MENZINI, Benedetto

Enciclopedia Italiana (1934)

MENZINI, Benedetto

Guido Mazzoni

Poeta, nato a Firenze il 29 marzo 1646, morto a Roma il 7 settembre 1704. Sentendo altamente di sé, non solamente cedé alla maniera pingdarica allora in voga che portava i poeti a celebrare sé medesimi, ma stimò d'essere tenuto in minor onore di quanto gli spettasse, e vide da per tutto emuli invidiosi, nemici insidiosi. Da Cristina di Svezia, che lo prese al suo servizio; dai pontefici che beneficarono lui ecclesiastico di uffici e d'un canonicato romano; dai letterati che lo elessero collega loro nell'Arcadia e nell'Accademia Fiorentina; da altri onde ebbe cattedre e ospitalità, fino agli ultimi ozî a Frascati e ad Albano, egli avrebbe preteso assai più. A lui parve che la colpa di quegli scarsi premî fosse dei tempi avversi alle buone lettere; e si atteggiò a moralista in satire ora veementi ora epigrammatiche.

D'ingegno prontissimo e vivace, ben saldo negli studî classici, tanto da poter scrivere agevolmente in latino, e fautore della tradizione italiana, il M. si mantenne di solito scevro dal cosiddetto secentismo. Amico del Redi, se íu diverso molto da lui per l'indole, e però nella poesia, gli fu accanto nell'atteggiamento critico. Ma l'affinità è più appariscente per l'uso della lingua toscana fatto dall'uno e dall'altro, e per certe concessioni d'entrambi al gusto corrente.

Vacue e roboanti sono quasi sempre le canzoni pindariche; migliori invece le anacreontiche, in strofette melodiose, e i sonetti pastorali, in quadretti rappresentativi. Nei tre libri del Terrestre Paradiso, in ottave, suggeriti dal Mondo creato del Tasso, nella prosa e nelle rime dell'Accademia Tusculana, nelle elegie, e in troppi altri tentativi, fra rari accenti felici, si ha continuo il tedio di non percepirvi né sentimento né gusto personali.

Nei cinque libri (1690) dell'Arte Poetica, esposta in terza rima, la ragionevolezza degli avvertimenti, alcune osservazioni giuste e non ovvie, sono invece messe in rilievo da uno stile che, almeno a tratti, ha un suo vigore. E più ne mantengono le tredici satire (pare dovessero salire a quindici: pubblicate postume nel 1718, con la falsa data di Amsterdam) anch'esse in terza rima, giacché, fuori dell'imitazione del Chiabrera e del Tasso lirico e di altri classicheggianti moderni, il M. conseguì nella satira un suo proprio intento; ch'è doppiamente personale, come sfogo contro i veri o pretesi avversarî, e come affermazione d'una scuola che nel nome di Dante e della favella toscana professava la modernità italiana ossequiente alla tradizione classica. Ciò che nel Settecento troviamo, per il Maffei, per il Gozzi, per il Baretti, da lodare in tal senso, già è notevole nel M. Nel qual proposito è da notare una tendenza antifratesca, che diventerà poi più evidente nel Settecento. Cfr. l'ed. Satire, rime e lettere scelte (Firenze 1874), curata da G. Carducci.

Bibl.: I. Cerrini, L'Arcadia dal 1690 al 1890, I, Roma 1891, p. 227 segg., con bibl.; cfr. A. Belloni, Il Seicento, Milano 1929, p. 338; G. Curcio Bufardeci, La reazione cotro il Seicento nelle satire di S. Roas e B. M., Ragusa 1897; S. Rago, B. M. e le sue satire, Napoli 1901; A. C. Ott, Die pariser Handschr. Nat. Bibl. It. 2034 und B. M., in Mélanges per M. Picot, I, Parigi 1913, pp. 275-88; A. Poggiolini, Le satire di B. M., in Rass. Naz., 16 luglio 1915; V. G. Mariani, L'Accademia Tuscolana e l'opera di B. M., in Nuova Antol., 16 luglio 1928.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata