OCHINO, Bernardino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 79 (2013)

OCHINO, Bernardino

Miguel Gotor

OCHINO (Tommasini), Bernardino. – Nacque a Siena nel 1487, figlio del barbiere Domenico Tommasini.

Sulle origini del soprannome «Ochino» vigono da secoli le versioni più disparate, pertinente metafora della sua multiforme e cangiante dottrina che lo rende uno dei padri dello scetticismo europeo. Nel Cinquecento l’umanista Aonio Paleario e la ferrarese Olimpia Morata credettero che fosse chiamato così a causa dei suoi occhi piccoli; secondo lo storiografo cappuccino Zaccaria Boverio quello sarebbe stato il nome della famiglia; per l’erudito Giusto Fontanini fu identificato in quel modo in quanto originario della contrada senese dell’Oca e questa versione tardoseicentesca ha finito per prevalere nonostante non sia mai stata provata; altre fonti attestano che il nome derivasse dalla voce chioccia come quella di un’oca, oppure che fosse un vezzeggiativo per indicare il suo bell’aspetto.

Le notizie sulla prima fase della sua vita sono scarse e incerte: si sa che lavorò come paggio del signore di Siena Pandolfo Petrucci e, fra il 1503 e il 1504, entrò nell’Ordine dei francescani osservanti presso il convento della Capriola. Dopo qualche anno abbandonò l’ordine per recarsi a studiare medicina all’Università di Perugia, ove conobbe Giulio de’ Medici (il futuro Clemente VII) e si addottorò nel 1510. Rientrato tra gli osservanti, nel 1523 fu eletto superiore della provincia di Siena che difese tre anni dopo, durante il capitolo generale di Assisi, dalle pretese annessionistiche dei frati fiorentini. In quel periodo divenne uno dei principali collaboratori del ministro generale dell’ordine Paolo Pisotti, che lo inviò come suo emissario a Venezia. Caduto in disgrazia Pisotti, fu assai probabilmente nominato nel 1533 vicario generale della provincia cismontana, anche se il dato non trova riscontro nei Regesta dei ministri generali dei frati minori.

Una crisi spirituale dai contenuti oscuri lo indusse ad aderire, all’inizio del 1534, alla nuova riforma dei frati eremiti minori di s. Francesco, istituiti nel 1529 da Matteo da Bascio e da Ludovico da Fossombrone. Dovette sentirsi attratto dal rigore ascetico ed eremitico della nuova famiglia religiosa e probabilmente fu spinto dalla volontà di allontanarsi dalle beghe che lo avevano visto protagonista fra gli osservanti. La protezione di Clemente VII e di Paolo III e i rapporti privilegiati con Caterina Cybo e Vittoria Colonna favorirono una sua rapida ascesa tra gli eremitani. Contribuì a mutare progressivamente l’indirizzo spirituale dell’ordine favorendo l’abbandono dell’impostazione eremitico-contemplativa voluta da Ludovico da Fossombrone in favore di un maggiore impegno negli studi e nella predicazione.

Nel 1536 i fondatori degli eremitani furono costretti ad abbandonare l’ordine e, in occasione del capitolo di S. Eufemia, si registrò l’ascesa ai vertici di un gruppo di famosi teologi e predicatori provenienti dall’Osservanza. Costoro, con le costituzioni scritte anche grazie al significativo contributo di Ochino e approvate in quello stesso 1536, delinearono un nuovo ideale di vita mixta che prevedeva un più strutturato impegno dei frati nella predicazione e nell’apostolato ad gentes che i cosiddetti cappuccini cominciarono a praticare da quel momento in poi.

Nel giugno 1538 Ochino fu eletto vicario generale dei cappuccini, carica nella quale venne riconfermato nel giugno 1541. Ben presto divenne uno dei più acclamati predicatori del suo tempo e iniziò a percorrere la penisola in lungo e in largo per rispondere alle richieste delle autorità religiose e civili desiderose di ascoltarne l’infuocata parola.

La sua predicazione si ispirava alla pietà francescana di derivazione bonaventuriana, si incentrava sulla passione e il beneficio di Cristo e condannava gli sfarzi mondani di chierici e laici con accenti savonaroliani. L’itinerario, necessariamente approssimativo, della sua frenetica attività di predicatore lo condusse a Roma nel 1534 (in base al ricordo del protonotario Pietro Carnesecchi), 1535, 1539 e 1540; a Napoli nel 1536, 1538, 1539 e 1540; a Venezia nel 1537, 1538, 1539 e 1542; a Bologna nel 1537, 1540, 1541 e 1542; a Perugia nel 1536, 1538, 1539 e 1540; a Ferrara e a Prato nel 1537; a Firenze nel 1537 e 1538; a Gennazzano nel 1535; a Lucca, a Faenza, a Brisighella e a Pisa nel 1538; a Verona nel 1539 e 1542; a Siena nel 1539 e 1540; a San Casciano in Val di Pesa, a Messina e Palermo nel 1540; a Mantova nel 1539 e 1541; a Modena nel 1540 e 1541; a Casale, Ancona e Milano nel 1541. Le prediche quaresimali che tenne nel 1536 nella chiesa di S. Giovanni Maggiore a Napoli si disse avessero commosso persino l’imperatore Carlo V, reduce dalla vittoriosa spedizione militare di Tunisi.

I padri teatini, da poco fondati da Gian Pietro Carafa e attivi in modo particolare nella città partenopea, iniziarono tuttavia a nutrire sospetti sui contenuti dottrinari delle sue prediche. Il soggiorno napoletano del 1536 e quelli successivi furono effettivamente cruciali nella vita di Ochino, che conobbe Juan de Valdés, restando profondamente influenzato dalla sua dottrina religiosa cristocentrica, illuminata e gradualistica. Cominciò a tessere una fitta rete di rapporti con il circolo di ‘spirituali’ riunitosi intorno alla carismatica figura dell’esule iberico, le cui opere accostò alla meditazione del manoscritto del Beneficio di Cristo. Un segno certo dell’influenza valdesiana, che presentava diversi punti di contatto con lo spiritualismo mistico-begardo dei primi cappuccini, è riscontrabile nei Dialoghi quattro e poi nei Dialoghi sette (entrambi Venezia, N. Zoppino, 1540). Ochino tornò a predicare a Napoli nel biennio 1539-40 e sembra che Valdés gli suggerisse l’argomento da svolgere nei suoi sermoni, tutti incentrati sul tema della giustificazione per sola fede, in un periodo in cui tale dottrina non era stata ancora condannata come eterodossa dalla Chiesa cattolica, cosa che avvenne soltanto a partire dal 1547.

Dal punto di vista dottrinario è importante chiarire i rapporti tra la spiritualità di Juan de Valdés e quella di Ochino. A questo proposito resta valida l’intuizione di Delio Cantimori (1929) che suggeriva di cercare in Italia, nei complessi fermenti che la attraversavano, nelle matrici umanistiche platoniche, savonaroliane, le radici di quelle inquietudini radicali che Ochino visse e interpretò in modo paradigmatico. Sarebbe, infatti, impreciso e deformante ridurre il suo pensiero solo alle dottrine della riforma tedesca e svizzera (che pure resta punto di riferimento storicamente e istituzionalmente insostituibile), appiattendolo sulla teologia riformata, su libri e dottrine d’Oltralpe. Lo spiritualismo di natura alumbrada di Valdés caratterizza la produzione ochiniana degli anni Trenta e il suo tono pedagogico, ripreso dall’Alfabeto cristiano dell’esule spagnolo. Un atteggiamento nel quale si fonda quel «predicare Christo mascherato in gergo» (Rozzo, 1985, p. 123) di cui lo stesso Ochino avrebbe parlato più volte dal suo rifugio svizzero, svelando apertamente uno dei principi della sua predicazione. Maschera e gergo da intendersi non soltanto come strumento di cautela e di prudenza, di nicodemismo opportunistico, ma piuttosto come strategia della persuasione fondata su quella destrezza che lo stesso Valdés aveva teorizzato e praticato, su un gradualismo raffinato e paziente, denso di valenze esoteriche, avverso a rotture clamorose e per questo contrastato da Lutero, da Calvino e da Zwingli.

Negli anni di governo dei cappuccini, Ochino, grazie ai contatti stretti con i vescovi e le classi dirigenti cittadine, promosse una serie di iniziative assistenziali e caritative, accentuando il carattere sociale della propria predicazione.

