BIOLOGIA CELLULARE

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Biologia cellulare

Bruno Bertolini

Alla fine del 20º sec. le conoscenze nel campo della b. c. sono aumentate in modo consistente, a tal punto che è difficile tratteggiare in maniera sintetica quali siano state le nuove acquisizioni in quest'area delle discipline biologiche. Il nucleo centrale della b. c. non è variato ma, in un certo senso, sta cambiando il punto di vista più generale, il modo di considerare la cellula nel suo insieme come sistema integrato. Mentre le conoscenze puntuali e i relativi campi di applicazione si sono moltiplicati così tanto da rendere impossibile al singolo ricercatore di dominare altro che una ristretta sezione della b. c., si viene affermando un nuovo paradigma che è stato definito biologia della rete (Barabàsi, Oltvai 2004), paradigma che cerca di offrire un quadro univoco per interpretare l'organizzazione funzionale della cellula e per dominarne la complessità. Verrà pertanto tratteggiato questo aspetto dell'evoluzione della teoria cellulare, riferendo soltanto su alcuni progressi in campi particolari, rimandando a voci più specifiche la trattazione di altri argomenti di grande interesse scientifico e applicativo (v., per es., bioinformatica, biotecnologia, citochine, clonazione, dna, embrione umano, fattori di crescita, genoma, plasmidi, prione, proteoma, rna, sonde molecolari, transgenico, trapianti, tumori e cancro).

Il nucleo centrale della teoria cellulare, ossia l'affermazione esplicita e documentata che la cellula rappresenti non soltanto l'elemento anatomico elementare, ma soprattutto la base di ogni attività fisiologica, è tuttora valido, dopo più di un secolo e mezzo dalla sua formulazione (Schleiden nel 1838; Schwann nel 1839). Con le correzioni alla teoria citogenetica di M. Schleiden apportate da R. Virchow, E. Strasburger e W. Flemming, alla fine dell'Ottocento il fondamento della teoria cellulare si può dire consolidato e, per tutto il 19º sec. e fino agli anni Venti del 20º, un gran numero di ricercatori, grazie anche al miglioramento dei microscopi e all'introduzione di tecniche di preparazione sempre più perfezionate, costruirono quel corpus di conoscenze che fu riassunto nella 'bibbia' dei citologi della prima metà del 20º sec., The cell in development and heredity (1925) di E.B. Wilson. Le ricerche proseguirono attivamente fino al secondo dopoguerra, ma l'assenza di reali progressi tecnologici e la mancata formulazione di nuovi concetti portò a una fase di stallo. Fin verso la fine degli anni Quaranta, i biologi cellulari si trovavano nella frustrante situazione del "guardare e non toccare", come scrive A. Claude, uno dei pionieri della b. c. moderna, nella sua Nobel lecture del 1974. A questo proposito, Claude riporta ancora: "Ho un vivo ricordo dei miei giorni di studente, delle ore passate al microscopio ottico, a girare senza fine la vite micrometrica e a scrutare gli offuscati confini che nascondevano la misteriosa sostanza fondamentale dove si sarebbero potuti scoprire i misteriosi meccanismi della vita cellulare" (p. 433). Le strutture subcellulari sfumavano verso l'invisibile mondo delle molecole e non esistevano ancora tecniche sperimentali che permettessero di analizzarne la composizione chimica, di indagarne le attività fisiologiche. Intorno al 1950, nelle scienze biologiche si verificò una grande svolta, determinata dalla confluenza di campi di ricerca, di conoscenze, di interpretazioni teoriche, le cui premesse erano state poste già negli anni Trenta-Quaranta, ma che erano rimaste fino ad allora in gran parte non collegate tra loro. Questa considerazione generale vale anche, specificamente, per la b. c. moderna, che si è formata, negli anni Cinquanta, da un sempre più stretto intreccio di tre filoni di ricerca storicamente separati, e cioè dalldella citologia, disciplina che studia la struttura cellulare, con la biochimica e la genetica. Il quadro della b. c. si è fatto più ampio e complesso, anche per l'utilizzo di tecniche sempre più potenti e innovative: la microscopia elettronica, la separazione dei costituenti cellulari attraverso tecniche di centrifugazione frazionata o in gradiente di densità, l'uso di precursori radioattivi, lo sviluppo dell'istochimica, le tecniche che utilizzano anticorpi coniugati con coloranti fluorescenti e le tecniche di manipolazione genetica. Nell'ultimo decennio del 20º sec. e nei primi anni del 21º si sono registrati notevoli progressi nelle conoscenze, soprattutto in alcuni campi specifici, e su alcune di queste nuove acquisizioni ci si soffermerà dettagliatamente al fine di introdurre il problema della complessità del sistema cellula e di come il quadro divenga sempre più definito, e come si cerchi nel contempo di dominarne la complessità attraverso nuove descrizioni formalizzate. Il sequenziamento del genoma umano, pressoché completato nel 2003, e di altri organismi, molto usati come modelli nella sperimentazione in genetica e in biologia dello sviluppo, ha permesso di superare la caratterizzazione dei singoli geni e di ottenere una visione integrata del funzionamento complessivo dell'organizzazione genomica. A queste conoscenze si è aggiunta una comprensione più approfondita dei molteplici meccanismi di regolazione dell'espressione genica. Argomenti che appaiono più propriamente appartenenti alla b. c. riguardano il funzionamento e le connessioni funzionali tra gli organelli cellulari. Verrà di seguito trattato in particolare l'argomento delle 'macchine molecolari' che intervengono nella sintesi proteica, dello strano meccanismo rotatorio con cui i mitocondri trasformano l'energia degli zuccheri in forma utilizzabile da parte della cellula, dei meccanismi di controllo della corretta conformazione delle proteine, di un nuovo modello per il funzionamento dell'apparato di Golgi, della descrizione completa dei meccanismi di controllo del ciclo cellulare. Il termine 'meccanismi' ricorre più volte tanto che effettivamente si potrebbe parlare di un nuovo meccanicismo a livello cellulare, ma, mentre i meccanicisti secenteschi e gli iatrofisici del 17º sec. cercavano negli organi e nei tessuti i componenti meccanici delle macchine del loro tempo (le leve, le molle, i mantici, i filtri, le ruote), per il biologo cellulare contemporaneo le 'macchiette' sono le molecole che compongono la 'sostanza' vivente, termine improprio dal punto di vista del chimico, ma che si adopera come sopravvivenza del linguaggio scientifico ottocentesco: una miriade di molecole, di ogni dimensione e struttura, dalle enormi macromolecole proteiche alle piccole molecole degli zuccheri semplici o dei microRNA.

