BONAVENTURA da Bagnoregio, santo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 11 (1969)

BONAVENTURA da Bagnoregio, santo

Raoul Manselli

Nacque a Civita di Bagnoregio, nella Tuscia romana, da un medico di elevata condizione familiare, Giovanni di Fidanza, e da Maria di Ritello. Battezzato col nome paterno, Giovanni, trascorse i primi anni della sua vita nella città natìa.

Una tradizione vorrebbe la famiglia di B. legata da parentela con l'omonima nobile famiglia dell'Aquila e di Città di Castello, ma nessun documento la conferma, sì che essa è da ritenersi solo un tentativo di innalzare socialmente l'origine del santo. Inoltre, Fidanza sarebbe nome del nonno di B., e non cognome (G. Abate, Per la storia e la cronologia di s. B., in Miscellanea Francescana, XLIX [1949], pp. 536 s.).

È poi assai controversa la data di nascita, che a lungo è stata fissata al 1221 sulla base di un calcolo basato sull'indicazione dell'età della morte, 53 anni, secondo la Chronica XXIVgeneralium (in Analecta Franciscana, III, ad Claras Aquas 1897, p. 356): è stato però autorevolmente notato da G. Abate (Miscellanea Francescana, L [1950], pp. 106 ss.) che la data tradizionale deve essere anticipata di alcuni anni, poiché B. doveva avere almeno trentacinque anni nel 1253, quando conseguì il dottorato in teologia, per il quale era tassativamente prescritta un'età minima (né risulta che B. avesse avuto dispensa in proposito): e dunque la nascita di B. andrebbe posta intorno al 1217.

Nulla sappiamo della sua fanciullezza, se non d'una malattia gravissima che lo colpì quand'era ancora puerulus (cioè nei primi tempi della pueritia, poco dopo i sette anni): fu allora votato dalla madre a S. Francesco, come egli stesso racconta più volte, nel ricordo di un'esperienza che ebbe certo influenza, come egli nota, sulle vicende successive della sua vita. Non sembra comunque avere avuto alcun rapporto personale con S. Francesco, che mai ricorda di aver visto o incontrato.

Non sappiamo dove e con chi abbia studiato a Bagnoregio. Che sia stato oblato e abbia ricevuto la prima educazione nel convento minoritico di Bagnoregio è circostanza indicata solo nella bolla di canonizzazione emanata da Sisto IV (Etsi sedes, 14 ott. 1482), e non suffragata da alcun documento".

Recatosi a Parigi nel 1236 per compiervi gli studi teologici, seguì l'insegnamento del grande Alessandro di Hales (che entrava, appunto in quel periodo, nell'Ordine francescano), al quale più volte esprime nelle sue opere profonda devozione e vivo affetto. Nell'ambito dell'insegnamento di Alessandro di Hales B. poté conseguire il grado di maestro in artibus, e sotto la sua guida e influenza, come sembra risultare da una testimonianza ammirativa dello stesso B. (Epist. de tribus quaestionibus, in Opera, VIII, p. 355), entrò nel 1243 nell'Ordine minoritico, assumendo il nome di Bonaventura, e fu affiliato sia pure a distanza alla provincia romana, secondo quanto consentivano le costituzioni dell'Ordine (A. Callebaut, L'entrée de st. B. dansl'Ordre des Frères Mineursen 1243, in France Franciscaine, IV [1921], pp. 41-51).

Dal 1243 al 1245 compì i due anni di noviziato e dal 1243 al 1248 compì gli studi teologici. Non abbiamo notizie precise sui suoi maestri, ma è molto probabile che egli abbia seguito i corsi di Guglielmo di Melitone e di Eude Rigaud. Al termine del quinquennio ebbe il titolo di baccelliere biblico, iniziando così il suo insegnamento, come era prescritto, con l'esegesi di testi della Sacra Scrittura; nel 1250-52 passò a commentare le Sentenze, finché nel 1253, ebbe il titolo di maestro.

A questo periodo risalgono, sembra, un gruppo di Postillae ad alcuni testi biblici: all'Ecclesiaste (che vennero successivamente adoperate e citate largamente: B. Smalley, The study of the Bible in the Middle Ages, Oxford 1952, p. 274), al Vangelo di s. Giovanni (a cui fu affiancato un commento più ampio, le Collationes). Assai discussa è l'autenticità delle postille sulla Sapienza.

A questi anni risale anche il commento al Vangelo secondo s. Luca, redatto, in base a una testimonianza di fra' Salimbene de Adam (Cronica, a cura di G. Scalia, Bari 1966, p. 435), intorno al 1248, ma che nella forma in cui ora lo possediamo è stato rimaneggiato negli anni della maturità.

Della attività di commentatore delle Sentenze in qualità di baccelliere ci resta un gruppo di Dubia circa litteram magistri, mentre agli anni successivi al 1248 va ascritto il grande commento alle Sentenze che, secondo l'opinione generalmente accolta dagli editori delle opere di B., venne composto partendo dal quarto libro e concludendo col terzo, che di tutti si mostra il più maturo e profondo.

Sempre in quegli anni, e nell'ambito di un'attività pastorale che in B. non si scompagnò mai da quella magistrale e teologica, furono composti i Sermones de tempore (cfr. J. G. Bougerol, Introduction, pp. 204-205, donde risulta che questi sermoni vennero composti fra il 2 ott. 1250 e il 15 ott. 1251: datazione, questa, che ci sembra preferibile a quella di P. Glorieux, La collection authentique dessermons de saint Bonaventure, in Revue de théol. ancienne et médiévale, XXI [1955], pp. 119-125).

Negli anni 1253-54 iniziò, all'età prescritta di trentacinque anni, il suo insegnamento, venendo così a trovarsi nel momento iniziale, e per molti rispetti il più critico, dello scontro fra maestri secolari e maestri mendicanti allo Studio di Parigi.

Nel 1252 i maestri secolari, che avevano visto con notevole malanimo il crescente successo dei maestri predicatori e minori, stabilirono, con un decreto preparato segretamente, il divieto di aprire nuovi collegi o di ampliare e accrescere quelli già esistenti: misura, questa, che colpiva specialmente i francescani, i quali, appunto, non avevano ancora nessun collegio. In risposta i maestri mendicanti non aderirono, qualche mese dopo, alla sospensione delle lezioni con cui i maestri secolari espressero la loro solidarietà agli studenti vessati dal duro trattamento delle autorità della città di Parigi.

Questo primo contrasto, sopito verso la fine del 1253 anche per l'autorevole e accorto intervento del ministro generale dei minori Giovanni da Parma, venne seguito da un altro, anche più grave. Uno dei più ascoltati maestri dello Studio parigino, Guglielmo di Saint-Amour, era riuscito a ottenere dal papa Innocenzo IV, con la bolla Etsi animarum del 21 nov. 1254, la sospensione di tutti i privilegi in precedenza accordati ai mendicanti. Inoltre Guglielmo sferrò un violento attacco in primo luogo contro i minori, ma in realtà anche contro i predicatori, coinvolgendoli nella polemica contro la diffusione in seno ai francescani delle dottrine di Gioacchino da Fiore. Proprio in quel tempo, infatti, i maestri avevano condannato l'opera del minorita Gerardo da Borgo San Donnino che nel suo Introductorius in Evangeliumaeternum aveva esaltato l'opera dell'abate florense come l'evangelo della nuova terza età ormai imminente. Guglielmo pubblicava prima un De Antichristo (1254), poi (1256) un De periculis novissimorum temporum (già dal titolo è chiaro il richiamo alla descrizione degli ultimi tempi della seconda lettera di s. Paolo a Timoteo), in cui specialmente i francescani venivano indicati come gli ipocriti che alla fine dei tempi e all'approssimarsi del ritorno di Cristo giudice avrebbero distolto i fedeli dalla fede e li avrebbero indotti alla superstizione, servendosi appunto della mendicità e della ostentata loro povertà per ingannare con false apparenze le anime semplici.

Anche se condannato immediatamente nel 1256 (5 ottobre), il De periculis ebbe una vasta risonanza fino nel mondo laico che al contrasto si appassionò vivacemente, come provano le poesie di Rutebeuf e quella parte del Roman de la Rose ove sono proprio i mendicanti, anzi precisamente i francescani, a far da modello alla figura di Falsembiante.

In questo scontro, e per la virulenza e l'eco dell'opera di Guglielmo, B. intervenne con energia contro il De periculis con le sue Quaestiones de perfectione evangelica, con ogni probabilità scritte prima del 5 ott. 1256; infatti B. non ricorda in nessun modo la condanna papale.

Le Quaestiones, che non nominano mai Guglielmo, come voleva appunto l'uso corrente, non gli rispondono direttamente e punto per punto, ma riprendono su di un piano organico e generale il problema della perfezione cristiana quale è indicato dal Vangelo. Nello studio e nella discussione della virtù che Gesù Cristo stesso ha praticato nella sua vita con i discepoli, e di cui è quindi stato a tutti esempio, B., con vigoria di teologo e ben dissimulata finezza di polemista, mostra come l'ideale francescano - che non viene praticamente ricordato ma che è il sottinteso di tutta l'opera - coincide in realtà con quello evangelico.

La partecipazione vivacissima di B. ai contrasti dello Studio di Parigi non interrompeva certo la sua attività magistrale e lo sviluppo della sua opera di filosofo e di teologo, come prova la composizione di una delle sue opere di maggiore impegno e rilievo, il Breviloquium de intelligentiascripturae et fideichristianae, scritto appunto intorno al 1257.

Questa robusta sintesi teologica (che cronologicamente segue due fra le più impegnate Quaestiones disputatae: De scientiaChristi e De mysterio Trinitatis) si presenta come una guida ai problemi che possono nascere a un tempo dalla lettura della Bibbia e delle Sentenze, e che B. vuole affrontare tenendo presente Dio, per non venire meno all'esigenza primaria della teologia, che è scienza di Dio, come dice in una precisazione di fondamentale importanza: "in assignatione rationum in omnibus, quae in hoc toto opuscolo vel tractatulo continentur, conatus sum rationem sumere a primo principio, ut sic ostenderem, veritatem sacrae scripturae esse a Deo, de Deo, secundum Deum et propter Deum, ut merito ista scientia appareat una esse et ordinata et theologia non immerito nuncupata" (Breviloquium, prol., § 6, in Opera, V, p. 208).

Proprio mentre era così vivacemente impegnato nelle discussioni parigine e attento al suo compito di maestro, B. veniva chiamato a nuove e più alte responsabilità dalle vicende interne del suo Ordine.

Il generalato di Giovanni da Parma, chiamato a reggere l'Ordine nel 1247, aveva sopito ma non eliminato il contrasto tra coloro che volevano mantenere ferma l'adesione dei frati al primo ideale di S. Francesco - e frate Giovanni era fra questi - e coloro che ritenevano opportuna una qualche apertura a concessioni (ad esempio, alleggerimenti relativi alle rigide norme sull'accettazione delle offerte e del denaro e la costruzione delle chiese e dei conventi) che permettessero all'Ordine una maggiore agilità organizzativa e una più precisa incidenza sulla vita dell'epoca.

A tale contrasto s'aggiungeva, accrescendolo, il fatto che una buona parte dei rigoristi - fra loro ancora una volta era incluso Giovanni da Parma - avevano accettato le dottrine di Gioacchino da Fiore circa l'imminente inizio d'una terza età della Chiesa in cui un Ordine, predisposto dalla provvidenza divina, avrebbe avuto una funzione di guida per tutti i fedeli nell'attesa della venuta di Cristo. Per questi gioachimiti, l'Ordine profetizzato da Gioacchino era senza dubbio quello francescano. Ma proprio questo gruppo ebbe gravemente a soffrire, in seno alla stessa comunità minoritica, quando l'esasperazione delle loro idee ad opera del già ricordato Gerardo da Borgo San Donnino suscitò l'accanita opposizione dei maestri parigini e la condanna di alcune tesi di Gioacchino da Fiore ad opera della commissione teologica cardinalizia di Anagni.

