BOTTEGA

Enciclopedia Italiana (1930)

BOTTEGA (dal gr. 'αποϑήκη "ripostiglio, magazzino"; fr. boutique, magasin; sp. tienda: ted. Laden; ingl. shop, store)

Giuseppe SPANO
Nello TARCHIANI
Giovanni Vacca

Nel suo significato più generico denota luogo per riporvi oggetti di ogni sorta. In seguito servì anche a designare la stanza od officina da lavoro degli artefici e quella dove i mercanti vendono le loro mercanzie.

Antico Oriente ed Islām. - Incerti e frammentarî sono i particolari che i testi e le rappresentazioni figurate ci forniscono sull'uso e le forme delle botteghe nelle antiche civiltà orientali. Per quella assiro-babilonese, ad esempio, sappiamo che il mercato si svolgeva soprattutto alle porte della città, e molta parte dell'attività commerciale (p. es. quella bancaria) aveva luogo nei templi; non manca però cenno di botteghe degli artigiani, raccolte di solito secondo i varî mestieri nello stesso quartiere e nella stessa strada. Nell'antico Egitto ci appare molto diffuso il piccolo commercio ambulante, addensato specialmente presso i porti fluviali, a uso dei viaggiatori, ma accanto a esso abbiamo rappresentazioni anche di botteghe stabili, abbastanza simili a quelle medievali e moderne del Cairo (v. sotto), come quella di uccellame che ci mostrano alcuni rilievi tebani, con uomini seduti su panchine e intenti a spennare oche, mentre altre già spennate penzolano appese in fila alle pareti. Presso gli Ebrei, dove il mercato si teneva come in Babilonia e Assiria alle porte della città, abbiamo indizî dell'esistenza di botteghe, anzi di speciali quartieri per i commercianti; di tal genere dovevano essere quelle ḥuṣüth (propriamente "vie"; I [III] Re XX, 34) che il re di Siria Ben Hadad, vinto dal re d'Israele Achab, concesse a questo di stabilire a Damasco, mentre i Damasceni ne possedevano già di analoghi a Samaria, capitale d'Israele.

Quanto al mondo arabo-musulmano, la bottega di cui per via letteraria abbiamo più copiose ed antiche testimonianze è quella per la vendita del vino. La ḥānūt (la parola e quindi anche la cosa è di origine aramaica), nota già agli antichi poeti preislamici, che vi pongono con suggestivi tocchi gai simposî in lieta compagnia, appare per lo più tenuta da commercianti ebrei e cristiani; anzi talora, sotto forma di spaccio o bettolino, trova persino ospitalità tra le mura dei conventi cristiani del deserto siro-arabico, e la figura del monaco presso cui si compra il buon vino (considerato peraltro sempre come rarità, e ricercato genere di lusso) compare men di rado nelle poesie preislamiche e dei primi tempi dell'Islam. Col divieto coranico del vino, la taverna (khammārah), ben lungi dallo sparire, diventa il malfamato ritrovo, spesso annidato nei quartieri eccentrici e mezzo in rovina della città, dove buontemponi, poeti, e semplici ubbriaconi, più o meno tollerati dal muḥtasib o prefetto di polizia municipale incaricato di vegliare sui costumi, si compiacciono della vietata bevanda come d'un frutto proibito. Ma accanto ad essi sorgono più tardi alla celebrazione del vino i poeti mistici musulmani, arabi e persiani, le cui descrizioni allegoriche delle esperienze mistiche assumono talvolta con audacia e sottigliezza tecnica il linguaggio dei bevitori, e descrivono le gioie della bottega (v. sufismo).

Oltre alla bottega del vinaio, che ha perciò una posizione a sé nella storia del commercio e della cultura islamica, troviamo ricordate dagli autori e in parte tuttora esistenti le botteghe dei più svariati mestieri (droghieri, macellai, sarti, tornitori, tintori, fabbri, ecc.), spesso raccolte in aswāq o mercati, a seconda dei mestieri degli artigiani, raggruppati in corporazioni (v.). Il loro aspetto attuale negli ambienti orientali meno affetti dalla europeizzazione, conserva abbastanza fedelmente il tipo medievale, descritto da viaggiatori, storici e geografi. Al Cairo ad esempio, nel Khān al-Khalīlī e in genere nei quartieri arabi della città, è ancor frequente il tradizionale tipo di bottega consistente in un ambiente quadrangolare (spesso con un secondo, nell'interno, a uso magazzino), dal pavimento sopraelevato di due o tre piedi sul livello stradale; su questo viene talvolta a sporgere, allo stesso livello del piano della bottega, una panchina (maṣṭabah) di pietra o mattoni (spesso ora soppressa al Cairo, per facilitare il traffico). Il venditore siede a gambe incrociate sulla banchina, e lì pure prende posto il cliente nella lunga, calma contrattazione. La mercanzia è sospesa a chiodi lungo il muro, o allineata sul pavimento o su appositi scaffali e mensole. Lo stesso tipo fondamentale di bottega orientale musulmana ritroviamo a Damasco, a Costantinopoli e altrove, spesso però minacciata dalla crescente europeizzazione che tende a sostituirvi il comune tipo di esercizio occidentale.

Nel mondo antico. - Le botteghe, ossia i locali destinati alla vendita delle merci, e nei quali talvolta si producono gli stessi oggetti dei quali si esercita il traffico, sono state una necessità di tutti i tempi e di tutti i luoghi civili, e però, come nel mondo moderno, esistettero del pari nel mondo antico.

I Greci non ebbero un termine generico per indicare il locale di vendita ma si servivano di voci le quali indicavano da sole questo o quell'altro genere di commercio che si esercitava in ciascun locale. Così, p. es., dicevano βιβλιοπωλεῖον la bottega dei libri; κρεοπώλιον o κρεοπωλεῖον la beccheria, e così via. I Romani invece ebbero un termine generico, taberna, nome derivato da tabula, e non ex eo quod tabulis clauditur, come dice Ulpiano (Dig., L, 16, 183, ed. Mommsen), ma, come avverte Festo (p. 356, 24, Müll.), quod ex tabulis olim fiebat. Al sostantivo taberna si aggiungeva poi un aggettivo qualificativo, il quale indicasse il genere di vendita, e così si avevano, p. es., le espressioni complete di taberna sutoria, taberna vinaria, taberna argentaria, ecc. La bottega si chiamò più tardi anche apotheca, trascrizione del greco ἀποϑήκη (deposito).

In Grecia, nei tempi più antichi, molti venditori al minuto esercitavano il loro mestiere in baracche mobili fatte di giunchi e tela. Sennonché ben presto la necessità dovette esigere che venissero costruite solide botteghe in muratura. Le più antiche a noi pervenute sono quelle del sec. IV a. C. sotto i portici dei mercati di Priene e di Magnesia sul Meandro. Anche sotto il portico di Attalo in Atene esisteva una serie ininterrotta di botteghe, le quali, illuminate ciascuna da un finestrino, non potevano servire che a tener depositata la merce, che poi nelle ore di vendita veniva esposta sotto il portico stesso. Ma, come sotto i portici delle piazze, le botteghe dovettero essere costruite anche lungo i lati delle vie, sulle fronti dei varî edifici. Nell'isola di Delo si son trovate botteghe di tal fatta, di tarda età ellenistica. Consistono in ambienti larghi dai 3 ai 4 m. e mezzo, profondi non più di 4, di forma irregolarmente rettangolare, largamente aperti sulla via principale, l'uno indipendente dall'altro. Raramente vi è un retrobottega, e manca qualsiasi comunicazione con le case che sono dietro.

Le più belle botteghe del mondo classico che si siano conservate fino ai nostri giorni sono quelle che esistono ancora in parte sulla fronte dei superbi palazzi sannitico-ellenistici di Pompei, costruiti nel sec. II a. C.

Esse consistevano in un ambiente terreno di forma più o meno rettangolare e in un corrispondente ambiente superiore. Il vano d'ingresso è largo quasi quanto l'intera bottega, allo scopo di mettere bene in mostra la merce; una scaletta di legno o di muratura, aderente a uno dei lati del pianterreno, montava alla stanza superiore. La fig. 1 mostra la fronte della casa detta del Fauno in Pompei, secondo il restauro che ne fece il Mau, con i vani d'ingresso di tre botteghe e con le due porte della casa, la più splendida di quelle del mondo classico a noi conservate.

Ma in Pompei, oltre alle botteghe costruite sotto l'influenza dell'architettura ellenistica, troviamo un buon numero di locali di vendita costruiti nel tempo romano, e che furono in funzione fino alla catastrofe del 79. Alcuni di questi, tornati in luce recentemente, quando la progredita tecnica dello scavo ha permesso di fare osservazioni non potute compiere in passato, ci mettono in grado di conoscere abbastanza bene la bottega dei tempi classici, tenuto presente però che Pompei era una piccola città, e che nei grandi centri le botteghe, pur rispondendo nelle grandi linee al tipo delle botteghe pompeiane, potevano essere di una grandiosità e di un lusso maggiori che nella cittadina campana.

Le botteghe del tempo romano erano simili a quelle del periodo precedente; le loro fronti però, prive di cornice architettonica, erano abbastanza disadorne. Inoltre l'ambiente superiore era spesso munito di un balcone, e, quando questo mancava, una larga tettoia difendeva l'ingresso della bottega dalla pioggia e dal sole.

La stanza superiore doveva essere parte integrante di quasi tutte le botteghe del mondo classico (cfr. Mau, Sul significato della parola pergula nell'architettura antica, in Röm. Mitth., II, 1887, p. 214 segg.). Essa era detta dai Romani pergula (v. casa romana).

Dice Plinio (Nat. Hist., XXXV, 84) che Apelle esponeva i suoi quadri sulla pergula: tale notizia ci fa conoscere, che nel mondo greco l'ammezzato sulle botteghe era in uso per lo meno dal sec. IV a. C. Se l'ammezzato della bottega serviva alla esposizione della merce, poteva essere anche il principale deposito della stessa; oltre di che sappiamo pure che esso poteva contenere un letto (Plaut., Pseud., 215).