Nel 1535 caldeggiò l’istituzione a Roma di un luogo per le zitelle finanziato da Paolo III e da alcuni cardinali; tra il 1536 e il 1539 fondò a Perugia un Conservatorio delle derelitte e un’Opera pia in favore dei minori in difficoltà, detta dei ‘Cappuccinelli’. Nel 1537 a Bologna predicò a sostegno dell’ospedale dei Bastardi e a Ferrara, grazie all’appoggio di Vittoria Colonna, stabilì il monastero delle clarisse cappuccine. L’anno successivo convinse i cittadini di Faenza a istituire una commissione incaricata di risolvere i conflitti civili nei villaggi della Val di Amone. Sempre nel 1538 a Lucca, dopo una sua predica contro l’avarizia, il consiglio cittadino prese misure per arginare la piaga del pauperismo. Nel 1539 a Mantova sostenne, presso la corte ducale, la causa del locale monastero delle Convertite e a Venezia predicò a favore dell’ospedale degli Incurabili, incitando le donne a costituire delle compagnie per l’assistenza dei poveri.

In occasione del suo soggiorno veneziano del 1539, il ramo veneto dei teatini criticò nuovamente la predicazione di Ochino, il quale superò brillantemente la crisi difendendosi dal pulpito e proseguendo la sua incessante attività di propagatore della riforma cappuccina nella penisola. Nel dicembre dello stesso anno si recò a Perugia e, almeno in questo caso, è possibile ipotizzare con sufficiente certezza che la sua predicazione ebbe una ricaduta anche sul terreno politico. In effetti, dopo che aveva pronunciato una dura invettiva contro le leggi civili imposte dai principi per tiranneggiare e creare discordie e parzialità, i perugini si ribellarono a Paolo III Farnese rifiutandosi di pagare una nuova tassa sul sale e consegnando simbolicamente le chiavi della città a un crocifisso di legno issato sulla porta della cattedrale. Per le stesse ragioni, tra 1540 e 1541, anche Ascanio Colonna, uno degli aristocratici più vicini a Ochino, si scontrò con il pontefice. È dunque verosimile che, sullo sfondo di una dura crisi economica e sociale, la predicazione ochiniana, sempre più caratterizzata da motivi cristocentrici ed evangelici e da toni apocalittici di derivazione savonaroliana, fornisse un prezioso supporto ideologico alla ribellione antifarnesiana della città di Perugia e di Ascanio Colonna, rappresentando il contraltare religioso all’ideologia libertaria che sul piano politico accompagnò la sconfitta degli organizzatori delle rivolte.

Nel 1540 Ochino riorganizzò a Siena l’apparato rituale delle Quarantore e cercò di legare quell’antica devozione al servizio dei cittadini presso l’ospedale della Scala. Nel medesimo anno i teatini napoletani sollevarono nuovi dubbi sull’ortodossia della sua predicazione, ma i rapporti di forza lo videro ancora una volta in grado di respingere gli attacchi. Le prediche veneziane del 1539 uscirono nel maggio 1541 con il titolo di Prediche nove (Venezia, N. Zoppino), precedute in marzo da una diversa edizione comprendente anche cinque prediche lucchesi (Venezia, B. Viano).

Nel 1542 i toni di un vigoroso sermone a Venezia, che conteneva un’appassionata difesa di Giulio della Rovere (Giulio da Milano) arrestato durante la Quaresima dell’anno precedente per i contenuti della propria predicazione, attirarono nuovi sospetti su Ochino da parte del nunzio, che ne sospese l’attività per tre giorni. Ma il cappuccino, forte del sostegno di Paolo III, di Pietro Bembo e di influenti settori della curia romana, riuscì a superare anche questa battuta d’arresto: riprese a predicare con successo crescente e diverse voci lo davano in procinto di ricevere la porpora cardinalizia.

In questa fase il papa avocò a sé la scelta della sede di predicazione di Ochino per evitare complicazioni fra le diverse città che lo reclamavano, ma forse anche per controllarne più da vicino l’attività.

