Azione di accertamento [dir. proc. civ.]

Diritto on line (2018)

Giorgetta Basilico

Abstract

Il contributo analizza l’azione di mero accertamento o dichiarativa, nel contesto delle azioni civili, prendendo in esame gli aspetti più controversi del tema: quello della tipicità/atipicità; quello dell’oggetto del giudizio e della funzione che l’ordinamento giuridico le attribuisce; quello della ripartizione degli oneri probatori e quello dell’interesse ad agire in mero accertamento. Si evidenzia, in particolare, la difficoltà di una lettura condivisa dell’istituto oggetto della presente voce.

Atipicità e funzione dell’azione di mero accertamento

L’azione di mero accertamento appartiene alla tradizionale tripartizione delle azioni civili di cognizione, unitamente con quella di condanna e con l’azione costitutiva.

Preliminarmente all’indagine sulla funzione della stessa nel sistema giuridico processuale, occorre verificare l’esistenza di una previsione normativa generale che la riconosca. L'esito della verifica è negativo: non è possibile rinvenire, nell'ordinamento italiano, una norma che contenga una previsione generale di proponibilità dell’azione di mero accertamento; essa è presente, invece, in altri ordinamenti, per es. in quello tedesco: il § 256 ZPO, rubricato Azione di accertamento, la riconosce, al co. 1, in senso ampio, per l’accertamento positivo o negativo di un rapporto giuridico, o per il riconoscimento o l’accertamento della falsità di un documento. Nel nostro ordinamento, di contro, esistono norme specifiche, soprattutto nel codice civile, che disciplinano azioni in giudizio, a tutela di determinate situazioni sostanziali, le quali sono indubbiamente di tipo accertativo: il riferimento cade, solo esemplificativamente, sull’art. 949, co. 1, c.c. (azione negatoria in difesa della proprietà), sull’art. 948 c.c. (rivendica di proprietà), o sull’art. 1421 c.c. (legittimazione all’esercizio dell’azione di nullità di un contratto).

Si è discusso, anche in passato, sulla natura generale o tipizzata dell’azione di mero accertamento, in conseguenza del fatto che l’ordinamento giuridico italiano, così come non la contiene ora, non conteneva una previsione normativa generale neppure nel codice di rito del 1865. In quel codice si poteva leggere, invece, l’art. 36, co. 1, che, grosso modo, è stato riprodotto nell’attuale art. 100 c.p.c. e che legava l’esercizio dell’azione (id est la proposizione della domanda) alla sussistenza dell’interesse ad agire.

Su quel sistema si innestava la teoria di G. Chiovenda (L’azione nel sistema dei diritti, in Saggi di Diritto processuale civile, I, rist., Milano, 1993, 3 ss., spec. 15 ss., testo e nt. 68, ove sviluppa un ampio confronto con la dottrina tedesca e quella italiana), che, come spiega bene L. Lanfranchi (Contributo allo studio dell’azione di mero accertamento, Milano, 1969, 12 ss.), ha generato grande interesse e grandi contrasti in dottrina e in giurisprudenza, senza riuscire a produrre un serio mutamento legislativo: il sistema del 1865 “non era pronto” per recepire l’idea generale di Chiovenda, ma dopo di lui il legislatore del 1940 comunque non l’ha raccolta interamente, restando, appunto, carente di una regola corrispondente a quella della codificazione tedesca. In conseguenza, ancora negli anni Settanta del secolo scorso vi è chi, come S. Satta (Diritto processuale civile, VIII ed., Padova 1973, 226 ss., spec. 229), accede ad un duplice ordine di limiti: l’azione di mero accertamento è funzionale solo alla tutela di situazioni finali e in casi tassativi; ma pure chi, come V. Andrioli (Diritto processuale civile, I, Napoli 1979, 334 ss.), riconosce, oltre all’esistenza di fattispecie tipiche di mero accertamento, anche un’area «nella quale il mezzo di tutela in esame opera in guisa atipica», suddivisa in tre raggruppamenti (ivi, 335 s.).

L’ipotesi interpretativa favorevole alla tassatività, nient’affatto condivisibile, è stata da tempo superata; in particolare con l’entrata in vigore dell’art. 24 Cost., che riconosce a «tutti» il potere di agire in giudizio per la tutela di propri diritti soggettivi, senza specificazione alcuna; con la conseguenza che ciascuno, nell’osservanza del vincolo della proposizione di una domanda ex art. 2907 c.c., potrà chiedere al giudice la tutela di cui abbisogna, in particolare di cui abbisogna il diritto del quale si affermi titolare.

Si comincia così a delineare l’essenza della tutela in esame; essa ruota intorno a due cardini: a) il diritto soggettivo, del quale si domanda tutela; b) il tipo di tutela domandata, che corrisponde al riconoscimento giudiziale di una certezza giuridica. Se questo è il percorso, si intuisce facilmente come il presente studio possa escludere, da un lato, l’indagine sulla natura meramente dichiarativa della sentenza di rigetto di una domanda, che accerta negativamente il diritto dedotto dall’attore (e che «il convenuto ha il potere di perseguire pur quando l’attore abbia rinunciato alla domanda»: così Balena, G., Istituzioni di diritto processuale civile, I, Bari, 2015, 35); dall’altra, l’indagine sull’accertamento come risultato (l’uso di questo termine è qui volutamente atecnico e generico) del passaggio in giudicato della sentenza, ai sensi dell’art. 2909 c.c.: il contenuto accertativo è proprio di ogni sentenza passata in giudicato ed ha riguardo essenzialmente alla stabilità del decisum; è il meccanismo attraverso il quale la sentenza «fa stato ad ogni effetto», secondo le parole della citata norma sostanziale.