La sintesi proteica: gli enzimi non sono esclusivamente proteine

Negli anni Sessanta il meccanismo della sintesi proteica fu chiarito, almeno nelle sue linee principali, e fu anche dimostrato che il 'banco di montaggio' delle proteine era costituito da piccole particelle granulari, già descritte dai microscopisti elettronici, e le tecniche di isolamento delle frazioni cellulari permisero di analizzarne la composizione molecolare. Complessivamente ognuna di queste particelle comprendeva circa 82 proteine e 4 molecole di RNA, e fu loro attribuito il nome di ribosomi. In realtà, dobbiamo considerare il ribosoma qualcosa di più di un banco di montaggio sulla cui superficie sono assemblate le grosse molecole proteiche; esso appare piuttosto come una macchina a controllo automatico, in cui un nastro contenente le informazioni (mRNA) regola il comportamento della macchina stessa che inserisce a sua volta nella corretta posizione ogni singolo aminoacido, in modo che la predeterminata sequenza aminoacidica determini poi le caratteristiche e le attività biologiche della proteina. Nei primi anni del 21º sec. l'architettura molecolare del ribosoma è stata rivelata in ogni minimo dettaglio grazie all'applicazione di tecniche quali la cristallografia a raggi X e la risonanza magnetica nucleare (Yusupov, Yusupova, Baucom et al. 2001; Noller 2005), ma uno dei dati che aveva provocato anni prima lo stupore dei biologi era stata l'osservazione che l'attività della peptidiltransferasi, cioè dell'enzima che catalizza la reazione fondamentale della sintesi proteica, ossia la concatenazione degli aminoacidi per formazione di quello che è stato definito legame peptidico, non era una proteina, ma uno degli RNA fondamentali del ribosoma. Per chi non conosce questi problemi, potrà sembrare poca cosa, un semplice dettaglio biochimico, ma per i biologi fu una vera rivoluzione concettuale. Fin da quando J. Sumner, nel 1926, ottenne la cristallizzazione dell'enzima ureasi, isolò cioè l'enzima in forma chimicamente pura, dimostrando che si trattava di una proteina, i biologi ritennero che l'equazione enzima=proteina avesse una valenza assolutamente universale. Nacque quindi il concetto di una divisione del lavoro tra le macromolecole: gli acidi nucleici, DNA e RNA sarebbero stati i depositari e i mediatori dell'informazione genetica, mentre alle proteine sarebbe toccato il compito di esecutori dei processi biochimici che facevano funzionare la cellula. Già all'inizio degli anni Ottanta era stato scoperto che molecole di RNA del tipo citato a proposito dei ribosomi, erano capaci di funzionare come enzimi, e tale osservazione, oltre a contraddire la generalità di un principio da tutti ormai accettato, fece intuire che nelle profondità dei tempi geologici, circa tre miliardi di anni fa, la vita poteva aver avuto un'origine molto diversa da ciò che fino a quel momento si era pensato.

Un mondo a RNA

Il 28 febbraio 1953, due mesi prima della pubblicazione della nota in cui era proposto il modello molecolare per il DNA, all'Eagle Pub di Cambridge, F. Crick annunziò trionfalmente che insieme a J. Watson avevano scoperto "il segreto della vita" (Watson, Berry 2004). Per cinquant'anni il DNA regnò indisturbato. La vita, dal punto di vista dei processi molecolari, avrebbe avuto sin dalle sue origini le medesime caratteristiche fondamentali: il DNA come archivio di informazioni, le proteine come catalizzatori capaci di indirizzare i processi biochimici e l'RNA come utile intermediario tra queste due categorie di molecole. Quando ci si rese conto che molecole di RNA erano dotate di proprietà catalitiche, ossia erano capaci sia di immagazzinare informazione, sia di catalizzare reazioni chimiche, fu lanciata l'ipotesi di un mondo primitivo a RNA. I dati a favore di tale idea sono molti, e tra questi la maggiore facilità della formazione spontanea di molecole di RNA, rispetto a quelle di DNA, nelle condizioni presenti sulla superficie della Terra primeva. Nelle cellule 'attuali', le proteine, con la loro straordinaria varietà di strutture e la versatilità delle loro attività, sono gli efficientissimi catalizzatori dei processi biochimici. Le molecole di DNA, stabili e capaci di replicarsi pressoché senza errori, rappresentano il perfetto archivio delle informazioni genetiche. Le proteine sono però incapaci di replicarsi, mentre il DNA, con la sua forma a doppia elica, è incapace di fungere da catalizzatore. Solo l'RNA è in grado di compiere entrambe le funzioni, anche se in maniera non troppo efficiente, e su questo dato si basa l'ipotesi di un mondo primitivo a RNA, ossia un mondo popolato da organismi semplicissimi, contenenti, all'interno di una vescichetta lipidica, molecole di RNA. A un certo punto di questa prima tappa dell'evoluzione, di questo passaggio dalla chimica alla vita, sarebbe comparso il DNA, e con esso le proteine, l'RNA avrebbe perso gran parte delle sue funzioni originarie, e ciò che resta oggi è soltanto un residuo e una traccia di un mondo ormai scomparso.

