Bioetica

Dizionario di filosofia (2009)

bioetica


L’introduzione nel linguaggio scientifico del termine bioetica si deve, agli inizi degli anni Settanta del Novecento, all’oncologo V.R. Potter (Bioethics: the science of survival, 1970, trad. it. Bioetica: la scienza della sopravvivenza; e Bioethics: bridge to the future, 1971, trad. it. Bioetica: ponte verso il futuro). Potter intende tale termine come ripristino di rapporti tra cultura umanistica e scientifica, e, specificamente, tra valori morali ed esigenze degli ecosistemi, naturale e umano. Nato sotto l’influenza dell’ambientalismo e dell’ecologia della fine degli anni Sessanta del 20° sec., il termine è stato presto attratto verso problemi inerenti al nucleo centrale della biomedicina. Successivamente ha conosciuto una larghissima fortuna, e va ormai ben al di là dell’originaria etica medica, dato che descrive una molteplicità di campi disciplinari e individua un tema capitale della discussione pubblica. Parafrasando il titolo di un saggio di Toulmin, How medicine saved the life of ethics (1982), si potrebbe dire che la b. ha offerto nuove opportunità alla filosofia e al diritto, alla sociologia e alla psicanalisi, imponendo loro confronti continui e ravvicinati con un’innovazione scientifica e tecnologica impetuosa e sovente drammatica, promuovendo in tal modo anche una ricerca interdisciplinare particolarmente fruttuosa. Il riferimento alla b. si dilata; non riguarda soltanto un discorso sempre più comprensivo sui temi della vita, ma si allarga alla descrizione di pratiche che investono l’organizzazione della ricerca, l’insegnamento, l’attività medica, producendo anche un nuovo tipo di istituzioni, i comitati etici. B. diviene così un termine polisenso, per non dire ambiguo, difficile da racchiudere in una definizione.

La necessità di una regola giuridica

Proprio questa estensione, o indeterminatezza, dei confini della b. ha provocato reazioni, volte non soltanto a meglio precisarne lo statuto epistemologico, ma soprattutto a mettere in evidenza come la vita (βιός) e le sue vicende non possano essere affidate unicamente alle indicazioni dell’etica, ma esigano l’assunzione di responsabilità politiche e l’intervento della regola giuridica. Si impongono qui tre tipi di considerazioni. In primo luogo, la b. non può essere intesa come una disciplina normativa: deve essere considerata piuttosto come un luogo di incessante elaborazione e confronto tra posizioni e valori diversi, dove certamente si elaborano principi e modelli di riferimento, ma in forma aperta e dialogica, ponendo così anche le premesse per superare situazioni di conflitto e giungere a posizioni condivise. La forte istituzionalizzazione della b., quindi, deve essere ispirata alla stessa logica: soprattutto a livello nazionale, i comitati etici non possono essere organizzati e operare come se si trattasse di soggetti ai quali viene trasferita una quota di sovranità, come ‘consiglieri del principe’ o addirittura come decisori finali. Essi debbono piuttosto presentarsi come interlocutori della società, cui forniscono gli elementi necessari per lo sviluppo informato della discussione bioetica pubblica (diverso può essere il ruolo dei comitati etici locali, in un ospedale o in un istituto di ricerca, dove il loro parere diviene parte di una procedura di decisione). La politica, infine, deve certamente presentarsi come la dimensione dove legittimamente si opera perché le istituzioni facciano le scelte di carattere generale e fissino le regole necessarie: ma il modo in cui questa funzione viene esercitata deve tener conto della materia sulla quale si esercita il suo potere di decisione, la vita, che richiede sobrietà, senso del limite, ascolto anche preventivo della voce dei cittadini (com’è avvenuto, per es., con la consultazione informale dei cittadini della Gran Bretagna, anche attraverso la posta elettronica, su un tema delicato come la scelta del sesso dei nascituri). Queste prassi istituzionali, peraltro, costituiscono un impegno per gli Stati che hanno firmato la Convenzione sulla biomedicina, il cui art. 28 prevede proprio che «le fondamentali questioni suscitate dagli sviluppi della biologia e della medicina divengano oggetto di discussione pubblica appropriata, alla luce, in particolare, delle specifiche implicazioni mediche, sociali, economiche, etiche e giuridiche, e affinché le possibili applicazioni di tali sviluppi divengano oggetto di consultazioni appropriate».