E poiché la condanna del gioachimismo colpiva inevitabilmente i frati che ne seguivano le idee e quindi lo stesso Giovanni da Parma, non c'è da meravigliarsi che il papa Alessandro IV, il quale con la bolla Quasi lignum vitae del 14 apr. 1255 aveva dichiarato tutto il suo appoggio ai mendicanti, consigliasse il ministro generale a dare le sue dimissioni, sia pure per soli motivi di opportunità, e non certo perché intellettualmente o moralmente indegno.

Ciò risulta chiaramente dalla circostanza che nel capitolo di Roma del 2 febbr. 1257, ove non a caso era presente anche lo stesso papa, Giovanni da Parma venne a lungo pregato dai presenti di recedere dalle sue dimissioni e poi, quando rimase fermo nella sua decisione, ovviamente per gli impegni presi col pontefice, fu richiesto di voler designare il suo successore. Egli designò allora B., che dava prima di tutto affidamento di vita francescanamente conforme all'ideale del fondatore e di equilibrio di giudizio (tali qualità Giovanni aveva potuto notare in particolare nei non pochi incontri che con lui aveva avuto a Parigi durante il contrasto con i maestri secolari, quando B. era stato reggente dello Studio, succedendo a Guglielmo da Melitona). Le qualità ben sperimentate di maestro e di teologo facevano inoltre di B. una personalità non solo superiore a ogni discussione fra i minori, ma anche da tutti apprezzata pure nell'ambito più ampio della Chiesa. B. era certo assai stimato da Alessandro IV se questi, anche dopo la sua nomina a ministro generale, intervenne decisamente presso l'università di Parigi, prima con un ordine verbale (ottobre 1256) e poi con una bolla (2 ott. 1257), perché a B. venisse riconosciuto il titolo di magister cathedratus che, del resto, gli spettava alla conclusione dei suoi studi e della sua attività di insegnante.

B., eletto dunque ministro generale a quarant'anni, si dedicò subito a problemi lasciati in sospeso dal suo predecessore, di cui tuttavia sembrò continuare le direttive fondamentali per quanto riguardava la vita interna dell'Ordine, come mostra la sua prima lettera a tutti i minori del 23 apr. 1257, ispirata a indubbia severità e rigore (Opera, VIII, p. 468).

Da Giovanni da Parma si distaccò invece nettamente a proposito dell'atteggiamento relativo alle infiltrazioni gioachimite. Specialmente severo fu con Gerardo da Borgo San Donnino. Le idee di quest'ultimo, già condannate da Alessandro IV con le bolle del 23 ott. e 2 nov. 1255 e dell'8 maggio 1256, erano certo state con cura distinte da quelle dei restanti minori, ma questa precisazione non aveva impedito a molti di confondere l'uno e gli altri in un sol biasimo e in un'unica condanna. Si rendeva pertanto necessaria una decisa presa di posizione che distinguesse le tesi di Gerardo e l'atteggiamento dei minori. A tal fine B. intervenne personalmente, durante il suo soggiorno in Francia tra la fine del 1257 e l'inizio del 1258: Gerardo venne privato del suo ufficio di lettore e della autorizzazione a predicare e ad ascoltare confessioni; quando poi inoltre, invitato a riconoscere il suo errore, si rifiutò di farlo, insistendovi anzi con pertinacia, venne spedito in Sicilia ove rimase in carcere diciotto anni, in isolamento completo fino alla morte.

Di questa severità bisogna tener conto nel valutare il comportamento di B. di fronte a Giovanni da Parma, che già per i contemporanei fu oggetto di vivaci discussioni: con sdegnate sottolineature, ad esempio, ne trattavano Angelo Clareno nella sua Historiaseptem tribulationum e gli Actus beati Francisciet sociorum eius (e quindi i Fioretti); un silenzio non privo di significato troviamo, fra gli altri, in Ubertino da Casale. Gli studiosi moderni oscillano tra l'impegnata riflessione del Gilson (pp. 19 ss.) e l'aperta attenuazione del Di Fonzo (col. 241). La difficoltà è accresciuta dal fatto che l'unica testimonianza sul processo a Giovanni da Parma è quella di Angelo Clareno (Historia septem tribulationum, ediz. F. Ehrle, in Archiv fürLiteratur- und Kirchengeschichte, II [1886], pp. 106 ss., 277 ss.) non certo imparziale, anche se rafforzata, proprio per la sua unicità, dal silenzio indubbiamente imbarazzato di tutte le altre fonti (fra cui specialmente significativa la Cronica di fra' Salimbene, che pur doveva essere bene informato sui fatti, se pensiamo all'interesse ed alla curiosità con cui segue il suo illustre ed amato concittadino Giovanni). Comunque - così la conoscenza del modo di raccontare del Clareno induce a credere - la tendenziosità rimane limitata non alla realtà dei fatti, ma alla loro interpretazione.

La data della decisione presa circa Giovanni da Parma non ci è indicata con precisione, ma con molta verosimiglianza si può fissare nell'estate del 1261, quando B. rientrò per una permanenza abbastanza lunga in Italia, dopo un lungo giro di visite nei conventi dell'Ordine (in Francia e in Inghilterra nel 1258; in Germania nella primavera del 1259; poi ancora in Francia nell'estate 1259; nell'ottobre era per breve tempo in Italia, alla Verna, e poi nella Francia meridionale, profondamente infiltrata di gioachimismo; tra l'estate e l'autunno 1260 era ancora in Umbria, ove il 3 ottobre assistette in Assisi alla traslazione del corpo di S. Chiara; e a Parigi si trovava nell'inverno del 1260-61).

Giovanni venne convocato dinanzi al ministro generale e ad altri frati, e invitato a ritrattare la sua adesione al gioachimismo: gli fu fatto capire, sembra, che non si accettavano mezzi termini e che, eventualmente, si sarebbe proceduto fino in fondo (questo riteniamo voglia significare la frase attribuita a B. da Angelo Clareno: che, se non fosse stato per l'onore dell'Ordine, avrebbe fatto punire pubblicamente Giovanni come eretico: cfr. Historia septem tribulationum, p. 285). L'antico ministro generale con una formula consueta dichiarò di credere e di avere sempre creduto circa le questioni su cui era interrogato soltanto ciò che crede la Chiesa e insegnano i santi.

Tuttavia, per quegli stessi motivi di opportunità per cui s'era tenuto il processo, B., confortato anche dal parere di altri frati e dal consenso del cardinale protettore dell'Ordine, Gaetano Orsini (il futuro Niccolò III), avrebbe condannato Giovanni da Parma alla reclusione perpetua se non fosse intervenuto con energia Ottobono Fieschi (anch'egli poi papa, Adriano V) a ottenere un più mite trattamento. Comunque - e ciò sembra confermare un impegno di severità da parte di B. -, Giovanni da Parma ottenne certo di potersi ritirare in un convento a sua scelta - e fu quello di Greccio -, ma vi rimase di fatto confinato, senza poter mai più esercitare la benché minima influenza in seno all'Ordine.

La decisione senza dubbio difficile e dolorosa nei riguardi del suo predecessore va, d'altra parte, inquadrata e compresa anche nello sfondo dell'attività che B. aveva svolto prima del suo ritorno in Italia e, soprattutto, del significativo successo che egli aveva colto nel capitolo generale di Narbona nella Pentecoste (23 maggio) del 1260.

In questo capitolo vennero, sotto la direzione di B., preparate e approvate una serie di costituzioni, che migliorarono, riordinandole e completandole, le precedenti, specialmente in relazione agli accresciuti impegni e alla diffusione sempre più, ampia dell'Ordine. Certo il segno più caratteristico e preciso del consenso che il nuovo ministro generale aveva saputo riunire intorno a sé rimane l'incarico ufficialmente confidatogli di scrivere una biografia di S. Francesco che valesse per tutto l'Ordine e indicasse attraverso le umane vicende e i tratti personali del santo fondatore l'immagine ideale del francescano autentico, sì da eliminare le precedenti biografie che molti frati ritenevano indiziate di grave tendenziosità.

Consapevole dell'importanza del compito assegnatogli, B. vi si accinse con ogni scrupolo, curando la sua informazione sulla base delle biografie già esistenti e di notizie orali che egli si preoccupò di raccogliere.

Nel racconto delle vicende di S. Francesco B. si preoccupò di attenuare - e ne fu perciò rimproverato, ad esempio, da Ubertino da Casale - tutto quanto poteva offrire adito ai minoriti rigoristi di esasperare le loro idee; ma non mancò di sottolineare, contro ogni lassismo, l'adesione ferma e precisa del santo al Vangelo, la sua esigenza di povertà totale, la sua deliberata, consapevole conformità a Cristo indicato sempre come inarrivabile eppure ineliminabile modello. Contemporaneamente B. cercò di curare la determinazione del posto spettante a S. Francesco nella storia della Chiesa e della rivelazione cristiana, sottolineando il significato provvidenziale della sua venuta. Questa biografia, dunque - nota come Legenda maior, per distinguerla da quella minor destinata al coro -, ben più che un tentativo, accorto o meno, di conciliare opposte tendenze, si pone quale sforzo di interpretare una figura storica nella sua validità come esempio di vita religiosa e come luce e guida della Chiesa tutta nelle vicende storiche che l'attendevano.

Non riteniamo che il plauso con cui la Legenda fu accolta nel capitolo generale di Pisa (Pentecoste, 20 maggio) del 1263 sia stato solo un omaggio all'autorità del ministro generale; fu, piuttosto, il riconoscimento dovuto a un'opera di difficile attuazione compiuta con impegno sapiente. Né dobbiamo meravigliarci del fatto che lo stesso B. ordinò la distruzione delle precedenti biografie di Francesco: ciò rispondeva alle esigenze pratiche dell'Ordine, in un momento storico in cui non v'erano le preoccupazioni filologiche e testuali dei nostri tempi.

Seguono anni di vigile e attivo governo dell'Ordine, in cui B. non incontrò in pratica né opposizioni né resistenze, ma raccolse piuttosto unanimi consensi: il rispettoso ricordo, senza riserve, d'un Pietro di Giovanni Olivi, il più grande degli spirituali di Francia che lo conobbe a Parigi e che lo sentì predicare, è un fatto la cui importanza va decisamente riconosciuta e non può essere certo sminuita dalle già ricordate limitazioni di Angelo Clareno e di Ubertino da Casale.

B. viaggiò moltissimo, recandosi nella Francia meridionale nell'inverno del 1263-64, ritornando in Italia nella primavera del 1264 per ripercorrerla da nord a sud e viceversa almeno due volte, ritornando poi nell'inverno in Francia. Rientrato in Italia nella primavera del 1265, era di nuovo in Francia quando gli venne da Clemente IV, da poco eletto al soglio pontificio, la nomina ad arcivescovo di York; ma la rifiutò.

Due anni, il 1266 e il 1267, trascorsero interamente in Francia, e questo non fu certo un fatto casuale, se badiamo al rinnovato esplodere dei contrasti all'università di Parigi, in occasione di un ritorno offensivo dei maestri secolari. Gerardo di Abbeville, in risposta al francescano Tommaso di York, si ricollegava infatti alla polemica di Guglielmo di Saint-Amour, ripetendone gli argomenti; in particolare, rimproverava alla povertà francescana di essere un comodo pretesto d'oziosità, e alla spiritualità minoritica di essere infetta di gioachimismo, teologicamente insostenibile quanto pericoloso alla fede.

B., che aveva di nuovo svolto attività d'insegnamento a Parigi - di questo periodo sono le Collationes de decem praeceptis (marzo-aprile 1267) e le Collationes de septem donis (marzo-aprile 1268) -, ritornato a Parigi nell'autunno 1269 vi scriveva l'appassionata Apologiapauperum contra calumniatores (Opera, VIII, pp. 233-330), la più bella esaltazione del francescanesimo.

