BAROZZI, Iacopo, detto il Vignola

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 6 (1964)

BAROZZI (Barozio), Iacopo (Giacomo), detto il Vignola

Stefano Bottari

Nacque a Vignola (Modena) da Bartolomeo, il 10 ott. 1507.

Dai più autorevoli biografi (Vasari, Danti), e per sua stessa ammissione, sappiamo che fu allevato a Bologna, ove venne trasferito ancor giovinetto e messo nella bottega di un pittore. La pittura resta un fatto marginale nell'attività del Vignola, ma ha molta importanza nell'evolversi della sua personalità (Walcher Casotti, 1960) e come primo anello di una catena che lega la sua opera a quella di Raffaello. Nel tempo in cui il Vignola giunse a Bologna - verosimilmente sul 1520 - gli artisti che tenevano il campo erano gli estenuati epigoni di Raffaello, ed è nell'ambito di tale raffaellismo che il B. ebbe il primissimo orientamento, avvalorato poi e rinforzato, come dimostrano alcune tavole dei trattato Le due regole della prospettiva prattica e lo stesso frontespizio della Regola delli Cinque Ordini, da una esperienza diretta delle stampe di Maricantonio Raimondi.

Il passaggio dalla pittura all'architettura, alla quale si sentiva più naturalmente inclinato, avvenne, sempre a dire del Vasari, attraverso l'applicazione delle regole prospettiche in quelle "belle e capricciose fantasie" che poi furono tradotte "in opera di legni commessi e tinti a uso di tarsie" (Vasari, VII, p. 105) dal bergamasco fra, Damiano Zambelli per la chiesa di S. Domenico a Bologna.

Il problema delle tarsie di S. Domenico, eseguite in vari tempi a partire dal 1528,è in sé, anche per gli artisti che direttamente o indirettamente vi ebbero parte, del più alto interesse, ed è stato riproposto all'attenzione degli studiosi dalle pazienti ricerche di p. Venturino Alce (cfr. Nel centenario di Fra' Damiano Zambelli da Bergamo, intarsiatore, in Memorie domenicane, n.s., XXV [19491, p. 220). La Walèher Casotti (1960) ha isolato quelle che, nel gruppo più antico, possono sia pure ipoteticamente - ritenersi eseguite su cartoni del Vignola. Sono del gruppo quelle raffiguranti l'Incredulità di s. Tommaso, il Convito di Simone, la Chiesa di S. Nicola, e quella più avanzata (1534) con il Ritrovamento di Mosè, ora nel Metropolitan Museum di New York. Quest'ultima, poiché reca lo stemma del Guicciardini, allora governatore di Bologna, ha più numeri per essere inclusa nell'attivìtà del Vignola ricordata dal Vasari, che indica appunto messer Francesco tra i personaggi per richiesta dei quali l'artista avrebbe eseguito i cartoni. Gli scomparti in questione presentano spunti vari e indicazioni suggestive: i più antichi, se per le figure rimandano ancora al raffaellismo mediato dall'esperienza raimondesca, per le architetture riecheggiano, sia pur dilatati e ampliati, motivi bramantineschi, mentre quello più avanzato aggiunge spunti peruzziani e serliani. È certo che fin dai primi decenni del nuovo secolo le ricerche prospettiche erano in onore a Bologna, in un ambiente che, pur attendendo ancora un più approfondito chiarimento, spiega comunque il nuovo orientamento del Vignola: il passaggio cioè dalla pittura di figure alla pittura di prospettive, campo nel quale si conquistò una rapida fama. Alla scoperta della più intima e congeniale vocazione del B., ad enuclearla in maniera più decisa e concreta, contribuì di certo il primo soggiorno romano, dal 1536 al 1540. A Roma infatti, pur continuando a fare il pittore, egli stabilì un vivo e fruttuoso contatto non solo con i monumenti dell'antichità, ma anche con le opere degli artisti a cui più lo legava il suo noviziato bolognese: con le opere di Raffaello e di Bramante, e poi con le opere del Peruzzi.