L’istituzionalizzazione della bioetica

L’area coperta dall’analisi bioetica si è venuta progressivamente dilatando, insieme all’evidenza di punti di vista contrapposti, che caratterizzano una discussione spesso fortemente polemica, tanto da apparire come un conflitto tra fini non negoziabili, sì che il suo esito sarebbe inevitabilmente segnato dal prevalere di una posizione e dall’integrale sacrificio dell’altra. Questa situazione sarebbe determinata dal fatto che viviamo in un’epoca in cui a valori generalmente condivisi (o imposti) si è venuto sostituendo un pluralismo o politeismo dei valori. Si tratta, quindi, di misurare la distanza tra i valori proclamati, di individuare analiticamente le situazioni oggetto dell’analisi, di valutare la qualità delle soluzioni proposte e adottate. La riflessione bioetica ha assunto come oggetto le questioni della vita in tutta la loro ampiezza. Essa non considera quindi soltanto la vicenda umana nelle sue varie fasi, ma comprende anche quelle anteriori alla nascita e successive alla morte. Mette in rapporto la vita di ciascuno e di tutti con l’ambiente fisico e sociale in cui si svolge, affrontando temi come quelli della tutela dell’ambiente (e dunque anche la vita animale e vegetale) e della distribuzione delle risorse (anche nel rapporto con i paesi in via di sviluppo), dell’industria farmaceutica e di quella assicurativa, della brevettabilità e delle biotecnologie, dell’insegnamento e dell’organizzazione ospedaliera. Basta scorrere l’elenco dei pareri approvati dai comitati etici dei diversi paesi per rendersi conto del progressivo arricchirsi delle materie di cui ritengono necessario occuparsi. Si può così dire che lo sguardo bioetico ha permesso, e continua a permettere, di stabilire connessioni che fanno della persona e della sua vita il criterio di analisi e di giudizio di situazioni variamente incidenti sull’esistenza. Si possono così comprendere le modalità attraverso le quali si compie l’istituzionalizzazione della bioetica. Questa, infatti, non deve essere rinvenuta soltanto nei comitati etici, ma trova manifestazioni sempre più significative in norme contenute in leggi nazionali e in documenti internazionali. Da una settorialità istituzionale della b. si è così passati a una sua pervasività che informa interi settori della legislazione. Da ciò deriva anche un consistente arricchimento dei principi fondativi. Nel suo stadio iniziale, coerentemente con il suo statuto prevalentemente teorico e con il suo radicamento originario nella cultura statunitense, la b. ha dato rilievo a principi che, come quelli di beneficenza, non maleficienza e autonomia, avevano già trovato elaborazione nell’ambito della filosofia morale. Via via che la riflessione teorica veniva accompagnata in modo consistente da norme giuridiche, assumevano particolare rilevanza principi più propriamente giuridici, come quelli del consenso informato, della tutela dei dati personali, dell’irriducibilità della persona e della sua vita alle dinamiche di mercato. In questa integrazione tra principi filosofici e giuridici può cogliersi anche un contributo significativo della cultura europea, particolarmente attenta ai profili istituzionali. Punto d’approdo importante di questa riflessione è l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000): «1. Ogni individuo ha diritto alla propria identità fisica e psichica. 2. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere particolarmente rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità stabilite dalla legge; il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone; il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro; il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani». È significativo, poi, che la stessa Carta abbia inserito le caratteristiche genetiche tra le cause di non discriminazione (art. 21.1). Considerando sempre la dimensione internazionale, assumono particolare rilievo la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti umani e della dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina (Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, 1997) e il suo Protocollo aggiuntivo sul divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani (il Consiglio d’Europa è sempre stato assai attivo in queste materie con numerose risoluzioni e raccomandazioni fin dal 1982). E, pur nella diversità dei loro effetti giuridici, due documenti dell’Unesco: la Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo (1997) e la Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti dell’uomo (2005). È opportuno ricordare, tuttavia, che ben prima dell’avvio della discussione bioetica norme riconducibili ai temi da essa considerati erano presenti in molte legislazioni nazionali (basta qui ricordare l’art. 5 del Codice civile italiano del 1942 sugli atti di disposizione del proprio corpo) e soprattutto nel Codice di Norimberga del 1947 che, a conclusione del processo ai medici nazisti, fissava i principi della sperimentazione clinica e l’obbligo del consenso informato (principi poi ribaditi dalla Dichiarazione di Helsinki del 1964 e da quella di Manila del 1981, quest’ultima dedicata in particolare agli studi clinici nei paesi in via di sviluppo). Proprio quei più lontani documenti, peraltro, consentono di misurare il passaggio da un’impostazione in termini di etica medica alla visione attuale della b. come considerazione dei problemi della vita irriducibile ai soli profili clinici e che, quindi, implica la rilevanza e la responsabilità di una ben più ampia platea di soggetti. Esaminando i più recenti documenti internazionali, inoltre, emergono in modo chiaro, anche se indiretto, i conflitti di valori e di interessi già ricordati, che si manifestano attraverso il rifiuto da parte di alcuni Stati di firmare o ratificare quei documenti. È il caso, per es., della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, che la Gran Bretagna non ha voluto firmare poiché riteneva inaccettabile, in particolare, il divieto di produrre embrioni umani a fini di ricerca (art. 18.2). Un rifiuto, questo, che aveva motivazioni complesse, legate al modo di considerare l’embrione, al primato attribuito alla libertà di ricerca scientifica, alla volontà di fare della Gran Bretagna un polo rilevante dell’industria biotecnologica. Questa vicenda illustra in modo eloquente l’intreccio di interessi che concorrono a definire il campo della riflessione bioetica, e il continuo confronto tra modelli culturali che questa impone. E mette in evidenza una debolezza, nel momento in cui si vuol passare alla traduzione istituzionale di alcune acquisizioni teoriche. I temi della b. sono davvero globali. Ciò impone, da una parte, una loro considerazione transculturale, che in più di un caso rende difficoltosa l’attribuzione di valore universale ad alcuni principi di riferimento. E, dall’altra parte, rende possibile il sottrarsi a regole pur ampiamente condivise attraverso un ‘turismo dei diritti’ sempre più diffuso, che spinge studiosi a emigrare dove minori sono i limiti alla ricerca, imprese a localizzarsi dove sono più facilmente eludibili i vincoli alle sperimentazioni, persone a chiedere una sorta di asilo dove è possibile soddisfare bisogni che vengono negati nel loro paese d’origine (per es., procreazione medicalmente assistita, interruzione della gravidanza, suicidio assistito). Poiché è impensabile una soluzione autoritativa di questi conflitti culturali e d’interesse, si conferma la necessità di una b. dialogica, capace non solo di produrre interdisciplinarità, ma comunicazione tra ambienti e sensibilità diverse. Una via, questa, che può favorire la progressiva costruzione di valori e regole comuni.