Dopo Venezia si trasferì a Verona, ospite del vescovo Gian Matteo Giberti, e tenne lezioni per formare i giovani predicatori cappuccini sulle epistole di s. Paolo. Lì lo raggiunse una lettera del cardinale nipote Alessandro Farnese del 15 luglio 1542 che lo invitava a Roma con il pretesto di discutere alcune questioni relative all’ordine. Il fatto che da pochi giorni fossero stati scelti i sei cardinali membri della nuova congregazione del S. Uffizio e parallelamente venisse convocato il predicatore Pietro Martire Vermigli lascia supporre che le autorità inquisitoriali in realtà volessero fare di Ochino uno dei primi processati, con l’accusa di eresia, della neonata istituzione. Tanto più che una successiva missiva del papa trasformò quell’invito all’apparenza consuetudinario in un ordine perentorio e dal tono vagamente minaccioso. Ciò nonostante il frate, dopo essersi consigliato con Giberti, decise di recarsi a Roma e, passando per Bologna, visitò il cardinale Gasparo Contarini morente. Ma giunto a Firenze incontrò Vermigli che lo persuase a ritornare sui suoi passi per evitare una sicura carcerazione da parte dell’Inquisizione, la cui istituzione e composizione originaria rivelavano non solo un mutamento dei rapporti di forza tra intransigenti e spirituali nella curia romana, ma anche la ridefinizione di un nuovo equilibrio fra i due schieramenti che implicava il soffocamento delle voci di rinnovamento più radicali e maggiormente disposte al dialogo con il mondo protestante come quella di Ochino.

Ancora a Firenze il 22 agosto, il frate scrisse una drammatica lettera a Vittoria Colonna in cui ufficializzava la sua decisione di intraprendere la strada dell’esilio. È assai verosimile che nella sua fuga abbia goduto dell’acquiescente quanto interessata complicità di alcuni esponenti spirituali, che avevano fondato motivo di temere un loro coinvolgimento giudiziario qualora egli fosse stato processato dal S. Uffizio. Gettò il saio in casa della duchessa Cybo e si diresse verso Mantova, ove incontrò in abiti secolari il cardinale Ercole Gonzaga e Ascanio Colonna che lo avrebbe fornito di un cavallo e di un servitore. Da lì, passando per Zurigo, si incamminò alla volta della calvinista Ginevra che raggiunse in settembre, pronto a ricominciare una nuova vita all’età di 55 anni.

La repentina fuga di Ochino generò un enorme scalpore nel mondo ecclesiastico italiano e fra quei laici che lo avevano acclamato come modello di fede e di virtù cattoliche. Il cardinale Gian Pietro Carafa, che paragonò la sua apostasia alla caduta di Lucifero, gli scrisse una lettera per convincerlo a ritornare sui suoi passi, ma venne attaccato con un cartello di sfida nel gennaio 1543. Vittoria Colonna non rispose alla missiva in cui Ochino le spiegava assai lucidamente le motivazioni del suo gesto e, sensibile al cambiamento degli equilibri politico-istituzionali determinati dall’istituzione del S. Uffizio, preferì consegnare il messaggio al neoinquisitore Marcello Cervini, il futuro Marcello II.

Dall’esilio Ochino scrisse una serie di lettere apologetiche e propagandistiche alla Balia di Siena, al Senato veneziano, ai cardinali Farnese e Carafa, al papa Paolo III, al servita Girolamo Amadei da Lucca, al benedettino Marco Croppelli da Brescia, al concittadino Claudio Tolomei. Inoltre, negli anni successivi, fu protagonista di un’aspra polemica con i domenicani Girolamo Papino e Ambrogio Catarino Politi, col canonico regolare Raffaele da Como, col cistercense Basilio Lapi e con il laico Girolamo Muzio. Anche la sua attività editoriale in quel periodo fu assai intensa: il 10 ottobre 1542 uscirono il libello antipapale intitolato Imagine de Antechristo, destinato a larga circolazione europea, e la prima raccolta di 20 Prediche (entrambi Ginevra, J. Gérard), in cui l’impianto tendenzialmente calvinista conviveva con aspetti propri della spiritualità valdesiana e con sfumature millenaristiche di derivazione gioachimita, tanto che il cardinale Girolamo Seripando poté ammettere di non riconoscervi «cosa che non sia Christianissima» (Solmi, 1908, p. 97). Seguirono varie edizioni di Sermones, l’Expositione sopra la epistola di san Paulo alli Romani nel 1545 (tutti Ginevra, J. Gérard). L’opera omnia fu inclusa, sin dal 1549, nell’Indice dei libri proibiti curato da Giovanni Della Casa per conto della Repubblica di Venezia e la condanna fu ribadita negli Indici romani promulgati a partire dal 1558.

L’iniziale diffidenza di Calvino nei confronti di Ochino rese difficile il suo inserimento a Ginevra, ma quel periodo fu comunque fondamentale nella sua biografia sia sul piano professionale, perché diventò il primo pastore della comunità evangelica italiana, sia sul piano personale, giacché sposò un’esule lucchese, dalla cui unione nacque Aureliana e in seguito almeno altri quattro figli.