Avviarsi all'architettura senza un contatto con i monumenti antichi era,, per un artista del Rinascimento, una cosa assurda: ed uno dei biografi del B., il Danti, informa appunto che il Vignola non solo era consapevole di ciò, ma era anche convinto che gli antichi monumenti "bisognava vederh in atto nelle vive reliquie", e non solo studiarli sul fondamento della precettistica vitruviana. Tale compito il Vignola intraprese e svolse attraverso quell'Accademia vitruviana che si proponeva la pubblicazione aggiornata dell'opera del trattatista romano; e delle esperienze fatte con lo studio degli antichi monumenti, con la loro stessa misurazione, è traccia nella Regola delli Cinque Ordini, e in modo particolare nell'esigenza in essa postulata dell'armonico rapporto tra le membrature architettoniche.

L'abate Primaticcio, venuto a Roma al principio del 1539 per eseguire calchi di antiche statue, da gettare poi in bronzo ad ornamento della reggia di Fontainebleau, si servi della collaborazione del Vignola (Vasari, VII, p. 106), il quale seguì poi il Primaticcio in Francia verso i primi del '41, trattenendovisi fino alla metà del 1543 (il 27 sett. 1543 è di nuovo ricordato in documenti bolognesi). Il B. sorvegliava la fusione in bronzo dei calchi in gesso; ma non fu questo, anche se è l'unico ad essere documentato, il solo lavoro a tenere impegnato il Vignola in questi anni in Francia, anni che sono pure quelli in cui, per la scomparsa del Rosso, il Primaticcio venne ad assumere una posizione di primo piano e l'incarico non lieve di dirigere la decorazione di Fontainebleau. Del resto ad un'attività più ampia alludono tanto il Vasari quanto il Danti: infatti si può riscontrare la presenza della mente ordinatrice del Vignola (cfr. Walcher Casotti) nella decorazione della camera della duchessa d'Etampes (oggi sala del re), tanto più architettonicamente congegnata che non quella del Rosso per la galleria, e poi ancora il suo intervento in qualità di prospettico in dipinti della sala da ballo e soprattutto nei progetti per le volte a pergolato che avrebbero dovuto slargare, per via di ben calcolati espedienti prospettico-illusionistici, la grotta del giardino dei pini (due disegni si trovano nel Gabinetto dei disegni e stampe del Louvre); nel prospetto di questa è pur un'eco di forme mantovane, ma con un'impronta che può ricordare tanto il Serlio - anche lui presente a Fontainebleau in questo momento - quanto il Vignola. Ma in qualsiasi modo si cerchi di risolvere questo problema, è certo che gli anni trascorsi in Francia furono decisivi per l'evoluzione del Vignola: un'attività varia e fervida arricchì la sua cultura, confermò le sue preferenze, gli suggerì più decisi orientamenti.

Fin dal 1541, quando già era partito per la Francia, il Vignola aveva ottenuto dal conte Filippo Pepoli, amministratore della Fabbrica, la nomina ad architetto di S. Petronio, e tale nomina era stata ratificata anche da Paolo III. Rientrato dalla Francia, l'artista, il 7 sett. 1543, si presentò ai fabbricieri di S. Petronio per prendere possesso dell'ufficio. Con questo atto formale ebbe inizio, intramezzata da viaggi a Roma, l'attività bolognese del Vignola, che si prolungò, non senza contrasti e dissapori, per ben sette anni, e che, scomparso il pontefice suo protettore, venne bruscamente interrotta il 31 marzo 1550, quando il B. fu licenziato dal suo ufficio con la duplice accusa di non aver sorvegliato i lavori e di aver sbagliato il progetto per il tabernacolo di S. Petronio.

A parte alcune opere di carattere ingegneristico (ponte sul Swnoggia, prolungamento del canale Navile), l'attività bolognese del Vignola fu assorbita in questi anni da un lato dai lavori in S. Petronio, dall'altro dall'ideazione di palazzo Bocchi e sistemazione del portico dei Banchi.