Energia chimica per mezzo di una turbina molecolare

I manuali di b. c. e di biologia molecolare sono pieni di modelli meccanici che, proponendo macchinari ben noti nella vita di ogni giorno, tendono a spiegare per analogia il comportamento e le funzioni di strutture molecolari. Tuttavia, una nuova acquisizione è particolarmente stupefacente perché la realtà modellata e il suo modello esplicativo si sono rivelati pressoché sovrapponibili. Si tratta di un modello che riguarda la fase finale dei trasferimenti di energia nei mitocondri, gli organelli cellulari definiti le centrali energetiche della cellula, in grado di attuare la respirazione cellulare, ossia di utilizzare l'energia contenuta nei legami chimici delle molecole di zuccheri e di grassi per sintetizzare un composto che rappresenta una forma di energia chimica facilmente e prontamente disponibile per la cellula, l'adenosintrifosfato (ATP). Una prima fase non richiede la presenza di ossigeno, e in essa si produce soltanto una piccola parte dell'ATP. La seconda fase del metabolismo energetico, quella che produce la maggior parte dell'ATP, richiede la presenza di ossigeno, perché appunto sulle molecole di ossigeno atmosferico che diffonde nelle cellule portato dalla circolazione sanguigna, convergono gli ioni idrogeno, o protoni, e gli elettroni derivanti dalla fase precedente, formando molecole di acqua, un sottoprodotto della respirazione cellulare. I biochimici descrissero questi processi sotto il nome di fosforilazione ossidativa, intendendo dire che l'energia derivante dalla completa ossidazione di zuccheri e grassi fino ad anidride carbonica e acqua veniva utilizzata per fosforilare, ossia inserire un ulteriore residuo fosforico sul precursore dell'ATP, caricandolo così di energia facilmente spendibile. Tuttavia per molti anni restò il dubbio su come i due fenomeni fossero collegati: la caduta di potenziale degli elettroni, trasportati fino all'ossigeno da complessi proteici presenti nella membrana più interna del mitocondrio e il legarsi allo stesso ossigeno dei protoni, produceva acqua, molecola dal contenuto energetico molto basso, liberando quindi energia che era utilizzata per fabbricare ATP. Ma che cosa legava i due processi? Già negli anni Settanta un biochimico dell'Università di Edimburgo, P. Mitchell, premio Nobel per la chimica nel 1978, aveva proposto un modello, che fu detto modello chemio;osmotico, secondo il quale l'energia di caduta di potenziale degli elettroni derivanti dalla degradazione degli zuccheri e dei grassi sarebbe stata utilizzata da alcuni degli stessi complessi proteici della membrana interna del mitocondrio per trasferire protoni dal compartimento più interno allo spazio tra le due membrane mitocondriali. La deplezione di protoni del compartimento interno, detto matrice mitocondriale, avrebbe prodotto, tra i due lati della membrana interna, una differenza di concentrazione, ossia un gradiente osmotico, e una differenza di carica elettrica, dato che i protoni, o ioni idrogeno (H+), sono elettricamente carichi, e questo avrebbe rappresentato un accumulo di energia potenziale, utilizzabile per la sintesi dell'ATP. Il modello di Mitchell fu convalidato da numerosi esperimenti, e quindi un passo avanti era stato fatto nella comprensione del processo, ma mancava ancora parte del collegamento fra il trasporto degli elettroni e la fosforilazione dell'ATP. Occorre fare un passo indietro e introdurre nel mosaico delle ricerche un altro tassello, che acquisterà il suo pieno significato soltanto alla fine degli anni Novanta. All'inizio degli anni Sessanta, H. Fernandez;Moran, un microscopista elettronico capace di sfruttare lo strumento ai limiti delle sue possibilità tecniche, descrisse particelle sferiche legate da un sottile stelo alla membrana mitocondriale interna. Pochi anni dopo, il biochimico E. Racker riuscì a isolare queste particelle, che chiamò F1, dimostrando che si comportavano come un enzima che scindeva l'ATP, ossia come un'ATPasi. Ci si chiederà come sia possibile che nei mitocondri sia presente, in grandissima quantità, l'enzima che distrugge proprio la sostanza che questi hanno la funzione di produrre. Bisogna ricordare che gli enzimi, nella loro funzione di catalizzatori biologici, accelerano la velocità di una reazione, non ne determinano il senso, il quale dipenderà dalle condizioni di partenza. Un'ATPasi, quindi, a seconda della situazione, potrà sia scindere l'ATP sia produrlo, e potrà a buon diritto, in quest'ultimo caso, ricevere il nome di ATPsintasi, ossia di enzima che sintetizza ATP. Esperimenti successivi confermarono che le particelle scoperte da Fernandez;Moran e caratterizzate biochimicamente da Racker erano effettivamente indispensabili per collegare il trasporto degli elettroni con la fosforilazione dell'ATP. Nei manuali di b. c. è rappresentato di frequente un modello meccanico per illustrare il funzionamento di questa ATPasi/sintasi, e precisamente quello di una pompa rotativa, le cui palette rotanti possono spingere un fluido nel condotto di scarico, ma che, se il flusso del fluido fosse invertito e questo spingesse le palette nel senso opposto, si sarebbe convertita in una turbina. L'enzima avrebbe funzionato da ATPsintasi se ci fosse stato un flusso di protoni sufficiente a far rotare l'ipotetica turbina in modo tale da trasformare l'energia di questo flusso in moto rotatorio del suo asse e, nel modello, ciò avrebbe portato alla sintesi di ATP. Il modello non è puramente metaforico, ma ha anche una sua concretezza biologica, perché è noto che è possibile far funzionare a rovescio quelle 'pompe' che, a livello della membrana cellulare, provvedono a mantenere i gradienti di concentrazioni ioniche tra le due facce della membrana stessa, consumando ATP in questo lavoro. Invertendo sperimentalmente i gradienti ionici le pompe possono funzionare, infatti, come turbine, producendo ATP invece di consumarlo. Nel 1997 P. Boyer pubblicò un'ipotesi innovativa, che implicava che i tre siti catalitici per la sintesi dell'ATP, presenti nella porzione globulare della particella osservata da Fernandez;Moran e caratterizzata da Racker, passassero alternativamente attraverso tre stadi del processo di sintesi dell'ATP. Ciò poteva far pensare che la particella effettivamente rotasse su sé stessa, come una turbina mossa dalla cascata dei protoni, che fluivano dal compartimento esterno del mitocondrio in quello interno. Nello stesso anno, J. Walker e i suoi collaboratori pubblicarono un dettagliatissimo modello atomico della particella F1, confermando l'ipotesi di Boyer, e, poco dopo, osservazioni al microscopio, condotte attaccando alla particella molecole rese fluorescenti, come fossero bandierine di segnalazione, permisero di vedere direttamente la veloce rotazione della testa della particella (Wada, Sambongi, Futai 2000). Il modello analogico della turbina rotante, concepito all'inizio come un utile espediente didattico, si era effettivamente rivelato assai più aderente alla realtà di quanto non avesse potuto prevedere chi lo aveva proposto a suo tempo.

