DEL BALZO, Bertrando

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 36 (1988)

DEL BALZO (de Baux), Bertrando

Joachim Göbbels

Nacque con ogni probabilità nel 1238, o poco prima, ultimogenito di Barral de Baux e di Sibille d'Anduze; ebbe due sorelle, Cecilia e Marchesa, e un fratello Ugo. In seguito al trasferimento nel Regno di Sicilia, la famiglia italianizzò il cognome in Del Balzo.

Il D. è ricordato per la prima volta nel 1244, quando suo padre si accordò con Aymar (III) di Poitiers conte del Valentinois, per il matrimonio della figlia di questo, Filippina, con il fratello del D., Ugo. L'accordo stabiliva che le nozze sarebbero state celebrate quando i due fidanzati avessero raggiunto l'età minima per avere la capacità di contrarre matrimonio; prevedeva anche che, ove Ugo fosse morto prima, il D. ne avrebbe preso il posto. L'eventualità prevista dall'accordo si verificò. Già nel 1251 Ugo era morto e il D. si trovò quindi fidanzato con Filippina di Poitiers. Nell'ottobre del 1254 i due giovani risultavano sposati probabilmente da poco tempo. Questa data consente anche di stabilire l'anno di nascita del D., tenendo presente che allora la capacità di contrarre matrimonio si acquistava all'età di sedici anni.

Dopo la morte del fratello maggiore il D. è ricordato dalle fonti soltanto in relazione a decisioni o accordi del padre ai quali era necessario conferire maggiore incisività. Così, nel 1251, Barral, che era stato uno dei protagonisti del movimento antiangioino provenzale, fece la pace con Carlo d'Angiò e ne divenne poi uno dei suoi più fedeli sostenitori: in occasione dell'accordo egli, a garanzia del passaggio suo e dei suoi vassalli dalla parte del conte, consegnò a questo come ostaggio il D. - suo "unico figlio" ed erede universale - oltre al nipote Guglielmo.

Nel 1253 Barral promise ad Alfonso di Poitou, da cui teneva in feudo il Contado Venassino, di seguirlo l'anno successivo in Terrasanta, e stabilì che, in caso di morte, il D. avrebbe dovuto succedergli. Nel 1256 il D. confermò l'arbitrato pronunciato nella lite tra suo padre e il Comune di Marsiglia e nel 1264 confermò i privilegi concessi dal padre al Comune di Auriol.

L'anno successivo Barral e il D. accompagnarono Carlo d'Angiò in Italia e parteciparono alla conquista del Regno di Sicilia. In questa occasione il D. si guadagnò il favore di Carlo proponendo che due terzi del tesoro di Manfredi, trovato nel Castel Capuano, dovessero andare al re e alla regina e un terzo soltanto ai cavalieri. Quando il dominio angioino nel Regno sembrò consolidato, tornò in Provenza, dove, durante l'assenza del padre, amministrò il patrimonio della famiglia. Il suo soggiorno fu di breve durata: già nel 1268 lo troviamo di nuovo nel Regno, dove il re lo aveva investito, già prima del mese di luglio, della contea di Avellino e di Calvi, Padula, Francolise e Riardo. Il feudo, che dava una rendita di 600 once, che faceva di lui uno dei più grandi baroni del Regno, gli imponeva l'obbligo giuridico di mettere a disposizione del re, ogni anno, trenta cavalieri per la durata di tre mesi.