Nell’agosto 1545 , mosso forse da difficoltà economiche e stanco dei latenti contrasti con il rigido sistema dottrinario calvinista, abbandonò Ginevra per trasferirsi prima a Basilea e poi ad Augusta, ove gli venne affidato l’incarico di ministro della comunità italiana. Nel 1546 pubblicò l’Espositione sopra la epistola di san Paolo alli Galati e la Risposta alle false calumnie et impie biastemmie di frate Ambrosio Catharino (entrambe senza indicazione di luogo e di editore).

La vittoria di Carlo V nel 1547 sulla lega di Smalcalda lo obbligò a fuggire di nuovo poiché l’imperatore ne chiese la consegna in cambio della pace. Si recò a Strasburgo ove rincontrò Vermigli, ma i due predicatori dovettero abbandonare la città in quanto si rifiutarono di riconoscere l’interim, ossia la soluzione di compromesso tra cattolici e protestanti offerta da Carlo V alla Germania in attesa di una decisione del Concilio di Trento. Grazie al provvidenziale invito dell’arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer, Ochino e Vermigli si trasferirono in Inghilterra. L’ex cappuccino iniziò a predicare a Londra, dove migliorò la sua situazione economica dal momento che divenne prebendario di Canterbury a vita, senza obbligo di residenza e con l’aggiunta di uno stipendio versatogli direttamente dal re. In Inghilterra pubblicò A Tragoedie or dialogue of the uniuste usurped primacie of the Bishop of Rome (London, G. Lynne, 1549) e strinse saldi rapporti con la corte. Costretto di nuovo a scappare dopo la restaurazione cattolica nel 1553, rientrò in Svizzera, passando per Strasburgo, ove lasciò la famiglia. Giunse a Ginevra in ottobre nei giorni del rogo dell’umanista Miguel Servet, che disapprovò insieme con gli antitrinitari con i quali dovette presto abbandonare la città. Prima di trasferirsi a Chiavenna e poi a Basilea, riuscì a stampare gli Apologi (Ginevra, J. Gérard, 1554), una raccolta di un centinaio di aneddoti satirici contro il papato, i cardinali, il clero e i frati che si accrebbe nella successiva edizione. Alla metà del 1555 una delegazione guidata dal senese Lelio Sozzini lo raggiunse a Basilea per proporgli di trasferirsi a Zurigo e diventare il pastore della comunità di rifugiati italiani di Locarno.

In Svizzera visse una rinnovata stagione produttiva: nel 1556 pubblicò il Dialogo del Purgatorio e la Syncerae et verae doctrinae de Coena Domini expositio (entrambi Zurigo, A. e H.J. Gessner), in cui difese la tesi zwingliana in materia di eucaristia in polemica con la dottrina luterana; nel 1561 uscirono la Disputa intorno alla presenza del Corpo di Giesù Christo nel Sacramento della Cena, le Prediche nomate Labirinti del libero o ver servo arbitrio e il Catechismo o vero Institutione Christiana (tutti, Basilea, P. Perna). Queste tre opere furono considerate poco ortodosse dalle autorità di Zurigo, sostenitrici di una teoria della predestinazione assoluta che mal si conciliava con la soluzione agnostica e tollerante del problema della libertà offerta da Ochino, ormai inclinante verso lo scetticismo religioso ed esistenziale. La goccia che fece traboccare il vaso fu la stampa dei Dialogi XXX (ibid., 1563) senza la preliminare autorizzazione del Consiglio dei deputati di Zurigo. Ochino venne espulso anche da quella città a causa delle sue posizioni in materia di Trinità e di matrimonio, in quanto tendenziosamente accusato di difendere la poligamia.