Per quel che riguarda S. Petronio, ripresa la non felice idea di dare un completamento alla facciata, nel 1544 venne indetto un concorso al quale il Vignola partecipò in gara con Giulio Romano ed il Palladio (i progetti si conservano nel Museo di S. Petronio). Forse per attrazione dei progetti peruzziani del 1522, il Vignola, nei suoi due progetti, associò ad un telaio sostanzialmente rinascimentale (tre ordini spvrapposti, sorretti da pilastri su alto zoccolo) tutta una serie di elementi gotici (rosoni, pinnacoli, nicchie, timpani, ecc.), ma in maniera piuttosto fredda e scolastica, e comunque assai lontana dalla più intima e vissuta adesione alle forme gotiche che si nota nell'opera del maestro senese. I progetti in tal modo, anziché opere organiche, riuscirono esercitazioni in stile che, come pure è stato ben detto, fanno pensare al gothic revival. Né un esito più felice ebbe il baldacchino, al quale il Vignola attese alcuni anni dopo (1547-48). Anche qui un tema medievale è riproposto, con freddezza accademica, in terminì rinascimentali; né il lambiccato coronamento eseguito nel 1669 e le statue dei santi protettori di Bologna e le Virtù, eseguite pure in questo periodo, riuscirono a riscattare tanta freddezza e carenza d'invemiva.

Prove più valide e ben diversamente impegnate restano invece il palazzo Bocchi e la sistemazione del portico dei Banchi, che degnamente s'adegua al suggestivo scenario di Piazza Maggiore e, per la sua parte, contribuisce a crearlo.

L'idea vignolesca di palazzo Bocchi, meglio che della sua realizzazione, nella quale dovettero avere - come del resto ebbe a notare il Danti - parte cospicua gli umori eccentrici del committente, può apprezzarsi dalla stampa del Gabinetto degli Uffizi nesumata di recente dal Lotz (Architecture..., p. 132). Essa testimonia l'efficacia dell'insegnamento del Serlio, sia per la morfologia delle strutture (il largo uso, per es., delle bugne esteso fino a intramezzare le stesse colonne), sia per il loro assetto compositivo, ma documenta pure, nella più limpida ed organica scansione, nel significato più accentuatamente classico delle strutture, e in alcune particolari soluzioni, come quella del balcone centrale o delle forti bugne introdotte a spezzare il timpano delle finestre, l'affermarsi nel Vignola di più decise e precise preferenze.

Questa accentuazione in senso classicheggiante di motivi serliani caratterizza pure la felice sistemazione, ideata negli ultimi anni del soggiorno bolognese, dei portico dei Banchi e delle case sovrastanti: un enorme paravento, che nella sua ritmica scansione, nella nitida tessitura architettonica, inglobando e facendo dimenticare i punti fermi delle preesistenti costruzioni, assume un tono di alta dignità monumentale.

Nel corso dei 1550 il Vignola, estromesso l'1 marzo dalla carica di architetto di S. Petronio, passò a Roma, ove pure era stato negli anni precedenti (per esempio, nel 1545), e qui, aiutato dal Vasari, entrò nelle buone grazie del nuovo pontefice, Giulio III, che lo nominò suo architetto, e gli affidò l'incarico di due costruzioni: il tempio di S. Andrea sulla via Flaminia e Villa Giulia, che valsero a consolidare la sua fama e a fare emergere la sua personalità.

Nel tempietto di S. Andrea, semplice nel suo aspetto ma complesso per le implicazioni culturali, il Vignola mette felicemente a fuoco le sue meditate esperienze dell'architettura antica e di quella cinquecentesca, e fornisce uno stimolante paradignia della sensibilità manieristica. Nel ritmo chiuso delle strutture cinquecentesche (si pensi al tempietto di Bramante): il Vignola immette il senso del movimento" per l'impianto rettangolare coperto da una cupola ad ellisse. Lo statico ed accentuato equilibrio delle strutture cinquecentesche trapassa così in un serrato giuoco di volumi e di spazi, determinato dalla tensione del loro continuo espandersi e bloccarsi.

La villa di papa Giulio è invece tra le opere più discusse, e la discussione verte sulla parte dei vari artisti (Michelangelo, Vasari, Vignola, Ammannati) che concorsero alla sua realizzazione. Ma per lo spirito da cui è animata, per la intavolazione e per le singole parti, si deve concludere che è un'opera tipicamente vignolesca. Il portale che il Venturi (1939, p. 707) indicava tra gli "elementi michelangioleschi", e da cui prende spunto il riferimento al Vasari di tutto il piano inferiore, è di chiara origine serliana, mentre tutta la composizione, a partire dalla distribuzione pianimetrica, e le due facciate (quella verso l'estemo e quella verso il giardino), caratterizzate dal risalto delle strutture, pur con forti accenti chiaroscuralá, sono bene nello spirito delle ricerche del B. che in esse mette a profitto le sue esperienze sull'architettura più recente (particolarmente quella dei Bramante e quella del Peruzzi).

