FONZIO, Bartolomeo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 48 (1997)

FONZIO, Bartolomeo

Gigliola Fragnito

Figlio di Filippo, nacque a Venezia intorno al 1502. A nove anni entrò tra i minori conventuali, ottenendovi una solida formazione teologica e una compiuta educazione umanistica che gli consentirono di raggiungere il grado di magister theologiae e di segnalarsi presto come predicatore. "Excellentissimo" lo definiva Marin Sanuto nel 1531, pur aggiungendo che correva voce fosse luterano e che "maxime tutti li todeschi del Fontego" andavano ad ascoltarlo (Diarii, LIV, col. 366). Il 2 aprile un breve papale gli ingiunse di sospendere la predicazione. Il F. affermerà più tardi che tale sospensione era stata sollecitata da G.P. Carafa, allora a Venezia, il quale non avrebbe cessato di perseguitarlo da quando egli aveva rivelato la posizione ostile del teatino agli inviati inglesi, giunti in Italia nell'invemo 1529-1530 per raccogliere pareri favorevoli intorno al divorzio di Enrico VIII.

Stando, tuttavia, alla testimonianza resa il 2 febbr. 1538 dall'inquisitore Martino da Treviso, fin dal 1528 Carafa aveva rimproverato al F. simpatie luterane e prima ancora il generale dei conventuali, G. Vigerio, aveva fatto perquisire la sua cella, in cui era stato rinvenuto il De servo arbitrio di Lutero.

Alla sospensione della predicazione seguiva un breve papale del 19 giugno 1531 con l'ordine di processare il Fonzio. Questo abbandonò Venezia e, nell'agosto, era in Germania, ad Augusta, dove il Consiglio cittadino lo invitò a predicare. Nonostante la calorosa accoglienza, egli avvertì un profondo senso di estraneità di fronte ai dissidi e alle tensioni sul problema dell'eucarestia e all'irrigidimento di Martiri Lutero all'indomani della rivolta contadina. Le polemiche teologiche e gli odi che opponevano cattolici e protestanti e luterani e zwingliani gli parvero molto distanti dall'ideale di "christianae pacis et concordiae" di cui si dichiarava "avidissimus". Dalla corrispondenza di questo periodo con Martiri Butzer a Strasburgo e con Girolamo Marcello a Venezia emergono il suo ruolo nei tentativi di pacificazione tra i protestanti e, nel contempo, la sua strenua avversione per dispute teologiche su questioni che reputava contrarie allo spirito del Vangelo (Olivieri, Ortodossia, pp. 13-15). Il F., peraltro, si muoveva contemporaneamente sul fronte curiale, cercando di accreditarsi come mediatore tra cattolici e protestanti. A suo favore si adoperava nell'autunno del 1531 R. Palazzolo, raccomandandolo al papa per il ruolo positivo svolto nelle trattative con i luterani e chiedendo gli venissero dati 100 ducati per recarsi a Roma a riferire sull'accordo raggiunto. Il 19 nov. 1531 G. Salviati lo invitò a stare "con l'animo riposato" e a trattenersi in Germania.

Nel maggio 1532 il F. si recò a Ratisbona per chiedere a G. Aleandro un salvacondotto per tornare in Italia. Il nunzio, estremamente diffidente, riferì a Roma che il F. era definito da G. Cocleo un "perdito, lutherano" e, qualche giorno dopo, ne segnalò la partenza per Norimberga. Queste informazioni non impedirono però il rilascio di un salvacondotto di sei mesi per recarsi a Roma (17 luglio 1532). I gesti distensivi del papa, che lasciano intuire la presenza in Curia di influenti protettori, vennero pesantemente criticati dal Carafa, il quale, nel memoriale del 4 ott. 1532 a Clemente VII, annoverava il F. tra i maggiori responsabili del dilagare dell'eresia in terra veneta e deprecava l'invio del breve papale. Dal canto suo il F., lungi dal raggiungere Roma, nel luglio del 1532 Si era trasferito a Strasburgo, dove contava di collaborare più proficuamente ai tentativi di riconciliazione religiosa. A tal fine, insieme con il Butzer, nella primavera del 1533 visitò le Chiese svizzere e sostò a Basilea.