Pompei offre pure esempî di botteghe senza ammezzati, così come di ammezzati i quali, accessibili per una scaletta direttamente dalla via, erano destinati anch'essi a un qualunque commercio, o anche a una piccola industria, senza che fossero dipendenza di una sottostante bottega.

In alcune botteghe pompeiane si osservano lungo le pareti fori quadrati, nei quali erano ficcati i sostegni di legno per le mensole, parimenti di legno. Là dove lo richiedeva il bisogno si usavano anche eleganti armadî disposti lungo le pareti. Così, in una bottega della via dell'Abbondanza, che era come un emporio di utensili d'ogni genere, erano per lo meno tre eleganti armadî di legno con decorazioni di bronzo. Lo stesso particolare rileviamo da rappresentazioni figurate: in un quadretto ercolanese del Museo di Napoli si vede l'interno della bottega di un calzolaio con un elegante armadio a due battenti, ciascuno ripiegato in due parti, sì da lasciar vedere le mensole interne con le scarpe (fig. 2). Un armadio ancora più elegante si vede nella nota figura della farmacia degli Amorini nella casa dei Vettii in Pompei.

Parte indispensabile delle comuni botteghe era il banco di vendita, che i Romani pare chiamassero tabula. Della forma più comune di esso, e del posto che occupava nelle botteghe ci informa soprattutto Pompei. Il più delle volte in muratura, alcune volte di legno, esso era formato quasi sempre da un podio a corpo rettangolare diviso in due parti disposte ad angolo retto, delle quali una era collocata immediatamente dopo la soglia dell'ingresso e parallelamente a questa, e con l'estremità più o meno aderente ad uno dei pilastri della porta, l'altra si inoltrava verso il centro della bottega. Quando il banco era in muratura, e si trattava di una caupona o di un termopolio, questa seconda parte terminava con un fornello, anch'esso in muratura, sul quale poggiava una caldaia di bronzo (Overbeck-Mau, Pompeji, p. 377 segg., fig. 182-3); inoltre venivano murati nel suo corpo varî grossi vasi cilindrici (dolia) di terracotta. Solo rare volte a questa parte, per dir così, interna del podio ne corrispondeva una terza, disposta parallelamente ad essa e che partiva da quella estremità del banco accostata al pilastro dell'ingresso. Sull'estremità in parola del banco si elevavano, nelle botteghe in cui si vendevano commestibili o piccoli oggetti, alcuni scalini in muratura, spesso rivestiti di marmo, sui quali si doveva esporre la merce. Il rilievo di una caupona nella via di Mercurio in Pompei mostra (fig. 3) il banco di vendita (a) con le bocche dei dolî in esso murati, e gli scalini (b) per la esposizione dei commestibili. La fig. 4, rappresenta un termopolio di Ostia con una disposizione analoga del banco. Questo se di muratura, aveva le superficie verticali esterne rivestite di signino o di intarsî di marmo, oppure decorate con pitture; il piano poi alcune volte era di signino, altre volte era costituito da informi frammenti di marmo, messi gli uni presso gli altri alla rinfusa.

Anche del caratteristico banco di vendita abbiamo esempî nei graziosi quadretti con gli Amorini orafi e farmacisti della casa dei Vettii.

Gli scavi di Pompei hanno mostrato in che modo si chiudessero le botteghe del mondo romano e, già prima, quelle del mondo ellenistico, maniera di chiusura che forse non differiva molto da quella usata nelle botteghe del mondo greco. Esse si chiudevano mediante una serie di tavole di legno, strette e lunghe, le quali venivano intromesse con le loro due estremità in due solchi, operati uno nella soglia e l'altro nell'architrave del vano d'ingresso, e collocate in modo che uno degli orli di ciascuna si sovrapponesse di un poco sull'orlo della tavola vicina. Esse però non occupavano l'intera larghezza del vano, ma ne lasciavano libera una piccola parte ad una delle due estremità: qui si trovava un piccolo battente girevole munito di serratura (cfr. Overbeck-Mau, op. cit., p. 378, fig. 184 seg.). Tutto ciò si è potuto argomentare non solo dall'esistenza del solco in ciascuna soglia di bottega, e dall'indicazione sulla stessa soglia del battente girevole, ma altresì dai calchi fatti sulle impronte lasciate da quei tavolati e battenti, e dagli avanzi dei ferramenti, qualche volta trovati in situ nella cenere. Ciascuna tavola era munita, nella parte che guardava l'interno della bottega, di un anello metallico orizzontalmente disposto e tenuto fermo da un perno, e di un gancio parimente metallico, che si introduceva nell'anello della tavola immediatamente seguente, mentre in quello della stessa tavola si conficcava il gancio della tavola precedente, formando in tal modo un sistema di chiusura affatto rigido. Ogni tavola recava poi parimenti un altro anello, ma verticalmente disposto, nel lato esterno. Ed in tali anelli, i quali si trovavano tutti alla stessa altezza, venivano conficcati due bastoni metallici in maniera che l'uno formava la continuazione dell'altro: essi muniti, nelle estremità che venivano a toccarsi, di uno speciale congegno unito a una serratura, costituivano la chiusura esterna del locale. Sono tali solidi ferramenti, che formavano addirittura una fascia metallica dinnanzi alla chiusura in legno delle botteghe, che spiegano l'espressione di Giovenale di catenatae tabernae? Lo stesso sistema di chiusura appare nelle botteghe di Ostia e in quelle che sono state recentemente scoperte nei mercati traianei in Roma (fig. 7).