L’ordinamento giuridico processuale, pertanto, riconosce l’esistenza di un’azione di cognizione meramente accertativa o dichiarativa, ancorché non la sanzioni attraverso una norma generale. La conferma di ciò sarà evidente solo attraverso un’indagine di tipo funzionale sull’istituto in esame.

Come si è già accennato, la tutela di mero accertamento tende all’affermazione di una certezza giuridica; la corrispondente sentenza – ma nulla esclude che il provvedimento del giudice possa assumere la forma di un’ordinanza – è di tipo meramente dichiarativo; la domanda proposta dall’attore è accolta solo in corrispondenza di una dichiarazione giudiziale affermativa di una determinata situazione, o rimotiva di un dubbio, di un’incertezza, in entrambi i casi pregiudizievoli per il titolare del diritto dedotto (ancora una volta sono illuminanti le parole di Carnelutti, F., Lezioni di diritto processuale civile, I, Padova, 1926, 136 ss., secondo il quale la sentenza di accertamento «non costituisce l’obbligo, il quale preesiste alla sentenza stessa, … non emana il comando, ma ne constata la esistenza»).

Pertanto, proprio dal punto di vista funzionale, l’attore in mero accertamento non è interessato ad ottenere né una sentenza che condanni taluno, obbligato nei suoi confronti, ad adempiere un’obbligazione disattesa, se necessario anche coattivamente attraverso l’esecuzione forzata; né a raggiungere, attraverso la sentenza, una modificazione sostanziale che non sia riuscito ad ottenere per via negoziale. Sia nel caso della tutela di condanna, che nel caso della tutela costitutiva-modificativa-estintiva, è evidente, a monte, la violazione di quello che la migliore dottrina (Proto Pisani, A., Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2014, 32 ss.) definisce «obbligo di cooperazione», spettante ad ogni soggetto che si interfacci con altro attraverso una relazione sostanziale avente rilevanza giuridica: il contraente obbligato alla sua prestazione nei confronti dell’altro contraente, che l’abbia disattesa; il danneggiante obbligato al risarcimento del danneggiato; il proprietario del fondo servente che non abbia consentito negozialmente, al proprietario del fondo dominante, di costituire la servitù.

Tutto ciò è molto meno evidente, sin quasi a scomparire, nel caso del mero accertamento: qui l’attore solo in senso molto limitato reagisce ad una crisi di cooperazione altrui, in quanto tutt’al più, altri ha violato un obbligo di astensione: è il caso di colui che si affermi titolare di un diritto su bene altrui, la cui proprietà è, invece, piena; l’interesse del proprietario va nell’unica direzione di riaffermare la certa pienezza del suo diritto, ottenendo dal giudice una sentenza che dichiari inesistente il diritto affermato dall’altro (art. 949, co. 1, c.c.). A monte, quindi, si evidenzia, qui, non la mancata cooperazione alla realizzazione di un obiettivo giuridicamente riconosciuto o concordato, quanto la violazione di un obbligo di astensione, generalmente gravante erga omnes.

Lo scopo, quindi, dell’azione dichiarativa è quello del ripristino di una certezza giuridica, incrinata da un comportamento altrui, che non sia, però, casuale né burlesco, ma sia mirato in danno dell’avente diritto e produttivo di pregiudizio, quindi illecito. E dunque, non ogni attività che risulti, in certo qual modo, destabilizzante dell’esistenza o della certa configurazione di un diritto soggettivo in capo al suo titolare, potrà generare il potere di agire in mero accertamento a sua tutela; lo sarà solo quella pregiudizievole, capace di fondare un interesse ad agire in quella direzione (per più ampie e motivate argomentazioni sul tema, rinvio a Basilico, G., La tutela civile preventiva, Milano, 2013, 129 ss.).

La soluzione del problema appena prospettato non può che essere, quindi, favorevole all’atipicità dell’azione dichiarativa: in base alle norme vigenti, di rango ordinario e costituzionale, è possibile agire in tale direzione anche al di là delle ipotesi tassativamente previste, salva la ricorrenza – come si preciserà meglio infra, § 4.2 – dell’interesse ad agire.

I profili oggettivi dell’azione di mero accertamento

Ogni disquisizione sull’oggetto del processo parte da un punto fermo: la deduzione di un diritto soggettivo, di cui è sufficiente che l’attore si affermi titolare, e quindi che la domanda giudiziale abbia ad oggetto proprio quel diritto (per un'approfondita, recente indagine sul tema, v. D’Alessandro, E., L'oggetto del giudizio di cognizione, Torino, 2016, passim). Detta regola non fa eccezione se l’azione esercitata in giudizio sia dichiarativa o di mero accertamento.