Rientrato a Strasburgo, di fronte alla chiusura durante il sinodo del giugno 1533 nei confronti degli anabattisti e di K. Schwenckfeld, al quale era legato da profonda amicizia, il F. dovette percepire l'incolmabile distanza che lo separava ormai dal Butzer e dunque abbandonare le speranze riposte in lui come fautore di una riconciliazione. Nell'ottobre del 1533 lasciava la città per rientrare a Venezia, dove giunse all'inizio del 1534 e dove visse nascosto, ritessendo rapporti con i membri della "ecclesia" - con la quale si era tenuto in contatto dalla Germania - e rifornendola di scritti ereticali, tra cui l'Unio dissidentium dogmatum di Hermannus Bodius. Nel marzo chiese all'Aleandro di essere assegnato al clero secolare e dotato di un beneficio e si dichiarò disposto a tornare in Germania "a descoprir gli heretici et indurli a qualche accordo" (Nunziature, I, pp. 189 s.). Il nunzio reagiva con sospettosa diffidenza sia perché intimamente convinto della sua adesione alle dottrine luterane, sia perché lo riteneva autore di uno degli scritti più pericolosi circolanti allora a Venezia, il Libro de la emendatione et correctione dil Stato christiano, liberissima traduzione dell'An den christlichen Adel deutscher Nation di Lutero, apparsa anonima a Strasburgo nel 1533 e oggi attribuita con sicurezza al F., il quale aveva inasprito i toni della polemica antipapale e anticuriale e calato le sue critiche in un contesto più specificamente italiano e veneziano. Di fronte alla mancata risposta del nunzio alle sue richieste il F. accompagnò nell'estate del 1534 Alvise Gritti, figlio naturale del doge Andrea Gritti, a Costantinopoli. Nel luglio del 1535 tornò a Venezia, inviato dal bailo Nicolò Giustiniani, e presentò una relazione segreta ai capi del Consiglio dei dieci.

La sosta veneziana fu brevissima: nell'estate era di nuovo ad Augusta e nell'autunno a Strasburgo, dove la sua immagine si era già molto appannata e l'ammirazione iniziale si era trasformata in vera e propria diffidenza, tant'è che Butzer si era opposto alla sua nomina come professore all'università di Tubinga. Di fronte a questa crescente ostilità il F., al quale l'8 genn. 1536 era stato rinnovato il salvacondotto, decise di presentarsi a chiarire le proprie posizioni dottrinali a Roma, dove giunse, proveniente dalla Francia, il 5 genn. 1537. Solo il 17 dic. 1537 Paolo III pregava il nunzio G. Verallo e il patriarca G. Querini di riferire, consultandosi con Martino da Treviso, i contenuti delle prediche del 1531, all'origine delle indagini. Nonostante la testimonianza resa il 2 febbr. 1538 da Martino da Treviso, solo dietro sollecitazioni dello stesso F. e non prima del 1540-1541, il cardinale Gasparo Contarini esaminò il caso, non senza avergli chiesto di precisare i contenuti delle prediche. Pur se Contarini isolò 7 delle 32 conclusiones stilate dal F. - sulle quali, peraltro, espresse pareri assai generici -, il F. stesso dovette convincerlo della propria innocenza e ottenere di lasciare Roma. È probabile che nelle more della soluzione del suo caso egli trascorresse un primo periodo a Fara in Sabina, sotto la giurisdizione dell'abbazia di Farfa, come maestro della scuola pubblica e arciprete.

Dopo la conclusione delle indagini romane, gli spostamenti del F. si fecero convulsi. Stando alle sue dichiarazioni, rientrato a Venezia e fermatovisi due anni presso il padre, si sarebbe poi trasferito a Modena. Qui giunse effettivamente tra il 1543 e il 1544 ed entrò immediatamente in contatto con l'Accademia, crocevia in quegli anni dei maggiori protagonisti delle correnti ereticali italiane.

Dalle deposizioni di molti inquisiti modenesi - anche quelle, risalenti a oltre venti anni dopo, dei membri della comunità di "fratelli" - si ricava che la sua presenza ebbe un'influenza determinante nell'accentuazione spiritualistica e radicale del movimento ereticale modenese. Il F., infatti, propagandò la sua concezione di una Chiesa non gerarchizzata, comunità nascosta di fedeli legati dalla fede in Cristo e da un ideale di povertà, nonché la sua convinzione che il battesimo non fosse necessario. Di fronte a una predicazione tra le più eversive di quelle susseguitesi in quegli anni a Modena, nella primavera del 1544 fu avviato un processo inquisitoriale, al quale il F. si sottrasse fuggendo durante la fase istruttoria.

Dalla imprecisa ricostruzione delle sue successive peregrinazioni che egli fece durante il processo veneziano sembra potersi ricavare che, dopo una sosta a Ferrara e ad Ancona, avrebbe trascorso un breve periodo a Osimo come maestro di scuola, sarebbe tornato a Fara in Sabina, chiamatovi dalla Comunità e da G.A. Capizucchi, futuro cardinale, come maestro della scuola pubblica e arciprete, e infine avrebbe sostato qualche tempo a Roma. A Fara il F. scrisse, verosimilmente tra il 1546 e il 1547, l'Instruttione fanciulesca cerca le cose della religione nomata altrimenti con vocabulo greco cathechismo, che presenta non poche analogie con il Lacte spirituale di Juan de Valdés (Olivieri, Il "Cathechismo", p. 344).