Va in ultimo notato, che il battente apritoio doveva essere munito di un foro verso l'alto, attraverso il quale passava un cordone o una catenina, tirando la quale sonava un campanello, verisimilmente sospeso nella parte interna dell'architrave. Ciò per coloro i quali avessero avuto da fare con la bottega quando questa era chiusa. L'ambiente terreno nelle belle botteghe pompeiane delle case sannitico-ellenistiche era quasi sempre unico; ma nelle posteriori botteghe pompeiane il più delle volte esso era suddiviso. Alle volte poi, così in Pompei come in Ostia, delle botteghe, situate nei due lati della porta d'ingresso di una casa, comunicavano con la stessa: in tali botteghe il ricco proprietario di beni rurali metteva in vendita i suoi prodotti, vini, oli, formaggi, né disdegnava di avere accanto alla sua abitazione, e con questa in comunicazione, finanche qualche caupona. Un esempio caratteristico ce l'offrono, per il tempo sannitico-ellenistico la casa detta del Fauno: per il tempo posteriore la casa già ricordata della via di Mercurio. Qualche volta l'abitazione, con la quale la bottega comunicava, era quella dove il proprietario fabbricava gli oggetti che poi esponeva e metteva in vendita nella bottega stessa. Un esempio, purtroppo in pessimo stato di conservazione, l'abbiamo nella via del tempio d'Iside, in una bottega appartenuta ad un ignoto scultore: nell'atrio e nel peristilio si rinvennero strumenti da scultore e marmi lavorati o abbozzati.

Ignoriamo se nella Grecia propria la fronte della bottega avesse una qualunque speciale decorazione. Le belle botteghe pompeiane appartenenti ai palazzi sannitico-ellenistici pare che in origine non ne avessero alcuna, e ciò evidentemente in omaggio alle magnifiche architetture di quelle costruzioni, delle quali le loro fronti erano parte integrante. Viceversa più tardi, quando in Pompei diventa ovvio l'uso di dipingere dei quadri sulle pareti interne delle case e di altri edifici, le fronti delle botteghe spesso vengono anch'esse decorate con quadri. E, dato il tempo in cui quegli stili fiorirono, può affermarsi che la moda di dipingere tali quadri sulle fronti delle botteghe, e in Pompei e altrove, sia cominciata poco dopo il 31 a. C. e durata poi sino alla fine del mondo classico. Tali dipinti ricorrevano sui due pilastri limitanti la porta della bottega. Accanto a una bottega sull'angolo della via Consolare era dipinto un serpente agatodemone, il genius loci, nell'atto di avvicinarsi a un'ara. Spesso invece era dipinto Mercurio, quale protettore del commercio, con la borsa e il caduceo (fig. 5); e così pure una divinità, o un altro essere mitologico, avente rapporto col commercio o con l'industria esercitata nella bottega, come quasi sempre Bacco accanto alle caupone e ai termopolî. Anche la parte della fronte al disopra dell'architrave poteva recare delle figure dipinte. Ne abbiamo un esempio bellissimo in una bottega, verosimilmente di coactiliarii, in via dell'Abbondanza, recante l'immagine di Venere Pompeiana a sinistra, e quella di una processione in onore di Cibele a destra, e sull'architrave quattro grandi protomi divine del Sole, di Giove, di Mercurio e della Luna, messe lì a protezione della bottega. Un balcone, dinnanzi a una pergula, difendeva e la bottega e la sua decorazione frontale dal sole e dall'acqua.

Rare volte in luogo di un dipinto ricorre in Pompei, e così doveva essere dappertutto, un rilievo, la cui rappresentanza naturalmente rientrava in una delle categorie da noi ricordate per le pitture. Così l'immagine in rilievo di una capra accanto a una bottega nel Vico dei Soprastanti (n. 14, ins. V, reg. VII) può indicare che in questa si vendesse il latte (Overbeck-Mau, op. cit., p. 379); un rilievo raffigurante un mulino per grano girato da un mulo stava quale arme parlante sulla fronte di una panetteria (Overbeck-Mau, loc. cit., fig. 186). Parimenti in rilievo qualche volta era rappresentato il fallo, quale potente amuleto, per allontanare il fascino malefico. Un muretto sporgente di traverso quasi per l'intera larghezza del marciapiede, e recante dipinta sul lato l'immagine di vasi e di un imbuto (fig. 6), evidentemente l'arme parlante di una caupona o di un termopolio lì presso, sembra preludere all'uso moderno delle tabelle, collocate di traverso sui nostri magazzini.

Anche il lato anteriore del banco di vendita, cioè quello che era visibile dalla via, e che in prospettiva formava una cosa sola con la fronte della bottega, poteva recare delle figure dipinte.

Le figure che in un modo o in un altro decoravano la fronte delle botteghe, erano dette nel mondo romano insignia, e spesso doveva accadere che la bottega prendesse nome da esse.