Si può, quindi, escludere – secondo costante opinione (cfr., ex multis, Balena, G., Istituzioni, cit., 36; in giurisprudenza, Cass., 11 maggio 2017, n. 11565, che l’ha escluso per l’accertamento di meri fatti; Cass., 13 ottobre 2016, n. 20618, che nega la possibilità di agire in mero accertamento di un credito fiscale, per farne valere l’intervenuta prescrizione; Cass., 22 agosto 2007, n. 17877; Cass., 24 giugno 1995, n. 7196, sulla necessità che il tutelando diritto sia esistente; Cass., 13 giugno 1989, n. 2860, che ha escluso la possibilità di agire in mero accertamento per l’acquisizione di una prova) – la possibilità che l’accertamento giudiziale possa avere ad oggetto una questione o un mero fatto; ma anche la possibilità che abbia ad oggetto l’esistenza o l’interpretazione di una norma. Essa è esercitabile sempre e solo a tutela di un diritto o di uno status; anche con riguardo alla querela di falso od alla verificazione di scrittura privata, il coinvolgimento del giudice e quindi la richiesta di un processo, non sono destinati soltanto all’accertamento della falsità dell’atto e/o della genuinità della sottoscrizione di un documento, ma anche – sia pure indirettamente – alla tutela del diritto ab origine dedotto in giudizio: la parte che abbia fatto affidamento sull’efficacia probatoria del documento prodotto, ai fini dell’affermazione del suo diritto, nel momento in cui quell’efficacia probatoria venga messa in discussione attraverso il disconoscimento del documento, dovrà disporre di uno strumento atto a ripristinare la certa genuinità della sottoscrizione di esso, ottenendo una verificazione di scrittura. Così come la parte che veda pregiudicabile il suo diritto a causa di un documento pubblico prodotto contra se dalla controparte, ma affetto da falsità, dovrà poterlo attaccare giudizialmente, al fine di privarlo dell’efficacia probatoria che gli è connaturata: lo strumento è quello della querela di falso (quanto sin qui sostenuto trova conferma anche nelle opinioni di Montesano, L., La tutela giurisdizionale dei diritti, Padova, 1994, 145 ss. e di Proto Pisani, A., La tutela di mero accertamento, in Le tutele giurisdizionali dei diritti, Napoli, 2003, 69 ss., pur avendo, gli stessi Autori, un approccio esegetico in parte diverso sui temi della querela di falso e della verificazione di scrittura privata).

La ratio, pertanto, delle due descritte azioni, il cui oggetto immediato è rappresentato da una questione, ha riguardo alle ripercussioni che la risoluzione della questione produce sul rapporto giuridico controverso, od anche non controverso, allorché esse vengano esercitate in via principale.

L’azione di mero accertamento, quindi, tende in ogni caso alla certezza giuridica di un diritto, in senso positivo o negativo, nel senso, cioè, dell’affermazione dell’esistenza dello stesso e della sua ampiezza, o della negazione dell’esistenza di quello altrui; ma il diritto deve essere stato lato sensu contestato. Non si persegue, con il giudizio, l’astratta certezza del diritto a scopo meramente preventivo di qualunque contestazione nei suoi confronti; si persegue la certezza del diritto in confronto della (id est per neutralizzare la) contestazione di esso proveniente da terzi, quindi del diritto in quanto messo in crisi dal comportamento di qualcuno. È questa l’opinione diffusa da tempo, da quando, cioè, si è superata l’idea chiovendiana della certezza giuridica come «bene autonomo» (Chiovenda, G., Istituzioni di diritto processuale civile, I, rist., Napoli, 1960, 192), per far posto all’idea della necessaria utilità del processo, quella che «all’attore spettava alla stregua del diritto sostanziale e che questo non gli può fornire» (così Montesano, L., Condanna civile e tutela esecutiva, Napoli, 1965, 9 ss.; Id., Appunti sull’interesse ad agire in mero accertamento, in Riv. dir. proc., 1951, 254 ss.; ma sulla stessa linea è anche la migliore dottrina sostanzialistica: Falzea, A., Accertamento: I - Teoria generale, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 205 ss.).

Quanto al tipo di diritto efficacemente tutelabile in via di mero accertamento, sicuramente si deve far riferimento ai diritti assoluti. Questo è, infatti, l’ambito in cui più facilmente si realizza quel comportamento di terzi diretto a limitare o impedire il diritto altru; quel comportamento, cioè, che si concreta in una violazione dell’obbligo di astensione gravante erga omnes, in confronto del titolare del diritto. Ma non si può escludere – come sarà chiarito meglio infra, § 3 – che l’esigenza di ottenere un accertamento giudiziale possa risultare effettiva anche con riferimento ad un diritto relativo.

Il vanto o la contestazione come componenti necessarie dell’azione dichiarativa

Presupposto indefettibile, quindi, per l’efficace esercizio di un’azione di mero accertamento, è rappresentato dal pregresso verificarsi di una contestazione o di un vanto in confronto del (titolare del) diritto dedotto in giudizio; in conseguenza di ciò, l’attore in mero accertamento domanda tutela del suo diritto contro colui che lo ha messo in crisi ponendo in essere la contestazione o il vanto.

Nel primo caso, è accaduto che l’esistenza, la titolarità o la piena espansione del diritto dell’attore sia stata messa in dubbio da qualcuno. Non è necessario che la contestazione risulti immediatamente produttiva di danno – in tal caso potrebbe intervenire anche una domanda di condanna a fini risarcitori –, ma è sufficiente che essa risulti pregiudizievole anche solo perché limiti, senza danno effettivo, il pieno godimento del diritto stesso, o perché crei, essa stessa, una situazione di pericolo, premessa di un danno futuro. Il proprietario può rivendicare il proprio bene in confronto di chi lo possiede o lo detiene illegittimamente, al fine di riacquistarne la piena disponibilità (art. 948 c.c.); sempre il proprietario può agire in giudizio contro chi affermi o abbia affermato di avere diritti sulla cosa che gli appartiene: per es., il (proprietario) confinante che affermi la titolarità di un diritto di servitù sul fondo dell’altro (art. 949, co. 1, c.c.). Non è necessario che si sia verificato, in entrambi i casi, un danno; il titolare del diritto di proprietà agisce in giudizio per sentir riaffermare dal giudice che quel diritto gli appartiene nella sua pienezza e che egli può, nel pieno dei poteri, esercitarlo.