In quegli anni risultano attivi nel Regno altri due De Baux di nome Betrando, uno del ramo di Pertuis, cui va riferita la notizia della nomina a capitano delle truppe regie in Campania nel 1258, e l'altro del ramo di Berre. E poiché i registri angioini spesso non riportano l'esatta indicazione del ramo della famiglia, non è sempre possibile stabilire a quale dei tre il documento si riferisca. Con ogni probabilità il D. partecipò alla battaglia di Tagliacozzo contro Corradino (23 ag. 1268). Certamente, subito dopo questa data tornò in Provenza, dove nello stesso 1268 il padre era morto lasciandogli in eredità la signoria di Baux. Nell'ottobre del 1268 il D. prestò l'omaggio e il giuramento di fedeltà all'arcivescovo di Arles per le terre che teneva in feudo della Chiesa di Arles e nel novembre prestò lo stesso giuramento al prevosto della cattedrale di Marsiglia per altri feudi ecclesiastici. Il 2 genn. 1269 il vescovo Alano di Sisteron e il siniscalco di Provenza Guillaume de Lagonesse furono incaricati da Carlo d'Angiò di ricevere dal D. l'omaggio e il giuramento di fedeltà. Nella stessa lettera il re sollecitò una definizione esatta dei territori tenuti dalla famiglia e dei suoi diritti nei singoli comuni. Già al tempo di Barral, infatti, erano sorti numerosi contrasti cui era necessario porre fine.

Appena ottenuta la conferma giuridica della successione, il D. si recò di nuovo nel Regno, dove il 26 febbr. 1269 gli furono confermati anche i feudi siciliani. Ben presto fu costretto a rientrare in Provenza perché si era acuito, ancora una volta, il conflitto con i suoi antagonisti principali nella contea, i Comuni di Arles e di Tarascona.

Il 7 ottobre si presentò davanti ad Alano di Sisteron e Guillaume de Lagonesse, incaricati dell'amministrazione della contea, e chiese di poter dimostrare, mediante testimoni e documenti, la fondatezza dei suoi diritti su Arles, Trinquetaille, Villeneuve, Malmissane, Castillon, Mouriès, Lansac ed altre località. Con una lettera del 9 ottobre il re, nella sua qualità di conte di Provenza, dispose, infine, un'inchiesta che doveva chiarire le ragioni giuridiche delle due parti in conflitto nonché precisare i territori che spettavano al D. nella contea. L'inchiesta si concluse due anni più tardi, nel 1271, e venne approvata dal re, ma non fu accettata dai due Comuni. Il contrasto tra questi e il D. rimaneva, dunque, aperto. Ben presto furono presentate altre lamentele relative a furti, abusi e crimini commessi dai due Comuni: nel 1272 il re ordinò di punire i responsabili e di far risarcire i danni. Questo intervento placò per un po' gli animi, ma non eliminò la causa del conflitto.

Appena si era avviata l'inchiesta, cioè al più tardi nella primavera del 1270, il D. era tornato nel Regno, affidando l'amministrazione delle terre provenzali a suoi baglivi. In Italia lo spettava una carica importante: Carlo d'Angiò, che aveva ripreso la dignità di senatore di Roma in seguito alla vittoria su Corradino, affidò al D., sempre nel 1270, la carica di vicario della città. In virtù di questa, il D. era posto alla guida del governo civile e militare del Comune e rivestiva, quindi, una posizione molto importante.

