CASTELLO, Bernardo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 21 (1978)

CASTELLO, Bernardo

Giuliana Biavati

Figlio di Antonio e di Geronima Macchiavello e fratello minore del miniatore Giovanni Battista, detto il Genovese, nacque a Genova nel 1557 nel sestiere della Maddalena (Alfonso).

La data del 1557, universalmente accettata, fu desunta dal Soprani, che se ne valse in tutta la biografia, dagli anni indicati nell’atto di morte, ora malamente decifrabili nel secondo numero; essa però non risulterebbe confermata da una lettera del Chiabrera (n. 124 del carteggio del C. con Chiabrera), in data 6 nov. 1606, dove il C. è dichiarato di anni quarantasette.

Imparò la pittura nella bottega di A. Semino e, a quattordici anni, si rivolse agli insegnamenti di L. Cambiaso, a cui rimase sostanzialmente fedele, non solo nelle opere giovanili. Il 10 dic. 1575 (Alfonso) il C. sposò in prime nozze Livia di Antonio da Savignone (morta nel 1613), che gli diede sedici dei suoi venti figli.

Di essi, Giacomo Maria (non Giovanni Maria, come tradizionalmente riferito), nato il 27 nov. 1584, ebbe come madrina Sofonisba Anguissola Lomellini; si presume fosse pittore, dato che nel testamento dell’11 marzo 1613 il padre lasciò a lui, oltre ai disegni e alle pitture non ultimate, “l’istromento di appartenenza alla professione della pittura”; morì a Genova il 19 ag. 1625. È citato nelle lettere del Chiabrera insieme con un altro figlio, Antonio, come implicato in reati di poco conto (pp. 149 s., 161 s., 203 s., 245); il Soprani (p. 125) lo definisce miniatore, ma allo stato degli studi nulla si sa delle sue opere (tutti i documenti in Alfonso, n. 1., p. 33).

Secondo il Soprani (p. 125) fu allievo e seguace del padre anche Bernardino, religioso nei frati minori del convento della SS. Annunziata di Genova, dove avrebbe miniato numerosi codici, ma a tutt’oggi non risultano opere a lui attribuibili (v. anche La Berio, 1976, n. I, p. 28; 1977, n. 3, p. 24). Un padre Bernardino morì a Chiavari il 21 ag. 1639 (V. Belloni, L’Annunziata di Genova, Genova 1965, pp. 131, 133 s.).

Valerio, figlio della seconda moglie del C., divenne pittore di grande fama; e la figlia Ersilia sposò il pittore G. Carlone di Taddeo.

Dopo il 1575, a detta del Soprani, l’artista si dispose a visitare le principali città d’Italia. Al di là della generica affermazione, più che di un viaggio di istruzione o di verifica che non diede risultati di rilievo sul piano culturale, si trattò di un viaggio determinato da una sua intima inquietudine, che il C. non riuscì a placare in tutta la vita, e che si rivelò fin dagli anni 1577-78, quando, chiamato come perito per una tela di G. B. Paggi, si comportò con quell’acredine concorrenziale verso i colleghi, che affiora fin dalle fonti più antiche e che forse condizionò il suo atteggiamento di scarsa apertura nella famosa querelle sulla nobiltà dell’arte, come si ricava da una lettera del Paggi stesso al fratello Girolamo, datata da Firenze 1591 (G. G. Bottari, Raccolta di lettere..., VI, Roma 1768, pp. 204-231; anche Soprani, pp. 102-108, 122; Belloni, pp. 99-101; per il manoscritto della querelle cfr. Arte della pittura nella città di Genova, a cura di G. Rosso del Brenna, in La Berio, 1976-1978).