Richiamandosi ai "giorni ultimi", a quegli ultimi tempi, cioè, che Guglielmo nel De periculis aveva prospettato come argomento di attacco contro i minori, B. sottolineava contro Guglielmo come - "diebus istis novissimis" appunto - "lo splendore della verità evangelica rifulgeva di più evidente chiarezza" grazie proprio al nuovo Ordine francescano, mentre il perverso attacco della malizia serpentina (ossia dei maestri secolari) si era sforzato di rendere odiosa la "professione dei poveri di Cristo" con false accuse. A tali accuse si contrappone l'esempio di Cristo umile e povero, mentre, successivamente, di capitolo in capitolo, si articola la difesa della povertà minoritica, che viene prospettata alla fine dell'opera come la vera e certa rinuncia alla proprietà, al denaro sia in proprio che in comune, e come premessa necessaria alla imitazione di Cristo.

Quest'opera - insieme con le già ricordate Quaestiones deperfectione evangelica - è di importanza fondamentale come nitida presa di coscienza della spiritualità francescana, nello sforzo di operare - in una più approfondita disamina, anche teologica, della Sacra Scrittura e in specie del Nuovo Testamento un rafforzamento e una sistemazione di quell'evangelismo che aveva costituito l'ideale di vita di S. Francesco.

Poco dopo la composizione dell'Apologia B. riprendeva un periodo di viaggi: nella Francia meridionale, in Spagna, poi di nuovo in Francia e ancora in Spagna, donde tornò a Parigi per recarsi quindi in Germania, ove si trattenne tutto l'inverno spingendosi fino nel Nord.

Rientrato in Italia vi restò, passando di convento in convento, tutto l'anno 1271 ed i primi mesi del successivo. Il 12 giugno, alla Pentecoste, era a Lione per celebrarvi il capitolo generale (A. Callebaut, Le chapitre général de 1272célébré à Lyon, in Arch.Franc. Histor., XIII [1920], pp. 305-317), e là si trattenne alcuni mesi (tranne una puntata a Barcellona).

Nella primavera, a Parigi, componeva una delle sue opere più splendide, le Collationes in Hexaëmeron, pronunciate fra la Pasqua e la Pentecoste (9 aprile-28 maggio 1273). Lo stesso giorno di Pentecoste veniva disposta la sua nomina a cardinale vescovo di Albano da parte del papa Gregorio X (A. Callebaut, La date du cardinalat..., in Arch. Franc. Histor., XIV [1921], pp. 401-414).

I due si conoscevano da molti anni, probabilmente fin dal tempo in cui il futuro pontefice studiava all'università di Parigi (prima, dunque, del 1252, quando già risulta in possesso del titolo di magister). B. era poi nel Viterbese mentre i cardinali faticosamente cercavano un compromesso nel conclave che doveva concludersi il 1º dic. 1271 con l'elezione, appunto, di Gregorio X; ebbe anzi, come sembra, qualche efficacia nell'accelerare l'opera dei cardinali, anche se è quasi certamente da escludere una sua qualche partecipazione, sia pure indiretta, al compromesso che approdò alla designazione di un pontefice estraneo al collegio dei cardinali.

Certo Gregorio X aveva per lui la più alta stima se immediatamente lo chiamò presso di sé e da lui volle essere accompagnato nel suo viaggio dall'Italia a Lione. B. lo raggiunse infatti, nel luglio 1273, in Toscana, a Santa Croce di Mugello, ove il papa giaceva malato e si tratteneva nella speranza di realizzare un accordo a Firenze fra Guelfi e Ghibellini in lotta (R. Davidsohn, Forschungen zurGeschichte von Florenz, IV, Berlin 1908, p. 216). Fallita la speranza di un accordo e ripreso il viaggio, B. era sempre col pontefice a Bologna, il 14 settembre, ove rimase parecchi giorni; poi, passando per Modena e Parma, raggiungeva il 2 ottobre Piacenza. Giunto a Milano, B. assisteva ad un altro vano tentativo di pacificazione operato dal papa, fra Torriani e Visconti. Passando per il Moncenisio, raggiungeva Chambèry all'inizio di novembre e, pochi giorni dopo, Lione, dove fu subito impegnato nella preparazione del concilio. Prima però il papa volle personalmente provvedere alla consacrazione episcopale di B., che ebbe luogo, come sembra, l'11 o il 12 nov. 1273 (A. Callebaut, Le voyage du b.Grégoire X et dest. B. auconcile de Lyonet la date du sacrede st. B., in Arch. Franc.Histor., XVIII [1925], pp. 169-180).

I lavori del concilio ebbero inizio il 7 maggio del 1274: nella solenne cerimonia di apertura, B. sedette con gli altri cardinali vescovi alla destra del pontefice Gregorio X.

L'impegno principale di B. nell'ambito dei lavori conciliari fu quello relativo alla difesa degli Ordini mendicanti, in particolare dei francescani, minacciati dalla latente ma diffusa ostilità del clero secolare e di parte della gerarchia, e minacciati all'interno dal pullulare di movimenti pauperistici minori, che ora esasperavano (come gli apostolici) ora affiancavano in forme diverse (come, ad esempio, i saccati) il movimento francescano.

Sempre sensibile alle ostilità contro i minori, B., esaminate le accuse che ne stavano alla base - e che si compendiavano nel fatto che i frati erano attivissimi nella cura delle anime, nel percepire elemosine e nell'accogliere sepolture nelle chiese francescane, sì da sembrare in competizione con le chiese parrocchiali -, aveva provveduto a rispondervi in due sue opere, le Determinationes quaestionumcirca regulams. Francisci (Opera, VIII, pp. 337-374) e il trattatello Quare fratresminores praedicentet confessionesaudiant (ibid., pp. 375-385).Con la forza e il prestigio della sua personalità, B. riuscì a evitare ogni menomazione dei minori, anche perché, coerentemente alle idee espresse in precedenza, non esitò a sacrificare quei gruppi religiosi ispirati alla povertà che non erano riusciti a superare se non di poco un'importanza locale, e che per il loro disordine organizzativo o per il loro attivismo entusiastico erano motivo di contrasti vivaci con le autorità diocesane. Concordata anche una comune linea di condotta con i domenicani, e contando sull'appoggio di Gregorio X, B. riuscì pertanto a evitare il peggio: la costituzione Religionum diversitatem, emanata nell'ultima sessione del concilio, il 17 luglio (quando, dunque, da due giorni B. era morto), stabiliva che fossero sciolti tutti i gruppi religiosi che non avessero una regola approvata dalla Sede apostolica prima del IV Concilio lateranense: ma francescani e domenicani, pur istituiti posteriormente, venivano esplicitamente eccettuati, per "la evidente utilità" che essi arrecavano alla Chiesa.

Durante il concilio i francescani tennero il loro capitolo generale, come di consueto, il giorno di Pentecoste, il 20 maggio. In questa occasione B. cessò dalla carica di ministro generale, in cui fu sostituito da Gerolamo d'Ascoli.

Quando, fra la seconda e la terza sessione del concilio, alla fine di maggio, tutti i prelati furono convocati nella chiesa di S. Giovanni Battista per ricevere l'annuncio del prossimo arrivo in Lione di legati della Chiesa orientale per concludere l'unione con Roma, B. prese la parola per la predica sul versetto di Baruch, V, 5, Exsurge Ierusalem, improntata a spirito ecumenico. E ancora tenne l'omelia al vangelo il giorno dei ss. Pietro e Paolo, durante il pontificale papale cui assistettero anche i Greci.

B. dovette partecipare - anche se non abbiamo testimonianze circa sue esplicite prese di posizione - alle animate discussioni che accompagnarono la redazione della costituzione Ubi periculum, che doveva regolare la procedura relativa allo svolgimento del conclave e all'elezione del pontefice; solamente il 14 luglio fu possibile constatare il formarsi di una maggioranza.

Ma la mattina del 15 luglio 1274 B morì: l'indomani all'inizio, della quinta sessione conciliare, lo stesso pontefice volle commemorare il suo prezioso collaboratore, grande teologo quanto religioso esemplare.

Nel 1475 Sisto IV dette l'ordine d'istituire il processo di canonizzazione, che si concluse con la proclamazione del 14 apr. 1482. Già nella bolla di canonizzazione B. veniva chiamato dottore della Chiesa: ma il riconoscimento solenne di questo titolo si ebbe nel 1588, quando Sisto V con la bolla Triumphantis Ecclesiae lo affiancò a s. Tommaso.

Con l'opera di B. l'agostinismo del XIII secolo raggiunge la sua più alta espressione: in un momento in cui la cultura medievale - e soprattutto la riflessione teologica tradizionalmente legata alla lectio del testo sacro - era messa in crisi dalla filosofia aristotelica, accolta ormai dalla scuola e presto indicata come paradigma della "ragione naturale", B. si impegna in una coerente difesa della "sapienza cristiana" nella linea disegnata da Agostino di Ippona, approfondita nella luce dell'esperienza francescana.

Tutta la speculazione di B. si snoda lungo i momenti dell'ascesa dell'anima a Dio: in questo itinerarium, la filosofia e la teologia non si giustappongono estrinsecamente, ma l'una e l'altra si fondono in una progressiva espansione dell'intellectusfidei, fino all'estatica visione di Dio: "L'ordine vuole che si cominci dalla stabilità della fede, si proceda mediante la serenità della ragione per giungere alla dolcezza della contemplazione... Quest'ordine seguirono i Santi, attenendosi a quel versetto di Isaia 'Se non avrete creduto non intenderete' ... Quest'ordine ignorarono i filosofi che, trascurando la fede e fondandosi esclusivamente sulla ragione, non poterono giungere in alcun modo alla contemplazione" (SermoIV,Christus unusomnium magister, 15, in Opera, V, p. 571).

Ogni momento dell'intendere (intelligere) che muove dalla fede, sorretto dall'illuminazione divina, è preparazione a un momento più alto e acquista il suo valore nell'esser medio e mai termine, fino alla contemplazione faccia a faccia della verità. È "uno sviluppo di un motivo peculiare della tradizione agostiniana: "Tra la fede e la visione beatifica - aveva scritto Anselmo di Aosta - considero momento intermedio l'intelletto di cui siamo capaci in questa vita".

Leggendo l'Itinerarium - una delle massime opere della spiritualità medievale - non possiamo fare a meno di pensare alle Confessioni di Agostino e al Proslogion di Anselmo, per l'intrinsecarsi di preghiera, speculazione e contemplazione nella ricerca dell'unico e ultimo fine dell'uomo, il godimento del sommo bene che a sé richiama ogni essere: "Non è infatti in alcun modo disposto alle divine contemplazioni, che conducono ai rapimenti estatici, chi non sia, come Daniele, uomo di desideri. E i desideri avvampano entro di noi in due maniere: con la voce della preghiera che prorompe dal gemito del cuore e con il fulgore della speculazione mediante la quale la mente si volge con la massima immediatezza e intensità ai raggi della luce divina. Pertanto esorto anzitutto il lettore al gemito della preghiera per il Cristo crocifisso il cui sangue deterge le macchie delle nostre colpe, e ciò perché non creda che gli basti la lettura senza l'unzione, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza l'ammirazione, la considerazione senza l'esultanza, l'industria senza la pietà, la scienza senza la carità, l'intelligenza senza l'umiltà, lo studio senza la grazia divina, lo specchio senza la sapienza divinamente ispirata" (Itinerariummentis in Deum, prol., 3-4, in Opera, V, p. 296).

"Null'altro essendo la felicità se non il godimento del sommo bene, ed essendo questo al di sopra di noi, nessuno può essere felice ove non trascenda se stesso con uno slancio non del corpo ma del cuore. Ma trascendere noi stessi non possiamo se non per una superiore virtù che ci sollevi; ché nulla giova aver predisposto i gradi interiori se non ci soccorre l'aiuto divino; e questo soccorre solo chi lo invoca con cuore umile e devoto, sospirando in questa valle di lacrime, cioè fervidamente pregando" (ibid., I, 1, p. 296 s.).

La conoscenza e il godimento del sommo bene non sarà dunque al termine di un processo logico-scientifico, ma sarà conquista del cuore puro ravvivato dalla fede e guidato dalla luce stessa di Dio. Solo così l'uomo salirà dalla contemplazione delle cose terrene alle eterne, ritrovando fuori di sé (extra nos), in sé (intra nos) e sopra di sé (supra nos), l'impronta (vestigium), e l'immagine (imago) di Dio e infine la luce dell'essere unitrino: "aspiciendo ad primum principium, et hoc est laetari in Dei notitia et reverentia maiestatis" (ibid., I, 2, p. 297).

La creatura si pone così immediatamente come il grande libro attraverso il quale Dio si manifesta agli uomini: "Ogni creatura narra la sapienza del Creatore. Tutto il mondo infatti è come uno specchio pieno di luci, come carbone che diffonde luce" (In Hexaëmeron, princ., coll. II, 3, ed. Delorme, p. 29). È un motivo classico della spiritualità medievale ("Omnis mundi creatura quasi liber et pictura nobis est, et speculum") che fonda e giustifica tutto il simbolismo di B. e della scuola francescana: la natura non interessa come un contesto di fenomeni retto da leggi "necessarie" (tale necessità è negata dalla tradizione francescana in nome dell'infinita potenza di Dio), e la "scienza", che nel suo essere mondana denuncia il suo limite, si manifesta per sé vana curiositas: la natura vale perché significa ed esprime Dio che "relucet in rebus creatis"; la contemplazione del mondo non conduce a ritrovare nelle sue leggi la via "sillogistica" per dimostrare l'esistenza di Dio, ma piuttosto scopre immediatamente Dio nelle cose ("coeli enarrant gloriam Dei", cantava il salmista), se l'uomo sollevandosi dalle tenebre del peccato si apre all'illuminazione di Dio. Dietro la speculazione bonaventuriana per vestigium e in vestigio si avverte lo stesso spirito del Cantico delle creature: per questo, B. può affermare che "leggere questo libro [il creato] è proprio dei più profondi contemplativi, non dei filosofi naturali che conoscono la natura solo per sé e non come vestigio" (In Hexaëmeron, vis. II, coll. V, ed. Delorme, p. 144). L'uomo, privilegiato tra gli esseri creati, porta in sé, nelle operazioni della memoria, dell'intelletto e della volontà, l'immagine di Dio: "Considera ora le operazioni e gli abiti di queste tre potenze e potrai vedere Dio in te come in immagine, vale a dire per specchio, in enigma" (Itinerarium, III, 1, p. 303). Nei primi principî del sapere (scientiarum principia etdignitates) riposti nella memoria anteriore all'intelletto, nell'assolutezza dei giudizi dell'intelletto, nell'aspirazione della volontà al bene in tutti questi aspetti dell'attività più propria dell'uomo, si scopre un assoluto che trascende il suo esser mutevole: è la luce e la presenza stessa di Dio. Nella memoria è "la luce incommutabile a sé presente in cui ricorda le immutabili verità" (ibid., III, 2, p. 304), nell'attività definitoria dell'intelletto "ove non si conosca cosa sia l'ente per sé (ens per se), non è possibile conoscere pienamente la definizione di qualsiasi particolare sostanza" e questo essere è "purissimo e attualissimo, completissimo e assoluto... ente per sé ed eterno in cui sono le ragioni di tutte le cose nella loro purezza" (ibid., III, 3, p. 304); così pure nell'attività discorsiva dell'intelletto, la sua capacità di attingere la verità rivela la presenza nell'uomo della verità eterna: "Si dice che l'intelletto veracemente intende il significato delle proposizioni quando sa con certezza che sono vere; saper questo significa effettivamente sapere, poiché in quella comprensione non può essere ingannato. Esso sa infatti che quella verità non può essere altrimenti: sa dunque che essa è immutabile. Ma essendo la mente nostra mutevole, non può vedere quella verità che splende immutabile se non per una luce del pari immutabile che l'irraggia e che non può essere creatura mutabile. Essa dunque conosce in quella luce 'che illumina ogni uomo che viene in questo mondo' e che è 'luce vera' e 'il Verbo fin dal principio presso Dio'. Infine il nostro intelletto allora comprende il significato dell'illazione quando vede che la conclusione segue necessariamente dalle premesse; e questo lo vede non solo quando i termini sono necessari, ma anche se sono contingenti... La necessità dunque dell'illazione non procede dall'esistenza materiale dell'oggetto, che è contingente, né dalla sua esistenza nell'anima, che sarebbe una finzione se non fosse nella realtà; essa deriva dunque dall'esemplarità nell'arte eterna per cui le cose hanno reciproca attitudine e abitudine secondo la rappresentazione di quella eterna arte... Da ciò appare chiaramente che il nostro intelletto è congiunto alla stessa eterna verità, dato che nulla può comprendere con certezza senza l'insegnamento di quella" (ibid., III, 3, p. 304).

La considerazione della mutevolezza dell'oggetto e del soggetto del conoscere, porta B. - come Agostino - a postulare un principio assoluto del giudizio che trova il suo fondamento nella luce divina presente nell'anima: "Non perché - precisa B. a proposito della nota tesi agostiniana del De magistro - ogni conoscenza sia infusa, ma perché il lume creato non può portare a compimento la sua operazione senza la cooperazione del lume increato da cui è illuminato ogni uomo che viene in questo mondo... Queste cose son dette non perché Dio sia sola e unica causa, ma perché senza di lui non può agire nessuna virtù creata" (II Sent., d. 28, a. 2, q. 3, concl., in Opera, II, p. 690).

B. distingue due forme di conoscenza, scientia e sapientia, corrispondenti alla distinzione agostiniana tra ratio inferior e ratio superior; per la prima, volta al mondo sensibile, B. accoglie gli schemi della gnoseologia aristotelica e in particolare la distinzione tra intelletto possibile e intelletto agente - non due sostanze ma "duae intellectus differentiae, datae uni substantiae" (II Sententiarum, d. 24, p. 1, a. 2, q. 4, concl., in Opera, II, p. 568) - considerando tuttavia il primo come dotato di una propria attività, quella di volgersi al sensibile e di ricevere l'intelligibile astratto con l'intervento dell'intelletto agente, e il secondo corre dotato di una certa passività non potendo essere puro atto senza confondersi con l'avicenniano intelletto agente separato. Ma non tutta la conoscenza può ridursi a un'origine sensibile, bensì solo quella relativa a oggetti presenti nell'animo per via di astrazione che costituiscono la scientia.

È questo il primo momento del conoscere al quale - dice B. - si è erroneamente fermato Aristotele, chiudendosi così entro il mondo sensibile e combattendo le idee platoniche: in tal modo egli si rese eccellente nel sermo scientiae, abbandonando però il sermo sapientiae; l'uno e l'altro ha invece congiunto Agostino, subordinando la scientia alla sapientia: "Onde poiché Platone risolse tutta la conoscenza certa (cognitionemcertitudinalem) al mondo intelligibile o ideale, per questo fu giustamente ripreso da Aristotele, non in quanto sbagliasse nell'ammettere le idee o ragioni eterne - giacché in questo è lodato da Agostino -, ma perché abbandonato il mondo sensibile volle ricondurre tutta la conoscenza certa a quelle idee, e facendo ciò, pur stabilendo la via della sapienza che procede secondo le ragioni eterne, distruggeva la via della scienza che procede secondo le ragioni create; questa via stabiliva invece Aristotele, abbandonando quella superiore. E per questo tra i filosofi è riconosciuta a Platone la parola della sapienza, ad Aristotele la parola della scienza. Quello guardava soprattutto le realtà superiori, questo soprattutto le realtà inferiori. L'una e l'altra parola, cioè della sapienza e della scienza, fu data in modo preminente dallo Spirito Santo ad Agostino, come al maggior espositore di tutta la scrittura" (Sermo IV,Christus unus omniummagister, 18-19, in Opera, V, p. 572).

La conoscenza certa (certitudinalis cognitio), per B. come per Agostino, è possibile solo in quanto l'intelletto è corroborato dalla luce del vero che brilla nell'uomo con le rationes aeternae: "Ogni cosa che si conosce con certezza si conosce nella luce delle ragioni eterne... Per la conoscenza certa è necessariamente richiesta la ragione eterna come regolatrice e movente (ut regulans et ratio motiva) ma non essa da sola e nel suo completo splendore, bensì insieme alla ragione creata e in parte soltanto da noi colta in questa vita" (De scientia Christi, q. 4, concl., in Opera, V, pp. 22-23). Ma approfondendo l'insegnamento di Agostino egli chiarisce il valore regolativo di quelle rationes aeternae cui è intimamente congiunta la ratio superior, che non costituiscono oggetti di conoscenza, ma la fondano corre principi "a priori" del giudizio: "Queste regole sono infallibili, indubitabili, ingiudicabili, poiché il giudizio è possibile con esse, non su di esse. Queste sono fondate nella luce eterna e ad essa conducono, ma non per ciò essa stessa è vista" (In Hexaëmeron, coll. II, 10, in Opera, V, p. 338; cfr. Itinerarium, III, 7, pp. 305 s.). Se le regole fossero oggetto del conoscere e non semplicemente principî del giudicare, la mente umana contemplerebbe l'essenza stessa di Dio e non vi sarebbe più alcuna differenza tra la conoscenza terrena e la visione beatifica; d'altra parte senza la presenza della luce eterna del vero nel soggetto, questo non potrebbe mai raggiungere un sapere certo che richiede il superamento della soggettività mutevole in quella assolutezza che il pensiero conquista quando pensa nella verità "quae supra mentes nostras est": "Appare chiaramente che il nostro intelletto è congiunto alla stessa eterna verità dato che nulla può comprendere con certezza senza l'insegnamento di quella" (Itinerarium, III, 3, p. 304).

Se il vero, dunque, si raggiunge mediante la luce dell'eterna sapienza, del Verbo, B. potrà ripetere con Agostino, che unus estmagister noster,Christus: "Cristo infatti come via è maestro e principio della conoscenza che si ha dalla fede... È altresì maestro della conoscenza che si ha attraverso la ragione e ciò in quanto è verità... Infine Cristo in quanto vita è maestro di conoscenza contemplativa" (Sermo IV,Christus unusomnium magister, 2, 6, 11, in Opera, V, pp. 568, 570).

Ciò non vuol affatto dire che tutto il nostro sapere provenga dall'interiore maestro divino, e che l'atto del conoscere non sia proprio del soggetto - che sarebbe ricadere in un innatismo platonico assai superficialmente cristianizzato - ma solo che nessuno mai potrà trovare il principio del vero fuori di sé nel mondo empirico né propriamente in sé, ma in quella "lux inaccessibilis, et tamen proxima animae et plus intima quam ipsa sibi" (InHexaëmeron, vis. II, coll. V, ed. Delorme, p. 143): è la luce del Verbo logica nostra,ratiocinatio nostra.

"Così la mente nostra, irradiata e irrorata da tanti splendori, se non è cieca, può, attraverso di sé, essere condotta a contemplare quella eterna luce" (Itinerarium, III, 7, p. 305). L'Itinerarium mentis in Deum volge alle sue ultime tappe, dal vestigio all'immagine, di qui al suo primo principio: "Poiché accade di contemplare Dio non solo fuori di noi e dentro di noi, ma anche sopra di noi - fuori di noi per vestigio, dentro di noi per immagine, sopra di noi per il lume che è stato impresso sulla mente nostra e che è la luce della verità eterna, poiché 'la nostra mente è immediatamente informata dalla stessa verità' -, coloro che si sono esercitati nel primo modo sono già penetrati nell'atrio che è dinanzi al tabernacolo; coloro che si sono esercitati nel secondo sono già penetrati nel luogo santo; coloro che si esercitano nel terzo entrano con il Sommo Pontefice nel santo dei santi, dove sopra l'arca stanno i cherubini della gloria che adombrano il propiziatorio: con essi intendiamo i due modi o gradi di contemplare le realtà invisibili ed eterne di Dio, il primo dei quali riguarda gli essenziali attributi divini, l'altro le proprietà delle persone" (ibid., V, 1, p. 308).

