BAUMGARTHEN, Johannes, detto Anichino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 7 (1970)

BAUMGARTHEN (Baumgarden, Bongarden, Bongard, Bunghard, Bongardo, Mongardo), Johannes, detto Anichino (da Hanneken, diminutivo basso-tedesco di Johannes)

Ingeborg Walter

Del suo anno di nascita non si ha notizia; apparteneva a una nobile famiglia ministeriale basso-renana che risiedeva nell'arcidiocesi di Colonia, verosimilmente in Bongart presso Allrath, nel circondario di Grevenbroich.

Fu uno dei più eminenti condottieri di quelle bande, dette compagnie, che nella seconda metà del XIV secolo sconvolsero le regioni italiane. Scaltro, perfido, audace e sempre unicamente sollecito del proprio vantaggio, trovò nell'Italia di quegli anni, dilaniata da feroci lotte politiche e da fazioni, ampie possibilità di offrire i suoi servigi al migliore offerente. Con Konrad von Landau, ben noto in Italia col nome di conte Lando, il B. fu per lunghi anni capitano delle bande di mercenari tedeschi riunite sotto il nome di "Grande Compagnia" e, dopo la morte del Lando (1363), il loro unico condottiero. Nel corso di più di venti anni egli corse, rubando e saccheggiando, le province italiane, da tutti temuto, e tuttavia blandito.

Nelle lotte per la riorganizzazione dello Stato della Chiesa ad opera del legato pontificio cardinale Egidio Albornoz, nelle guerre tra Perugia e Siena, tra Firenze e Pisa, tra i Visconti e i loro vicini, e persino nei conflitti politici interni del Regno di Napoli, il B. fu sempre un alleato tanto desiderato quanto insicuro. Le fonti italiane lo ricordano per la prima volta nel 1350, quando egli apparve con 25 cavalieri al servizio del rettore pontificio della Romagna. Pare che si unisse presto però alla Grande Compagnia, poiché nel 1354 è già segnalato fra i suoi ufficiali. Tuttavia quando nel 1355 il grosso della Compagnia si trasferì in Puglia, egli restò al servizio di Firenze. L'anno dopo il cardinal legato E. Albornoz se ne assicurò i servigi e lo incaricò di devastare il territorio dei signori di Faenza riluttanti al dominio pontificio. Ma nel corso di questa operazione non dovette mostrare troppo entusiasmo, se nell'autunno dello stesso anno il cardinal legato lo sollecitò ben due volte ad adempiere il suo dovere e sostenere l'esercito pontificio nella guerra di Faenza.

Nella primavera del 1358 egli lasciò il soldo del cardinal legato e si riunì al nucleo della Grande Compagnia, che nel frattempo si era trasferita in Lombardia. Quivi, nel marzo del 1358, inviati senesi lo invitarono ad assumere il comando dell'esercito di Siena nella guerra contro Perugia. Egli si pose in campagna con 47 bandiere e 849 cavalli, ma con la sua arroganza e la sua irrequietezza non giovò molto alla città toscana. Infatti, dopo iniziali successi, di sua iniziativa e senza adeguata preparazione, egli accettò una sfida a battaglia lanciatagli dai Perugini desiderosi di rifarsi di precedenti sconfitte, restandosene poi in disparte al momento della mischia, perché offeso dalle giuste rimostranze dei Senesi. Durante l'assalto a Torrita, difesa dai Senesi, egli cadde - a quanto pare non del tutto involontariamente, come sospettò il Villani - prigioniero dei Perugini, che lo rilasciarono subito dopo in libertà.

Dopo la scadenza del suo contratto con i Senesi, egli formò una compagnia con i cavalieri tedeschi che erano stati licenziati dai Perugini, e con altri mercenari che scorazzavano nei dintomi, e mosse contro Perugia, che riuscì però a scongiurare il pericolo col pagamento di 4000 fiorini.

Alla fine dell'agosto del 1358 il B. raggiunse con la sua compagnia Forlì, il cui signore, Francesco Ordelaffi, in lotta con l'Albornoz per il possesso della città, lo assunse volentieri ai suoi stipendi. Quivi incontrò quel che restava della Grande Compagnia, decimata presso il Passo delle Scalelle dai contadini esasperati dai saccheggi, il cui comando doveva poco dopo esser assunto di nuovo dal conte Lando ormai guarito dalle ferite riportate.