La funzione della tutela dichiarativa invocata è quella, pertanto, di consentire, all’attore, di riacquistare giuridica certezza del suo diritto nei confronti di chi lo ha contestato, limitandone o impedendone l’esercizio.

La carenza del necessario presupposto, rappresentato dalla contestazione del diritto o dal vanto espresso nei confronti del suo titolare, renderebbe l’azione dichiarativa meramente preventiva; preventiva, cioè, non del pregiudizio concreto – attuale o potenziale – che da quella contestazione o da quel vanto potessero derivare, bensì preventiva di qualsivoglia contestazione o vanto futuri: in tal caso essa sarebbe, secondo quanto cercherò di precisare nel prosieguo, carente di interesse ad agire. Corrisponderebbe, sostanzialmente, a quelle che un tempo venivano definite “mere azioni”, che il nostro ordinamento giuridico ha ritenuto di non regolamentare, scegliendo, invece, di introdurre, nel codice di rito, la norma dell’art. 100 (la giurisprudenza si è espressa più volte in termini di giudizi “defatiganti” o “di giattanza”, optando per la loro inammissibilità: Cass., 9 maggio 2008, n. 11554).

La funzione dell’azione dichiarativa è quella, pertanto, di ristabilire una certezza, la quale sia stata incrinata da una contestazione o da un vanto altrui, produttivi proprio di quel pregiudizio che consiste nello stato di incertezza determinatosi. Non può, invece, essere quella di “creazione”, attraverso il giudicato, della certezza giuridica di una determinata situazione sostanziale, tesa a prevenire qualsivoglia dubbio (giuridico) sulla sua esistenza o sulla sua consistenza.

Partendo da questo punto fermo, è possibile chiudere il cerchio sull’esatta individuazione dell’oggetto dell’azione dichiarativa, in particolare quando, a monte della stessa, la situazione di pregiudizio attuale o potenziale sia stata provocata da un vanto; da qualcuno, cioè, che abbia affermato l’esistenza di un proprio diritto a scapito di quello altrui. Lo schema è quello, più volte richiamato, dell’art. 949, co. 1, c.c.: lì si delinea un conflitto tra due diritti assoluti, che si può risolvere solo ripristinando la certa configurazione dell’uno e dell’altro. Di fronte a tale fattispecie, Chiovenda sosteneva che oggetto dell’azione accertativa non fosse, in realtà, il diritto, ma la certezza di esso: la situazione protetta, in quanto affermata, sarebbe solo presupposta, mentre il petitum del giudizio sarebbe rappresentato proprio dalla negazione della contestazione o del vanto altrui, al fine di ripristinare la certezza del diritto proprio (Chiovenda, G., Istituzioni, cit., 182, 192, ove, a conferma del principio di autonomia dell’azione, afferma che l’attore in mero accertamento «chiede al processo la certezza giuridica e non altro»).

Come si è già sottolineato, dopo la codificazione del 1940-42 e la Costituzione del 1948, tale soluzione non è più sostenibile. La tutela giurisdizionale è data in favore di diritti, autentico oggetto dell’accertamento, in quanto messi in dubbio o resi incerti da un comportamento altrui (sono chiarissime le parole di Satta, S., Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, 352, il quale, ripudiando l’interesse alla certezza e l’azione di accertamento astrattamente intesi, afferma che «gli interessi che la vita crea non sono di tipo processuale, ma … sono interessi sostanziali, sono diritti … che aspirano al proprio riconoscimento attraverso il giudizio»). Quindi, il dubbio non è relativo al se oggetto del processo sia un diritto; esso riguarda, semmai, la possibilità che più diritti configurino quel petitum. Al di là della previsione, spesso richiamata, dell’art. 949, co. 1, c.c., si pensi per es. al caso di Tizio, giornalista, che pubblica notizie riservate sulla vita di Caio, politico, il quale agisce a tutela del proprio diritto alla riservatezza e si vede opporre da Tizio l’esercizio del diritto di cronaca. Ogni volta che taluno si ingerisce nel diritto altrui o nell’esercizio di esso, dando vita ad un conflitto tra diritti assoluti, la cui coesistenza non sia possibile con riferimento allo stesso bene (materiale o immateriale che sia), l’attore deduce, in realtà, la doppia situazione giuridica: quella di cui è titolare e quella che la inficia, di cui, ovviamente, non è titolare, perché lo scopo del processo è proprio quello di ottenere una sentenza che, superando l’incertezza determinata dal conflitto, neghi l’esistenza della seconda, provocando la piena riespansione della prima: i due diritti, in tal caso, indubitabilmente coesistono nel giudizio accertativo.

In parte diverso è il caso in cui l’azione di mero accertamento contro il vanto altrui venga esercitata a tutela di un diritto relativo (soluzione condivisa dalla migliore dottrina: Montesano, L., La tutela, cit., 128; Andrioli, V., Diritto processuale civile, cit., 336; ma forti dubbi sul tema in Merlin, E., Azione di accertamento negativo di crediti ed oggetto del giudizio, in Riv. dir. proc., 1997, 1064 ss.): Tizio afferma stragiudizialmente di essere creditore di Caio per una certa somma, a titolo di risarcimento danni; è ben possibile un’azione accertativa di Caio tendente alla negazione dell’avversa pretesa, fondata, per es., sulla dimostrazione dell’aver agito in stato di necessità e di poter così usufruire di un’esimente della propria responsabilità. L’essenziale è che – come preciserò infra – l’affermazione di Tizio non consista in una mera giattanza, ma risulti pregiudizievole per Caio, per es. all’interno dell’ambiente di lavoro nel quale opera e per la credibilità di cui gode.