La "novità" consiste nel più vivo contatto - specie nella facciata interna - stabilito tra architettura e ambiente: l'inserimento dell'architettura nel paesaggio e del paesaggio nell'architettura. In tal senso Villa Giulia, come da più parti è stato osservato, diventa il prologo necessario a quella che resta l'opera più compiuta del B.: il palazzo Famese di Caprarola.

I lavori per Villa Giulia, secondo le date segnate nei documenti, tennero impegnato il Vignola dal 1553 al 1555; gli studi per il palazzo Famese di Caprarola, la cui costruzione, per quel che sappiamo, venne avviata nell'aprile del 1559 e conclusa dopo la morte dell'artista, tennero occupato il Vignola fin dal 1556. L'elaborazione fu molto lenta, e in essa l'artista dovette tener conto, come ha documentato il Giovannoni (1959), di un precedente tracciato del Sangallo e del Peruzzi in cui appare già fissata la forma pentagonale. Tale tracciato, se rimase vincolante per l'artista, ne stimolò la fantasia, e non solo per determinare il felice passaggio tra la "roccaforte" iniziale e l'attuale palazzo residenziale, ma anche per ottenere una sistemazione più organica ed adeguata così del cortile come degli ambienti nei vari piani. Un confronto tra le planimetrie elaborate dal Sangallo, in collaborazione o meno con il Peruzzi, e quelle elaborate dal Vignola, mette subito in evidenza la funzionale chiarezza, anche in rapporto alla nuova destinazione della costruzione, raggiunta dall'artista; e mette pure in evidenza la genialità delle soluzioni per utilizzare le preesistenti strutture e le stesse accidentalità dei terreno.

Le torri, che avrebbero dovuto serrare l'edificio in un blocco severo e massiccio, vengono troncate all'altezza del primo piano e trasformate in terrazze aperte su vasti orizzonti, in modo da armonizzare la mole del palazzo con l'ambiente circostante; le accidentalità dell'erta collina offrono invece il pretesto, sulla base della soluzione adottata da Michelangelo per le rampe del Campidoglio e forse sull'esempio di antichi monumenti romani (la Walcher Casotti cita il tempio della Fortuna Primigenia di Palestrina), per una sistemazione scenografica, che resta tra le più felici e mirabili del periodo. Questa aderenza al "paesaggio" trova una conferma nella raffinata sensibilità con cui sono immagmate le strutture architettoniche: la loggia, di gusto peruzziano, aperta sul piano nobile, e tanto nitidamente delineata tra le forti strutture che la inquadrano da vincere il senso di chiuso del piano basamentale; il cortile circolare articolato in due ???one di cui quelle superiori arretrate sulle inferiori; i due giardini (quello d'estate e quello d'invemo) aperti a ventaglio ai due lati della costruzione e ad essa collegati con due ponti, giardini che danno un senso architettonico al suggestivo scenario naturale e in esso prolungano (mediante scalinate, ninfei, ecc.) il respiro dell'architettura, così aperto e sensibile al giuoco degli effetti luminosi.

Come nelle precedenti costruzioni, anche a Caprarola il Vignola mette a profitto le sue esperienze così dell'architettura antica come di quella a lui più vicina; ma in questo palazzo la fantasia s'impone sul calcolo, la felicità delle intuizioni sui ricordi eruditi.

Un altro edificio nel quale l'intervento del Vignola s'inseri su un precedente progetto è costituito dal palazzo che Ottavio Famese e Margherita d'Austria fecero cominciare a Piacenza su un piano del loro architetto militare, l'urbinate Francesco Paciotti. Per quel che sappiamo, il Vignola fece delle rapide apparizioni a Piacenza nel 1560 e nel 1564, ed elaborò alcuni progetti a noi noti per le copie dell'Archivio di Stato di Parma. Con essi l'artista trasformò il pesante e militaresco palazzo del Paciotti in una reggia.