In particolare, aveva ai suoi ordini una truppa composta, in tempo di pace, di 20 cavalieri e 40 scutiferi, tutti del Regno, per un totale di 160 armati, dato che ogni cavaliere doveva essere accompagnato da un valletto e due garzoni e ogni scutifero da un garzone; il numero dei soldati, peraltro, veniva aumentato nei momenti di crisi. Nell'esercizio delle sue funzioni, il vicario era affiancato dal maresciallo dell'Urbe, comandante della truppa, e dal camerario, competente in materia finanziaria. Agli ordini del vicario, inoltre, operava anche un gruppo di giuristi che si occupavano soprattutto dell'amministrazione della giustizia. Nel periodo successivo alla vittoria su Corradino la carica di vicario era stata ricoperta da altri due rappresentanti di Carlo d'Angiò, Giacomo Cantelmo e Pietro di Lommereuse, i quali avevano lottato contro i sostenitori del partito svevo a Roma e avevano eliminato i principali esponenti di questo. Il D. trovava, perciò, una città sostanzialmente pacificata e il suo impegno fu rivolto sia ad eliminare dalle loro cariche le persone che avevano ricoperto uffici durante la senatoria di Enrico di Castiglia ed erano riuscite a conservare il loro posto anche successivamente, sia a porre rimedio ad alcune ingiustizie che i suoi predecessori avevano commesso nel fervore della lotta antisveva, sia, infine, a ristabilire i diritti che erano stati violati sotto Enrico di Castiglia. Sotto il primo profilo, si ricorda che il D. destituì due giudici, motivando la decisione con l'estensione a loro della scomunica di Clemente IV contro Enrico di Castiglia. Sotto il secondo aspetto è da citare il caso di un certo Guido Giordano il quale era stato accusato e condannato da Giacomo Cantelmo; quest'ultimo si era poi accorto di aver commesso un errore e aveva pregato il suo successore di cancellare l'imputazione e la condanna dal registro penale della città; poiché, per una serie di circostanze sfavorevoli, il successivo vicario non era potuto intervenire, il D., dietro richiesta del sovrano angioino, prese di nuovo in esame la questione. Un caso analogo fu quello dei tre romani Filippo della Suburra, Pietro di Sant'Alberto e Matteo Novello che erano stati coinvolti nelle lotte cittadine e accusati dal vicario di aver alzato la spada anche contro le sue truppe. Il vicario li aveva condannati ad abbandonare la città, nonostante che essi si fossero dichiarati innocenti. Il D. fu incaricato di rivedere il processo e di confermare o annullare la sentenza del suo predecessore.

Sotto il terzo aspetto rientra la questione dei fratelli Pandolfo e Giovanni Savelli. Durante la senatoria di Enrico di Castiglia, essi avevano subito la demolizione delle loro case, torri e fortificazioni nella città, perché non avevano voluto riconoscere il nuovo regime: il D. venne incaricato di imporre la ricostruzione degli edifici dei Savelli agli eredi di coloro che ne avevano provocato la distruzione, nonché di cancellare nei registri della città l'accusa e la condanna che avevano giustificato tali demolizioni e di provvedere al risarcimento dei danni subiti da quella famiglia. Il D. provvide anche a rendere giustizia a Riccardo Matteo, nipote del cardinale diacono Riccardo Annibaldo, il quale, sotto Enrico di Castiglia, aveva subito una condanna ed era stato costretto a lasciare tutte le cariche che ricopriva; gli restituì gli uffici precedenti e cancellò le accuse e la condanna.

Il D. svolse un ruolo importante anche nella causa che opponeva il Comune di Roma a Pietro di Vico, l'ultimo vicario ghibellino di Manfredi, ma Carlo d'Angiò, il quale si teneva informato di tutto ciò che di importante avveniva nella città, avocò infine a sé la causa. Il D. si occupò anche delle ingiustizie subite da comunità ecclesiastiche, intervenendo a favore del monastero di S. Sisto, della comunità di S. Prisca e dei trinitari di S. Tommaso in Formis. Anche durante il suo vicariato, tuttavia, furono a volte violati i diritti del clero. Il primicerio e i chierici della schola cantorum, ad esempio, si lamentavano con il re, perché il D. voleva togliere loro il possesso di un castello: Carlo ordinò allora al D. di non molestare ulteriormente la comunità.

Il D., inoltre, si occupò di questioni finanziarie, quali, ad esempio, la riscossione di crediti. Particolarmente interessante sotto questo profilo, perché illustra bene i metodi usati dal re angioino, è il caso del mercante romano Bartolomeo Crescenzio. Insieme con il suo socio Paolo Signorile, Bartolomeo aveva prestato al re, dal 1266 in poi, migliaia di once che solo in parte gli erano state restituite. Nel 1268 lo stesso Bartolomeo era stato per un breve periodo capitano dell'Aquila, e aveva preso in prestito da alcuni cittadini, per le truppe angioine che nel maggio si trovavano nella città, una somma considerevole, per la quale egli stesso aveva garantito. Non avendo restituito questa somma, i creditori si rivolsero al re il quale, in due lettere, datate 25 aprile, invitò da un lato Bartolomeo a restituire immediatamente le somme prese in prestito e dall'altro ordinò al D. di usare mezzi coercitivi nei confronti di quello nel caso non avesse provveduto al versamento del debito.