Nel caso appena descritto, l’oggetto del processo dichiarativo è rappresentato dal solo diritto altrui, non da quello proprio, per il fatto che l’attore domanda l’accertamento negativo del diritto da altri vantato nei suoi confronti ma, contemporaneamente, non pretende di affermare l’esistenza di un diritto proprio, semmai di negare un proprio obbligo. La soluzione mi sembra ragionevole e utile a smentire quella di una dottrina minoritaria, in base alla quale l’attore in mero accertamento negativo comunque affermerebbe, in contrapposizione alla pretesa che intende negare, il diritto all’integrità della propria sfera patrimoniale (Fazzalari, E., Note in tema di diritto e processo, Milano, 1957, 104 s., 128 s.).

In conclusione, colui che agisce in mero accertamento negativo intende negare, o solo ridimensionare, un diritto altrui incompatibile con il proprio, esercitato, cioè, in pregiudizio del proprio; il diritto dedotto in giudizio, quindi, non appartiene al deducente-attore, ma al convenuto; tuttavia l’attore, deducendolo in giudizio, intende tutelare il proprio diritto, limitato o compresso dal convenuto che vanti il (suo) proprio. Se l’attore ha ragione, il giudice riconoscerà la pienezza e l’integrità del suo diritto negando, o ridimensionando, quello del convenuto; altrimenti rigetterà la sua domanda perché infondata, ritenendo, invece, esistente il diritto contrariamente affermato (l’opinione qui espressa trova conforto nelle parole di Romano, A.A., L'azione di accertamento negativo, Napoli, 2006, 94 ss., il quale precisa che comunque l’accertamento negativo di un diritto non implica automaticamente quello positivo del diritto connesso per incompatibilità, «almeno finché la situazione giuridica opposta e contraria non sia a propria volta dedotta nel giudizio … da parte del rispettivo legittimato»; Id., op. cit., 272 ss., da cui si evince, in assonanza con quanto qui sostenuto, l’affermazione dell’identità di contenuto tra una sentenza di rigetto di una domanda di accertamento positivo e una sentenza di accoglimento di una domanda di accertamento negativo, con riferimento allo stesso diritto; la soluzione espressa è, invece, osteggiata da Merlin, E., Azione di accertamento, cit., 1093 ss., spec. 1107, che considera quella di accertamento negativo di un credito come «azione su singole questioni»).

Problematiche strettamente processuali

La ripartizione degli oneri probatori

Superato il problema dell’identificazione del diritto (o dei diritti) deducibile(i) in sede di azione meramente accertativa, è necessario soffermarsi, sia pure nei limiti qui consentiti, su due tematiche di grande spessore, che non sono state risolte univocamente dagli interpreti.

La prima è quella della ripartizione degli oneri probatori. L’incertezza determinatasi tra gli interpreti non riguarda il mero accertamento positivo di un diritto o di uno status: l’attore che ne domanda il giuridico riconoscimento deve fornire la prova della sua esistenza; il convenuto si limita a dar prova dei fatti modificativi o estintivi, dedotti allo scopo di smontare la pretesa dell’attore. Siamo, quindi, ad un’applicazione piana dell’art. 2697 c.c.

I problemi sorgono nei casi di mero accertamento negativo e la ragione è facilmente riconducibile, ancora una volta, all’oggetto della domanda: l’attore si vuole tutelare ottenendo dal giudice la negazione di un diritto altrui che inficia il proprio. Si ricollega, quindi, direttamente a quell’elemento sopra enunciato e rappresentato dalla deduzione in giudizio, da parte dell’attore in mero accertamento negativo, del doppio diritto: quello proprio, di cui domanda tutela, e quello altrui, del convenuto, che chiede al giudice di negare. Questo assetto delle allegazioni sembra scompaginare, in certo qual modo, quello generale disposto dall’art. 2697 c.c., che attribuisce a ciascuna delle parti l’onere di provare per sé, di provare, cioè, nel proprio interesse, l’esistenza dei fatti (da sé) allegati, sia se costitutivi del diritto dedotto, sia se modificativi – estintivi – impeditivi dello stesso.

Quando l’attore domanda in accertamento negativo, come ho già accennato, deduce in giudizio il proprio diritto, in quanto pregiudicato o pregiudicando dal vanto altrui (id est affermazione di un diritto altrui in danno del proprio), ma anche quello altrui, stragiudizialmente affermato dal convenuto in danno del proprio. I problemi che si pongono agli interpreti sono, pertanto, i seguenti: a) la violazione del diritto di difesa del convenuto; b) l’eccessivo aggravio delle difese dell’attore.

Occorre ripartire, ancora una volta, dal fondamentale punto di riferimento costituito dall’art. 24 Cost. e quindi dall’opinione favorevole all’atipicità dell’azione dichiarativa, senza tuttavia disattendere la regola contenuta nell’art. 2697 c.c. Il superamento delle problematiche sopra enunciate ha impegnato in vario modo la dottrina (sulle varie posizioni v. Cariglia, C., Profili generali delle azioni di mero accertamento negativo, Torino, 2013, spec. 92 ss.).