Nell'interno dei magazzini, oltre agli armadî e alle mensole per tener depositata ed esposta la merce, spesso ricorrevano, dipinte o in rilievo di stucco, le immagini dei Lari e dei Penati, il più delle volte contenute in una piccola cappella parimente dipinta o in rilievo, con sotto le figure dei serpenti, custodi del luogo. Qualche volta l'immagine di Mercurio con la borsa e col caduceo, così ovvia nella fronte delle botteghe, poteva esser dipinta nell'interno di esse, e così pure l'immagine di altre divinità aventi rapporto col commercio o con l'industria esercitata nelle stesse. Altri quadri, ricorrenti del pari nell'interno delle botteghe, potevano alludere, quando si trattasse di caupone o di termopolî, al genere di clienti che le frequentavano, e alla vita che in esse si viveva, come quelli tanto noti di una caupona pompeiana, e ora nel Museo di Napoli, che mostrano lo svolgersi di una lite originata dal giuoco, e il costume di tenere delle ragazze per servire i bevitori.

Le botteghe non si chiudevano col tramontare del sole, e però era necessario che di sera venissero illuminate. Ciò si faceva col collocare delle lucerne sia in una o due nicchiette, che spesso si vedono in qualche parete, sia sopra alti candelabri di bronzo o di ferro, sia sopra piccoli candelabri o tripodi di bronzo messi sul banco di vendita. Una lucerna, inoltre, era sospesa quasi sempre all'architrave del vano d'ingresso. Tali lucerne pensili, insieme con quelle che verosimilmente si collocavano sopra tavole messe dinnanzi alle botteghe sui marciapiedi, costituivano, almeno nel mondo occidentale, il principale contributo all'illuminazione stradale, la quale doveva essere tuttavia abbastanza abbondante, specialmente nelle vie principali, dato che in queste le botteghe si succedevano a distanze brevissime. Una lucerna fittile a forma di nave, sospesa all'architrave di una bottega di Pompei, potrebbe indurre a supporre che qualche volta tali lucerne fossero foggiate in modo da costituire anche un'insegna delle botteghe. Tra queste lucerne pensili alcune ve n'erano estremamente curiose, in quanto erano unite ad amuleti, o costituivano esse stesse degli amuleti destinati a proteggere la bottega dal malocchio. Qualche volta alla lucerna pensile di bronzo andava congiunta una piccola tabella ansata dello stesso metallo, sulla quale era inciso il nome del magister, dell'institor, cioè del proprietario della bottega, messo in caso genitivo. Alcune botteghe, oltre ad avere la lucerna sospesa sull'ingresso, ne avevano un'altra in una nicchietta praticata all'esterno sull'architrave o in uno dei lati. Tali lucerne, allorché si trattava di caupone, servivano a indicare che, ove fosse notte e chiusa la bottega, facendo sonare il campanello della porta, questa veniva aperta.

Sembra che una lucerna consimile fosse anche in una bottega di farmacista: sarebbe pertanto di antica data l'uso di munire di un lume le farmacie che fanno servizio notturno (Spano, L'illuminazione delle vie di Pompei, in Atti della R. Accademia di architettura letteratura e belle arti di Napoli, n. s., VII, 1919).

Lo studio che abbiamo fatto delle botteghe del mondo classico ci fa anche conoscere quale fosse l'aspetto delle vie delle città romane, che non sarà stato certo di gran lunga diverso da quello delle città elleniche ed ellenistiche. Le botteghe, seguentisi a distanze brevissime, e protette da larghe tettoie o dai balconi delle pergulae, offrivano un riparo quasi continuo dalla pioggia e dai raggi del sole. I dipinti esistenti sia nei lati di esse, sia nella parte alta davano un caratteristico aspetto alle vie, e così pure sulle pergulae si vedeva esposta ogni specie di merce. Le botteghe, largamente aperte, lasciavano poi che dalla strada si vedesse tutta la parte interna del loro ambiente principale, e gli operai che vi lavoravano. Che i proprietarî delle botteghe invadessero la strada con le loro merci ce ne informa Marziale (VI, 61): a tale inconveniente fu però ovviato, allorché Domiziano coi suoi grandiosi lavori di ricostruzione e di abbellimento di Roma, allargò i vici e trasformò in vie le stradicciuole.

Botteghe molto caratteristiche del mondo classico dovevano essere quelle, che, nelle vicinanze dei celebri santuarî, servivano per la vendita di oggetti sacri, specialmente di ex voto (ἀναϑήματα, donaria), e di immagini sacre, come suole avvenire anche oggi.

Le botteghe del mondo classico dovettero avere il loro maggiore sviluppo soprattutto nelle città commerciali o industriali, come Rodi, Corinto, Delo, Pozzuoli e Ostia. Un carattere speciale dovevano avere le botteghe che si aprivano sotto i portici che fiancheggiavano per l'intera lunghezza le grandi arterie di Alessandria d'Egitto, di Antiochia sull'Oronte, e delle altre maggiori città ellenistico-romane della Siria; tali portici dovevano perciò dare presso a poco l'impressione degli odierni bazar delle città orientali.