Il curriculum del C. è documentato ampiamente da parecchie opere datate e firmate, sia tele, sia affreschi, e dal ricco epistolario con G. Chiabrera, che inizia il 2 aprile del 1591 e si protrae fino al 1617, oltre che da quello con G. B. Marino, con il quale il C. strinse amicizia a Roma nel 1604. Il carteggio con il Marino perdurò fino alla morte del poeta (1625), e s’infittì tra il 1604 e il 1614, quando il Marino chiedeva disegni per la Galeria, dove, oltre che a ritratti si fa riferimento a un S. Cristoforo, ad alcuni soggetti di carattere mitologico e alla edizione del 1617 della Gerusalemme. I due epistolari danno notizie determinanti circa l’attività, o problemi culturali e di relazioni, del pittore, e ne illuminano, al di là degli orpelli letterari – specialmente quello col Chiabrera – la figura umana con i suoi problemicontingenti e le sue reazioni, come le manovre per ottenere conimissioni; le nascite o le morti di alcuni dei suoi numerosi figli; la morte della prima moglie; i guai che alcuni figli gli procurarono incappando nelle maglie della giustizia; le difficoltà incontrate nel lavoro.

Databile al 1583 è una Lapidazione di S. Stefano nella chiesa di S. Giorgio dei Genovesi a Palermo, copia del dipinto genovese di Giulio Romano (un’altra versione, fornita per l’oratorio palermitano di S. Stefano, porta la data del 1619); mentre più puntualmente seminesca è la Madonna coi santi protettori della città, dalla cappella del palazzo Paride Doria in Genova (F. Alizeri, II, p. 621), attualmente neidepositi di Palazzo Bianco. Il raffaellismo d’importazione e il manierisino locale sono quindi le due componenti della sua formazione stilistica.

La carriera di frescante del C. ebbe inizio nel 1583 con gli affreschi della villa Lomellini Rostan a Multedo di Pegli: nell’Incontro di Coriolano e Veturia, tra le figure degli ufficiali romani, il Soprani identifica l’autoritratto (altre scene sono di collaboratori). Nel maggio del 1586 (nel 1584, secondo C. Guasti, Le lettere di T. Tasso..., Firenze 1833, II, pp. 257 s.) il C. si incontrò con il Tasso a Ferrara per gli accordi circa l’illustrazione della Gerusalemme liberata (l’incontro era stato preparato da don Angelo Grillo).

L’opera fu stampata a Genova nel 1590 da G. Bartoli in 4’ (con ventuno incisioni su disegni del C., oltre al frontespizio, che presenta una inquadratura architettonica, targa con titolo, veduta di Genova e ritratto del Tasso entro medaglione ovale. Delle incisioni due (per il canto VIII e per il XIX) sono firmate da Agostino Carracci, undici da Giacomo Franco. Quelle rimanenti, non firmate, sin da C. C. Malvasia (Felsina pittrice [1678], 1, Bologna 1841, pp. 81 s.) sono state attribuite ad Agostino, ma la qualità scarsa (comune anche a quelle firmate) non permette di distinguere la mano di Agostino da quella del Franco, e nulla autorizza ad attribuirle tutte al Carracci (S. E. Ostrow, Agostino Carracci, tesi di dottorato, New York University, Institute of Fine Arts, 1966); e c’è anche da pensare che i disegni del C. non fossero particolarmente stimolanti. Da questa edizione (ne è stata fatta una ristampa anastatica nel 1966 a Roma a cura di G. Piersantelli) fu tratta una edizione in due volumi pubblicata a Londra nel 1724, in 4°.

Ricordiamo le successive edizioni pubblicate a Genova: nel 1604, presso Giuseppe Pavoni, in 12°; nel 1615 in carta azzurra con aggiunti diciassette sonetti scritti in lode del C. dai più illustri personaggi – tra cui il Tasso stesso – e una lettera dedicatoria dello stesso C. “all’Illustre Sig. Francesco Bergonzo”; nel 1617, in folio piccolo con due frontespizi e venti tavole non numerate, e siglate dal C. e da C. Congio, annotazioni di Scipione Gentile e di Giulio Guastavini, argomenti di O. Ariosti (nel primo frontespizio, titolo entro architettura con ritratto di Carlo Emanuele di Savoia; nel secondo, titolo in targa, ritratto del Tasso e, sotto, in ovale, veduta di Genova entro cornice con figure allegoriche).