Lo statuto dell’embrione

La b., dunque, è anche rivelatrice di un disagio, che deve essere affrontato tenendo conto che le difficoltà e i conflitti non rimangono confinati nell’ambito della discussione scientifica, ma coinvolgono i singoli e la società nel suo insieme, proprio in ragione del fatto che si tratta di individuare principi, criteri e regole che incidono sulla vita di ciascuno. In questo modo la b. individua un campo nel quale s’intrecciano valutazioni individuali, fondazione di valori, esigenze sociali ed economiche e, infine, scelte normative. Problematicità e disagio derivano sostanzialmente da un’innovazione scientifica e tecnologica che ha fatto divenire oggetto di possibile scelta individuale questioni prima affidate alle leggi della natura. Questo avveniva parallelamente alla ‘rivoluzione del consenso informato’, che non soltanto sottraeva al potere incondizionato del terapeuta le decisioni sulla salute, ma attribuiva a ciascuno il potere di governo del proprio corpo, facendo nascere un nuovo ‘soggetto morale’ al posto di una persona oggetto di scelte mediche e di inviolabili regole naturali. Così la b. si presenta come il terreno dove si affronta il tema delle modalità e dei limiti dell’esercizio di questo nuovo potere, alla cui emersione è venuto via via collegandosi un catalogo di nuovi diritti (diritto di procreare, di nascere bene, di ricevere un patrimonio genetico non manipolato, di morire con dignità, ecc.). Al tempo stesso, però, si è manifestata una difficoltà di metabolizzazione individuale e sociale dell’innovazione, che ha prodotto richieste di fissazione di limiti, di imposizione di divieti. La dialettica tra libertà e autorità, e tra autonomia individuale e valori irrinunciabili, ha così investito lo stesso modo d’intendere la vita, il senso e la portata che devono esserle attribuite. L’affermazione della sacralità della vita pone immediatamente una serie di interrogativi: che cosa può intendersi per vita? Quali sono gli interventi che non ne violano la sacralità? Quali i soggetti che possono limitare il potere individuale di decisione e quali i modi per farlo? Siamo così di fronte ad aree critiche, che esigono sempre analisi puntuali, perché non soltanto le innovazioni scientifiche e tecnologiche recenti, ma tutta la storia della medicina ci parlano di un corpo ‘manipolato’ per migliorarne la qualità di vita e garantirne il più possibile la sopravvivenza. Al tempo stesso, però, non sono di oggi soltanto regole che escludono la piena disponibilità del corpo da parte dello stesso interessato, dal divieto di compiere atti che possono lederne l’integrità alla considerazione del suicidio come reato, all’esclusione della commerciabilità. Tuttavia, il quadro naturalistico consentiva di far coincidere, anche giuridicamente, il momento in cui la persona veniva a esistenza con quello della nascita, confinando piuttosto nella speculazione teologica e filosofica la discussione sulla natura dell’embrione. Senonché, considerando anche le acquisizioni della biologia, le tecniche di procreazione assistita nonché le nuove frontiere della sperimentazione, è stato posto il problema di attribuire all’embrione uno statuto morale e giuridico proprio, fino a proporne una piena equiparazione con le persone già nate. Qui il conflitto tra premesse diverse si fa particolarmente evidente, e fa emergere con nettezza quelli che sono stati definiti stranieri morali, soggetti che parlano linguaggi etici tra loro incompatibili e propongono così prospettive bioetiche ispirate a premesse religiose, filosofiche, scientifiche profondamente diverse. Per risolvere la questione dello statuto dell’embrione, sono state variamente invocate le acquisizioni della scienza, presentate tuttavia dai vari studiosi in forme tali da non consentire conclusioni univoche, sì che non sembra possibile risolvere il problema su questa sola base. Peraltro, anche se non si conviene sull’equiparazione embrione-nato, questo non implica l’esclusione di una soggettività per l’embrione, come peraltro già avviene nei più diversi sistemi, che prevedono per l’embrione forme differenziate di tutela. Le soluzioni del problema dell’embrione sono destinate a influenzare l’impostazione di altre questioni bioeticamente rilevantissime, come l’interruzione della gravidanza, l’accesso alle tecnologie della riproduzione, la scelta del sesso dei nascituri, il diritto a nascere sani, l’intervento sui caratteri genetici. La considerazione dell’embrione come persona fonda la condanna radicale dell’aborto, eticamente equiparato all’omicidio. Ma la necessità della lotta all’aborto clandestino, anche per tutelare la salute della donna, viene richiamata, insieme ad altre motivazioni, per giustificare le norme che, in presenza di determinate condizioni, legittimano l’interruzione della gravidanza; e l’evidenza della particolare relazione tra la madre e il feto costituisce il riferimento chiave dell’argomentazione femminista in materia, spostando integralmente sulla donna la competenza a decidere. Viene così illuminato, grazie al pensiero delle donne, un momento essenziale della riflessione bioetica, che non può fare astrazione dal dato di genere, ignorare il ruolo della donna e del suo corpo nella funzione riproduttiva, e così omettere anche un approfondimento sul diritto come discorso pubblico sul corpo femminile. Discende da qui anche un’impostazione del problema dell’accesso alle tecnologie della riproduzione in termini di libertà femminile, che viene respinta da chi ritiene che il punto di partenza debba essere rappresentato unicamente dalla necessità di non discostarsi, se non in casi estremi, dalla naturalità del processo riproduttivo e dalla considerazione esclusiva dei diritti della persona che deve nascere. L’analisi delle diverse legislazioni mette in evidenza una molteplicità di soluzioni, con una netta prevalenza di quelle che consentono l’accesso alle tecnologie della riproduzione per vincere la sterilità di coppia, anche con seme di donatore. Controverso rimane l’accesso della donna sola (con problemi riguardanti il principio di eguaglianza e il pari diritto alla tutela della salute), mentre la maternità di sostituzione è ammessa solo in rarissimi casi (con una preferenza per gli accordi nei quali si concreta una solidarietà tra donne, e non una relazione mercantile).