Nel settembre, o nell'ottobre del 1271, il D. venne destituito dalla carica di vicario di Roma: già da prima, comunque, aveva dovuto rinunciare ad attendere alle sue funzioni, perché nel maggio si era ammalato tanto gravemente da far temere della sua vita. Il re, informato della malattia del D., assegnò al maresciallo dell'Urbe l'esercizio dei compiti a quello spettanti e provvide a nominare un altro vicario che sarebbe entrato in carica solo nel caso che il D. fosse morto. C'è da chiedersi perché il re non abbia sostituito subito il Del Balzo. In proposito, appare interessante la lettera inviata da Carlo d'Angiò, in data 2 giugno - lo stesso giorno, cioè, in cui fu designato il successore del D. - alle truppe provenzali a Roma. Il sovrano ordinava loro di non abbandonare la città nemmeno in caso di morte del D. e tale disposizione induce a ritenere che buona parte delle truppe angioine a Roma fosse legata al D. da vincoli personali e che quindi la sua destituzione prematura avrebbe potuto mettere in pericolo il controllo angioino della città. Le preoccupazioni per la salute del D., comunque, si rivelarono alla fine infondate: egli riuscì a guarire e riprese la sua attività di vicario. Durante la sua malattia gli affari correnti non avevano subito alcun intralcio e soprattutto l'amministrazione della giustizia aveva funzionato normalmente, senza dare motivo a rimostranze, come Carlo stesso scrisse al Senato e al popolo romano. La gravità della malattia, inoltre, spiega anche perché il re angioino, nel 1271, assegnasse i feudi di cui il D. era titolare nel Regno a Simone di Monfort. La morte di quest'ultimo, avvenuta nello stesso anno, e la mancanza di suoi eredi evitarono l'insorgere di una vertenza feudale: nel marzo 1271 i possedimenti furono restituiti al D., ad eccezione di Francolisi e Riardo, la cui perdita fu compensata con una pensione annua di 100 once, corrispondente alla rendita di quelle terre.

Con una breve interruzione nel 1276, quando accompagnò il re a Roma, il D. si dedicò fino al 1278 all'amministrazione dei suoi feudi italiani e - fatto significativo - come in Provenza si trovò ben presto coinvolto in una serie di contese. Al tempo del suo vicariato a Roma aveva preso in prestito da alcuni mercanti romani, ipotecando i suoi feudi nel Regno, la somma di 2.500 libbre tornesi equivalenti a 1.000 once, una somma considerevole, molto più alta di quanto avrebbero potuto rendere annualmente i suoi feudi. Il D., perciò, non era in grado di restituirla. Ma alcuni nobili provenzali avevano garantito per lui, così che il re fu costretto ad intervenire offrendo in pegno una parte del tesoro della Corona. La grave spregiudicatezza che usava in questioni economiche come quella ora ricordata spiega forse perché il D. cercasse di ottenere dai suoi feudi rendite consistenti senza badare ai diritti altrui.