Novità sull'apparato di Golgi. - Nel 1898 l'istologo e patologo dell'Università di Pavia, C. Golgi, applicando un nuovo metodo di colorazione, la 'reazione nera', che gli aveva permesso di descrivere la fine istologia del sistema nervoso e per cui ricevette il premio Nobel nel 1906, osservò casualmente una struttura cellulare fino a quel momento mai descritta, che chiamò apparato reticolare interno. L'applicazione metodica della stessa tecnica a molti tipi cellulari diversi permise a Golgi e ai suoi allievi, e in seguito a molti altri ricercatori, di dimostrare che tale organello era presente in tutte le cellule e che una delle sue funzioni era senz'altro legata nelle cellule ghiandolari al processo della secrezione. A questo primo periodo di fruttuosa ricerca seguì un periodo di confusione, in parte dovuto a ragioni tecniche, quali la scarsa risoluzione del microscopio ottico, la carenza di metodi che permettessero di rilevare e seguire nei loro movimenti specifiche molecole, ma anche alla creazione di una terminologia ipertrofica e confusa, tanto da arrivare a mettere in dubbio l'esistenza stessa dell'organello. I dubbi sulla reale esistenza dell'apparato di Golgi furono fugati dalle osservazioni condotte con il microscopio elettronico, tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta del 20º sec., osservazioni in cui fu applicata a livello ultrastrutturale la reazione nera di Golgi. La fiducia dei biologi nella 'realtà' delle immagini elettroniche spazzò via ogni dubbio e permise un nuovo ciclo di studi su questo fondamentale organello cellulare. Dal punto di vista ultrastrutturale, l'apparato di Golgi consiste in una pila di cisterne, o 'sacchi appiattiti', circondati da una nuvola di vescicole che sembrano fondersi o gemmare dal margine di questi sacchi. Le nuove idee sull'apparato di Golgi derivano da ricerche degli anni Sessanta, condotte da L. Caro, G. Palade e J. Jamieson che, con l'uso di aminoacidi radioattivi, rivelarono il transito direzionale delle proteine, provenienti dal reticolo endoplasmico granulare attraverso l'apparato, da ricerche di M. Peterson e P.C. Leblond, che dimostrarono che in esso avviene la sintesi di glucidi complessi, e poi ancora da ricerche degli anni Ottanta, condotte da W.G. Dunphy e J.E. Rothman, che misero in evidenza l'eterogeneità enzimatica delle cisterne e il parallelismo tra il transito delle proteine attraverso la serie delle cisterne impilate e le loro successive trasformazioni biochimiche. In una cellula eucariote sono sintetizzate migliaia di proteine diverse che devono essere distribuite con precisione, prendendo il loro posto tra le proteine del citoplasma fondamentale o tra le proteine del citoscheletro, essere segregate all'interno di questo o quel compartimento, questo o quell'organulo, inserirsi in ben determinate regioni dell'insieme delle membrane o infine essere secrete a un polo o all'altro della cellula. L'apparato di Golgi rappresenta il centro direzionale di questo traffico macromolecolare e tale è appunto il ruolo fondamentale che è attribuito all'organulo da M.G. Farquhar e G.E. Palade nel 1981. Le scelte di percorso si basano su complessi e delicati processi di riconoscimento di segmenti della stessa sequenza aminoacidica della proteina, detti sequenze segnale, come hanno messo in evidenza G. Blobel, B. Dobberstein e P. Walter tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, e sulla successiva 'etichettatura' delle proteine mediante l'aggiunta di oligosaccaridi ramificati, ossia di strutture ad alberello costituite da brevi catene ramificate, formate dalla concatenazione di zuccheri semplici. Passando attraverso la pila delle cisterne dell'apparato di Golgi, le diverse proteine risultano modificate, sono tagliati tratti alle loro estremità e gli alberelli glucidici vengono via via modificati dai diversi enzimi residenti nelle cisterne successive. Ci si può chiedere a questo punto come facciano le proteine a passare da una cisterna a quella seguente, e così via fino ad attraversare completamente l'apparato di Golgi, giungendo a completa maturazione. Fino alla metà degli anni Ottanta si riteneva che le cisterne fossero strutture transitorie, che si formavano da vescicole che si distaccavano dal reticolo endoplasmico granulare, il luogo di sintesi delle proteine, fluivano poi attraverso la pila e si risolvevano, alla faccia opposta dell'organello, di nuovo in vescicole che andavano in seguito a fondersi con altri compartimenti membranosi della cellula. Tale modello era detto modello di maturazione delle cisterne. Tra la metà degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta del 20º sec., la preferenza dei biologi cellulari si rivolse invece verso un differente modello, detto del trasporto vescicolare, secondo il quale le cisterne sarebbero state strutture fisse e le proteine sarebbero state trasportate da una cisterna a quella successiva da vescicole che sarebbero gemmate dal margine di una cisterna per andare a fondersi con la cisterna successiva. In ogni cisterna le proteine avrebbero trovato un ambiente enzimatico differente, atto a produrre la successiva tappa maturativa. Ognuno dei due modelli incontrava difficoltà esplicative e contraddizioni. Le proteine che passano da una cisterna all'altra della pila sono successivamente modificate da ambienti enzimatici differenti. Se ogni cisterna si sposta attraverso la pila, con il proprio contenuto proteico, anche il suo corredo enzimatico si sposterebbe, mantenendosi costante per quella determinata cisterna. In tal modo diventa difficile spiegare la successione di interventi enzimatici differenti per la maturazione delle proteine. Per questa ragione al modello di maturazione delle cisterne fu preferito il modello del trasporto vescicolare, anche se alcune osservazioni lo contraddicevano. Alcuni grandi complessi plurimolecolari (per es., i precursori delle fibrille collagene secrete dai fibroblasti), troppo ingombranti per entrare nelle vescicole di trasporto, restano sempre all'interno di una singola cisterna, mentre questa si sposta attraverso la pila. Tale osservazione mostra che effettivamente le cisterne scorrono da una faccia all'altra dell'apparato, attraversando tutta la pila.

Per quanto ambedue i modelli abbiano i loro sostenitori, nel corso del tempo si è passati a preferire un modello che combina le caratteristiche di entrambi quelli descritti. In questo modello 'combinato', si ammette che le cisterne fluiscano da una faccia all'altra dell'apparato, trasportando al loro interno i grandi complessi molecolari che non potrebbero entrare nelle vescicole di trasporto, ma, mentre le vescicole di trasporto si staccano da una cisterna e si fondono con la successiva, trasportando molecole proteiche in via di maturazione, altre vescicole seguono un moto retrogrado, trasportando all'indietro il corredo enzimatico della cisterna che si sposta in avanti verso la cisterna che resta più indietro. In tal modo, anche se le cisterne scorrono attraverso la pila, il contenuto enzimatico di ogni livello della pila resta costante, mentre si modifica in successione quello della singola cisterna che scorre. Si potrebbe provare a proporre un modello analogico, paragonando l'apparato di Golgi a una fabbrica, le cisterne ai diversi reparti di lavorazione, le proteine ai prodotti semilavorati che passano da un reparto al successivo, le vescicole di trasporto che fanno la spola avanti e indietro a camion che trasportano in avanti i semilavorati e all'indietro le macchine utensili da un reparto a quello precedente nella catena di montaggio. Ma le cellule non sono state progettate in modo razionale da un ingegnere chimico, si sono formate attraverso le vie tortuose e casuali dell'evoluzione. È la nostra mente che cerca di applicare ai processi naturali il nostro modo di ragionare. Molti processi possono apparire inutilmente complicati e, secondo il nostro punto di vista, potrebbero essere semplificati e ottimizzati, ma questo in realtà è il risultato che la natura ha prodotto negli ultimi tre miliardi di anni.