L’incontro del C. con l’ambiente artistico ferrarese non è stato finora oggetto di ricognizione, e a questo punto degli studi non può che essere riconosciuta una generica equivalenza di clima culturale controriformistico (ma si veda su questo, Frabetti, 1972).

Nel 1588 il C. venne nominato socio dell’Accademia fiorentina, la qual cosa, oltre che presupporre contatti con l’ambiente artistico di quella città, del resto non nuovi, sia nelle radici sia negli sviluppi della cultura genovese del tardo Cinquecento, qualifica una raggiunta posizione di prestigio da parte del pittore. Ne fanno fede le molte commissioni, anche di ritratti.

Il Soprani cita i ritratti del Chiabrera (M. Garea, Divagazioni sul Chiabrera, in Liguria, 1955, pp. 5-6, dove viene riprodotto un ritratto del poeta sotto una statua della Gloria in atto di laurearlo “da una tela di B. C.” di cui non si precisa la collocazione), del Tasso, del Duca di Savoia, di A. Cebà (i ritratti del Tasso e del duca di Savoia sono incisi nelle citate edizioni della Gerusalemme liberata; quello del Cebà nel frontespizio del Furio Camillo, la composizione del poeta genovese pubblicata a Genova dal Pavoni nel 1623). Il Soprani ricorda inoltre i ritratti di Ambrogio Spinola, di Cornelio Musso, vescovo di Bitonto (citati anche dal Marino, 1674), di Cambiaso il Giovane e Sofonisba Anguissola, questi ultimi lavori commissionatigli dall’Accademia di S. Luca dove tuttora si trovano, deturpati da “restauri” (vedine le fotografie del Gabinetto fot. naz., E 59015, E 73132, E 72666). Nella cappella gentilizia in S. Francesco d’Albaro a Genova sono riconoscibili, in due delle quattro tele, i ritratti di Agostino De Franchi e di Pellina De Franchi Marini.

Quanto al ritratto del Tasso, va notato che probabilmente il C. ne dipinse vari. Lo stesso Chiabrera in una lettera del 12 sett. 1592 (pp. 79 s.) chiedeva al C. un ritratto dei Tasso “in chiaroscuro” (ma per ora non si ha altro che l’incisione della Gerusalemme liberata); pochi mesi dopo chiedeva (p. 81) quello di Pietro Vettori e di “altri siffatti uomini”.

Firmata e datata 1590 è la tela con i Santi Eligio, Orsola, Lucia tra i Diecimila crocifissi nella chiesa di S. Maria delle Vigne a Genova. Secondo il Soprani sono da considerarsi precedenti, in quanto cambiasesche, opere come il Presepe di S. Girolamo di Quarto e l’Immacolata, già in S. Maria delle Grazie, identificabile probabilmente con quella in S. Maria in Passione sino agli anni della seconda guerra mondiale. Ma è bene tener presente che il cambiasismo del C. è fenomeno ricorrente: ancora nel 1612 ricopiava l’Assunta (Genova, S. Nicolosio) dalla pala del Cambiaso in S. Bartolomeo di Vallecalda (vedi Frabetti, 1956). Negli anni 1592-93 cade una commissione importante: la decorazione, su soggetti del Chiabrera, del palazzo Spinola (ora Banca d’America e d’Italia) nella prestigiosa Strada Nuova (via Garibaldi).

Sono del C. gli affreschi di Dario che supplica Alessandro, le Imprese di Scipione, il Secondo triumvirato, e le grottesche dello scaIone adducente al primo piano dove, alle non convincenti e svuotate realizzazioni epiche dei grandi temi, fanno riscontro le Figure allegoriche angolari, riscattate, dalla stessa qualità aggraziata e disimpegnata, perfino dall’intellettualismo manieristico di tante sue tele.

