituzionale, cit., pp. 50-57.

151 Si veda in proposito C. Mirabelli, Laicità dello Stato, in Il diritto Enciclopedia giuridica del Sole 24 ore, Milano 2007, VIII, pp. 417- 427.

152 Cfr. sul punto A.G. Chizzoniti, La tutela penale delle confessioni religiose: prime note alla legge n. 85 del 2006 “Modifiche al codice penale in materia di reati d’opinione”, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 23, 2006, 1, pp. 437-456.

153 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia dall’unificazione agli anni settanta, cit., p. 320.

154 G. Bouchard, Concordato e Intese, ovvero un pluralismo imperfetto, «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 21, 2004, 1, p. 65.

155 P. Scoppola, Il fascismo e le minoranze evangeliche, cit., p. 367.

156 A.C. Jemolo, I problemi pratici della libertà, cit., p. 185.

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