L'esposizione delle merci, per lo meno in Antiochia, si faceva con tanto gusto, che Libanio (Antioch., 266 segg.; Spano, op. cit., pp. 95 e 97), dice essere più dolce passeggiare in mezzo alle merci esposte in vendita che recarsi nei giardini. Ma magazzini di lusso, più che ogni altra città, dové possedere Roma, soprattutto negli ultimi tempi della repubblica e durante l'impero, magazzini nei quali si raccoglievano così le produzioni naturali più rare e preziose dei lontani paesi, come le più belle opere dell'arte e dell'industria. Al tempo di Domiziano queste botteghe della capitale dovettero raggiungere il maggior lusso. I magazzini più belli si trovavano nei septa: in essi si vendevano mobili di lusso e oggetti di legno finissimo, lavori in avorio, letti tricliniarî intarsiati, statue antiche e moderne, vasi di cristallo e di argento cesellato, tazze murrine, collane di smeraldi, orecchini di perle e via discorrendo. Magazzini di lusso si trovavano anche sulla Via Sacra, dove sappiamo che erano fonderie, oreficerie, gioiellerie, vendite di perle, di pietre preziose, di lavori a cesello, di dadi di avorio, di lacci di Gaeta assai noti, di sfere di cristallo, di ventagli, di frutti e di corone per conviti e di altre cose simili. Caratteristiche, e insieme assai lussuose, dovevano essere le botteghe del Forum Pacis, essendo questo il principale deposito delle merci provenienti dall'Egitto e dall'Arabia, e così pure quelle del Vicus Tuscus destinate alla vendita delle seterie e dei profumi.

Bibl.: V. Chapot, in Daremberg e Saglio, Dictionn. antiq., V, p. 8 segg., s. v. Taberna; per Pompei: A. Mau, Pompeji in Leben u. Kunst, 2ª ed., Lpsia 1908; per Ostia: L. Paschetto, O., colonia rom., Roma 1912; per i Mercati traianei: C. Ricci: Il mercato di Traiano, Roma 1929, ecc.

In Cina. - Nelle città cinesi, per molti secoli, fino al XIX, le botteghe sono state distribuite nelle diverse vie, di solito secondo le professioni, come nelle nostre città medievali. Ogni città ha quindi la strada dei librai, dei falegnami, dei tintori, dei pellicciai, ecc. L'ordinamento corporativo rende utili queste agglomerazioni. Nelle grandi città della Cina moderna, sorgono nuovi grandi magazzini, spesso a molti piani, imitazione di quelli europei, e la loro importanza aumenta, specialmente nei porti di Shanghai, Canton, ecc.

Le botteghe più eleganti hanno facciate interamente scolpite, di legno verniciato con lacca di vari colori; spiccano le farmacie, i monti di pietà, i negozi di stoffe di seta, le botteghe degli antiquarî, i negozi di dolci e di frutta secche, le librerie, i cambiavalute, le cartolerie, le trattorie e osterie, gli alberghi, ecc.

Le insegne propriamente dette, in grandi tabelle a colori smaglianti, a lettere dorate, talvolta orizzontali sopra la porta, spesso verticali su basi di pietra, ai due lati della fronte della bottega, indicano il motto, la divisa del negozio, che esprime un buon augurio, e si riproduce sui pacchi, negli stampati, che avvolgono le merci, ecc. Per esempio in Pechino, Pao Wen Tang "sala della preziosa letteratura" è una libreria; Hsin I "fedeltà e giustizia" è l'insegna di un grande magazzino di merci europee; Tsun Ku Chai "studio delle antichità custodite" insegna di un grande antiquario; Tien sheng "benessere celeste" è l'insegna di un monte di pietà, ecc.

Le botteghe hanno pochi oggetti esposti, sul banco, come nelle botteghe di Pompei, oggi più spesso in vetrina. I negozianti di stoffe espongono lunghe strisce verticali di tessuti. Nella bottega il padrone e i numerosi commessi servono il cliente dietro i banchi. I clienti di riguardo sono ricevuti nelle retrobotteghe, ove osservano gli oggetti più rari e preziosi. In ogni bottega una nicchia è dedicata al dio della ricchezza, a cui si brucia incenso. È raffigurato sotto un albero, carico di monete che cadono a terra come foglie secche e sono raccolte da bambini. Nell'interno della bottega, un'altra nicchia è dedicata alle divinità locali. A capo d'anno tutti i negozî sono decorati con fiori artificiali, fogli di carta rossa col carattere fu (felicità), illuminati da candele di cera rossa; le botteghe espongono, scritti su lanterne trasparenti, indovinelli ed enigmi, per attirare l'attenzione dei passanti. Immancabile nelle botteghe, nella Cina e nel Giappone è il suan-pan, l'abaco (v. fig. 8) sul quale si fanno tutti i conti.

Nel Medioevo e nell'età moderna. - La bottega, quale ce la presentano i rari esempî, risalenti fino ai secoli XII e XIII, e i documenti grafici, anche nel Medioevo dovette avere press'a poco la forma e l'aspetto della bottega romana, quale l'han rivelata gli scavi di Pompei; e salvo poche modificazioni, tale rimase fino al sec. XIX, non solo in Italia, ma nell'Europa occidentale e in parte della settentrionale.