Volta sopra di sé, l'anima defigit aspectum in ipsum esse. Quell'essere che già si presentava nella operazione dell'intelletto come fondamento di ogni sua attività definitoria, "ente purissimo, attualissimo, completissimo e assoluto che è l'ente per sé ed eterno in cui sono le ragioni di tutte le cose nella loro purezza" (ibid., III, 3, p. 304), si svela qui come il "nome primo e proprio di Dio". È l'essere che non si può pensare non sia "ipsum esse adeo in se certissimum, quod non potest cogitari non esse"), l'essere che "primo cadit in intellectu, et illud esse est quod est purus actus" (ibid., V, 3, p. 308); è il primo "vero indubitabile" presente in ogni anima: "Dio è presente nell'anima e per se stesso conoscibile; dunque nell'anima è insita la notizia del suo Dio" (De mysterioTrinitatis, q. I, a. 1, 10, in Opera, V, p. 46). Il problema di Dio si identifica - in B. come in Agostino - con il problema della verità: Dio è il verum indubitabile,evidentissimum etpraesentissimum omnibus mentibusrationalibus impressum che, come tale, non può non esistere: "Dio o la somma verità è l'essere stesso del quale nulla può pensarsi di migliore; quindi non può non esistere" (I Sententiarum, d. 8, p. I, a. 1, q. 2, concl., in Opera, I, p. 155; cfr. In Hexaëmeron, vis. I, coll. I, ed. Delorme, p. 49). L'argomento anselmiano diviene così la prova fondamentale di B., ma è ricondotto alla sua evidenza immediata senza bisogno di tutto il procedimento del Proslogion: ridotto alla sua essenzialità, l'argomento diviene: "Se Dio è Dio, Dio esiste; ma l'antecedente è tanto vero che non può pensarsi non essere; dunque che Dio esiste è un vero indubitabile" (De mysterioTrinitatis, q. I, a. 1, 29, in Opera, V, p. 48). Come è stato notato, "Bonaventura non passa dall'idea all'essere, l'idea ai suoi occhi non è che il modo di presenza dell'essere nel suo pensiero" (Gilson).

Ma anche l'essere, come le regulae in esso fondate e riassunte, non è visto direttamente, bensì in una caligosumma mentis nostrae illuminatio: "Grande è invero la cecità del nostro intelletto che non considera ciò che vede per primo, e senza di cui nulla può conoscere;... l'occhio della nostra mente... allorché vede direttamente la luce stessa del sommo essere ha l'impressione di non vedere nulla, non comprendendo che quella caligine è la suprema illuminazione della nostra mente - allo stesso modo che l'occhio ha l'impressione di non veder nulla quando vede la pura luce" (Itiner., V, 4, p. 309).

Nell'essere l'uomo coglierà anche, con la stessa necessità per cui non può pensare che non sia, il suo essere unitrino ("non potest recte cogitari, quin cogitetur trinum et unum", ibid., VI, 2, p. 310) e proprio mentre coglie questa sublime verità, che tuttavia comprende di non comprendere "(ne te existimes comprehendere incomprehensibilem", ibid., VI, 3, p. 311), l'itinerarium giunge al suo termine nella "perfetta illuminazione della mente" (p. 312). Resta solo l'ultimo momento, in cui la mistica completa e conchiude l'ascesa dell'anima a Dio: esso si consuma nell'excessus mentis, quando, superando il mondo sensibile e trascendendo se stessa, attraverso il Cristo, l'anima abbandona tutte le operazioni intellettuali e si trasforma in Dio: "Perché questo transito sia perfetto è necessario che si abbandonino tutte le operazioni intellettuali e il vertice dell'affetto (apex affectus) si trasferisca e si trasformi tutto in Dio" (ibid., VII, 4, p. 312); "Moriamo dunque e penetriamo nella caligine, facciamo tacere gli affanni, le concupiscenze e i fantasmi. Con Cristo crocifisso passiamo 'da questo mondo al Padre', sicché vedendolo possiamo ripetere con Filippo: 'ci basta', e udire con S. Paolo: 'ti basti la mia grazia', e possiamo esultare con Davide esclamando: 'la mia carne e il mio cuore vennero meno, Dio del mio cuore, Dio in eterno parte di me. In eterno il Signore sia benedetto ed ogni popolo dirà così sia'" (ibid., VII, 6, p. 313).

L'Itinerarium attinge così i vertici della teologia mistica di Dionigi, rivissuta attraverso l'esemplare esperienza di s. Francesco sul monte della Verna: l'unione con Dio si celebra nell'"amore unitivo" esclusivo ed assoluto ("amor sequestrativus", In Hexaëmeron, princ., coll. II, ed. Delorme, pp. 31 s.) e nel godimento dell'estatica pace. Il termine dell'Itinerarium si ricongiunge al suo proemio ove il fine delle divine illuminazioni è indicato nella pace "che fu annunziata e donata dal Signor nostro Gesù Cristo, della cui predicazione si fece ripetitore il padre nostro Francesco che iniziava e terminava ogni sua predicazione annunziando la pace, in ogni saluto augurava la pace, in ogni contemplazione sospirava l'estatica pace" (Itinerarium, prol., 1, p. 295).

Con il ritorno dell'anima a Dio si salda il circolo della realtà ("egredi a summo, transire per summum et reduci ad summum", In Hexaëmeron, princ., coll. I, ed. Delorme, p. 7) secondo quell'unico processo illuminativo per cui la verità crea gli esseri e a sé li richiama. In questa prospettiva - in cui non serve la speculatiosine devotione, la scientia sine pietate, l'intelligentiasine humilitate, lo studium absquedivina gratia - non vi è posto per una giustapposizione estrinseca né per una distinzione formale di filosofia e teologia. Ciò non vuol dire che B. ignori tale distinzione, che la stessa storica esistenza di filosofie precristiane portava a riconoscere. Ma proprio questa constatazione - con la denuncia degli errori intrinseci ad ogni filosofia pagana - porta B. a negare la validità di una filosofia autonoma che, pur nei limiti umani, pretenda di attingere il vero: ciò perché la ragione non può prescindere dal primo "centrale" vero, che è il Verbo, "medium omnium scientiarum", "principium essendi et cognoscendi" (In Hexaëmeron, coll. I, 13, in Opera, V, p. 331).

"In omni ergo scientia sine Christo evanescit sciens" (In Hexaëmeron, princ., coll. I, ed. Delorme, p. 19); ogni filosofia che si sia chiusa nei limiti "umani" è quindi necessariamente caduta in errore: "posto che l'uomo abbia una scienza fisica e metafisica che si estende fino alle sostanze supreme, e che l'uomo possa pervenirvi e qui trovar quiete, è impossibile che in ciò non cada in errore se non è aiutato dalla luce della fede... La scienza filosofica è via per le altre scienze, ma chi vuole soffermarsi in essa cade nelle tenebre" (De septem donisSpiritus sancti, IV, 12, in Opera, V, p. 476).

Se questa pagina appartiene ad una delle opere scritte quando la polemica antiaristotelica era apertamente ingaggiata, già nel Commento alle Sentenze si definiva lo stesso orientamento: "Necessariamente chi filosofa cade in qualche errore se non è aiutato dalla luce della fede" (II Sententiarum, d. 18, a. 2, q. 1, concl., in Opera, II, p. 448).

B. non nega la possibilità di una scienza che nasca da una ragione "iudicio proprio relicta", e che "procede indagando le nature e le cause inferiori; si acquista infatti la scienza attraverso i sensi e la esperienza" (II Sententiarum, d. 30, a. 1, q. 1, concl., in Opera, II, p. 716). Ma proprio qui è il suo limite: se non è assistita dalla luce della fede essa si chiude nella contemplazione della natura in sé e non vedrà in essa il vestigium di Dio, e questo, lo abbiamo visto, è il peccato dei "filosofi naturali" che "conoscono la natura delle cose in sé e non come vestigio".

Di qui la precisa polemica contro la chiusura naturalistica di ogni filosofia "umana" e la denuncia dell'inutilità di una scienza fine a se stessa cui si contrappone la prospettiva della sapientia: contro l'esempio di Salomone, che "curiosus et vanus et, volens omnia scire, oblitus est sui", vale l'esempio di Davide "qui studium sanctitatis et sapientiae praeferebat studio scientiae" (In Hexaëmeron, vis. III, coll. VII, ed. Delorme, p. 213). L'unico studio che valga è quello che conduce a Dio: "si deve desiderare di sapere solo per divenire più santi e per giungere alla sapienza che è presso Dio; altrimenti lo studio è perdita di tempo" (ibid., p. 214).

"In descensu ad philosophiam est maximum periculum" (ibid., p. 216): si colloca in questa prospettiva la polemica contro l'aristotelismo, forma più coerente di una filosofia tutta umana e per questo piena di pericoli e di errori. Già nel Commento alleSentenze, scritto poco dopo la metà del secolo, B. - che pure accetta particolari dottrine dello Stagirita e la sua concezione del mondo fisico - denuncia come errori propri di Aristotele, e intrinseci ad ogni "filosofia mondana", l'eternità del mondo (causa di altri errori, come l'unità dell'intelletto o la reincarnazione delle anime), la creazione per intermediari, ecc.; ma la polemica antiaristotelica si fa via via più vivace nelle Collationesde decem praeceptis (1267) e nelle Collationes deseptem donisSpiritus sancti (1268), che certo ebbero influenza nella condanna del 1270, e infine nelle Collationes inHexaëmeron del 1273, quando più netti si delineavano i successi dell'aristotelismo. Qui la polemica di B. non si volge solo contro l'averroismo latino, bensì contro lo spirito stesso della filosofia aristotelica che esprime ai suoi occhi il più coerente, quindi il più pericoloso tentativo di elaborare una scienza autonoma. Il primo e fondamentale errore di Aristotele è infatti al centro della sua metafisica che, rifiutando le cause esemplari di Platone, ha negato il Verbo stesso, principio, medio e fine della scienza filosofica. Da questo primo errore derivano tutti gli altri: negazione della prescienza e della provvidenza, determinismo, eternità del mondo, unità dell'intelletto (conclusione necessaria per evitare l'infinito numero di anime o la mortalità o la reincarnazione), la negazione dell'aldilà.

La condanna di Aristotele è dunque radicale; le stesse parziali verità che possono ritrovarsi in lui si estinguono per gli inevitabili errori cui la sua filosofia induce. Ma la polemica di B. non è solamente contro l'antico filosofo, bensì ancor più contro i contemporanei che ne avevano intrapreso l'integrale utilizzazione, anche nella facoltà di teologia, preferendo così alla Bibbia non solo le summae magistrorum ma persino i quaterni philosophorum introdotti come idoli nel tempio del Signore. B. avverte la crisi di tutta una tradizione teologica nata dalla meditazione della sacra pagina e tutta tesa all'interpretazione dei simboli scritturali: ad essa vede sostituirsi una "teologia scienza" che acquisisce tutte le tecniche del discorso scientifico ed utilizza concetti tratti dalla filosofia mondana corrompendo la purezza delle Scritture: "Ricordati del Sultano che voleva disputare con il beato Francesco sulla fede: questi gli rispose che la fede è sopra la ragione ed è dimostrata solo dall'autorità della scrittura e dalla potenza divina che si manifesta nei miracoli, quindi fece accendere un fuoco e vi volle passare in mezzo innanzi a tutti. Non si deve infatti mischiare tanta acqua della scienza filosofica al vino della sacra Scrittura così da cambiare il vino in acqua... Ma oggi si verifica il cambiamento del vino in acqua e del pane in pietra contro i miracoli di Cristo. L'ordine vuole che principalmente si studi la sacra Scrittura, nella lettera e nello spirito, e quindi si leggano le opere dei Santi posponendoli alla Scrittura. Similmente solo di passaggio si devono studiare gli scritti dei filosofi, mentre invece si fa sempre il contrario perché i professori, anche se non apertamente ma di nascosto, leggono, annotano e nascondono come idoli i quaderni dei filosofi" (In Hexaëmeron, vis. III, coll. VII, ed. Delorme, pp. 217 s.).

Alla nuova "idolatria" dei "professori" del tempo B. contrappone l'attenta e continua meditazione della Scrittura ("semper ruminanda sunt dulcia scripturae eloquia" ibid., p. 218), fondamento della vera sapienza cristiana tutta legata all'ordo temporum e alla series narrationis. La Scrittura descrive ordinatamente tutte le cose, cioè "tutti i fatti più nobili e più notabili dal principio del mondo fino alla fine" (ibid., p. 193) e contiene "le intelligenze e i sacramenti, i misteri e le teorie" (ibid., p. 172): compito della teologia sarà dunque di "leggere" il senso dei simboli racchiusi nella Bibbia in modo che dalle "diverse coordinazioni dei tempi" sia possibile cogliere il senso della storia e dei suoi destini futuri (ibid., p. 172). La teologia è una lectio historiae e, con la dimensione temporale, essa riconquista la tensione escatologica che sottende tutta la meditazione bonaventuriana sulle età del mondo e della Chiesa e la ricerca - attraverso una appropriata esegesi tipologica - dei segni dei tempi avvenire. I motivi escatologici che esploderanno nell'escatologismo gioachimitico degli spirituali non sono estranei alla teologia del Serafico.

Tipologia ed escatologia si affermano là dove si rifiuta la teologia come scienza sillogisticamente costruita e la si riconduce nell'ambito tradizionale della sacra pagina. In questa prospettiva la polemica antiaristotelica si arricchisce di un motivo che verrà poi sviluppato nella lettura escatologica degli spirituali: nelle Collationes è applicato all'aristotelismo il simbolo del "pozzo dell'abisso" dell'Apocalisse (9, 1 e ss.) da cui sale un denso fumo ad oscurare il sole e l'aria; dalla filosofia di Aristotele infatti son venuti i "pessimi errori" ad oscurare la verità: né "ancora sono chiusi con chiave i pozzi abissali", esclama B., dinanzi ai trionfi dell'aristotelismo tra artisti e teologi (In Hexaëm., vis. I, coll. III, ed. Delorme, p. 92). Molto più nettamente, ma sulla stessa linea, Arnaldo di Villanova applicherà i simboli del IX capitolo dell'Apocalisse a Tommaso d'Aquino ed ai suoi seguaci (Thomatistae).

È stato osservato che tuttavia neppure B. si sottrae all'influenza dell'aristotelismo: ne accetta la generale concezione del mondo fisico, ne riprende la dottrina dell'atto e della potenza, della forma e della materia, della sostanza e degli accidenti, nonché molti insegnamenti di logica e di psicologia. Ed è osservazione esatta: ma va notato che, proprio mentre riprende alcune fondamentali dottrine peripatetiche, le trasferisce all'interno di una prospettiva agostiniana ove non vi è posto né per una scienza autonoma né per una ragione naturale che possa raggiungere il vero prescindendo dalla rivelazione; e in questo contesto anche molte particolari dottrine aristoteliche assumono - al di là dell'identica terminologia - significati diversi e conformi alla tradizione agostiniana: sicché se è vero che in B. la filosofia peripatetica si congiunge con l'agostinismo, è il secondo che assorbe la prima, proseguendo quel processo di assimilazione che era già avviato nella prima metà del secolo XIII dalla corrente agostiniana. Ciò si rileva dalla dottrina della conoscenza alla quale abbiamo accennato, come dall'esame di altre caratteristiche dottrine bonaventuriane: per esempio la dottrina della potenzialità della materia intesa non come pura passività ma come potenza già in qualche modo attuata dalle rationes seminales in essa deposte da Dio.

Qui la posizione di B., che egli ritiene anche aristotelica, è in polemica contro la più coerente interpretazione di Tommaso d'Aquino: questi concepiva la materia come pura potenzialità attuata dalle cause seconde; posizione inaccettabile per B., poiché in tal modo si veniva a concedere un potere superiore al loro essere creatura; l'azione delle cause seconde doveva limitarsi a favorire lo sviluppo di quelle rationes seminales che, come tali, hanno l'essenza stessa della forma: "Poiché è chiaro che la ragione seminale è una potenza attiva unita alla materia e che quella potenza attiva ha l'essenza della forma, poiché da essa viene in essere la forma attraverso l'azione della natura che non produce qualcosa dal nulla, è ragionevole affermare che la ragione seminale è l'essenza della forma da produrre, e ne differisce secondo l'essere completo e incompleto, ovvero secondo l'essere in potenza e in atto" (II Sententiarum, d. 18, a. 1, q. 3, concl., in Opera, II, p. 440).

Anche qui l'agostinismo trionfava sull'aristotelismo; tipica della stessa tradizione agostiniana, quale si era definita nel secolo XIII sotto l'influenza dell'aristotelismo neo-platonizzante dei commentatori arabi, è la dottrina della luce come "natura comune" o "prima forma" di tutti i corpi: "la luce è la forma sostanziale dei corpi che sono in modo più vero e più degno nei gradi degli enti secondo la maggior o minore partecipazione ad essa" (II Sent., d. 13, a. 2, q. 2, concl., in Opera, II, p. 320). A questa prima forma - della quale riluce tutto l'universo creato, bello e dilettevole (maxime delectabilis) in quanto partecipa della luce - segue l'informatio specialis di ciascun esistente attraverso le successive forme che costituiscono gli esseri nella loro concretezza: pluralità delle forme, dunque, come insegnava Alessandro di Hales maestro di B., ma non di forme immobili e immutabili come quelle aristoteliche, bensì fluide e dinamiche a guisa delle forme neo-platoniche, inserite in un processo di progressivo perfezionamento fino alla costituzione dell'essere completo: "l'appetito della materia la rende adatta a ricevere questa o quella forma ...: al sopraggiungere dell'ultima forma le disposizioni medie o antecedenti non sono distrutte ma sono completate così che vi sia un'unica forma di un tutto perfettibile" (In Hexaëmeron, princ., coll. II, ed. Delorme, p. 20). B. respingerà dunque come insania" l'unità della forma sostanziale: "Non è vero che l'ultima forma si unisca alla prima materia senza l'intermediario di nessun'altra forma" (InHexaëmeron, vis. I, coll. I, ed. Delorme, p. 54). Dalla congiunzione di materia e forma nasce l'individualità: non è infatti vero - egli afferma - che "l'individuazione viene dalla materia" e neppure, all'opposto, che "oltre alla forma della specie specialissima vi è la forma individuale" (II Sententiarum, d. 3, p. 1, a. 2, q. 3, concl., in Opera, II, p. 109): ma è vero invece che "l'individuazione nasce dalla congiunzione attuale della materia con la forma, per la qual congiunzione l'una si appropria dell'altra... La materia dà alla forma l'esistere ma la forma dà alla materia l'atto di essere (essendi actum). L'individuazione nelle creature nasce dunque da un duplice principio" (ibid., pp. 109 s.).

La composizione ilemorfica non è solo delle creature materiali: anche quelle spirituali, infatti, come già insegnava Avicebron, sono composte di materia (materia spirituale) e forma, non solo di potenza e atto: per B., come per i maestri della prima metà del secolo XIII, la negazione della composizione ilemorfica delle sostanze spirituali rischiava di renderle nature semplici, come Dio: "Alcuni dissero che v'è qualche creatura semplice come l'angelo. Ma se fosse vero che l'angelo è forma senza materia, allora non sarebbe soggetto ad accidenti... Quindi è incauto affermare così, perché può sembrare che si attribuisca all'angelo ciò che è solo del Primo, cioè essere forma e atto puro... Onde diciamo che nulla è del tutto semplice se non Dio" (InHexaëmeron, vis. I, coll. I, ed. Delorme, p. 54).

Così anche l'anima razionale è un hoc aliquid capace di esistere e agire per sé e ha in sé "un principio materiale da cui ha l'esistere e un principio formale da cui ha l'essere" (IISententiarum, d. 17, a. 1, q. 2, in Opera, II, p. 415); essa è quindi una sostanza in sé completa, autonoma e immortale pur avendo un "appetito" a unirsi alla natura corporea. Di qui deriva che l'unione tra anima e corpo - tra due sostanze in sé complete - ha bisogno di intermediari: il principio vegetativo-sensitivo e la luce, per cui la materia è corpo (II Sententiarum, d. 1, p. 2, a. 1, q. 1, in Opera, II, pp. 39 s.); la dottrina della luce viene ad assumere una parte fondamentale insieme a quella medica degli spiritus, come intermediari tra le due nature. Gli agostiniani resteranno fedeli a questa posizione di B., che sarà contrapposta ai sostenitori dell'unità della forma sostanziale, come alla sola dottrina consona all'insegnamento dei "santi". Essi riprenderanno anche il particolare modo di porre il problema del rapporto tra l'anima e le potenze che B. ritiene consustanziali all'anima ma non assolutamente identiche all'anima per essenza, mentre respinge, con la tesi che le potenze siano una per essenza, quella opposta per cui "le potenze nell'anima differiscono per essenza, come diverse forme accidentali esistono nello stesso soggetto" (II Sententiarum, d. 24, p. 1, a. 2, q. 1, concl., in Opera, II, p. 560).

Ma più caratteristica di tutta la tradizione agostiniana e francescana sarà la dottrina della volontà che si svolge parallela alla dottrina dell'intelletto: come questo ha bisogno dell'illuminazione che fondi il "naturale iudicatorium", così la volontà ha bisogno di un'iniziale spinta al bene, la sinderesi: "Come l'intelletto ha bisogno di un lume per giudicare, così l'affetto ha bisogno di un certo calore e un'inclinazione spirituale per amare rettamente; così dunque come nella parte dell'anima conoscitiva vi è un naturale principio del giudizio (naturale iudicatorium)... così nella parte dell'anima affettiva vi sarà un'inclinazione che dirige e spinge al bene: questa è la sinderesi" (II Sententiarum, d. 39, a. 2, q. 1, in Opera, II, p. 908); si dirà dunque che "la sinderesi indica la potenza affettiva in quanto naturalmente capace del bene e tende al bene; la coscienza indica l'abito dell'intelletto pratico; la legge naturale indica l'oggetto di entrambi" (ibid., concl., p. 911).

La sinderesi si inserisce nella dottrina bonaventuriana del necessario e generale concorso di Dio nell'attività delle creature, cioè in quella "gratuita influenza di Dio per cui tutte le cose conserva e aiuta perché compiano le loro operazioni" (II Sententiarum, d. 28, a. 2, q. 3, concl., in Opera, II, p. 689).

Dalla convergenza d'intelletto e volontà nasce il libero arbitrio (consensus rationiset voluntatis); il primo presenta l'oggetto, la seconda comanda e realizza l'atto: "la libertà dell'arbitrio, o la facoltà detta libero arbitrio, inizia nella ragione e si compie nella volontà. E poiché risiede principalmente dove si realizza, la libertà dell'arbitrio e il comando stanno nella volontà" (II Sententiarum, d. 25, p. I, a. unico, q. 6, concl., in Opera, II, p. 605); e se è vero che "non possiamo amare ciò che non conosciamo", tuttavia, "per quanto preceda il giudizio, non ne segue un'attività (motus) se non sia comandata dall'affezione della volontà" (ibid.). È l'orientamento volontaristico che sarà sempre più accentuato nella scuola francescana conducendo ad affermare non solo l'autonomia ma il netto primato della volontà sull'intelletto.