In realtà, la lettura dei testi mostra come si fosse limitato ad ammettere in via ipotetica la liceità, soltanto quando una donna fosse sterile e malaticcia, di operare secondo ispirazione divina perché non era peccato. L’opera conteneva anche l’implicita condanna del rogo di Serveto e dell’affogamento degli anabattisti disposto dalle autorità di Zurigo. È anche significativo che, nei capitoli in cui si discuteva di punizione degli eretici e di tolleranza, i due interlocutori fossero Pio IV e il cardinale Giovanni Morone, che era stato incarcerato dal S. Uffizio di Roma nel corso del pontificato di Paolo IV. Ochino attribuiva a Morone idee tratte da Giacomo Aconcio e Sebastiano Castellione perché il cuore dell’opera era rappresentato dalla difesa della libertà di pensiero in campo religioso (non si può condannare a morte un uomo per le sue idee errate, anche se riguardano i fondamenti della fede), cui si legava la riaffermazione del principio spiritualista, di matrice begardo-valdesiana, del primato dell’ispirazione interiore sulle forme e le leggi della religione esteriore. Quest’ultima posizione evidenzia una continuità di fondo del pensiero ochiniano attraverso gli accidentati passaggi per le diverse ortodossie cattolica e riformate. Tale continuità costituisce il nucleo profondo del suo pensiero e fa di lui non solo uno dei principali esponenti del radicalismo religioso europeo, ma anche il prototipo dell’eretico italiano studiato da Cantimori (2002), ossia colui il quale è ribelle a ogni forma di disciplina ecclesiastica e giudicato eterodosso da tutte le Chiese costituite nell’Europa cristiana, a prescindere dalla distinzione di carattere confessionale fra cattolici e protestanti.

L’indomito predicatore, vedovo dal 1562, si rifugiò a Basilea. Cacciato anche da lì, trascorse l’inverno del 1563 a Norimberga, dove fece circolare manoscritto un Dialogo autoapologetico in cui respingeva le accuse dei suoi detrattori.

Le sue opere suscitarono la polemica reazione di calvinisti intransigenti come Théodore de Bèze che nell’autonomia di pensiero e nell’individualismo di Ochino avvertivano una minaccia per l’ormai definita ortodossia riformata. A questo proposito sono particolarmente importanti le prediche Labirinti ... (cit.), in cui Ochino criticava sia quanti ritenevano che l’uomo agisse liberamente sia chi sosteneva l’opposto e concludeva che l’unica soluzione di uscita da questo labirinto esistenziale potesse essere costituita dalla accettazione del precetto socratico «unum scio quod nihil scio», e preferire il rigore dell’analisi razionale agli atteggiamenti dogmatici. È comprensibile come tali posizioni dottrinarie si scontrassero con il progressivo irrigidimento confessionale delle varie tendenze riformatrici.

Nella primavera successiva si trasferì con i figli ancora bambini a Cracovia ove, grazie alla protezione del principe Nikolaj Radziwill, poté predicare agli esuli italiani. Nell’estate del 1564, però, su pressione del nunzio Giovanni Francesco Commendone, il re di Polonia Sigismondo II espulse tutti gli stranieri non cattolici, fra cui Ochino, che passò nella vicina Pinczòw, al confine con la Moravia, dove, a causa di un’epidemia di peste, perdette tre figli.

Parte della famiglia di Ochino dovette rimanere a Ginevra o farvi rientro, perché nel 1575 il patrizio veneziano Niccolò da Ponte fu citato tra i testimoni presenti alla dettatura del testamento della senese «Francisque Oguyne» (Ambrosini, 1999, p. 161), vedova di Giacomo Tommasini pure lui senese e figlia del «feu Anthoine Oguyne de Cyenne en Ytalie», verosimilmente tutti parenti di Bernardino Tommasini detto Ochino.

L’ennesima migrazione portò l’ormai quasi ottuagenario Ochino nei pressi di Austerlitz, ove venne ospitato dal nobile veneziano Niccolò Paruta, a dimostrazione di come, nonostante l’inquieto peregrinare per l’Europa, non avesse mai reciso il suo legame con l’Italia e con i sodali di un tempo.

Morì ad Austerlitz in un giorno imprecisato tra la fine del 1564 e l’inizio del 1565.

In base alla testimonianza del 1567 di Marcantonio Varotta, morì bruciato sopra una stufa ove si era messo a dormire «e che se non moriva andava in Transilvania chiamato da re Zuanne per ministro» (Caccamo, 1970, p. 213), ossia dal re Giovanni Zápolya. Le evidenti circostanze metaforiche del decesso consentono almeno di dubitare della verosimiglianza dell’episodio. Un catalogo ragionato degli scritti è in B. Nicolini, Il pensiero di B. O., Bologna 1939, pp. 95-110. Per le opere successive alla fuga, comprese le traduzioni in latino e in altre lingue (francese, inglese, spagnolo, tedesco), si veda K. Benrath, Catalogo degli scritti di B. O., in Rivista europea, V (1874), 4, pp. 465-475.

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Si ringrazia Michele Camaioni per l’aiuto fornito nella sezione relativa alle fonti e alla bibliografia.

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