A mio avviso, la strada più proficuamente percorribile, al fine di un approfondimento della problematica, appare quella strettamente processuale, quella, cioè, che origina dalla considerazione della sequenza processuale consacrata nel combinato disposto degli artt. 163 e 167-183 c.p.c.: le prime due norme delineano il contenuto delle allegazioni delle parti, che contribuiscono alla determinazione del thema decidendum, il quale si definisce completamente nel corso dell’udienza di trattazione ex art. 183 (e dell’eventuale appendice scritta del co. 6). Ripartendo da quelle allegazioni, la ripartizione degli oneri probatori non può che aver riguardo esattamente alle stesse: ciascuna parte è onerata a fornire la prova di quanto ha allegato. Ora, l’attore in accertamento negativo afferma di essere titolare del diritto assoluto, che vede minacciato dalla contestazione altrui, ma, verosimilmente, non allega nulla a sostegno di quell’affermazione; per il nostro ordinamento è sufficiente che l’attore si affermi titolare del diritto e sta, semmai, al convenuto, contestare quella titolarità. Di conseguenza, quell’attore non è detto che deduca in giudizio il fatto costitutivo del suo diritto e che lo debba, quindi, provare; questa è solo un’ipotesi. Ciò che, invece, egli allega (deve allegare) sono i fatti relativi alla sussistenza di una relazione giuridica con il convenuto e che risultano modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa di quest’ultimo: di quelli dovrà fornire la prova e degli stessi il convenuto costituitosi cercherà di fornire prova contraria.

La spiegazione di ciò risiede in un limpido ragionamento di Montesano (La tutela, cit., 126 s.), secondo il quale il titolare del diritto assoluto, proprio in quanto esercitabile erga omnes, non lo deduce mai come tale in giudizio, dove invece «vengono in considerazione i concreti particolari e ‘relativi’ rapporti che … si sono costituiti tra i loro autori» (del vanto o della contestazione) «e il soggetto del diritto»; in conseguenza, l’attore dovrà fornire prova di quei fatti da cui risulti che la pretesa del convenuto è, in realtà, priva di titolo e il giudice dovrà valutare la prevalenza del diritto (assoluto) dell’attore rispetto al titolo fondante il vanto o la contestazione, dedotto dal convenuto.

Di conseguenza, se l’attore si limita a negare la pretesa del convenuto senza allegare alcun fatto estintivo-modificativo-impeditivo di essa, la domanda di accertamento negativo dovrà essere rigettata – anche a seguito di dichiarata nullità dell’atto di citazione, perché carente di causa petendi (Proto Pisani, A., La tutela di mero accertamento, cit., 65) – ma solo, in realtà, in caso di inerzia del convenuto. Se questi, infatti, costituendosi in giudizio, deduca un fatto costitutivo del vantato diritto, diventa onere dell’attore provare, a contrario, l’inesistenza di quel fatto costitutivo e quindi l’infondatezza della pretesa altrui (Proto Pisani, A., op. ult. cit., 66). Tutto ciò sarà possibile entro i limiti di cui all’art. 183, co. 5, c.p.c., ove si prevede che l’attore possa proporre le domande e le eccezioni che siano conseguenza della riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto, eventualmente integrato dalla disposizione dei tre termini di cui al co. 6 dello stesso articolo.

La tematica della ripartizione dell’onere della prova raggiunge un livello ulteriore di problematicità allorché si abbia riguardo alle azioni di mero accertamento di un credito. Come ho già precisato sopra, la domanda di tutela, in questi casi, non presuppone l’esistenza (e quindi non tende all’accertamento) di un diritto dell’attore, ma la negazione di un proprio obbligo; si tratta, inoltre, di domanda eterodeterminata, che esige, ex se, adeguata specificazione del petitum e della causa petendi, quindi dei fatti non già costitutivi, bensì modificativi-estintivi-impeditivi del (diritto di) credito vantato dal convenuto.

Come ho accennato in precedenza, la soluzione dei problemi che sorgono in quest’ambito non è univoca. Mi limiterò a riferire le opinioni più accreditate. Montesano (La tutela, cit., 120) ritiene che la legittimazione alla suddetta azione possa sussistere solo a fini riparatori o rimotivi di danni, altrimenti si tratterebbe di un’azione meramente preventiva; per cui l’attore dovrà fornire prova del pregiudizio subito o incombente e quindi dell’illiceità del contegno stragiudiziale altrui.

Prescinde, invece, dalla funzione esclusivamente riparatrice – ma non, naturalmente, dall’inscindibile collegamento con l’interesse ad agire – la soluzione prospettata – e già più volte richiamata – da Proto Pisani (La tutela di mero accertamento, cit., 62 ss.), secondo il quale sull’attore grava l’onere di completezza, dal punto di vista processuale (art. 163 c.p.c.), della domanda, mentre sul convenuto, autore del vanto, quello di provare il fatto costitutivo (e quindi la non infondatezza) della sua pretesa: se il secondo non ottempera, la domanda attrice potrà essere rigettata per carenza di interesse ad agire, essendo l’affermazione stragiudiziale del convenuto assolutamente generica e inidonea ad incidere sulla sfera giuridico-patrimoniale dell’attore; se, invece, ottempera, quest’ultimo avrà l’onere di dedurre un fatto modificativo-estintivo-impeditivo che si contrapponga al primo.

Più aderente alla prescrizione letterale dell’art. 2697 c.c., appare la posizione di G. Verde (L’onere della prova nel processo civile, Camerino, 1974, 530 s.), secondo il quale il giudice adito in accertamento negativo di diritti relativi deve innanzitutto valutare la rilevanza giuridica del comportamento del convenuto: se esso sia, o meno, pregiudizievole per l’attore. In tal modo, grava sullo stesso attore l’onere di dar prova dei fatti che fondano quel pregiudizio e quindi della illiceità del contegno di controparte; la quale, di contro, cercherà di provare che il suo comportamento è legittimo.