Congedata da Francesco Ordelaffi, la Grande Compagnia scorazzò nel corso dell'inverno del 1358-1359, rubando e saccheggiando, per la Romagna e le Marche, e minacciò di dirigersi contro Firenze. Finalmente nella primavera del 1359 riuscì al cardinal legato di concludere con i mercenari tedeschi un accordo di neutralità, dietro versamento di 50.000 fiorini, al quale dovette associarsi anche Firenze. La Repubblica, tuttavia, fermamente decisa a eliminare il male alle radici, raccolse un esercito contro la Grande Compagnia, che nel maggio e nel giugno aveva scorso con i soliti saccheggi l'Umbria e il territorio senese, e la affrontò nel luglio del 1359 al Campo delle Mosche tra Firenze ed Empoli. Il B. e il conte Lando evitarono però la battaglia e si trasferirono al nord, accettando le reiterate offerte del marchese del Monferrato, in quel momento in lotta con Galeazzo Visconti per il possesso di Pavia. Il Visconti, appoggiato da Firenze, Bologna e Ferrara, riuscì a impadronirsi rapidamente della città; il Lando, che l'aveva previsto, era passato poco prima ai suoi servizi, mentre il B., con fedeltà rara in lui, restò nel campo del marchese. Ma poco dopo, guadagnato dall'oro del Visconti, abbandonò anche lui, nel novembre del 1359, la barca che affondava.

All'inizio dell'anno successivo i due condottieri entrarono con la loro gente al servizio del conte Amedeo VI di Savoia, il quale si servì di loro nelle lotte contro il suo parente Giacomo d'Acaia. Il 16 febbr. 1360 essi penetrarono in Perosa e il 10 marzo occuparono la città di Savigliano, nella quale restarono un mese tra saccheggi e massacri inauditi. Dopo questo episodio le strade dei due capitani si divisero: il conte Lando ritornò per un certo tempo in Germania, mentre il B. dovette sostenere Bernabò Visconti nella lotta contro il cardinal legato per il possesso di Bologna. Egli, però, abbandonato presto il Visconti, reclutò nuove bande di mercenari e costrinse, con il suo atteggiamento minaccioso, il cardinale Albornoz a versargli la somma di 14.000 fiorini. Per ordine di lui marciò quindi con la sua gente contro Ascoli, per schiacciarvi una rivolta contro il dominio pontificio.

Attirato da speranze di ricca preda, si lasciò indurre tuttavia dal ribelle duca Luigi di Durazzo a muovere da Ascoli verso il Regno di Napoli. Con una schiera di 4000 cavalieri tedeschi e ungheresi, nel novembre del 1360, egli assalì l'Aquila, che riuscì a respingerlo con una coraggiosa difesa. Il B. svernò con le sue milizie nel castello di San Martino, per assediare poi nella primavera del 1361 Salerno. Il gran siniscalco Niccolò Acciaiuoli, tornato dalla Romagna in tutta fretta alla notizia della sua irruzione nel Regno, riuscì a ricacciarlo indietro rapidamente. Il B. si consolò devastando con la sua gente il territorio di Melfi. Quando il gran siniscalco poté assoldare 400 cavalieri ungheresi che si erano guastati col B. e, quindi, altri 2500 ungheresi che scorazzavano nel Regno, che pure avevano manifestato inizialmente il proposito di unirsi al B., le sorti della guerra si risolsero decisamente a favore dell'Acciaiuoli. Il B. si diresse allora a marce forzate versò Atella, città fedele a Luigi di Durazzo, e vi si trincerò; solo all'inizio del 1362, dopo la sottomissione del Durazzo, fu costretto dall'Acciaiuoli a ritirarsi.

Dopo queste poco fortunate avventure meridionali, il B. ritornò al servizio di Bernabò Visconti, partecipando di nuovo alla guerra di Bologna. Con la sua gente occupò alcuni castelli nel contado bolognese e saccheggiò il territorio di Modena. Quando la lega messa insieme dall'Albornoz riuscì a sconfiggere duramente il Visconti presso il castello di Solaro nel contado di Modena (aprile 1363), il B. lo aveva già piantato in asso passando al servizio di Pisa, la quale, nella guerra contro Firenze, si serviva anche della "Compagnia Bianca" costituita per la maggior parte da Inglesi. Le due compagnie si spinsero fin sotto Firenze, dove in uno scontro presso la porta San Gallo, in mezzo alla confusione della battaglia, il B. fu investito cavaliere: l'avvenimento fu festeggiato splendidamente la sera seguente sotto gli occhi attoniti dei Fiorentini (1º maggio 1364). Ma in questa guerra Firenze aveva mezzi finanziari ben superiori a quelli di Pisa, cosicché riuscì ad indurre con grosse somme la Grande Compagnia del B. e la maggior parte degli Inglesi a lasciare il servizio della città rivale. Nel luglio del 1364 la Repubblica fiorentina concluse con gli inviati del B. un trattato di neutralità, che fu ratificato il 16 dello stesso mese. La battaglia di Cascina, il 29 luglio 1364, segnò la definitiva sconfitta di Pisa.