Dal 1548 al 1551 il F. dimorò a Padova, dove tenne scuola pubblica, entrando in contatto con filoprotestanti, come M. Gribaldi Mofa. In un ambiente dove si erano moltiplicate correnti ereticali non riconducibili all'ortodossia delle Chiese riformate e dove dibattiti serrati intaccavano il dogma della Trinità e sottolineavano l'umanità del Cristo, egli diffuse il suo Cathechismo manoscritto, divenendo l'anima delle conventicole anabattiste sparse anche nei centri minori e nelle campagne. Costretto dall'inasprirsi della repressione inquisitoriale a lasciare Padova, accettò (sotto il falso nome di Michel Angelo Sabino Castellano) l'invito della vicina Comunità di Cittadella a svolgere per tre anni, con uno stipendio di 75 ducati annui e l'uso di un alloggio, la funzione di maestro della scuola pubblica, assumendo l'incarico il 12 febbr. 1551. Il successo del suo insegnamento indusse il Consiglio dei quaranta a riconfermarlo il 19 giugno 1552 per altri cinque anni, portando il suo stipendio a 100 ducati e concedendogli, oltre la casa, l'esenzione da ogni tributo.

Questi sette anni furono, tuttavia, travagliati da denunce (dalla prima delle quali, risalente all'inizio del 1552, si sarebbe difeso presentandosi ai capi del Consiglio dei dieci), che lo costrinsero più volte ad allontanarsi da Cittadella. A seguito di un'accesissima discussione, nella Pasqua del 1556, sull'eucarestia con C. Cauzio, questi lo descriveva in una lettera del 22 genn. 1557 a B. Scardeone come fatuo grammaticus e causa della perdizione dei suoi scolari, in quanto faceva dell'eucarestia una semplice commemorazione, negava il culto delle immagini e rivendicava l'assoluta libertà di interpretazione della Scrittura; lo definiva inoltre monstrum, eversore della società assimilabile a Th. Münzer, che andava eliminato. La replica del F. non si fece attendere e fu elaborata sotto forma di Apologia, con il titolo Epistola Camilli Cautii ad Bernardinum Scardeonium (Olivieri, Una polemica, p. 495) - Intorno al F. fece quadrato la Comunità di Cittadella, che lo difese anche da un'aggressione del Cauzio e gli rinnovò, il 30 maggio 1557, la condotta per dieci anni, concedendogli la cittadinanza e annoverandolo tra i membri del Consiglio dei quaranta. Il Cauzio, irritato da questa solidarietà, il 7 giugno e di nuovo il 9 novembre lo denunciò al vescovo di Vicenza, A. Bragadin. Nel luglio i savi sopra l'Eresia ne ordinarono la cattura, ma il F. riuscì a fuggire. Secondo le sue stesse dichiarazioni, avrebbe seguito Tommaso Contarini, fratello del defunto cardinale, nominato nel gennaio 1557 provveditore generale di Terraferma, in un giro di ispezione delle fortificazioni del dominio veneziano.

Staccatosi evidentemente dal Contarini, prima di rientrare, nel dicembre del 1557, a Venezia, avrebbe peregrinato attraverso la Valtellina e sostato a Como, Lecco, Bergamo e a Brescia: spostamenti certamente finalizzati al rafforzamento della coesione tra le conventicole ereticali venete e lombarde.

Forte delle sue protezioni, il 7 febbraio il F., rieletto il 23 genn. 1558 maestro di scuola, rientrava a Cittadella, accolto "dandosi il tamburo, et cridando, viva viva il Fonzio!". Questa volta il Cauzio non esitò a denunciarlo a F. Peretti, inquisitore di Venezia, inviandogli l'Apologia e il Cathechismo (2 febbr. 1558), nei quali il futuro Sisto V individuava 44 proposizioni ereticali. Il 25 maggio i Dieci ne ordinavano la cattura, eseguita due giorni dopo. Il 2 giugno il processo venne avocato a Venezia; il 17 giugno la Repubblica si oppose all'estradizione e il 19 sett. 1560 al trasferimento del procedimento inquisitoriale a Roma: rifiuti, questi, in cui certo può riflettersi la volontà della Repubblica di salvaguardare le proprie prerogative giurisdizionali, mentre le ripetute richieste di rimozione del Peretti, avanzate durante il Processo, potrebbero essere interpretate come un estremo tentativo di salvare il Fonzio.