In questi anni, la frequentazione del C. col Chiabrera si fa più serrata; ed è documentata una sua prima attività a Savona con un Presepe (firmato e datato 1591, nel santuario della Misericordia) e con affreschi rappresentanti Storie di Antonio e Cleopatra, in un palazzo Ferrero (finora non riconosciuti) come risulta dalla corrispondenza fra i due del giugno 1594 (pp. 106-108). La tela in S. Aluia di Castello a Genova, con il Martirio di s. Pietro domenicano, firmata e datata 1597, è il primo dipinto affrancato dal cambiasismo in chiave raffaellesca, osservato finora, e l’unico che presenti una vitalità perentoria di interpretazione paturalistica, eccezionale nel pittore, e di un’irripetibile avanguardia nella cultura genovese. Agli stessi anni vanno assegnate: la grande tela dell’Ultima Cena (non firmata, ma datata 1598), ora nella chiesa dell’ospedale genovese di S. Martino e identificabile con quella già nell’oratorio di S. Giacomo delle Fucine (Alizeri, II, p. 679); la Madonna e due santi nella chiesa di S. Giovanni di Pré a Genova (siglata e datata 1599); una Crocifissione con donatore (1599) nella parrocchiale di Camogli (varianti a Genova, chiesa della Concezione dei cappuccini e in S. Margherita di Marassi). Databili al 1600 sono le due tele con la Vocazione e il Martirio di s. Giacomo già nell’oratorio di S. Giacomo delle Fucine (C. G. Ratti, Descrizione..., Genova 1780, p. 295) ora presso la Soprintendenza di Genova. Ai primi anni del Seicento (intorno all’anno 1602) va assegnata una attività del C. a Sampierdarena: gli affreschi della villa Centurione, detta del Monastero, con episodi della Guerra giugurtina, Erminia tra i pastori e Diana e Callisto; quelli della villa dei dotto Giovanni Vincenzo Imperiali (ora Scassi), con storie ricavate, ancora una volta, dal poema tassesco, le decorazioni di un’altra villa Centurione (ora Musso Piantelli) a Marassi, con scene tratte dal primo libro dell’Eneide.

Queste opere trovano dimensione e limite nella loro stessa scaturigine letteraria: nate dal clima di un umanesimo più dottrinario che di contenuto, in ogni caso fine a se stesso, ne rimangono la trasposizione figurativa senza problematiche, quasi una traduzione in chiave monumentale delle illustrazioni a corredo di testi sacri o profani. Stesso valore, in rapporto alla funzione devozionale, hanno gli affreschi nella cappella Pinelli in S. Maria della Cella a Sampierdarena, con Storie di Maria (comunque posteriori al 1606, anno della parte architettonica), così come, del resto, vanno qualificate le altre opere del C.: gli affreschi in S. Maria di Castello a Genova, con il Padre Eterno e S. Giacinto (1604); la Natività, pala d’altare, nella cappella Nano del duomo di Savona (1609); gli affreschi, deteriorati, del santuario della Misericordia a Savona (1610), con ventiquattro Storie di Maria; quelli della ex villa Spinola di S. Pietro a Sampierdarena, con episodi della Vita di Paride (1611); quelli con sette episodi della Gerusalemme liberata in palazzo De Franchi in piazza Posta Vecchia a Genova dove si affacciavano la casa e la bottega dello stesso C.; quelli della loggia di ponente nella villa Saluzzo-Bombrini detta “Il Paradiso”, firmati e datati 1622, con Alessandro che sconfigge Ciro, per non parlare della stanca e svuotata rappresentazione di S. Martino a cavallo (dopo il 1619) nella chiesa di S. Martino d’Albaro, che il pittore doveva considerare il proprio mausoleo. Una giustificazione stilistica e una plausibilità poetica trovano invece alcune tele con la Sacra Famiglia, come ad esempio quelle conservate a Genova nella Galleria nazionale di palazzo Spinola, nella Accademia Ligustica di Belle Arti, nella chiesa di S. Matteo; a Savona nella parrocch. di S. Bernardo in Valle, datata 1610, e a Cantiano (Pesaro) nel palazzo del Comune (Torriti, 1969). Alla stessa maniera si possono qualificare altri soggetti, sempre di tema devozionale, come l’Ultima Cena della chiesa di S. Antonino di Piacenza o i piccoli Misteri del Rosario nella cappella omonima in S. Martino d’Albaro, o raramente di contenuto idilliaco, come la Susanna e i vecchioni (Genova, coll. privata), di un classicismo assai domestico: dipinto questo rispondente a quel vago sapore d’Arcadia, strettamente congeniale a Chiabrera e Marino, i quali citano spesso le opere del C., sollecitandole al pittore per le loro collezioni.