B. godrà di una larghissima fama e di duratura influenza sulle generazioni successive; il suo nome, con quello del suo maestro Alessandro di Hales e più ancora con quello di Agostino, costituirà un punto di riferimento sicuro per la difesa contro l'aristotelismo trionfante, l'averroismo e il tomismo; alcune dottrine bonaventuriane costituiranno il fondamento comune della filosofia dei francescani: concezione della natura come specchio e immagine di Dio, creazione nel tempo, ilemorfismo universale, pluralità delle forme, individuazione dalla convergenza di materia e forma, gnoseologia fondata sull'illuminazione e le rationes aeternae, primato della volontà; ma soprattutto resterà centrale, nel pensiero francescano, la prospettiva di una sapienza cristocentrica in cui tutte le scienze si subordinano e coordinano alla teologia (reductio artium ad theologiam) concepita come espansione dell'intellectusfidei corroborato dalla luce divina e purificato dalla grazia, tendente alla visione beatifica che si realizza nella gioia e nella pace dell'estatica visione di Dio.

T. Gregory

Opere: L'edizione critica dell'Operaomnia è stata curata dai francescani del Collegio internazionale di Quaracchi sotto la direzione del p. Fedele da Fanna, in 10 voll. in folio, ad Claras Aquas 1882-1902. In editio minor sono usciti una serie di Opera theologica selecta: Comment.in libros Sentent., 4 voll., ad Claras Aquas 1934-1949; Tria opuscula:Breviloquium,Itinerariummentis in Deum,De reductione artiumad theologiam, 6 ed., ibid. 1964 (con aggiunta di alcuni sermoni teologici); Decem opuscula ad theologiammysticam spectantia, 4 ed., ibid. 1949; Legendae duae de vitas. Francisci, ibid. 1923.

Delle Collationes inHexaëmeron una reportatio più breve, e diversa rispetto a quella accolta nell'Opera omnia, è stata edita da F. Delorme nella Bibliotheca franciscanascholastica Medii Aevi, VIII, ad Claras Aquas 1934. Una reportatio breve delle Collationes de donisseptemSpiritus Sancti non accolta nell'edizione di Quaracchi si trova in Sancti Bonaventurae... operum omniumsupplementum, curato da B. Bonelli, III, Tridenti 1774, coll. 418-494.

Fra le traduzioni moderne è da segnalare quella della Biblioteca de Autores Cristianos: Obras de san Buenaventura, 6 voll., Madrid 1945-49 (del primo vol., 2 ed., Madrid 1955), a cura di L. Amorós, B. Aperribay, M. Oromi, I. Omaechevarria, M. Oltra, che affianca al testo latino dell'edizione di Quaracchi una traduzione spagnola, corredandola di ampia introduzione biografica e bibliografica, di note e di un lexicon bonaventuriano in appendice.

Una edizione delle opere più significative di B. basata sul testo di Quaracchi e corredata di traduzione francese, introduzioni e commenti, è programmata dalla BibliothèqueBonaventurienne,série "textes", nell'ambito delle celebrazioni per il VII centenario della morte di B. (1974). È uscito per primo il Breviloquium, in 8 voll., in 8º, Paris 1967-68: Prologue, intr. gen., intr. al prologo, a cura di J.-G. Bougerol; I, La Trinité de Dieu, a cura di L. Mathieu; II, Le monde créature de Dieu, a cura di T. Mouiren; III, La corruption du péché, a cura di Ph. Delhaye e L. Hamelin; IV, L'incarnation du Verbe, a cura di B. Carra de Vaux; V, La grâce du Saint-Esprit, a cura di J.-P. Rezette; VI, Les remèdessacramentels, a cura di L. Mathieu; VII, Le jugement dernier, a cura di L. Prunières. Per il piano di lavoro - circa l'edizione delle opere, la compilazione di un lessico bonaventuriano, l'organizzazione di seminari e la pubblicazione di monografie - programmato in vista delle celebrazioni del 1974, v. J.-G. Bougerol, Le sens du renouveaubonaventurien, in Etudes franciscaines, XVI (1966), pp. 98 ss.

Per le opere di B. scoperte posteriormente all'edizione di Quaracchi, v. J.-G. Bougerol, Introduction à l'étudede St. B., Paris 1961, pp. 246 ss. (App. II). Più recentemente E. Lio, S.Bonaventura e la questione autografa "de superfluo", Romae, Lateranum, 1966, pubblica una quaestio dal ms. 186 della Biblioteca Comunale di Assisi, sostenendone con certezza - sulla traccia degli studi di V. Doucet e di F. M. Henquinet - il carattere autografo e la paternità bonaventuriana; da tenere però presenti le riserve - non del tutto superate dallo studio del Lio - di D. Halcour, che aveva precedentemente edita un'altra delle questioni contenute nel codice di Assisi: Tractatus detrascendentalibus entisconditionibus(Assisi,Bibl. Comun., codex 186), in FranziskanischeStudien, XLI (1959), pp. 41-106 (alle pp. 50-63, la discussione sulle possibilità di attribuzione a B.). Per il codice di Assisi, v. anche O. Lottin, Psychologie et moraleaux XII et XIII siècles, III, Problèmes de morale, II, 1, Louvain-Gembloux 1949, pp. 401-404 (ediz. della quaestio sui doni dello Spirito Santo: "Utrum, dona sint virtutes"); K. F. Lynch, The sacrament of Confirmationin the Early-MiddleScholastic Period, I, Texts, New York 1957, pp. XLIV, LXV ss., pp. 149-157 (ediz. del De sacramento confirmationis), pp. 249-251 (ediz. della Quaestio de imagine recreationis). Sull'attribuzione a B. delle quaestiones del cod. Vat. Pal. lat. 612 (cfr. BougeroI, p. 247), v. E. Lio, È veramente s. B.l'autore delle questioni "De eleemosyna" contenute nel cod. Vat. Pal. lat.612 ?, in Antonianum, XXXVII (1962), pp. 115-139 (assume una posizione negativa).

Sulla diffusione e le traduzioni in lingue volgari di opere di B., qualche orientamento può dare F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secc. XIII e XIV, Bologna 1884, coll. 187-195, 656 s., 841 s., 1095., 19 s. (traduzioni di opere autentiche e attribuite). Per la diffusione in ambiente germanico, v. K. Ruh, Bonaventura deutsch.Ein Beitrag zurdeutschen Franziskaner-Mystik und - Scholastik, Bern 1956; Bonaventuras legenda sanctiFrancisci in derÜbersetzung derSibilla von Bondorf, a c. di D. Brett-Evans, Berlin 1960.

Sulle attribuzioni di opere a B., con particolare riferimento all'influenza sulla mistica, un buon punto di riferimento è costituito dalla voce di C. Fisher, B., Apochryphes attribués à, in Dict. de Spiritualité, I, Paris 1937, coll. 1843-1856. A. Wilmart, Le grand poèmebonaventurien sur les septparoles duChrist en Croix, in Revue Bénédictine, XLVII (1935), pp. 235-278, studia e dà una nuova edizione (pp. 257-261), basata su una più completa recensione di codici dei versi editi fra gli Opuscula dubia in appendice al tomo VIII della edizione di Quaracchi (pp. 674-676).

Più recentemente, su singole opere: Arbor amoris. Der Minnebaum. Ein Pseudo-Bonaventura-Traktat, a cura di U. Kamber, Bielefeld 1964; G. Gasca Queirazza, Intorno ai codici delle Meditationes Vitae Christi..., in Arch.Franc. Histor., LV (1962), pp. 252-258; LVI (1963), pp. 162-174; LVII (1964), pp. 538-551; M. J. Stallings, Meditationes de passioneChristi olims.B. attributae. Editae from theManuscripts withintroduction andcommentary, Washington 1965; A. Kolping, Das Verhältnis desps. bonav. SermoVI de Assumptione B.Mariae Virginiszu dempseudoalbertinischenMariale..., in Zeitschrift für Kathol.Theologie, XXXVIII (1961), pp. 190-207; J. Beumer, Die literarischen Beziehungen zwischen dem Sermo VI deAssumptione B. Mariae Virginis(Pseudo Bonav.)und dem Mariale oderLaus Virginis (Pseudo Albertus), in Franziskanische Studien, XLIV (1962), pp. 455-460; G. Abate, Un sermone sulle cinque piaghe di Gesù attribuito a s. B., in Miscellanea M. dePobladura…, Romae 1964, I, pp. 151-171; S. Gieben, The pseudo-Bonaventurianwork "Symbolica Theologia"..., ibid., pp. 173-195.

Bibl.: Importante punto di riferimento, per il materiale offerto come per l'ampia bibliografia, restano le voci redatte da E. Longpré per il Dict. d'Hist.et de Géogr. Ecclés., IX, Paris 1937, coll. 1768-1843 (soprattutto per l'aspetto biografico) e per il Dict. de Spiritualité, I, Paris 1937, coll. 1768-1843 (soprattutto per l'aspetto dottrinale e mistico). Da vedere anche la voce redatta da E. Smeets, in Dict. de théologie cathol., II, Paris 1910, coH. 962-986, integrata con le pagine e la bibliografia che alla nozione bonaventuriana di "teologia" dedica ibid., XV, ibid. 1946, coll. 394-398 (nell'ambito della voce Théologie), M.-J. Congar; e la voce di L. Di Fonzo, in Bibl. Sanctorum, III, Roma 1961, coll. 239-279 (ibid., coll. 278-283, F. Petrangeli Papini tratta dell'iconografia bonaventuriana). Da consultare anche, ad Indicem, i volumi della BibliographiaFranciscana, sezione dei Collect. Franc., I (1931) e seguenti (dal 1946-47 in volumi distinti: VI ss.). Un repertorio bibliografico bonaventuriano a partire dal 1800 ad opera di p. O. Schäfer O.F.M. è annunciato come in preparazione per la serie Subsidia scientificafranciscalia, in Arch. Franc. Histor., LVII (1964), pp. 493 s.; un utile punto di riferimento, anche come orientamento bibliografico, costituisce il già citato volume di J.-G. Bougerol, Introduction àl'étude de st. B. Qui ci si limiterà pertanto a dare indicazioni sulla letteratura più recente.

Sul ruolo di B. nell'Ordine: R. B. Brooke, Early Franciscan Government. Elias to B., Cambridge 1959, specialmente pp. 270-279; M. D. Lambert, Franciscan Poverty. The doctrine of theabsolute povertyof Christ and the Apostlesin the FranciscanOrder. 1210-1323, London 1961, pp. 103-140; A. Epping, B. s Stellung in derFranziskanerschule, in Wissenschaft undWeisheit, XXVI (1963), pp. 75-87; H. Roggen, St. B. comme "Le secondFondateur" de l'Ordre des FrèresMineurs par rapport à larenovation adoptée denotre Ordre, in Franziskanische Studien, XLIX (1967), pp. 259-271; Id., St. B., "Second Fondateur" del'Ordre des Frères Mineurs?, in Etudes Franciscaines, XVII (1967), pp. 67-79 (con bibliografia sulla questione, p. 69 n. 2). Sempre utile la solida opera di p. Gratien de Paris, Histoire de la fondation et del'évolution de l'Ordredes Frères Mineursau XIIIsiècle, Paris-Gembloux 1928, pp. 249-320.

Su B. quale biografo di S. Francesco: S. Clasen, S. B. s.Francisci LegendaeMaioris compilator, in Arch. Franc. Histor., LIV (1961), pp. 241-272; LV (1962), pp. 3-58, 289-319; Id., Franziskus Engeldes sechstenSiegel. Sein Leben nachden Schriften des hl. B., Werl in Westf. 1962 (traduz. tedesca oltre che delle due Legendae anche delle prediche di B. su s. Francesco, con ampia introduzione, pp. 17-248).

Sull'opera di B. al concilio di Lione: L. Spätling, Der Anteil derFranziskaner an denGeneralkonziliendes Spätmittelalters, in Antonianum, XXXVI (1961), pp. 311-320; Octavianus a Rieden, De sodaliumfranciscalium in conciliooecumenico Lugdunensi secundo parando et celebrando promeritis, in Coll. Franc., XXXII (1962), pp. 122-147; A. Franchi, Il concilio II di Lione (1274) secondo la "Ordinatio Concilii GeneralisLugdunensis", Roma 1965, ad Indicem e specialmente pp. 145-170 (ridimensiona notevolmente il ruolo di B., soprattutto in quanto riguarda la questione dell'unione con i Greci).