Il diritto alla salute

In relazione alle tecnologie della riproduzione, come intorno all’interruzione della gravidanza, emerge con particolare rilievo il tema del diritto alla salute. Questa è ormai intesa, secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, come uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non come una semplice assenza di malattia. Siamo così in presenza di un diritto destinato a connotare largamente la discussione bioetica, con implicazioni rilevanti che possono essere così sintetizzate: la persona deve essere considerata nella sua integralità (l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea parla appunto della integrità fisica e psichica come diritto) e anche nella sua dimensione relazionale; la tutela della salute è competenza dell’interessato, che la esercita in base al consenso informato, che può manifestarsi anche nella forma del rifiuto di cure; il diritto alla salute si presenta come un connotato ineliminabile della cittadinanza; di conseguenza, la sua realizzazione non può essere affidata unicamente alle logiche e alle dinamiche di mercato (con implicazioni rilevanti per quanto riguarda l’allocazione delle risorse e, in particolare, la presenza di sistemi pubblici di assistenza sanitaria e la necessità di superare la logica del brevetto quando si tratta, per es., di assicurare l’accesso alla cura di malattie come l’AIDS o la malaria per le persone che vivono in paesi in via di sviluppo). I progressi della genetica mettono in evidenza opportunità nuove per la tutela della salute, sollevando però anche interrogativi sulla legittimità del ricorso a tali tecniche da parte di chi vede in esse il rischio di una violazione dei diritti dell’embrione o di inammissibili manipolazioni della persona. Il timore delle manipolazioni genetiche spiega perché si parli di un «diritto di ereditare caratteri genetici che non abbiano subito alcuna manipolazione» come diritto fondamentale della persona fin dal 1982, anno in cui il Consiglio d’Europa adotta la Raccomandazione 934/82. L’assolutezza di queste affermazioni è mitigata già nella stessa Raccomandazione, dove si precisa che il riconoscimento esplicito di un diritto a un patrimonio genetico non manipolato «non deve contrapporsi al perfezionamento di applicazioni terapeutiche dell’ingegneria genetica (terapia dei geni), gravida di promesse per il trattamento e l’eliminazione di alcune patologie che sono trasmesse per via genetica». Si delinea, dunque, un diritto di ricorrere a tecniche che evitino la trasmissione ai figli di malattie ereditarie, esplicitamente riconosciuto dall’art. 3 di quella che certamente è la legge più severa in materia, l’Embryonenschutzgesetz tedesco del 1990, in cui viene legittimata la selezione degli spermatozoi quando ciò consenta di evitare appunto l’insorgenza di particolari malattie collegate al sesso del nascituro; diritto confermato poi da altre legislazioni, come quelle francese e inglese, con l’ammissione della diagnosi preimpianto, anche al fine di rassicurare i futuri genitori, eliminando le angosce su eventuali malformazioni del feto che spesso inducono a interrompere la gravidanza. Questa prospettiva viene radicalmente esclusa quando, come fa la legislazione italiana, si ritiene inammissibile qualsiasi intervento che sia di pregiudizio per l’embrione. Rimane, tuttavia, aperto il problema più generale degli interventi genetici che, muovendo dalla possibilità di evitare la trasmissione di malattie genetiche, giungono fino a prospettare la possibilità di ‘riprogettare’ gli esseri umani. Si pone a questo punto, legittimamente, l’interrogativo riguardante la possibilità di desumere un diritto di nascere sano dalla disponibilità di tecniche di accertamento precoce di rischi di trasmissione di malattie genetiche attraverso la diagnosi prenatale e il preimpianto. La ‘manipolazione positiva’ come diritto del nascituro? Un obbligo dei genitori di compiere tutti gli accertamenti possibili? O questo tipo di conflitto dev’essere risolto all’origine da norme espresse, attribuendo importanza decisiva al fatto della nascita ed escludendo, quindi, un diritto d’azione dei nati nei confronti dei genitori? Questi interrogativi trovano risposte differenziate nelle legislazioni nazionali e mettono in evidenza un punto critico quando i giudici, com’è avvenuto i n di versi paesi, riconoscono alla persona il diritto di ottenere un risarcimento per la ‘vita dannosa’ anche dai propri genitori, prospettando addirittura un ‘diritto di non nascere’. L’accento si sposta dalla vita senza aggettivi alla vita ‘buona’, introducendo un parametro che rinvia al problema della competenza a decidere della qualità della vita, e può trasformarsi in un insidioso incentivo a far riferimento a una nozione di ‘normalità’. Diventa così centrale il tema dell’unicità della persona, della sua irriducibilità a qualsiasi schema predefinito, come presidio del suo stare nel mondo in condizioni di libertà e di eguaglianza (argomento al quale si ricorre anche per escludere la clonazione riproduttiva). Al tempo stesso, però, l’immergersi sempre più profondo nella costituzione della persona, grazie alla genetica, non deve portare a un pericoloso riduzionismo, dove la biologia cancella la biografia. Non siamo, e non saremo mai, soltanto i nostri geni, sì che non è ammissibile fondare sui dati genetici politiche di selezione dei lavoratori o di chi chiede un contratto di assicurazione, ponendo in questo modo le basi di una nuova società castale.