Tra le opinioni più recenti sul tema, mi sembra di poter condividere quella di A.A. Romano (L’azione di accertamento negativo, cit., 423 ss.), secondo il quale la corretta distribuzione dei carichi probatori deve essere «orientata secondo la posizione che le parti assumono per diritto sostanziale», con conseguente incombenza del relativo onere sul «preteso titolare ove si discuta di fatti costitutivi» e sul «supposto obbligato ove si controverta in punto di fatti impeditivi-modificativi-estintivi».

Si può, quindi, cercare di concludere nel senso che, nelle azioni in esame, non c’è totale disattenzione della regola generale contenuta nell’art. 2697 c.c.; la particolarità è data solo dal fatto che, in sede di accertamento negativo, si può realizzare una sorta di promiscuità tra gli oneri probatori delle parti, per possibile interferenza dell’una con le allegazioni dell’altra; può accadere, cioè, che almeno con riguardo all’attore, esso si trovi a dover fornire la prova di un fatto allegato dal convenuto, non perché questi non abbia, a sua volta, provato a proprio favore – come ho cercato di chiarire poc’anzi – ma proprio perché si tratta di prova contraria. L’elemento dirimente è rappresentato dall’interesse.

In chiusura, senza pretesa di completezza di tale vexata quaestio, precisa F.P. Luiso (Diritto processuale civile, II, Milano, 2017, 259 s.) che nel nostro sistema giuridico l’onere della prova «non comporta anche l’onere dell’iniziativa probatoria», poiché vige il principio di acquisizione, in virtù del quale se la prova è stata legittimamente acquisita al processo, il giudice può trarre da essa gli elementi utili a provare uno qualsiasi dei fatti allegati, a prescindere dal soggetto che abbia assunto l’iniziativa di acquisirla al processo. Il richiamo al principio di acquisizione consente, mi pare, di attenuare i dubbi sulla compatibilità tra l’art. 2697 c.c. e il sistema di ripartizione degli oneri probatori, nell’ambito che qui ci occupa.

L’interesse ad agire

La difficoltà di stigmatizzare la tutela di mero accertamento, soprattutto con riguardo al superamento delle soluzioni chiovendiane, ha condotto sempre di più gli interpreti ad individuare, come perno dell’esegesi di quell’istituto, il “requisito” dell’interesse ad agire: non è possibile esercitare, nel vigente ordinamento giuridico, quell’azione, se non in presenza di un fatto concreto generatore dell’interesse ad agire; non è possibile, quindi, realizzare giudizialmente quella che altrove ho definito «prevenzione allo stato puro», una prevenzione, cioè, da attacchi o da lesioni al diritto, solo eventuali (Basilico, G., La tutela civile preventiva, cit., 180).

Il principio che oggi sorregge il sistema ordinamentale – cui ho già fatto, in vario modo, riferimento ed al quale non si sottrae neppure la tutela meramente accertativa – è quello di strumentalità del processo al diritto sostanziale: l’impegno del processo può essere assunto – ed il suo costo giustificato – solo da chi esiga che la certezza giuridica prodotta dal giudicato abbia ad oggetto non l’esistenza o l’inesistenza di un diritto in quanto tali, ma in quanto le contrarie inesistenza o esistenza dello stesso risultino, per lui, contra ius e quindi pregiudizievoli. L’accertamento positivo o negativo di un diritto, realizzato in base al su richiamato principio, può produrre, quindi, efficacia preventiva di danni, attuali o potenziali, proprio in quanto, ripristinandosi la certezza giuridica, si ripristina l’originaria identità del tutelando diritto, paralizzandosi le conseguenze pregiudizievoli, di carattere economico e non solo, che la contestazione o il vanto posti in essere nei suoi confronti avrebbero potuto determinare, anche in termini di reiterazione degli stessi (in tal senso, Proto Pisani, A., Lezioni, cit., 32 s.; si esprimono in termini “finalistici” anche Grasso, E., Note per un rinnovato discorso sull'interesse ad agire, in Jus, 1968, 361 s., che vede sottesa all’art. 100 la «necessità del processo»; Verde, G., L’onere della prova, cit., 519 s. e Lanfranchi, L., Note sull'interesse ad agire, in Riv. trim dir. proc. civ., 1972, 1134).

Il ruolo dell’interesse ad agire nell’ambito delle azioni dichiarative è, pertanto, centrale poiché fornisce concretezza al ruolo della contestazione di un diritto altrui, o del vanto esercitato nei confronti di un diritto altrui per affermarne uno proprio. Affinché i suddetti elementi possano giustificare l’esercizio di un’azione dichiarativa, non basta la loro mera ricorrenza, ma è necessario che gli stessi siano produttivi di pregiudizio, attuale o potenziale, al diritto del quale si chiede certezza; occorre, quindi, che la contestazione o il vanto non solo sussistano effettivamente, ma non realizzino una mera boutade; essi debbono risultare pregiudizievoli, nell’immediato, o pericolosi, per il futuro; essi debbono concretare, pertanto, un comportamento contra ius, quindi illecito.