Sul lunghissimo prospetto principale, a movimentare le piatte e monotone strutture, il Vignola fece emergere, sul massiccio basamento, un nucleo centrale articolato in tre ordini e culminante in una torre; all'intemo, nel cortile, egli ideò - a meglio caratterizzare il palazzo - un ampio e luminoso teatro in pietra sormontato da un robusto, ma svelto e arioso, loggiato.

L'immensa costruzione, così come venne realizzata, riflette solo in parte le idee del Vignola, ma anche qui, come a Caprarola, si manifesta la capacità dell'artista di trar partito da strutture preesistenti; ed anche qui, come già a Villa Giulia e a Caprarola, la costruzione non viene estraniata dall'ambiente, ma inserita validamente in esso (valga lo studio della facciata verso il Po) e completata con giardini e parchi che offrono ariosi effetti scenografici.

Il gusto che porta il B. ad associare l'architettura al paesaggio trova a Roma una perfetta applicazione nella sistemazione degli Orti famesiani sul Palatino, realizzata verosimilmente a partire dal 1565, e che, sulla base di un'indicazione del Baglione, si è concordi nel ritenere ideata dal Vignola, anche se completata con l'intervento di altri architetti.

In essa, come si deduce dalle varie stampe, tra le quali particolarmente importanti quelle del LetarouiRy, che ci conservano il suo aspetto, l'accento si sposta dall'architettura al paesaggio, che viene ad assumere il ruolo dì protagonista; ed anche se l'idea di allineare lungo un unico asse i vari elementi architettonici (l'ingresso monumentale, il vestibolo con le ampie scalee, il ninfeo con gli edifici che lo fiancheggiavano) è tratta dal tempio della Fortuna Primigenia di Palestrina o dal cortile bramantesco dei Belvedere, ben dei Vignola è la felicità con cui si assestava in rampe la zona collinosa, e si disciplinava naturalmente nel ritmo di un'architettura interna altrettanto prestigiosa quanto pittoresca.

L'ultima grande impresa famesiana alla quale è associato il nome del Vignola è la chiesa del Gesù in Roma (1568-1573), che ha tanta importanza, oltre che in sé nella stessa vicenda dell'architettura barocca, come prototipo delle chiese di ispirazione gesuitica.

La partecipazione del Vignola a questa impresa di primaria importanza è fuori discussione, anche se egli dovette utilizzare uno schema suggeritogli dal conunittente, e non poté seguire i lavori fino alla loro conclusione. Il prospetto, l'estemo della cupola, la decorazione dell'intemo non sono certamente suoi, ma suo è il piano su cui crebbe la costruzione, genialmente associando a uno schema centrico, ripreso dal progetto di Michelangelo per la basilica vaticana, un corpo longitudinale con una spaziosa navata fiancheggiata da cappelle laterali. Dalla fusione di questi due elementi, che è quanto dire "dal contrasto fra la spinta in profondità esercitata dalla navata e la forza centripeta che si sprigiona dalla grande e luminosa cupola * (Walcher Casotti), nasce la suggestione dell'intemo, il senso dinamico e chiaroscurale delle strutture, che travalica lo stesso impegno manieristico racchiuso nel tempietto di S. Andrea sulla via Flaminia, per aprire :il passo al barocco. Questo significato della chiesa del Gesù, perfettamente in linea con le ricerche vignolesche, è riconosciuto da tutti gli studiosi, dal Riegl al Wólfflin, dal Gioseffi alla Walcher Casotti, anche se non tutti sono d'accordo nell'indicare le fonti del Vignola, per le quali si è variamente parlato di architetture spagnole e francesi, d'architetture napoletane e romme, o si è addirittura fatto ricorso al S. Andrea di Mantova, costruito su un progetto di L. B. Alberti. Non si tratta in ogni caso che di precedenti iconografici, privi della tensione e della capacità di espansione delle strutture vignolesche, che hanno, come ha ben riconosciuto il Gioseffi, la loro motivazione prima in una suggestione tratta da Michelangelo.