Così, ad esempio, nel 1272 impose il pagamento di tributi agli abitanti di Montanaro, sostenendo che il loro territorio faceva parte del suo feudo di Calvi. Con la stessa motivazione cercò di far pagare anche i cittadini di Teano i quali, però, opposero resistenza, tanto da indurre, nel novembre, il re ad intervenire investendo della questione il giustiziere di Terra di Lavoro. Problemi analoghi sorsero anche nei feudi che il D. aveva nel Principato, dove si ripeté l'intervento del giustiziere. Ancora più evidente è il comportamento spregiudicato del D. nella questione che lo oppose al monastero di S. Vincenzo al Volturno sito nel territorio di Calvi. Il monastero mosse causa al D. accusandolo di aver recato grave danno a propri vassalli, costringendoli a pagargli tributi e a fornirgli servizi, impadronendosi del loro bestiame, ed arrivando ad incarcerare alcuni di loro perché si erano rifiutati di dargli soldi in prestito. Un'accusa più generale era rivolta inoltre alla moglie del D., Filippina, la quale, in dispregio delle disposizioni reali, avrebbe preteso alcuni pagamenti dalla popolazione delle terre che suo marito aveva in feudo. La vertenza si acuì ulteriormente quando nel 1276 Avellino stessa si ribellò contro il conte. Nel corso dei disordini furono assassinate delle monache, anche se non è chiaro il rapporto tra questo crimine e la rivolta. Il fatto che fu insediata una commissione con l'incarico di indagare contro i "milites, scutiferi et familiares Bertrandi de Baucio... irruentes in eum" lascia pensare che soprattutto i valvassori e gli uomini del D. non volessero più sopportare angherie del loro signore. Il re affrontò seriamente la questione: nel marzo del 1277 suo figlio e luogotenente Carlo, principe di Salerno, inviò due giudici della Curia ad Avellino per giudicare i colpevoli. Ma al D. non fu mossa alcuna accusa; anzi, nel febbraio, gli erano state concesse altre terre nei dintorni di Caserta per ampliare il suo feudo.

In questa ricerca di sempre nuove fonti di introiti il D. dovette accogliere con favore la notizia della morte del cugino Bertrando Del Balzo de Pertuis, avvenuta all'inizio del 1275, di cui ereditò i feudi nel Regno. Subito dopo la morte di Bertrando, il D. inviò a corte propri rappresentanti e già nel marzo ottenne il permesso di prendere possesso dei beni mobili del defunto; il permesso di imporre una "collecta" in quelle terre, comunque, gli fu concesso soltanto nel dicembre del 1276.

Nel 1277 cambiarono di nuovo i rapporti feudali del D., senza che ciò comportasse per lui un guadagno concreto. Egli dovette infatti restituire alla Corona Padula ed ottenne in cambio Conza e Lauro: i nuovi feudi avevano una rendita maggiore di quello ceduto, ma la differenza fu subito annullata, perché al D. venne tolta la pensione annua di 100 once concessagli nel 1272. Per i nuovi feudi egli era tenuto a mettere ogni anno a disposizione del re, secondo le consuetudini del Regno, 32 cavalieri per la durata di tre mesi (ma si tratta probabilmente di un errore, perché il feudo è indicato con il valore di 20 once e doveva quindi fornire 30 milites soltanto). Questa volta, comunque, il re, edotto dall'esperienza precedente, inviò nel Principato il siniscalco Galeran d'Ivry per definire i confini tra Laudo e la vicina Sarno, subito dopo l'investitura del Del Balzo. Questi, infatti, era stato obbligato, come quasi tutti i feudatari del Regno, a partecipare, con due teride e due barche, alla formazione di una flotta da guerra che doveva servire per l'invasione dell'Impero bizantino progettata negli accordi di Viterbo del 1267. Dati i precedenti, il re temeva che il D. potesse abusare dei suoi diritti e, per coprire le spese, cercasse di estendere il suo potere sulle comunità limitrofe.

Timori di questo genere non erano infondati anche perché si erano riacutizzati i vecchi conflitti in Provenza. Il 16 sett. 1277 Carlo I, pressato dalle richieste sia del D., sia di Arles e di Tarascona, nominò due inquisitori ai quali assegnò il compito di indagare a fondo sulle lamentele presentate da entrambe le parti e di esaminare in particolare le questioni che non erano state risolte dalle richieste degli anni 1270-72. La complessità della vertenza indusse il D. a recarsi personalmente nella contea, dove giunse all'inizio del 1278. Sebbene i nobili siciliani fossero obbligati a risiedere nel Regno, da cui potevano allontanarsi al massimo per un anno e dopo aver ottenuto il permesso regio, il D. fece ritorno nell'Italia meridionale solo nel 1286, senza subire la pena della confisca dei feudi. Si tratta di un'eccezione unica, perché nemmeno i grandi dignitari del Regno erano esenti dall'obbligo della residenza.