Il traffico vescicolare

Molti nuovi dati si vengono accumulando sui sistemi di trasporto vescicolare tra i diversi compartimenti cellulari. Alle tecniche ormai tradizionali (microscopia elettronica, marcatura con radioattivi o con fluorescenti) si è aggiunto un nuovo, ingegnoso metodo di marcatura: l'uso della proteina fluorescente verde o GFP (Green Fluorescent Protein), una piccola proteina presente in alcune meduse, che emette una forte luce verde quando la sua fluorescenza è eccitata dalla luce ultravioletta. Il gene per questa proteina, isolato e clonato, può essere legato al gene della proteina di cui si vogliono studiare gli spostamenti. La proteina chimerica così prodotta sarà fluorescente e se ne potranno seguire i movimenti nella cellula vivente. Il trasporto vescicolare richiede una serie di delicati accorgimenti molecolari, in parte ancora da scoprire. La descrizione di questi fini meccanismi è un ulteriore esempio della complessità dei processi cellulari. Dalle membrane del reticolo endoplasmico si devono formare per gemmazione e distaccare vescicole con contenuto specifico. Ciò viene attuato per cooperazione tra proteine integrali delle membrane del reticolo endoplasmico e proteine presenti nel citoplasma, dette proteine di rivestimento o COP (Coat Proteins), che formano un rivestimento fioccoso, ben riconoscibile al microscopio elettronico. Le proteine integrali citate fungono da recettori per il carico della vescicola. Con la loro estremità rivolta verso il lume delle cisterne riconoscono e fissano un insieme omogeneo di molecole che diverranno il carico della vescicola stessa e, sporgendo con una coda sul suo lato citosolico, reclutano e legano le COP. In cooperazione con altre proteine citoplasmatiche, il rivestimento chiude, distacca e stabilizza la vescicola di trasporto. Il trasporto può anche essere retrogrado, perché qualche proteina residente nelle cisterne del reticolo, per sbaglio, può essere stata caricata insieme alle proteine da esportare. Tuttavia l'errore può essere corretto: le proteine residenti posseggono una coda di specifici aminoacidi che rappresenta una sorta di etichetta, che viene riconosciuta da recettori di membrana, i quali reclutano a loro volta una COP, si forma così una vescicola che riporta all'origine il carico sbagliato. Oltre alle COP, esiste un'altra proteina, la clatrina (dal greco clathron, "gabbia"), che forma delicate e graziose gabbie, sia intorno alle vescicole che trasportano dalla membrana plasmatica all'interno della cellula molecole o particelle, sia intorno alle vescicole che si muovono tra i compartimenti del cosiddetto apparato digestivo della cellula. L'ancoraggio e la fusione della vescicola di trasporto allo specifico compartimento cui il suo carico è destinato viene attuato con il meccanismo del mutuo riconoscimento stereochimico, che è una delle fondamentali caratteristiche delle proteine. Le vescicole posseggono recettori specifici, riconosciuti da recettori complementari sporgenti dalla membrana del compartimento di destinazione, e l'attracco della vescicola alla membrana bersaglio provoca la fusione delle due membrane e la 'consegna' del carico. Ma ancor prima dell'attracco definitivo, la vescicola viene pescata di lontano, da lunghe proteine filamentose che la attirano verso la membrana di arrivo (Pfeffer 1999), come quelle sottili cime che dalle navi vengono gettate agli ormeggiatori, per trainare i pesanti cavi di ormeggio verso le bitte della banchina, per usare un paragone marinaro.

Problemi per il corretto ripiegamento delle proteine

Nel 1956 C. Anfinsen dimostrò che la struttura tridimensionale delle proteine è determinata fondamentalmente dalla loro sequenza aminoacidica. Dal momento che l'attività biologica di una proteina dipende dalla sua configurazione spaziale, risulta evidente che il corretto ripiegarsi su sé stessa della catena polipeptidica è essenziale perché una proteina possa funzionare nel modo dovuto. Nonostante che il ripiegamento sia governato da semplici principi chimico-fisici, qualche molecola può assumere una configurazione sbagliata, divenendo inutile o addirittura dannosa, ma a tali errori la cellula è in grado di porre rimedio attraverso l'intervento di particolari proteine, cui è stato attribuito il curioso nome di chaperonine. La storia di queste proteine comincia nel 1962, quando un biologo italiano, F. Ritossa, osservò che in larve di Drosophila allevate a temperatura superiore a quella ottimale, si osservava l'attivazione di particolari geni. Una decina di anni più tardi fu chiarito che l'attivazione di questi geni era correlata alla comparsa di particolari proteine, che furono definite proteine da shock termico (HSP, Heath Shock Proteins). Tali proteine comparivano negli organismi più diversi, dai batteri, alle piante, ai mammiferi, ed erano presenti, in concentrazioni più basse, anche in condizioni normali. Gli studi successivi chiarirono che queste proteine hanno la funzione di coadiuvare il corretto ripiegamento delle proteine, o di correggerlo, ove alterato. La delicata architettura delle molecole proteiche può essere danneggiata, in molti casi, anche da modesti aumenti della temperatura che provocano un iniziale srotolamento della catena polipeptidica. La proteina può esporre in superficie gruppi idrofobici, prima schermati rispetto all'ambiente acquoso del citoplasma, perché racchiusi all'interno dell'avvolgimento della molecola. Come le goccioline di grasso del brodo si riuniscono a formare 'occhi' sulla sua superficie, così i gruppi idrofobici delle proteine possono farle aggregare in complessi plurimolecolari, con gravi danni per la funzionalità della cellula. Il nome di queste proteine, chaperonine, deriva dal termine francese chaperon, che indica la parente anziana che accompagna alla messa o a fare le compere la signorina di buona famiglia, vigilando affinché non scambi occhiate o messaggi con imprudenti e sfacciati giovanotti. Allo stesso modo le chaperonine impediscono che una proteina 'vada sulla cattiva strada', avvolgendosi in modo non corretto o formando dannosi aggregati con altre molecole. Al di là della metafora di costume, è stato proposto un modello fisico;chimico che spiega bene il funzionamento di una di queste chaperonine, e precisamente la coppia GroEL/GroES, studiata con tecniche di microscopia elettronica ad alta risoluzione (Chen, Sigler 1999) e di diffrazione dei raggi X (Xu, Horwich, Sigler 1997). GroEL è costituito da quattro anelli sovrapposti, ognuno formato da sette subunità identiche. Ogni coppia di anelli costituisce una camera cilindrica, aperta e pronta ad accogliere la proteina malformata, che si lega ai gruppi idrofobici esposti sulla superficie interna della camera. La cattura della molecola malformata e il legame con una molecola di ATP, che fornisce l'energia per il processo, permette l'attacco di GroES, che costituisce una specie di coperchio che chiude una delle due camere di GroEL. Il legame con GroES produce un cambiamento conformazionale delle pareti della camera, che si espande e dalla cui superficie interna spariscono i gruppi idrofobici. La proteina male avvolta ha così la possibilità di riavvolgersi in un ambiente protetto. Dopo una quindicina di secondi la camera si riapre e la proteina viene espulsa, ma se ancora risulta avvolta non correttamente, può essere ricatturata per un nuovo ciclo di correzione. Le due camere di GroEL funzionano alternativamente in un ciclo continuo. Il problema del raggiungimento della corretta conformazione tridimensionale si pone di nuovo per organelli delimitati da membrane, quali i mitocondri e i cloroplasti, la maggior parte delle cui proteine sono codificate da geni nucleari e vengono sintetizzate nel citosol. Sorge quindi il problema dell'importazione di tali proteine attraverso le membrane che circondano gli organelli. Il problema si presenta perché le membrane sono dotate di speciali canali proteici in grado di trasferire proteine attraverso la membrana, ma le proteine li possono attraversare soltanto nella forma totalmente distesa, e quindi, una volta passato il confine dell'organello, devono essere correttamente riavvolte nella forma biologicamente funzionale. Anche in questo caso si sono trovate diverse chaperonine che intervengono in sequenza (Hsp60, Hsp70), srotolando e riavvolgendo le proteine che vengono importate negli organelli (Bauer, Hofmann, Neupert et al. 2000; Chen, Schnell 1999). Se una proteina non riesce a raggiungere la conformazione corretta, o se ha terminato la sua vita utile all'interno della cellula, va comunque distrutta. La mancata degradazione di proteine non correttamente conformate, o che stanno perdendo la loro conformazione funzionale e possono formare pericolosi aggregati, può danneggiare la cellula e, in qualche caso, avviarla verso la trasformazione tumorale. Alla degradazione delle proteine provvede un processo detto di ubiquitinazione, termine che deriva dal nome di una piccola proteina che viene legata in più copie alle proteine da distruggere, l'ubiquitina. L'effettiva distruzione viene attuata da un grosso complesso proteico detto proteasoma, la cui struttura è stata rivelata da osservazioni di microscopia elettronica ad alta risoluzione (Holzl, Kapelari, Kellermann et al. 2000). Nelle immagini elettroniche il proteasoma appare come una vera macchina molecolare, un cilindro cavo, le cui due aperture sono fornite di un coperchio mobile. La proteina marcata dall'ubiquitina viene riconosciuta dal proteasoma, srotolata mano a mano che viene introdotta nella sua cavità e digerita nei suoi aminoacidi componenti da enzimi proteolitici che formano la sua parete. Ma la proteolisi determinata dal sistema ubiquitina-proteasomi (UPS, Ubiquitin;proteasome system) non ha soltanto il compito di ripulire la cellula dalle proteine malformate, bensì anche compiti regolativi molto più delicati. Le proteine svolgono tanti e diversi compiti nei processi cellulari e una proteolisi controllata può quindi smobilitare un programma cellulare non più necessario, permettendone la costruzione di uno differente. È particolarmente interessante quindi l'osservazione che la proteolisi determinata dal sistema ubiquitina;proteasomi è sotto un controllo spaziale in molte funzioni o tipi cellulari (Pines, Lindon 2005). Il controllo viene effettuato attraverso una precisa localizzazione dei componenti dell'UPS in questa o quella regione della cellula. Tra i molti esempi riportati ve ne sono alcuni particolarmente evidenti. Nel reticolo endoplasmico granulare, che è la sede di sintesi di molti tipi di proteine, i componenti dell'UPS sono localizzati all'interno delle cisterne, in modo da eliminare le proteine mal conformate nello stesso luogo di produzione. Nei neuroni l'UPS è localizzato nelle terminazioni sinaptiche e il suo ruolo, collegato con il trasporto indirizzato di proteine tramite il flusso assoplasmatico, può spiegare la plasticità sinaptica, ossia la capacità che ha il sistema nervoso centrale di rimodellare i contatti tra i neuroni e di conseguenza i circuiti nervosi, fenomeno che è considerato alla base dei processi di apprendimento e di memoria.