Negli ultimi anni della sua vita, che si concluse il 7 luglio 1573 a Roma dove fu sepolto nel Pantheon, il Vignola fornì progetti e spunti per altre costruzioni, ad alcune delle quali attese poi il figlio Giacinto. Tra essi assumono un particolare rilievo i progetti per la chiesa di S. Lorenzo nel grandioso complesso monastico dell'escuriale, il cui imponente prospetto, nel motivo centrale, presenta un curioso partito derivato dalla facciata di S. Maria dell'Orto in Roma, rivendicata al Vignola dal Giovannoni (Saggi sull'architettura ... ) e i piani per S. Anna dei Palafrenieri a Roma costruita in parte da Giacinto, portata a compimento in età barocca e tutta rimaneggiata nell'800, ma non al punto da far perdere di vista l'impianto ellittico in cui il Vignola aveva riproposto, esaltando al massimo la tensione, temi cari alla sua fantasia.

Abbiamo tentato una ricostruzione della attività del Vignola, fermandoci soprattutto sulle opere più discusse, che son poi quelle che meglio caratterizzano l'artista e s'inseriscono con risonanze molteplici nella storia dell'architettura. Ma accanto ad esse, nei vari momenti del suo percorso, il Vignola s'impegnò pure in opere di minor rilievo da quelle per il conclave del 1559, che prevedevano una sistemazione del cortile dei Belvedere, alla chiesa dei SS. Giovanni e Cristoforo, nell'Isola Bisentina (lago di Bolsena); dalla chiesa di Mazzano Romano, al tabernacolo della Collegiata di S. Antonio Martire a Fara Sabina; dai progetti di modifica del palazzo pubblico e della fortificazione del palazzo del Podestà (poi Seminario) di Rieti, alla stessa fabbrica di S. Pietro; dalla basilica di S. Maria degli Angeli ad Assisi, alla chiesa di S. Oreste sul monte Soratte, al complesso di edifici per Caprarola e ad altri ancora, opere che il più delle volte, per essere appoggiate su una documentazione più semplice ed immediata, hanno variamente attratto l'interesse degli studiosi e particolarmente di quelli locali, delineando però un 'inunagine alquanto sfocata della personalità dell'architetto. In sostanza si tratta di opere (e tra di esse bisognerebbe includere lo stesso palazzo di Piacenza) per le quali l'artista forni qualche progetto o qualche disegno, ma lasciò ad altri, senza seguirla da vicino, la realizzazione.

Meglio che sulle opere minori del Vignola, che nulla o molto poco aggiungono alla sua biografìa, conviene ancora fermarsi sui due trattati (Regola delli cinque ordini di architettura...e Le due Regole della prospettiva prattica).

Il trattato Regola delli cinque ordini di architettura, il cui autografo si trova agli Uffizi di Firenze, venne pubblicato per la prima volta a Roma nel 1562. La data - si ricava non già da)I'in folio, che non reca nemmeno indicazione di luogo, ma da una lettera del figlio Giacinto (cfr. A. Ronchini, III, p. 381). L'opera, che ha 32 tavole, ebbe successo e subito si fece un'altra edizione (circa il 1570). Nei sec. XVI e XVII le edizioni si moltiplicarono. quattro a Venezia (1570, 1582, 1596, 1603); tre a Roma nel 1602, nel 1607 e nel 1617 (questa ultima a cura del Villamena e con rilievi delle opere dei Vignola); una a Siena nel 1635. Accanto a quelle italiane, importanti anche le edizioni in lingua straniera: quella spagnola di Patricio Caxesi pubblicata a Madrid nel 1593 e ristampata nel 1630; quelle tedesche di J. W. Bóhelm a Norimberga nel 16 17 e di J. R. Fásch pure a Norimberga, ma senza indicazione di data e ristampata nel.,178I; quella di Amsterdam di L. C. Stunn'pgbblicata nel 1699; quella di Londra pubblicata al principio del secolo XVII e seguita da altre del 1665, 1673, 1761; quelle francesi anch'esse ristampate all'inizio del sec. XVII. Tra le posteriori mette conto di segnalaire quella di P. J. Mariette in tre volumi pubblicati a Parigi fra il 1750 e il 1755 e quella del Blondel con 304 tavole, pubblicata pure a Parigi nel 1767; ricorderemo inoltre, le edizioni russe fatte fare da Pietro il Grande (due volte nel 1708) e imposte in quelle scuole. Anche nei due secoli successivi, e può dirsi fino a tempi recenti, le edizioni, sia in Italia sia fuori, furono numerose.

Il successo della Regola si deve alla sua semplicità e alla sua efficacia didattica, per cui essa divenne il manuale scolastico per eccellenza. Il Vignola offre il modo di comporre i vari ordini architettonici fondandosi non solo sulla sua esperienza di misuratore degli antichi monumenti o chiarendo aspetti della opera vitruviana, ma traendo dal complesso delle sue esperienze dirette e indirette un sistema numerico-proporzionale "che gli consente di stabilire una assoluta annonia di rapporti" (Walcher Casotti) tra le singole membrature e il complesso architettonico. In altri termini il Vignola emiclea un "modulo" e lo pone a fondamento di un sistema che, pur nella sua astrattezza, ebbe una enorme efficacia.

Nella "dedica ai lettori" contenuta nella Regola il Vignola annunzia il suo trattato prospettico, che fu pubblicato postumo dal Danti a Roma nel 1583 con una biografia del B. e un commento. Come è stato riconosciuto negli studi più recenti, Le due Regole della prospettiva prattica con commentari del P. Egnatio Danti  hanno importanza nei confronti delle ricerche prospettiche rinascimentali. La ricerca del "punto di distanza" è individuata con la piena consapevolezza delle leggi geometriche che regolano ogni intavolazione prospettica; e in questo senso il Vignola contribuisce a una chiara e completa formulazione teorica delle leggi della prospettiva.

Anche il trattato Le due Regole della prospettiva ebbe varie edizioni; a Roma nel 1602 e successivamente nel 1611, nel 1644 e nel 1684; a Siena nel 1635; a Bologna nel 1644, nel 1682 e nel 1744; a Venezia nel 1743. Di esso però, diversamente daquanto s'è notato per il precedente trattato, non si ha notizia di edizioni in lingua straniera.

Bibl.: Per una più completa bibliografia sul B. si rimanda a: Memorie e studi intorno a I. B. da Vignola nel IV centenario della nascita, Vignola 1908 (che, oltre a scritti di G. Canevazzi, E. Geymúller, P. Giordani, A. Sorbelli, G. Zucchini e altri, contiene uno studio bio-bibliografico di A. G. Spinelli nel quale sono elencate in ordine cronologico le edizioni italiane e straniere dei trattati del B., pp. is-ss); M. Walcher, Bibliografia sul Vignola dal 1908 ai nostri giorni, in Atti e Mem. d. Deputaz. di storia Patria Per le Prov. modenesi, s. 8, XI ( 1959), pp. 179-206 Tordine seguito non è cronologico ma alfabetico); M. Walcher Casotti, Il Vignola, Trieste 1960 (si tratta dello studio più organico e completo sull'artista; v. il repertorio bibliografico a pp. 273-79). Si citano inoltre, come opere principali sia dal lato documentario sia da quello storiografico: G. Vasari, Le vite..., a cura di G. Milanesi, V, Firenze 1880, p. 432; VII, ibid. 1881, pp. 81, 88, 105-110, 130 n. 2, ??? ,66, 407; F. VWamena, Alcune opere di architettura di I. B. da Vignola, Roma 1617; G. Baglione, Le vite de' Pittori, scultori et archit., Roma 1642, pp. 6-9; L. Pascoli, Vite de' pittori, scultori ed architetti moderni, I, Roma 1730 (ed. facsimile, Roma 1933), pp. 190, 284, 288, 295; 11, ibid. 1736, p. 529; F. Milizia, Le vite de' più celebri architetti...,Roma 1768, pp. 262-268; G. Bottari, Raccolta di lettere..., I, Milano 1822, pp. 497-500; G. Gaye, Carteggio... d'artisti, II, Firenze 1840, pp. 358-363; III, ibid. 1840, pp. 144 s.; P. LetarouiUy, Edifices de Rome moderne, II (testo), Bruxelles, pp. 419-455; 11 (tavv.) Liège 1853, tavv. 198-212; III (tavv.), ibid. 1853, tavv. 263-265; III (testo), Bruxelles 1866, pp. 549-552; A. Ronchini, I due Vignola,in Atti e Mem. d. Deputaz. di storia Patria per le antiche prov. modenesi e parmensi, III (1865), pp. 361396; A. 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