La ricorrenza dell’interesse ad agire in mero accertamento comporta, pertanto, la sussistenza necessaria di un nesso di causalità tra il comportamento posto in essere dall’autore del vanto o della contestazione ed il pregiudizio, attuale o potenziale, che ne deriva in capo al destinatario degli stessi; se il vanto o la contestazione risultassero, ai detti fini, indifferenti, non sarebbero generatori di interesse ad agire e quindi non potrebbero fondare un’azione dichiarativa (si esprime, con riferimento al mero accertamento negativo, in termini di correlazione «al solo interesse, cioè alla sola utilità dell’accertamento», Sassani, B., Note sul concetto di interesse ad agire, Rimini, 1983, 93 ss., spec. 105).

L’esistenza ed il ruolo che il vanto e la contestazione assumono nella tutela dichiarativa, risultano fondamentali anche ai fini dell’ulteriore qualificazione della stessa nei ranghi, non codificati, delle tutele con funzione preventiva. L’accoglimento di una domanda di mero accertamento, nella misura in cui reprima il vanto o la contestazione, neutralizza la possibilità che il diritto contro il quale essi fossero stati esercitati subisca pregiudizio, o subisca ulteriore pregiudizio, se quello ha iniziato a verificarsi; oppure, infine, venga messo in pericolo di pregiudizio: si realizza, così, una concreta funzione preventiva di danni, che si interconnette con l’interesse ad agire come elemento fondativo dell’esercizio dell’azione, nella fattispecie dell’azione dichiarativa.

Ciò non esclude, tuttavia, che la tutela dichiarativa, al pari delle altre forme di tutela civile, svolga anche una funzione sanzionatoria, non necessariamente recessiva rispetto alla prima, destinata a reprimere il vanto o la contestazione; si può considerare repressione anche la dichiarazione di esistenza o di inesistenza di una certa situazione, contrariamente affermata, impedendo che, per il futuro, essa possa essere efficacemente riproposta. Il giudicato di mero accertamento che elimini, in tali sensi, il vanto o la contestazione, impedisce anche l’efficace riproposizione, in futuro, degli stessi, pur in assenza di intervento coattivo dell’autorità giudiziaria: la pronuncia dichiarativa, infatti, non è ex se destinata all’esecuzione forzata (in senso favorevole, Montesano, L., La tutela giurisdizionale, cit., 129).

L’accertamento in via incidentale di diritti e status

Si è affermato, sin dalle prime righe, che l’ordinamento giuridico nazionale non pone limiti all’azione di mero accertamento, né incanalandola nell’ambito esclusivo dei diritti assoluti, né individuando, in via esclusiva ed insuperabile, casi tassativi di esperibilità della stessa.

Alla rimarcata ampiezza non contraddice la presenza di una norma, quale l’art. 34 c.p.c., secondo la quale il giudice decide con efficacia di giudicato una «questione pregiudiziale» solo se lo stabilisca la legge, oppure se vi sia un’espressa domanda di parte. Detta previsione si armonizza perfettamente con il sistema, avendo ad oggetto, in realtà, non una mera questione, ma una vera e propria causa: ciò di cui si domanda l’accertamento (o di cui la legge prevede doversi decidere con efficacia accertativa) è, in realtà, un diritto, del quale è incerta o contestata l’esistenza, in quanto tale non appartenente al novero dei fatti costitutivi del diritto dedotto in via principale, tuttavia legato ad esso da un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, tale che la decisione sul primo non può che dipendere direttamente dall’accertamento del secondo.

A quell’accertamento si addiviene solo su domanda di parte (dotata di correlativo interesse ad agire) o per predeterminazione legislativa, in mancanza delle quali il giudice non è comunque esonerato dalla pronuncia sul diritto pregiudiziale, dedotto in giudizio, ad es., attraverso una semplice eccezione. Quella pronuncia non sarà dotata di autonoma efficacia di giudicato, bensì ricompresa, previa cognizione incidenter tantum, nell’orbita del giudicato che copre la domanda principale.

La rilevanza sistematica, pertanto, della distinzione tra pregiudizialità in senso tecnico ed in senso logico (così ben delineata da Satta, S., Diritto processuale civile, cit., 39 ss. e ripresa da molta dottrina: di recente v. Menchini, S., Accertamenti incidentali) sussiste proprio con riguardo all’ultimo dei profili evidenziati: la seconda ha riguardo a tutti casi in cui il diritto o il rapporto pregiudiziale non sia vincolativamente destinato ad un autonomo giudicato; tutto il resto appartiene all’altra categoria.

Fonti normative

Artt. 948, 949, co. 1, 1421 c.c.; art. 100 c.p.c.

Bibliografia essenziale

Andrioli, V., Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979; Basilico, G., La tutela civile preventiva, Milano, 2013; Cariglia, C., Profili generali delle azioni di mero accertamento negativo, Torino, 2013; Chiovenda, G., Istituzioni di diritto processuale civile, I, rist., Napoli, 1960; Chiovenda, G., L’azione nel sistema dei diritti, in Saggi di diritto processuale civile, I, rist., Milano, 1993; Lanfranchi, L., Contributo allo studio dell’azione di mero accertamento, Milano, 1969; Merlin, E., Azione di accertamento negativo di crediti ed oggetto del giudizio, in Riv. dir. proc., 1997, 1064 ss.; Montesano, L., Appunti sull’interesse ad agire in mero accertamento, in Riv. dir. proc., 1951, 254 ss.; Montesano, L., La tutela giurisdizionale dei diritti, Padova, 1994; Proto Pisani, A., La tutela di mero accertamento, in Le tutele giurisdizionali dei diritti, Napoli, 2003, 69 ss.; Romano, A.A., L'azione di accertamento negativo, Napoli, 2006; Satta, S., Diritto processuale civile, VIII ed., Padova, 1973; Verde, G., L’onere della prova nel processo civile, Camerino, 1974.

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