Macromolecole e acqua

L'acqua rappresenta il 70;80% della massa totale della cellula. Tale nozione, insieme alle micrografie elettroniche, per le quali si cerca di ottenere il massimo contrasto di una determinata struttura, rispetto a uno sfondo che si immagina vuoto, e ai disegni schematici dei manuali, contribuisce a creare l'immagine mentale di un citoplasma acquoso in cui le macromolecole fluttuano in soluzione diluita. Questa immagine è totalmente falsa (Mentré, Hui Bon Hoa 2001). La superficie delle macromolecole esposta al loro ambiente acquoso consiste essenzialmente in residui idrofili che attraggono i dipoli d'acqua. Semplici calcoli geometrici e dati sperimentali mostrano che l'acqua è appena sufficiente a formare due strati di molecole intorno alle macromolecole. In altre parole, la distanza tra due macromolecole, in una cellula, è in media di 1,2 nanometri, che è assai poco rispetto al diametro medio delle proteine globulari, le macromolecole più abbondanti in una cellula, che è di 3;4 nanometri. Il sovraffollamento di macromolecole assume un ruolo fondamentale nell'associazione dei complessi macromolecolari e nella loro regolazione. L'affollamento delle macromolecole produce anche una rapidità nello svolgimento delle reazioni biochimiche che è inimmaginabile nel nostro mondo macroscopico. Mentre gli enzimi o altre macromolecole diffondono assai lentamente nel citoplasma, esperimenti con coloranti fluorescenti o piccole molecole marcate dimostrano che queste diffondono con notevole rapidità. Possiamo considerare che una piccola molecola organica, per es. il substrato di un enzima, può diffondere su una distanza di 10 micron (μm), ossia per circa metà del diametro di una tipica cellula animale, in un quinto di secondo. Nella cellula un substrato abbondante può avere concentrazioni di 0,5 mM e ciò vuol dire che entreranno in collisione con il sito attivo dell'enzima 500.000 molecole di substrato al secondo. A concentrazioni così elevate il sito attivo dell'enzima si troverà in condizioni di saturazione e la velocità di formazione dei prodotti della reazione enzimatica sarà determinata da quanto rapidamente può agire l'enzima.

Per molti enzimi questo valore, detto numero di turn over, è dell'ordine di 1000 molecole per secondo. Nella cellula, dunque, le piccole molecole sono spinte in una danza frenetica dall'agitazione termica, e le catene metaboliche si svolgono a ritmi talmente elevati da risultare difficilmente immaginabili.

La regolazione del ciclo cellulare

Il ciclo cellulare è il processo attraverso il quale una cellula dà origine a due cellule figlie e attraverso tale processo la vita si è perpetuata, in una ininterrotta catena di generazioni, a partire dal più lontano antenato comune di tutti gli organismi. Lo studio del ciclo cellulare è dunque di fondamentale importanza in biologia, e la comprensione dei suoi delicati meccanismi di regolazione può portare a importanti progressi per la terapia dei tumori. Il ciclo cellulare comprende quattro fasi: la fase di duplicazione del DNA, fase S, la fase in cui avviene la mitosi, ossia la divisione della cellula madre in due cellule figlie, fase M, tra le quali sono intercalate due fasi di intervallo G1 e G2 (da gap in inglese), prima e dopo la fase S. Il passaggio attraverso la sequenza delle fasi G1, S, G2, M è regolato da una serie di 'posti di controllo', o checkpoints, che arrestano il ciclo, se riconoscono errori o difetti nella duplicazione o nella ripartizione del materiale ereditario. Se gli errori non possono essere corretti, la cellula viene avviata verso una morte cellulare programmata. I passaggi da una fase all'altra sono regolati da enzimi detti MPF (Maturation Promoting Factors, ossia fattori che promuovono la maturazione), costituiti da due elementi, una proteina, detta ciclina, e il vero e proprio enzima, una chinasi, cioè un enzima che lega gruppi fosfato ad altre proteine, detta Cdk (Cyclin dependent kinase, chinasi dipendente da una ciclina). La progressione della cellula attraverso le diverse fasi del ciclo dipende dalla produzione di cicline, specifiche per le diverse fasi, che attivano le Cdk specifiche, e che vengono poi degradate, una volta che abbiano svolto la loro attività. Le Cdk, a loro volta, fosforilano altre proteine, la cui attività è necessaria per la progressione nel ciclo, e la loro attività è controllata da una serie di fattori: la concentrazione delle cicline, il loro stato di fosforilazione, gli inibitori delle Cdk, la sintesi e la degradazione proteolitica delle cicline e di altri fattori e infine lo spostamento di regolatori del ciclo tra diversi compartimenti cellulari nelle differenti fasi. Numerosi laboratori si sono dedicati allo studio delle chinasi ciclina;dipendenti, ma uno dei risultati più interessanti è stato raggiunto da M. Bettencourt;Dias e dai suoi collaboratori (2004).