Il processo si trascinò per quattro anni, durante i quali il F. subì 14 interrogatori vertenti essenzialmente sul Cathechismo, l'Apologia e 175 articoli della Fidei et doctrinae ... ratio, che egli dichiarò di avere scritto a Roma e di aver sottoposto al Contarini. In realtà le conclusiones esaminate dal cardinale erano, come si è visto, 32, ma il F. aveva ogni interesse a estendere l'approvazione di Roma anche agli articoli scritti successivamente. Pur se le commissioni speciali cui il tribunale affidò l'esame dei suoi scritti ridussero a 12 i 44 articoli incriminati dal Peretti, il 28 apr. 1561 venne pronunciata una prima condanna per eresia, ribadita dopo ulteriori pareri di esperti. Il 16 giugno 1562, dopo la lettura delle dottrine incriminate, il F. venne invitato ad abiurare. Ottenuta una pausa di riflessione, il 23 giugno egli dichiarò di opporsi all'abiura. Dopo un nuovo invito al pentimento, il 27 giugno gli venne letta la sentenza di condanna: in quanto eretico "manifestus, impenitens ac pertinax" avrebbe dovuto essere strangolato in carcere e il suo cadavere dato alle fiamme. Dopo un cedimento, per le sollecitazioni di "nobili personaggi" che lo spingevano ad abiurare, il 24 luglio decise di accettare la condanna.

Nel timore di tumulti popolari, la pena fu però tramutata e il 4 ag. 1562 il F. venne gettato con una pietra legata al petto nella laguna. Avviandosi verso il supplizio egli riuscì a consegnare la stesura definitiva, elaborata in carcere, della Fidei et doctrinae ... ratio, ampliata fino a comprendere 284 articoli, con la preghiera di trasmetterla al Consiglio dei dieci: desiderio disatteso, visto che, invece, essa verrà allegata alle carte processuali.

Denunciato come "principe delli heretici" dai suoi avversari, ritenuto "un gran dotto et un gran valent'huorno" dai suoi seguaci, il F. fu certamente uno dei protagonisti di maggiore spicco del movimento ereticale italiano, il cui messaggio eversivo ebbe una estesissima diffusione non soltanto in Veneto, in Istria e a Modena, ma anche nel territorio dell'abbazia di Farfa, dove ancora a fine secolo abbondavano tra i maestri di scuola opere ereticali. Accostatosi precocemente alle dottrine del giovane Lutero, durante i suoi soggiorni in Germania, il F. - formatosi nella spiritualità cristocentrica francescana, nutritosi degli ideali di povertà e di umiltà del suo Ordine, nonché dei motivi profetici ed escatologici che, tra la fine del Quattro e gli inizi del Cinquecento, erano riemersi prepotentemente nella cultura italiana - avrebbe trovato più congeniali alla sua formazione le posizioni più radicali di zwingliani e anabattisti.

Non sembra, tuttavia, che prima del soggiorno a Modena, dove il terreno era stato preparato da un altro minorita, Camillo Renato, egli si fosse spinto oltre la denuncia degli abusi e l'adesione a dottrine conformi all'"ortodossia" luterana. Dai contatti con gli accademici e con gli ambienti ereticali modenesi sembra piuttosto che egli avesse acquisito una più matura consapevolezza del proprio credo religioso e la convinzione della necessità e dell'urgenza di propagarlo in tutti gli strati sociali. Da quel momento il radicalismo e i toni socialmente eversivi del suo magistero lo fecero apparire agli occhi degli inquisitori come un pericoloso seguace dell'anabattismo. Pur se tale etichetta non può essere applicata in maniera rigida e schematica alle sue idee, il F. fu riconosciuto come capo dalle sette e conventicole anabattiste del Veneto, tra le quali il Cathechismo ebbe una vasta circolazione e agì da strumento di coesione. Accusato di professare e di propagandare il luteranesimo già alla fine degli anni Venti, egli riuscì a sottrarsi alla cattura da parte dell'Inquisizione fino al 1558. Dietro le fughe, le peregrinazioni, le indagini insabbiate, s'intuisce la presenza di una rete efficace ed estesa di influenti protettori ai vertici degli organi di governo sia della Repubblica sia della Chiesa, che per trent'anni riuscirono a strapparlo agli inquisitori. Questa rete rimane, peraltro, tutta da ricostruire, così come restano da approfondire i rapporti che il F. intrattenne con altri esponenti del dissenso religioso, come A. Brucioli, P. Camesecchi, P. Gelido.

Gli scritti del F. sono stati pubblicati da A. Olivieri in Atti dell'Istituto veneto ... (1966-1967) e in Studi veneziani (1967).

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