Il 5 apr. 1603 il Chiabrera rispondeva al C. che era a Roma e che gli aveva scritto dei suoi incontri con il Passignano e delle sue intenzioni di adoperarsi per entrare in contatto con le persone più influenti. Questo risulta dalle trame di raccomandazioni che l’artista andò intessendo con l’ambiente vaticano (tra gli altri con il Cavalier d’Arpino) evidentemente considerando fondamentale questo suo soggiorno. L’errore fu di considerarlo un punto di arrivo (il saggio Chiabrera lo dissuase dallo stabilirvisi) e non di partenza, se si pensa alla confluenza a Roma in quegli anni di grandi personalità della storia della pittura: dai Carracci a Caravaggio (si veda la corrispondenza col Chiabrera: pp. 119 s., 167-169, 174 s., 219-221; e con il Marino: I, pp. 41-44).

Anche il Soprani, nella solennità del suo discorso, riecheggia il senso di questo atteggiamento arrivista, anche se non smentisce il prestigio di un tale evento neppure quando è costretto a dare la notizia che il Domine salva nos che il C. aveva dipinto per S. Pietro era stato sostituito da una tavola dei Lanfranco (che fu a sua volta sostituita da mosaico). Dai documenti conservati nell’Archivio della Fabbrica di S. Pietro risultano essere stati effettuati al C. pagamenti in data 22 e 26 ott. 1604, 21 maggio 1605, 18 agosto e 12 sett. 1606 (I piano, serie 4, Vol. 21, ff- 475, 487v; ibid., vol. 12, ff. 12 [1604], 7 [1605], 12V [1606]; 1 piano, serie Armadi, vol. 171, f. 94; vol. 178, f. 82V); mentre da un documento del 15 luglio 1626 (I piano, serie 3, vol. 159, f 57v) risulta che il C. doveva entro sei mesi, a sue spese, restaurare la tavola, quando già il 13 agosto dell’anno precedente (ibid., ff. 11v., 93, 175) era stata commissionata al Lanfranco la tavola in sostituzione di quella del C. (O. Pollack, Die Kunsttätigkeit..., II, Wien 1931, p. 76; Brugnoli, pp. 256 s.).

Gli autentici frutti del viaggio romano del C. non stanno tuttavia né nella perduta pala per S. Pietro (nota da un’incisione del Callot, pubbl. in Brugnoli), né nel S. Francesco da Paola, firmato e datato Roma 1604, mandato a Genova nella chiesa del Carmine, né nella pala di S. Vincenzo Ferreri, eseguita su commissione del cardinal Giustiniani, tuttora in S. Maria sopra Minerva, che rientrano nei canoni più angusti del dipinto devozionale, ma piuttosto negli affreschi del palazzo Giustiniani (oggi Odescalchi) a Bassano di Sutri, firmati e datati 1605 (Brugnoli).