Tali studiosi hanno esaminato le funzioni dell'intero complemento delle proteinchinasi della Drosophila, ben 228 enzimi, con tecniche di silenziamento, ossia di blocco dell'espressione, dei geni corrispondenti. Di queste chinasi, ben 80 sono risultate implicate nella regolazione del ciclo cellulare: alcune erano già note, altre risultavano del tutto nuove. Alcune di esse facevano parte delle famiglie di chinasi che fosforilano la tubulina, l'actina o le proteine a esse associate, altre erano componenti delle catene di segnalazione intracellulare e la loro mancanza portava a difetti nella riproduzione cellulare, suggerendo nuovi ruoli per enzimi già conosciuti. La conoscenza completa delle chinasi ha permesso infine, e questo è il risultato più interessante, di rivelare lo stretto intreccio tra i sistemi che controllano la fisiologia cellulare, le dimensioni della cellula, le situazioni di stress, i processi di segnalazione e i meccanismi regolatori del ciclo cellulare. Si è dimostrata così la stretta integrazione di più sistemi funzionali nell'attività vitale della cellula. I meccanismi funzionali fondamentali della cellula sono estremamente conservativi, si ripetono pressoché identici negli organismi sistematicamente più lontani, e ciò induce gli studiosi a concludere che, a partire dai dati ottenuti in Drosophila, "[...] l'alto livello di conservazione dei regolatori del ciclo cellulare suggerisce che lo studio delle loro controparti umane sarà utile per la comprensione e il trattamento delle malattie proliferative" (Bettencourt-Dias, Giet, Sinka et al. 2004, p. 986).

Riduzionismo e visione sistemica: le vie di segnalazione

Per fare alcuni esempi di complessità a livello cellulare si potranno tratteggiare molto sinteticamente quelle che sono state definite le vie di segnalazione cellulare, campo di ricerca estremamente attivo e di estremo interesse, anche dal punto di vista applicativo, per i suoi evidenti collegamenti con la farmacoterapia e con il controllo della crescita tumorale. Anche una trattazione schematica e riassuntiva, come quella dei manuali di b. c., richiederebbe molte decine di pagine, e nelle riviste scientifiche compaiono, quasi quotidianamente, nuovi dati sull'argomento. Le cellule, sia che si tratti di organismi unicellulari, sia che facciano parte di un'organizzazione multicellulare, ricevono continuamente segnali dall'ambiente circostante. Un'espressione che si usa in questo contesto è quella di 'trasduzione del segnale', locuzione che vuole indicare che lo stimolo raccolto da un recettore alla superficie cellulare è differente dal segnale che è rilasciato all'interno della cellula. Il secondo segnale intracellulare innesca una catena di interazioni molecolari, che in genere si ramifica in uno o più punti, e che si conclude con una risposta che può consistere in una modificazione dell'espressione di uno o più geni, una modificazione dell'attività di qualche enzima, una trasformazione della struttura del citoscheletro, un cambiamento della permeabilità a specifici ioni, l'attivazione o la repressione della sintesi del DNA, e infine il mantenimento in vita o piuttosto l'induzione della morte cellulare. Ogni cellula possiede più di un tipo di recettori, e ognuno di essi può innescare più di un tipo di risposta, poiché tra un recettore e un'altra proteina, detta effettore, dalla quale parte il segnale intracellulare, esiste una classe di proteine mediatrici, dette proteine G dal loro legame con GTP, che possono attivare più di un tipo di effettori, inducendo una risposta multipla. Viceversa, più recettori possono attivare la medesima proteina G, in modo tale che si attiva la stessa risposta a seguito di segnali diversi. Bisogna infine tener conto che per tutti i componenti proteici delle vie di segnalazione esistono più isoforme, ossia forme molecolari leggermente differenti, codificate dagli stessi geni, ma poi modificate a livello di sintesi, per effetto di splicing alternativi, ossia differenze nella maturazione dei corrispondenti RNA messaggeri, o anche dopo la sintesi stessa. Le diverse isoforme possono essere presenti in cellule differenti e mostrano comportamenti e affinità biochimiche in qualche misura diverse. Il numero dei componenti delle vie di segnalazione, già molto elevato se si considerano i geni codificanti, diviene in tal modo innumerevole. L'immagine mentale che si ricava da questa descrizione estremamente sommaria è quella di una grande varietà di catene di segnalazione ramificate ad albero, ma in realtà tali catene interagiscono, per cui il modello da immaginare è piuttosto quello di una rete incredibilmente complessa, attraverso la quale viaggiano segnali, che a loro volta generano o regolano oppure bloccano altri segnali. Un'altra caratteristica importante delle vie di segnalazione è l'amplificazione dei segnali, dovuta al fatto che una molecola, per es. un enzima, nel suo stato attivo, può interagire con più molecole del livello successivo, e per più livelli della catena, cosicché un segnale rappresentato da un numero estremamente esiguo di molecole, captato alla superficie della cellula, può essere amplificato di più ordini di grandezza, giungendo a innescare una risposta quantitativamente efficace. È evidente che sistemi così complessi vanno affrontati, almeno all'inizio, in una prospettiva riduzionista. "Questa prospettiva illustra la potenza dell'approccio riduzionistico in biologia cellulare [...]. Il perseguimento di questo programma si basa su tre 'articoli di fede'. Primo, data l'evoluzione da antenati comuni, le cellule attuali usano un insieme condiviso di meccanismi molecolari per espletare le loro funzioni fondamentali. Di conseguenza, i biologi cellulari ritengono che l'analisi di un qualsiasi organismo trattabile sperimentalmente possa fornire una visione dei principi generali applicabili alla maggior parte delle cellule. Secondo, la conoscenza delle strutture e delle funzioni delle parti individuali delle macchine molecolari rivela molto sul lavoro comune di insiemi di molecole. E, terzo, un test critico per la comprensione è la ricostituzione di un processo complesso a partire dai componenti purificati in effettivi esperimenti biochimici e/o in simulazioni al calcolatore" (Pollard 2003, p. 742). L'approccio riduzionista richiede tuttavia che si torni a una visione d'insieme dei processi e sistemi complessi, ossia a una visione sistemica, ma per far ciò sono necessari metodi adatti. Come scriveva E. Morin (1977) "Il problema è ormai quello di trasformare la scoperta della complessità in metodo della complessità" (p. 386). Molti ricercatori si propongono di individuare metodi per descrivere sistemi così complessi, come fanno, per es., J.A. Papin e i suoi collaboratori, a proposito delle reti di segnalazione cellulari. Tali studiosi scrivono: "La caratterizzazione delle proprietà che derivano dal funzionamento dell'intera cellula richiedono descrizioni integrate, matematiche, delle interrelazioni tra le diverse componenti cellulari. Una ricostruzione del sistema di reti comprende una rappresentazione accurata dal punto di vista chimico di tutti gli eventi biochimici che avvengono in una ben definita rete di segnalazione ed incorpora anche l'interconnettività e le relazioni funzionali che sono state inferite dai dati sperimentali. Le ricostruzioni dei sistemi di reti forniscono la struttura di base per l'applicazione di metodi matematici che possano descrivere in modo quantitativo le proprietà delle reti di segnalazione" (Papin, Hunter, Palsson et al. 2005, p. 99). L'idea di complessità non è un concetto intuitivo. La nostra mente tende a semplificare, come se vedesse i sistemi complessi da molto lontano, non percependo i particolari più fini. Per avere un'idea di ciò che significa complessità occorre che sia fornito qualche esempio di sistemi veramente complessi. A questo scopo gli stessi studiosi offrono, in forma tabellare, una serie di dati esemplificativi che forniscono valori stimati per i componenti delle reti di segnalazione, e che vengono riportati in forma più discorsiva. Il numero di cellule che compongono l'organismo umano si aggira intorno a 1014 e comprende circa 200 tipi cellulari diversi. Il numero totale dei geni è di circa 25.000 e di questi tra il 40 e il 60% ammette varianti dovute a splicing alternativo. Il numero medio di varianti dovute a splicing è di 2,5 per l'intero genoma. Ciò vuol dire che il numero di proteine codificate da questi 25.000 geni sale a più di 30.000. Gran parte delle proteine sono soggette a modificazioni post;traduzionali, che intervengono cioè quando la loro sintesi è stata completata. Il numero medio delle modificazioni è di 2,5 per proteina e quindi il numero di 30.000, già prodotto dalle varianti di splicing, sale a ben 75.000. Per indicare il sistema formato dal complesso di tutte le proteine di un organismo è stato coniato il termine di proteoma, e si indica con il nome di proteomica la disciplina che si dedica al suo studio, dal momento che la genomica è ormai abbastanza avanti nello studio integrato dell'insieme dei geni, o genoma. Il problema che si è presentato agli studiosi di proteomica è che i dati sulle strutture molecolari e sulle interazioni tra le diverse proteine sono stati ottenuti con metodi differenti, in organismi differenti e conservati in archivi informatici con diversi formati, rendendo quindi molto difficili le comparazioni tra i risultati ottenuti in laboratori diversi e le possibilità di integrare i risultati in un disegno complessivo. Per ovviare a questa difficoltà è stata creata nel 2001 un'organizzazione internazionale, la HUPO (Human Proteome Organisation), che nel 2005, nel suo quarto congresso, ha dimostrato che "la comunità della proteomica sta finalmente facendo ordine in casa", come è scritto nell'editoriale Proteomics' new order pubblicato sulla rivista Nature (2005). I ricercatori si sono accordati sulla creazione di un comune formato di archiviazione dei dati, e su una comune modalità di interrogazione dell'archivio, cosicché si possano finalmente ricavare i dati fondamentali per la ricostruzione delle intricate reti di interazione delle molecole proteiche. Una importante regione di questa immensa rete di interazione delle proteine cellulari è quella che comprende le proteine implicate nelle vie di segnalazione, ed è anche senza dubbio una delle più complesse. I geni identificati come codificanti per proteine che hanno a che fare con le vie di segnalazione intracellulare (recettori, proteinchinasi, proteinfosfatasi, fattori di trascrizione) ammontano a ben 4428 e la percentuale che è soggetta a splicing alternativo sale a ben il 75%, contro il 40;60% di tutti i geni nel loro complesso. Ciò fa salire il numero dei componenti delle reti di segnalazione a 7-8000 e, anche se ognuno dei 200 tipi cellulari differenti che compongono il nostro organismo esprime soltanto una parte di tali molecole, si comprende come le ricostruzioni di queste vie richiedano modellizzazioni grafiche e matematiche particolari, per risultare comprensibili. Va sempre ricordato, inoltre, che nelle ricostruzioni si deve tener conto non soltanto dei componenti del sistema, ma anche delle molteplici interazioni causali e funzionali che rendono le reti di segnalazione sistemi, e non semplici collezioni di molecole.