Situata al piano terreno delle case, per lo più modeste, fu distribuita in modo da ottenere all'interno - spesso laboratorio - il massimo di luce possibile, e da permettere un'ampia esposizione della merce in vista dei passanti, che potevano fare così i loro acquisti anche rimanendo nella strada. Ebbe quindi una grande apertura, generalmente ad arco scemo (ma non mancano gli esempî ad arco acuto, e piu tardi quelli ad architrave, che diventano comuni col sec. XV) retto anche (come poi qualche volta l'architrave) da un pilastro intermedio, per aumentarne l'ampiezza, allo scopo di ottener più luce, ma anche di dare il massimo sviluppo ad un largo muricciuolo, alto un metro circa, e chiudente l'apertura per due terzi o tre quarti della larghezza, rimanendo il resto per il passaggio; oppure a due muricciuoli, non sempre uguali, e lascianti tra loro un simile passaggio: muricciuolo o muricciuoli sui quali si distendeva la mercanzia, mentre altra pendeva appesa dall'arco o dall'architrave; talvolta anche sul muricciuolo, in vista di tutti e in miglior luce, l'artiere attendeva al suo lavoro. Donde poi la necessità di riparar sé e la propria merce con delle tettoie, in muratura o in legname - e queste anche mobili - dando poi maggior luce all'interno mediante finestrelle praticate al disopra delle tettoie stesse. Finalmente grossi sportelloni, anche articolati (giranti su cardini, o a ribalta) permettevano di chiudere sicuramente l'ampia apertura. All'interno, un vano coperto di vòlta anche nei tempi più tardi; ma nessuna decorazione, come nelle botteghe di Pompei. Non vi mancava però una nicchia con la sacra immagine oppure un tabernacoletto domestico.

Spesso misere bottegucce si annidarono dovunque; sotto la breve scala esterna del palazzo di parte guelfa in Firenze; o fatte di tavole, nel portico del palazzo ducale a Venezia; o di muratura, tra le colonne dell'atrio del Pantheon in Roma.

Col tempo però il tipo della bottega medievale si andò modificando: ma le mostre, sempre più vistose, appaiono soltanto alla fine del Settecento. Oggi, più che le famose botteghe di Rialto, conservano in parte l'originaria e tipica forma alcune di quelle del Ponte Vecchio, col muricciuolo sotto la vetrina e con sportelloni a ribalta (madielle).

Poiché, come è noto - e ne rimane ricordo nei nomi di molte strade tanto in Italia che fuori - botteghe di uguali merci erano spesso riunite o in un'unica via o in un dato quartiere della città, per meglio distinguere una bottega dall'altra dovette ben presto comparire l'insegna: e poté dapprima consistere in uno degli oggetti che si vendevano nella bottega stessa, mentre le osterie ne adottavano di speciali e singolari, seguite in ciò dalle spezierie (in Firenze fino al Quattrocento si ebbero quelle del Pavone, del Gallo, delle Colombe, ecc.) e in ultimo dalle cartolerie e librerie. Ma non mancano esempî di insegne particolari anche per altre botteghe; tanto che alla fine del sec. XVI, in Ruga degli orefici a Rialto, v'erano una bottega di ageminatore "all'insegna della Colomba", ed una di orafo "all'insegna della Rosa". Il mercante di quadri Gersaint, che aveva bottega sul Pont-Notre-Dame di Parigi, all'insegna del Gran Re, ebbe dipinta dal Watteau quell'insegna - un capolavoro ora nel museo di Berlino - che ci presenta l'interno del suo negozio con gli amatori e con gl'imballatori dei quadri e attorno quella rara merce che copre le pareti, come si può vedere in tanti "interni" di antiquarî e mercanti dipinti da pittori fiamminghi.

Come abbiamo accennato, la vendita si faceva generalmente dall'interno all'esterno della bottega; cioè sulla strada. L'affresco di A. Lorenzetti nel palazzo pubblico di Siena, e le miniature lombarde del Tacuinum sanitatis per il sec. XIV; gli affreschi del castello di Issogne in Val d'Aosta, per il sec. XV; vecchie vedute fiorentine di Mercato Vecchio, ci provano come la vendita si facesse al muricciuolo o al banco che lo sostituiva; e che dentro la bottega, se la merce non poteva essere appesa al soffitto o alle pareti, o tenuta in casse e ceste, sacchi ed orciuoli, v'erano tutt'al più degli scaffali di assi posate su beccatelli, in più un banco e gli strumenti del mestiere, e ovunque il "libro di bottega".

Varia era la merce nelle botteghe, anche se gli officiali delle arti o delle corporazioni vigilavano a far osservare gli statuti che - ad evitare la concorrenza - contemplavano infiniti divieti e limitazioni. Così gli speziali - almeno a Firenze e a Trieste - vendevano anche carta, pergamena, penne d'oca, inchiostro e perfino libri; i merciai, di tutto un po', tranne cose da mangiare; a Perugia nel Cinquecento, in una stessa bottega, si potevan trovare forzieri, Madonne, specchi, maschere, paesi, figure, ecc.: ma in certi fondachi, ove si scaricava quanto veniva importato dal di fuori, si poteva comprare di tutto; come nella bottega di Maria Contarini e di Filippo Castigne a Trieste, che nel Trecento offriva dai panni e dalle stoffe, dalle camicie e dai brachieri alla carta da scrivere e alle candele di cera, allo zucchero e all'uva secca, nonché "zoie" in perle d'oro e cuffie d'oro ecc. (V. tavola a colori).