Già nel corso della guerra fra Pisa e Firenze tra Inglesi e Tedeschi si erano manifestate forti tensioni, che ora, dopo la conclusione della guerra, minacciarono di esplodere furiosamente. Quando gli Inglesi si diressero contro Perugia, i Perugini chiamarono in aiuto la compagnia del B. che accettò volentieri l'invito (novembre 1364). Tuttavia non si venne alle mani, perché gli Inglesi furono indotti con trattative a ritirarsi.

Il B. mosse quindi con la sua schiera verso sud e, chiamato da una parte della nobiltà romana, minacciò di puntare su Roma. Nel marzo del 1365 poté conquistare Vetralla. Papa Urbano V chiese due volte (il 1º marzo e il 6 giugno 1365) al legato Albornoz di accorrere con gli Inglesi in aiuto dei Romani, contro il Baumgarthen. Il nipote del cardinale, Gómez Albornoz, assoldò di fatto la compagnia inglese e allestì, con l'aiuto di Giovanna I di Napoli, un esercito. I due gruppi armati stettero per un mese (tra il giugno e il luglio del 1365) l'uno di fronte all'altro presso Vetralla pronti alla battaglia, finché si raggiunse alla fine, un accordo, in base al quale il B. cedeva Vetralla alla Chiesa dietro compenso e si ritirava verso Orvieto. A questo punto però la situazione si capovolse: Gómez Albornoz fu costretto dai suoi Inglesi, rivoltatiglisi contro, a porsi in salvo e a chiedere in condizioni di estrema necessità l'aiuto del B. contro di loro. A San Mariano, presso Perugia, si venne ad una furiosa battaglia fra le due compagnie, che il B. poté vincere con l'aiuto dei Perugini (22 luglio 1365). I cittadini premiarono il condottiero vittorioso, conferendogli la cittadinanza onoraria della loro città e donandogli una casa.

In quel periodo corse con molta insistenza la voce che il B. avesse deciso di ritirarsi dal comando della sua compagnia, ma di fatto niente lascia supporre che egli abbia mai accarezzato propositi del genere. Intanto le infinite ruberie e devastazioni commesse dalle bande mercenarie in tutta Italia e in particolare nello Stato della Chiesa indussero papa Urbano V e il suo legato, il cardinale Albornoz, a una più decisa politica nei confronti delle compagnie di ventura, che tuttavia non trovò il pieno consenso di tutti gli Stati della penisola. Firenze, anzitutto, temendo pericolose rappresaglie, non intendeva violare i trattati di neutralità conclusi con varie compagnie, tra le quali anche quella del B., e aveva per ciò proibito agli Aretini di soccorrere Gómez Albornoz, quando nella primavera del 1365 aveva assediato il B. a Vetralla.

Questi nel settembre del 1365 passò per il territorio fiorentino con l'intenzione di recarsi in Lombardia, ma presso Sarzana la Compagnia di S. Giorgio, sotto il comando di Giovanni Acuto, gli sbarrò la strada e lo costrinse alla ritirata. Nell'ottobre seguente il B., per incarico di Firenze, corse il territorio di Arezzo.

Nonostante l'opposizione di Firenze, papa Urbano V, il 13 apr. 1366, emanò una bolla di scomunica contro le compagnie di ventura e tutti quelli che avessero mantenuto rapporti con esse. Evidentemente in base a questa bolla il rettore pontificio del ducato di Spoleto, Blasco de Belvis, verso la metà del maggio seguente catturò il B. e dodici dei suoi compagni e li mandò prigionieri nel castello di Montefalco, come annunciò il Boccaccio in una lettera del 20 maggio 1366: "Qua non ò al presente altro di nuovo, se non che si dice per fermo che pochi dì fa messer Brasco duca di Spuleto sostenne in Ispuleto messer Anichino di Mongardo con da. XII. de' suoi compagni, et ànnogli mandati presi in Montefalcho; che s'intenda di fare di loro non so". Tale lettera, scoperta recentemente da R. Abbondanza, era stata indirizzata all'amico Leonardo Del Chiaro da Certaldo in quel momento ad Avignone, dove lo stesso Boccaccio si era recato l'anno precedente in ambasceria, per difendere davanti al papa, l'atteggiamento indulgente della Repubblica fiorentina di fronte alle compagnie di ventura.

Non sappiamo quanto tempo il B. rimase prigioniero del Belvis, ma certamente poté presto riacquistare la libertà; il fatto è che, quando il 19 sett. 1366 si organizzò contro i mercenari, per iniziativa di Urbano V, una lega comprendente tutti gli Stati italiani, il B. insieme ad Ambrogio Visconti, Giovanni Acuto e Giovanni d'Asburgo restò escluso dal bando proprio per l'intervento di Firenze. In questo stesso periodo, nell'autunno del 1366 cioè, il B. passò con "500 chavagli de la bruta rubaldaglia del mondo e 400 pedoni" al servizio di Bernabò Visconti.