L'organizzazione funzionale della cellula

L'approccio riduzionista che ha caratterizzato gran parte della ricerca biologica del 20º sec. ha portato a un enorme incremento delle conoscenze sui sistemi biologici, e in particolare nel campo della biologia cellulare. È risultato chiaro tuttavia che una determinata funzione cellulare non può generalmente essere attribuita a una singola molecola, ma piuttosto a una serie di interazioni complesse tra un insieme di molecole. La descrizione dell'intero genoma di alcuni organismi, dal nematode Caenorhabditis all'uomo, la descrizione sempre più completa dei proteomi, ossia del complesso delle proteine di un organismo, fa aumentare a dismisura le conoscenze sulla cellula, ma al contempo svela un sistema di sempre meno gestibile complessità. I biologi cellulari cominciano quindi a interessarsi sempre più approfonditamente all'approccio sistemico, che potrebbe diventare il campo di ricerca più perseguito nel 21° sec., cercando strumenti e linguaggi che permettano di indagare e descrivere non più singole interazioni o processi, ma interi sistemi di reti che, a loro volta, costituiscono sistemi di reti. Come scrivono A.L. Barabàsi e Z.N. Oltvai "Uno degli scopi fondamentali della ricerca biomedica postgenomica è quello di catalogare sistematicamente tutte le molecole e le loro interazioni in una cellula vivente. C'è una chiara necessità di capire come queste molecole, e le interazioni che si stabiliscono fra loro, determinino le funzioni di questa macchina estremamente complessa, sia in isolamento, sia quando essa è circondata da altre cellule. I rapidi progressi nella biologia dei sistemi di reti indicano che le reti cellulari sono governate da leggi universali e offrono un nuovo schema concettuale che potrebbe potenzialmente rivoluzionare la nostra visione della biologia e delle patologie nel 21° sec." (2004, p. 21). Ne Il saggiatore, G. Galilei scriveva: "La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua e conoscer i caratteri ne' quali è scritto" (1977, p. 33). Per Galilei il linguaggio matematico avrebbe permesso di semplificare e modellizzare la varietà e la complessità del reale. I biologi cellulari si trovano nella situazione di dover inventare un nuovo linguaggio, un linguaggio specifico che permetta di descrivere la complessità del sistema cellula a diversi livelli di risoluzione, a diverse scale. Barabàsi e Oltvai, nella conclusione del loro articolo, affermano: "Si è chiaramente compreso che la maggior parte delle funzioni cellulari sono svolte da gruppi di molecole all'interno di moduli funzionali. Questi moduli non sono isolati l'uno rispetto all'altro, ma interagiscono e di frequente si sovrappongono all'interno di un sistema a rete. Questa struttura organizzativa viene modellata nel corso della molti livelli. L'accumularsi di modificazioni locali che interessano i piccoli moduli altamente integrati, gradualmente interessa i moduli più grandi, meno integrati, e ciò indica che l'evoluzione e la selezione naturale riutilizzano i moduli esistenti per incrementare la probabilità di sopravvivenza e la complessità di un organismo. Lo sviluppo di questo schema modificherà in modo significativo la nostra comprensione della biologia e, in futuro, avrà importanti implicazioni per la pratica della medicina" (p. 112).

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