Ai nostri giorni, se i grandi "magazzini" hanno ancora la varietà di merce dei vecchi fondachi, le botteghe si sono sempre più specializzate raffinando anche i mezzi di richiamo con mostre disposte con arte e sempre più razionalmente illuminate.

Botteghe di artieri e di artisti. - La bottega non serviva soltanto di deposito di merce da vendere; era al tempo stesso laboratorio, quando questo non occupava un retrobottega o qualche ammezzato o palco, ove stavano generalmente i garzoni o discepoli - cui spesso il maestro dava anche vitto ed alloggio - e i lavoranti, in attesa di poter aprire bottega da loro. E le tavolette delle arti veneziane ci mostrano come fino nel Settecento anche "peteneri" e "coroneri" avessero laboratorio e bottega uniti o contigui. E bottega avevano non solo gli artieri più umili, ma anche quelli che si sono chiamati poi artisti: scultori, pittori, orafi. Giotto aveva bottega forse nel popolo di Santa Maria Novella, ove abitava; ed Andrea Tafi - almeno a quanto ce ne racconta il Sacchetti (nov. CXC) - aveva casa e bottega unite, come a Siena quel Mino che faceva crocifissi a rilievo (id., nov. LXXXXIV). Anche a Venezia sembra che generalmente i pittori avessero pure casa e bottega: i Bellini a S. Geminiano, i Vivarini a S. Maria Formosa. Ma a Firenze scultori, pittori, orafi, avevano generalmente casa - spesso propria - un po' fuori dal centro, e bottega - quasi sempre a pigione - nelle vie più frequentate: Masaccio da Badia, Paolo Uccello in Terma, i Pollaiuolo e Maso Finiguerra in Vacchereccia, i Ghirlandaio anche in via Rondinelli; e un tratto di quella che è oggi la via dei Calzaiuoli, si chiamava Corso dei Pittori per le numerose botteghe che di questi vi esistevano. Però, almeno Mino da Fiesole doveva avere un laboratorio, oltre che nella bottega, anche nella sua casa di via Pietrapiana, come dimostrano i disegni che vi sono stati scoperti sotto lo scialbo.

Alcune di queste botteghe erano vere e proprie officine ove si eseguiva ogni sorta di lavoro; dai più umili, come oggetti d'uso, ai più cospicui destinati a decorare chiese e palazzi. I documenti ci dicono che anche i sommi maestri non disdegnavano di colorire o far colorire bandiere e cofani, e di scolpire o far scolpire camini e vaschette. Una novella (LXIII) del Sacchetti ci dimostra come Giotto stesso accettasse di dipingere anche un palvese. Gli è che oltre al maestro, che dava generalmente il disegno, ed eseguiva spesso il cartone o il modello, v'erano nella bottega aiuti provetti che spesso assumevano la direzione di questa, come Piero di Cosimo in quella di Cosimo Rosselli; e v'erano discepoli, che dal macinar colori e da altre umili pratiche, passavano per gradi a più alte mansioni. A Firenze alla metà del Trecento la bottega degli Orcagna, e meno di un secolo dopo quelle dei Gerini e dei Bicci potevano accontentare una così numerosa clientela, che anche oggi opere loro sono diffuse per tutto il contado fiorentino, senza considerare quelle disperse dovunque o distrutte. A Padova lo Squarcione più che una bottega aveva una vera e propria impresa; e a Venezia occorrevano forti raccomandazioni per essere accolti nell'officina dei Bellini.

Ma nel Cinquecento le botteghe degli artisti scompaiono, e i documenti ricordano solo le case del Cellini o del Giambologna, di Tiziano o del Tintoretto. Ormai all'antica bottega, ove si erano formati i più grandi artisti dal secolo XIV al XVI, si andavano sostituendo la cosiddetta "accademia" e lo "studio".

In tempi a noi più vicini la voce bottega, andata sempre più decadendo, è generalmente sostituita da negozio (v.).

Bibl.: E. Viollet-le-Duc, Dict. de l'Architecture française, II, Parigi 1875, pp. 243-251; L. T. Belgrano, Della vita privata de' Genovesi, 2ª ed., Genova 1875, p. 153; G. Caprin, il Trecento a Trieste, Trieste 1897, pp. 58-59; L. Manzoni, Statuti e matricole dell'arte dei pittori ecc., Roma 1904, passim; A. Schiaparelli, La casa fiorentina nei secoli XIV e XV, Firenze 1908, pp. 41-44; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, 6ª ed., Venezia 1922-26, passim; A. Chiappelli, Case e botteghe di antichi artefici di Firenze, in Arte del Rinascimento, Roma 1925, pp. 202-209; L. Frati, La vita privata in Bologna, Bologna 1928, pp. 215-219; E. Levi, Botteghe e canzoni della vecchia Firenze, Bologna 1928; G. Fogolari, Le tavolette delle arti veneziane, in Dedalo, IX (1928-29), pp. 723-742.

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