L'arrivo del D. in Provenza ebbe l'effetto di rendere meno tesa la vertenza, anche perché egli cercò di giungere subito ad un accordo soprattutto con l'arcivescovo di Arles. Tuttavia, dopo un'iniziale intesa, sorsero ben presto nuovi attriti quando il D. tentò di acquistare direttamente dalla titolare un feudo della Chiesa di Arles, senza interpellare l'arcivescovo che minacciò ai due contraenti la revoca del feudo, l'interdetto e la scomunica. Anche con Tarascona non si riuscì a stabilire un accordo, perché il D. rifiutò ostinatamente di pagare i tributi dovuti per le sue terre nel territorio del Comune. Un altro caso significativo finì nel 1282, in seconda istanza, davanti al prevosto di Barjols: il D. fu condannato al pagamento di 100 lire provenzali coronate perché si era arrogato funzioni giurisdizionali al di fuori del suo territorio. Inoltre, egli dovette affrontare questioni patrimoniali connesse con il testamento di suo padre che non aveva ancora ricevuto completa esecuzione: in particolare non era stata versata la dote della sorella del D., Marchesa, - la quale nel frattempo era morta - e il marito, il conte di Rodez, ne reclamava il pagamento; inoltre, dovevano ancora essere distribuiti alcuni legati. Il D. si dovette impegnare a pagare annualmente, per la durata di cinque anni, 18.000 soldi regi all'arcivescovo di Arles che li avrebbe trasmessi ai beneficiari del testamento. Come garanzia per l'esecuzione dell'accordo il D. offrì il Venassino e tutte le sue terre a meridione della Durance, ad eccezione però di Baux.

Durante il soggiorno in Provenza, si aprì peraltro al D. la prospettiva di un incremento patrimoniale, perché il cugino Bertrando Del Balzo de Pertuis gli aveva lasciato in eredità anche i suoi feudi provenzali. Ma la situazione di queste terre era più complicata di quella dei feudi che il cugino teneva nel Regno. Guglielmo, il padre del defunto, aveva fatto attribuire al figlio, quando era giunto alla maggiore età, soltanto una parte dei feudi riservandosene, peraltro, l'usufrutto. Bertrando de Pertuis, dal canto suo, aveva destinato al D. soltanto due terzi dei suoi feudi provenzali, e aveva lasciato l'altro terzo al padre, disponendo che anche questa quota doveva passare al D. nel caso Guglielmo fosse morto senza eredi diretti. Una parte dei feudi di Bertrando appartenevano al monastero di Montmajour, al quale infatti Guglielmo si rivolse nel 1279 con la preghiera di investire il D. alle condizioni suddette, ma tutta la faccenda si concluse soltanto nel maggio del 1281.

È possibile che il D. abbia deciso allora di ritornare nel Regno di Sicilia, perché nello stesso mese affidò allo zio Raimondo (I) de Baux l'amministrazione di tutti i suoi possedimenti nella Francia meridionale. Ma poi non partì. Se l'idea di recarsi nel Regno può essere collegata con il progetto angioino di invadere l'Impero bizantino, la decisione di restare potrebbe invece essere spiegata con le seconde nozze del D., che dopo la morte di Filippina, avvenuta nel 1282, si risposò con Agathe de Mévouillon.

La questione dell'eredità provenzale conobbe una favorevole svolta nel 1284 quando Guglielmo, che a quanto pare si era molto indebitato, cedette al D. il suo diritto d'usufrutto. L'accordo prevedeva, infatti, che il D. avrebbe pagato 6.000 soldi ai creditori di Guglielmo al quale fu anche garantita una pensione a vita della stessa somma annua.