L’autonomia della persona

Da questo insieme di considerazioni risulta confermata l’importanza dell’autonomia della persona, del suo consenso informato come esercizio di libertà e di responsabilità nel corso dell’intera vita, e dunque come strumento che l’accompagna anche verso la sua fine. Ruolo del consenso e dignità nel morire hanno così potuto restituirci, anche attraverso un progressivo affinarsi della deontologia medica, la fine della vita come qualcosa che ancora appartiene alla persona, che deve avere la possibilità di sottrarsi a una tecnologia invasiva, mortificante, fonte spesso del protrarsi di una condizione intollerabile. Le cure palliative, e ancor più il permanere degli affetti e dell’umana comprensione, sono essenziali perché il tragitto finale non sia accompagnato da una disperazione che si fa richiesta di concluderlo. Emergono, tuttavia, non solo l’inaccettabilità dell’accanimento terapeutico, ma soprattutto la legittimità del rifiuto di cure come libera scelta della persona, anche se permangono ancora controversie intorno all’interpretazione delle volontà del morente; alle caratteristiche dei testamenti biologici o direttive anticipate (l’art. 9 della Convenzione di biomedicina prevede che debbano «essere presi in considerazione i desideri […] precedentemente espressi da chi, nella fase terminale, non sia in grado di esprimere il proprio volere»); a che cosa debba intendersi per ‘trattamento’ di cui sia legittimo chiedere l’interruzione (il problema riguarda in sostanza l’idratazione e l’alimentazione forzata). Controversie sicuramente rilevanti, ma che mostrano pure come l’area del conflitto, prima definita con un unico termine, ‘eutanasia’, si sia venuta via via riducendo, sì che oggi può dirsi che la controversia davvero rilevante riguarda il solo suicidio assistito, che pure, con diverse modalità, trova riconoscimento in diversi paesi o Stati (Paesi Bassi, Belgio, Svizzera, Oregon, quest’ultimo dopo una importante sentenza del 2006 della Corte suprema degli USA).