Gli affreschi, che rappresentano sette episodi della Vita di Psiche, secondo la favola di Apuleio, ma filtrata attraverso il gusto del Marino, (il poeta, a Roma in questi anni, stava raccogliendo materia per l’Adone), non sono certo dimentichi delle esperienze precedenti, dal Convito degli Dei, nel tema delle Nozze di Psiche, già realizzato in palazzo Imperiale di Campetto, agli affreschi di villa Scassi; ma rivelano un nitore che presuppone un percorso, finora noto soltanto attraverso Perin del Vaga e il Beccafumi, che si inoltra a ritroso fino alla prima fonte raffaellesca.

Nel 1608, il C. dipinse per Carlo Emanuele I di Savoia una Battaglia di San Quintino, destin alla chiesa del SS. Sudario in Roma (e probabilmente distrutta nel rifacimento dell’edificio nel 1660), come risulta anche dalla corrispondenza con il Chiabrera che probabilmente gli fece anche da tramite con i Savoia (pp. 194 s.). I rapporti coi Savoia, che culmineranno con la dedica al duca dell’edizione in folio della Gerusalemme del 1617, illustrata con gli stessi disegni della prima edizione, ma con comici condotte con maggior finezza, portarono alla commissione di quattro tele con le Gesta della famiglia reale, ora perdute (Soprani, p. 124, riporta anche le lettere dei Savoia; per questo periodo, vedi anche Schede Vesme, I, Torino 1961 pp. 295 s.).

Nel 1613 il C. compì probabilmente un secondo viaggio a Roma, dove ebbe l’amarezza di constatare la rimozione del suo dipinto dalla basilica di S. Pietro, e donde dovette forzatamente rientrare per la morte della moglie, avvenuta il 21 luglio. Nonostante il Chiabrera lo dissuadesse caldamente (pp. 219-21), il C. era di nuovo a Roma tra il gennaio e il giugno del 1616. Si ha la sensazione che da questi viaggi egli rientrasse sempre più inquieto, consapevole, forse, dell’evoluzione della pittura in quegli anni, e incapace di un aggiornamento.

Le opere tarde come quella commissionata dalla corporazione “Artis strapontariorum copertariorum” (1623) nella chiesa della Maddalena, con Madonna, Bambino e i ss. Maddalena e Nicola, o la pala d’altare con i SS. Desiderio, Giacomo, Alberto, dell’oratorio di S. Desiderio presso Genova, che qui si segnala per la prima volta, firmata e datata 1624, rappresentano, tenuto conto delle date, una notevole involuzione di gusto; gusto rivolto al passato, non solo come stile, ma come reviviscenza di un momento vissuto prestigiosamente. In questi ultimi anni il suo pensiero fisso fu la pala rovinata di Roma e la possibilità di un restauro: “suis sumptibus”. Nel 1618 si risposò con Cristoforina Campanella, vedova, che gli diede altri figli, tra i quali il celebre Valerio.

Gli archivi notarili di questi anni abbondano di notizie relative al C. e alla sua numerosissima famiglia, ormai giunta alla terza generazione (tutti i documenti sono pubblicati da Alfonso, nn. 1, 2, 3), ma si tratta, oltre che di matrimoni, nascite, morti, di acquisti di beni, di canoni di affitto, di procure per operazioni finanziarie in Roma, di eredità, e perfino di debiti. Tra le proprietà si ricorda il Chiappeto, nel territorio di S. Martino d’Albaro, spesso citato nel carteggio con il Chiabrera, dimora che doveva rappresentare una conquista sociale e che sarà nominata anche nel testamento del figlio Valerio.

Il 15 ott. 1619, il C. aveva ottenuto la concessione di una cappella in S. Martino d’Albaro; il 26 ott. 1628 redasse il suo secondo ed ultimo testamento (il primo è del marzo 1613); il 4 ott. 1629 mori a Genova, e nell’atto di morte l’arciprete di S. Martino testimonia di averlo sepolto il 5 ottobre nella cappella della chiesa, dove i figli Torquato, Angelo e Valerio gli dedicarono un epitaffio tuttora leggibile in loco.

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