Sull'attività predicatoria: S. Clasen, Der hl. B.als Prediger, in Wissenschaft und Weisheit, XXIV (1961), pp. 85-113; J. B. Schneyer, PastoraltheologischeGrundzüge als Einteilungsmotive in den Predigtendes hl. B., in Theolog.Quartalschrift, CXLI (1961), pp. 206-224.

Sull'attività di commentatore della Scrittura: H. de Lubac, Exégèse médiévale, II, 1, Paris 1964, pp. 263-272, 328-330; K. Brümann, BonaventurasHexaëmeron als Schriftsauslegung, in FranziskanischeStudien, XLVIII (1966), pp. 1-74.

Sul ruolo di B. nella polemica fra maestri secolari e mendicanti: J. Ratzinger, Der Einflussdes Bettelordenstreitesauf dieEntwicklung derLehre vonpäpstlichen Universalprimat,unter besonderer Berücksichtigung des hl. B., in Theologie in Geschichte und Gegenwart. Festgabe M. Schmaus, München 1957, pp. 697-724; Y. M. J. Congar, Aspects ecclèsiologiquesde la querelle entreMendiants et Séculiersdans la seconde moitiédu XIII siècle et ledébut du XIV, in Archives d'histoiredoctr. et litt. duMoyen Age, XVI (1961), pp. 35-161.

Sul posto della teologia nel pensiero di B.: M.-D. Chenu, La Théologie comme science auXIII siècle, Paris 1957, pp. 53-57 (e ad Indicem); W. Dettloff, Christus tenensmedium in omnibus. Sinn und Funktionder Theologiebei B., in Wissenschaft und Weisheit, XX (1957), pp. 28-42, 120-140; A. Epping, Zu BonaventurasSchrift "De reduetione artium ad theologiam", ibid., XXVII (1964), pp. 100-116; R. Guardini, Systembildende Elemente inder Theologie B.sDie Lehren vom "Lumen mentis", von der "Gradatioentium" und der "Influentia sensus et motus", a cura di W. Dettloff, Leiden 1964 (è lo scritto di abilitazione del Guardini, rimasto lungamente inedito, mentre la sua dissertazione, Die Lehre deshl. B. von der Erlgsung, era già uscita a Düsseldorf nel 1921).

F. Van Steenberghen, La philosophie au XIII siècle, Louvain-Paris 1966, pp. 190-271, riprende in un capitolo centrale e ribadisce diffusamente e nettamente i termini della sua lunga polemica nei confronti della fondamentale opera di E. Gilson, La philosophie de st. B., Paris 1924 (3 ed., ibid. 1953): di contro all'interpretazione tutta agostiniana e antiaristotelica di B. che era stata proposta dal Gilson, Van Steenberghen ripropone la sua formula di un "aristotelismo neoplatonizzante" (p. 269); cfr. in proposito la recensione di J.-G. Bougerol, in Arch. Franc.Histor., LXI (1968), pp. 237-245. Su questa controversia, che ha avuto larghe risonanze nel campo della storiografia bonaventuriana nell'ultimo cinquantennio, si può vedere nell'edizione italiana di A. Forest-F. Van Steenberghen-M. de Gandillac, Il movimento dottrinale nei secoli IX-XIV, Torino 1965, a cura di S. Gieben e Corrado di Alatri, il par. 233*, pp. 323 ss. ("Echi di una controversia": aggiunta dei curatori), che espone i termini della questione con un'utile rassegna bibliografica. Sull'argomento anche R. J. Roch, The philosophyof st. B.: a controversy, in Franciscan Studies, XIX (1959), pp. 209-226; Ch. Wenin, La connaissancephilosophique d'après st.B.Etat de la question, in L'homme et son destin(Actes du I Congrès intern. de philos. médiév., Louvain-Bruxelles 1958), Louvain-Paris 1960, pp. 485-494; un ottimo "status quaestionis" anche alle pp. 121-136 dell'importante volume di J. Ratzinger, Die Geschichtstheologie des hl. B., München 1959 (su cui v. J. Kaup, Die Geschichtstheologiedes hl. B., in Franziskanische Studien, XLII [1960], pp. 66-81; S. Clasen, Zur Geschichtstheologie B.s, in Wissenschaft und Weisheit, XXIII [1960], pp. 197-212). Per il rapporto fra filosofia e sapienza in B., si può vedere ancora: A. Gendreau, The quest for certaintyin B., in Franciscan Studies, XXI (1961), pp. 104-227; L. J. Secondo, The relation of human reason toGod's nature and existencein thephilosophy of st. B., Romae 1961; A. Blasucci, Problematica dei rapporti tra laconoscenza naturale e soprannaturale, in Miscell. Franc., LXIII (1963), pp. 137-182; A. Hayen, "Aqua totaliter in vinumconversa": philosophie etrévélation chez st. B.et st. Thomas, in Die Metaphysik imMittelalter, Berlin 1963, pp. 317-324; J. Legowicz, La metaphysique d'Aristotedans l'oeuvre de st. B., ibid., pp. 499-503; R. W. Mulligan, Portio superior and portioinferior rationis in thewritings of st. B., in Franciscan Studies, XXV (1965), pp. 332-347; J.-G. Bougerol, St. B. et laphilosophie chrétienne, in Culture, XXVII (1966), pp. 290-312; A. C. Pegis, The Bonaventurean Way toGod, in Mediaeval Studies, XXIX (1967), pp. 206-242; C. Berubé, De laphilosophie à lasagesse dans l'itinérairebonaventurien, in Coll. Franc., XXXVIII (1968), pp. 257-307; H. van der Laan, De wijsgerige grondslagvan B.'s Theologie, Amsterdam 1968. Sul probl. della conoscenza cfr. anche: A. Hufnagel, B.sPerson-Verständnis, in Theol. in Gesch. und Gegenwart. Festgabe M. Schmaus, München 1958, pp. 843-860; V. C. Bigi, Il termine e il concetto di sostanzain s. B., in Studi Franc., LVI (1959), pp. 16-36, 173-216; J. Ratzinger, Der Mensch und dieZeit im Denken des hl.B. Zugleich einBeitrag zum Problemdes mittelalterlichenAugustinismus, in L'homme et sondestin, Louvain-Paris 1960, pp. 473-483; A. Schäfer, The position and function ofman in the created worldaccording to st. B., in Franciscan Studies, XX (1960), pp. 261-316; XXI (1961), pp. 233-382 (raccolti in vol., Washington 1965); V. C. Bigi, Individuo e principio di individuazione in s. B., in Studi Francescani, LVIII (1961), pp. 264-286; Id., La dottrina della luce in s. B., in Divus Thomas, LXIV (1961), pp. 395-422; M. Trevijano, De doctrina lucis apuds. B., in ScriptoriumVictoriense, VIII (1961), pp. 143-169, 181-261; G. Scheltens, Kritische Würdigungder Illuminationslehredes hl. B., in Wissenschaft undWeisheit, XXIV (1961), pp. 167-181; Corrado da Alatri, La logica dell'essere in s. B., in Miscell. Franc., LXI (1961), pp. 157-197; Id., La struttura dell'essere secondo s. B., in Coll. Franc., XXXII (1962), pp. 209-229; Id., L'essenza dell'essere come amore in s. B., ibid., XXXIV (1964), pp. 63-98, 339-366; J. Ratzinger, Der Wortgebrauch vonNatura und diebeginnende Verselbständigung derMetaphysik bei B., in Die Metaphysik im Mittelalter, Berlin 1963, pp. 483-498; V. C. Bigi, La dottrina della temporalitàe del tempo in s. B., in Antonianum, XXXIX (1964), pp. 437-488; XL (1965), pp. 96-151.

Sulla teologia dell'incarnazione: A. Gerken, Theologie desWortes. Das Verhältnisvon Schöpfung undInkarnation bei B., Düsseldorf 1963; Id., Der johanneische Ansatz in derChristologie B.s, in Wissenschaft und Weisheit, XXVII (1966), pp. 89-100; W. Hülsbusch, Elemente einerKreuzestheologie in denSpätschriften B.s, Düsseldorf 1968.

Sull'etica: A.-M. Hamelin, Pour l'hist. de la théologie morale. L'école franciscaine dès ses débutsjùsqu'à l'Occamisme, Louvain 1961, pp. 22-38 (e pp. 38-54 sull'influenza di B.), con abbondante bibliografia; Casimiro Rodrigues de Graiaù, Anatureza domérito no ensinamentodo Doutor Seráficos. B., Milano 1963; M. Behnen, De virtute prudentiae apud s. B., Romae 1965; Ph. Delhaye, La vertu de religion dansl'enseignement de st. B., in Culture, XXVI (1965), pp. 387-398; B. Marthaler, Original justice andsanctifying grace inthe writings ofst. B., Rome 1965; M. de Wachter, Le péché actuel selon st. B., Paris 1967; A. Elsässer, Christus der Lehrer desSittlichen. Die christologischenGrundlagen für dieErkenntnis desSittlichen nachder Lehre B.s, München-Paderborn-Wien 1968.

Su singole questioni: H. R. Schlette, Die Lehre von dergeistlichen Kommunionbei B., Albert dem Grossenund Thomas von Aquin, München 1959, pp. 30-84; V. Natalini, De natura gratiae sacramentalis iuxta s. B., Romae 1961; G. J. Connolly, Sacramental character in the teachingsof st. B., in Collectanea Franciscana, XXXIII (1963), pp. 129-158; J. Ratzinger, Wesen und Weisen derAuctoritas imWerk des hl. B., in Die Kirche undihre Ämter undStände. Fringsfestschrift, Köln 1962, pp. 58-72; K. Forster, Liber vitae beiB.: einbegriffsgeschichtlicher Aufriss, in Theologie in Geschichteund Gegenwart, München 1957, pp. 397-414; W. Rauch, Das Buch Gottes. Eine systematischeUntersuchung desBuchbegriffes bei B., München 1961; M. Schmaus, Die Unsterblichkeit der Seele und dieAuferstehung desLeibes nach B., in L'homme et son destin, Louvain-Paris 1960, pp. 505-519; T. Gregory, Sull'escatologia di B. e Tommasod'Aquino, in Studi medievali, VI, 2 (1965), pp. 79-94; B. Strack, Christusleid imChristenleben. Ein Beitrag zur Theologie deschristlichen Lebens nachdem hl. B., Werl in Westf. 1960; J. Etspüler, Das göttliche Wort imKünder der christlichenWahrheit nach dem hl. B., Porto Alegre 1961; J. Riedl, Das Heil derNichtevangelisierten nach B., in Theologische Quartalschrift, CXLIV (1964), pp. 276-289; V. Veith, Die Heilsbedeutung derWunder Jesu Christi nach demhl. B., Rom 1967; P. Fehlner, The role of charity in theecclesiology of st. B., Rome 1965; A. Elsässer, Die verschiedenenStände in der Kirchenach der Lehredes hl. B., in Wissenschaft undWeisheit, XXXI (1968), pp. 13-29; K. Peter, Die Lehre von derSchönheit nach B., Werl in Westf. 1964; H. U. von Balthasar, La Gloire et la Croix,Les aspects esthétiques dela révélation, I, Paris 1965, pp. 309-360; II, ibid. 1968, pp. 237-315.

Un Bollettino di informazioni del Centro di studi bonaventuriani di Bagnoregio esce annualmente a partire dal 1954 col titolo Doctor Seraphicus. Il Cenacolo bonaventuriano dell'Oasi Maria Immacolata di Montecalvo Irpino organizza annualmente degli "Incontri Bonaventuriani" curandone la pubblicazione degli Atti: sono usciti finora 4 voll.: La Madonnain s. B., 1965; I privilegidi Maria SS. in s. B., 1966; Aspetti della Cristologia in s. B., 1967; La Chiesa in s. B., 1968.

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