Né la rivolta del Vespro, né la guerra che la seguì, né la morte di Carlo I d'Angiò nel 1285 indussero il D. a ritornare nel Regno. Solo nel 1286 accolse l'invito del reggente Roberto d'Artois e insieme con i figli Ugo e Raimondo si recò a Brindisi per assumere il comando di una flotta di quaranta navi destinata in Sicilia. La flotta salpò nella primavera successiva e sbarcò nell'isola nei pressi di Augusta, che tuttavia resistette all'assedio delle truppe angioine. Roberto d'Artois mandò, allora, in soccorso, una seconda flotta, la quale, però, venne annientata da Ruggiero di Lauria nel golfo di Napoli il 24 giugno 1287. Alla notizia del disastro le truppe impegnate nell'assedio di Augusta si arresero a Giacomo d'Aragona. Anche il D. cadde prigioniero e per riscattarlo, Roberto d'Artois fu costretto a cedere in pegno agli Aragonesi l'isola di Ischia. Dopo il riscatto il. D. tornò inProvenza, mentre i suoi figli rimasero prigionieri degli Aragonesi fino al 1290. In quell'anno il D. fu inviato da Carlo II d'Angiò alla corte aragonese per intavolare trattative di pace con re Alfonso III. La missione fu coronata da successo: il D. riuscì a concludere un armistizio di due anni. In seguito, tornò di nuovo in Provenza, da cui si sarebbe allontanato una sola volta nel 1302 per recarsi a Napoli.

La restituzione del riscatto pagato per il D. mise la famiglia Del Balzo in gravi difficoltà economiche e i vecchi conflitti con le città e i vicini si riacutizzarono di nuovo. Ai vecchi avversari dei Del Balzo si unirono ora anche Aix e Marsiglia. Alla fine, la famiglia fu costretta ad alienare numerosi possedimenti per coprire almeno in parte i debiti. Nel 1294 il D. vendette Pertuis e possedimenti in Terra di Lavoro e nel 1301 offrì all'arcivescovo di Arles i suoi diritti ad Arles e a Trinquetaille. Ma non sempre fu in grado di pagare puntualmente gli interessi e il suo ultimo viaggio nel Regno sembra determinato essenzialmente dalla necessità di mettere in vendita altri beni. Nel 1303 i suoi possedimenti erano gravati di ipoteche, tanto che il D. temeva di non poter lasciare nulla al figlio Raimondo.

Il D. morì nel 1305 in Provenza. Lasciò la seconda moglie Agathe e tre figli - Raimondo, Sibilla e Cecilia - nati dal suo matrimonio con Filippina di Poitiers, mentre un altro figlio nato da questo stesso matrimonio, di nome Ugo, siniscalco angioino in Piemonte e capitano generale in Lombardia, era stato assassinato nel 1303 a Milano. Dal matrimonio con Agathe de Mévouillon erano nati due maschi, Barral (m. nel 1331) e Agoult, e una figlia.

Fonti e Bibl.: L. Barthélemy, Inventaire chronol. et analytique des chartes de la maison des Baux, Marseille 1882, ad Indicem; P.Durrieu, Les Archives angevines de Naples, II, Paris 1887, p. 280; G. La Mantía, Codice diplom. dei re Aragonesi di Sicilia (1282-1355), I, Palermo 1918, pp. 416 s.; A. De Boüard, Actes et lettres de Charles Ier concernant la France, Paris 1926, pp. 29, 260 s., 336 s.; I registri della Cancell. angioina..., a cura di R. Filangieri, I-IX, XI-XIV, XVI-XX, XXIV, XXVII, Napoli 1950, ad Indices; St.Clair Baddeley, Robert the Wise and his Heirs, 1278-1352, London 1897, p. 177; G. Noblemaire, Histoire de la maison des Baux, Paris 1913, pp. 32 ss.; A. De Boüard, Le régime polit. et les institutions de Rome au Moyen Age, 1252-1347, Paris 1920, pp. 148, 163, 179, 240; E.-G. Léonard, Histoire deJeanne Ire, I, Monaco-Paris 1932, p. 29.

CATEGORIE
TAG

Battaglia di tagliacozzo

Enrico di castiglia

Francia meridionale

Ruggiero di lauria

Italia meridionale