Scaduto il contratto di soldo concluso per un solo anno, il B. entrò in contatto con la Curia per passare ai suoi stipendi: nell'agosto del 1367 si presentò a Viterbo il cancelliere del B. che notificò la buona disponibilità del suo signore ad entrare con 400 lance e altrettanti fanti al servizio della Chiesa, aggiungendo che nel caso contrario avrebbe invaso le terre pontificie. Le trattative intavolate subito portarono il 29 nov. 1367 alla conclusione di un contratto, col quale il papa, la regina Giovanna di Sicilia e i Comuni di Siena e di Perugia assoldarono il B. per sei mesi con 400 barbute e 150 fanti. Tuttavia l'impegno da lui assunto il 27 sett. 1367 di non partecipare a campagne militari contro Bernabò e Galeazzo Visconti configurava l'assoldamento del B. da parte del papa e dei suoi collegati come un semplice tentativo di neutralizzarlo. Il contratto di soldo non ebbe però neanche questo effetto: appena un mese dopo la stipula del contratto Urbano V si vide costretto a scrivere, il 25 nov. 1367, ai suoi alleati invitandoli a mantenere all'erta le loro truppe, perché il B. si avvicinava con atteggiamenti piuttosto minacciosi.

A partire da questo momento le notizie sul B. cominciano a scarseggiare, e non certo per difetto di fonti: la sua fama era ormai decisamente in declino. Nel 1368 tornò nell'Italia settentrionale che, a quel che pare, non lasciò più, combattendo al servizio dei Visconti e dei conti di Savoia. Nell'estate del 1370 partecipò alla spedizione viscontea diretta da Giovanni Acuto contro Pisa per reintrodurvi il deposto signore Giovanni Dell'Agnello e nell'ottobre dello stesso anno, in uno scontro avvenuto presso Mirandola, inflisse una grave sconfitta alle truppe della lega antiviscontea comandate dal conte Lucio di Landau. Alla fine dell'anno seguente lasciò il soldo dei Visconti, passando il 20 dic. 1371 con 1200 lance, 600 briganti e 300 arcieri ungheresi al servizio del conte Amedeo VI di Savoia, che lo impiegò nella lotta contro il marchese di Saluzzo e i Visconti. Ma quando nel 1373 la guerra entrò nella sua fase acuta, il B. era già tornato al soldo visconteo.

Nel 1375 il B., ancora in Alta Italia, si preoccupava di prepararsi ad una buona morte, in pace con la Chiesa. Nell'agosto di quello stesso anno ricevette da Avignone quattro indulgenze ordinarie e una, plenaria, "in mortis periculo". Due mesi dopo si fece rilasciare dal papa Gregorio XI un solenne documento attestante che egli era stato ricevuto sotto la protezione della Chiesa. La data e il luogo della sua morte non sono noti.

Anche se al B. mancarono del tutto le lungimiranti ambizioni e le considerevoli capacità politiche dei grandi condottieri italiani del sec. XV, tuttavia il suo nome resterà sempre legato alla nascita e al primo sviluppo delle compagnie di ventura, che per due secoli dovevano avere una parte così decisiva nella storia italiana. Proveniente da una famiglia della bassa nobiltà renana, impoverita dal processo di dissoluzione e di riassestamento della feudalità, capace solo di esercitare il mestiere delle armi, egli venne, come tanti altri cavalieri tedeschi, a cercare avventure e ricchezze in Italia, le cui condizioni politico-sociali dovevano sembrare le più adatte a simili propositi.

La decadenza delle milizie comunali nelle città, che d'altra parte impegnate in continue guerre con i vicini, erano costrette a procurarsi truppe specializzate, aveva favorito la formazione di bande mercenarie e l'emergere dei loro condottieri. Di fatto, le discese in Italia di Enrico VII, Ludovico il Bavaro e Giovanni di Boemia avevano lasciato nella penisola ogni sorta di uomini d'arme, che, allettati da prospettive di facile e fortunata carriera, non avevano più trovato la via del ritorno in patria. Così si era arrivati negli anni intorno al 1340 alla formazione di una compagnia di ventura vera e propria, alla fondazione cioè della Grande Compagnia, che, composta soprattutto da Tedeschi, fu creazione di Werner von Urslingen, e alla cui testa più tardi doveva essere il Baumgarthen. Fra i primi capitani di ventura, la cui attività politico-militare assolutamente priva di scrupoli morali caratterizzò tanta parte della vita italiana del Trecento, egli fu certo uno dei più abili ed intraprendenti.

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