AVERNO

Enciclopedia Italiana (1930)

AVERNO

Rina MONTI
Giulio GIANNELLI

. Il Lago d'Averno (A. T., 27-28-29), di natura craterica, si trova in Campania, nei Campi Flegrei. a circa 2 m. sul livello del mare. Ha forma press'a poco ovale e occupa una superficie di kmq. 0,55 (massima lunghezza km. 1, larghezza media km. 0,55, perimetro km. 2,86). Ha una profondità media di 22 m. e una massima di 34. Nell'antichità, quando l'Averno comunicava largamente col mare, doveva contenere acque salse e animali marini. Oggi è un lago d'acqua dolce e tale è il carattere della sua flora e della sua fauna. Tuttavia tra gli organismi lacustri fu trovata qualche specie propria delle acque salse, come la Nitocra Wolterecki, piccolo crostaceo del gruppo dei Copepodi, interpretato dal Brehm come un relitto, avanzo superstite dell'antica fauna marina, adattatosi a poco a poco a vivere nel mutato ambiente. Cosi il lago d'Averno sembra fornire con la sua storia qualche argomento per confortare la dottrina delle faune relegate, esposta per la prima volta dal Pavesi a proposito dei laghi craterici del Lazio. Intorno all'Averno non v'è più traccia di quelle esalazioni solforose, che forse nella remota antichità rivelavano un'attività vulcanica non ancora spenta: ben lo avvertiva lo Spallanzani, notando i grandi stormi di folaghe, che soggiornavano impunemente sul lago.

L'Averno nella concezione romana dell'oltretomba.

Il Lacus Avernus (o Lacus Averni) è così descritto da Strabone (V, 244, trad. C. O. Zuretti; cfr. Ps. Aristot., De mirab. auscult., 102; Diod., IV, 22; v. Beloch, Campanien, pp. 168-172): "E cinto l'Averno da ciglioni ripidi che da ogni parte gli sovrastano eccetto che all'imboccatura, ora ridotti a coltura, ma prima occupati da un'inaccessibile selva di alti alberi, che ombravano il golfo e favorivano la superstizione. Favoleggiavano ancora quei del paese che anche gli uccelli, i quali in alto vi passavano a volo, precipitassero nell'acqua, colpiti dalle esalazioni che ne emanano [questo è infatti il significato del nome greco "Αορνος, sul quale gli antichi pretendevano, con un'etimologia probabilmente errata, che fosse formato quello latino: cfr. Servio, Ad Aen., III, 442; Plinio, XXXI, 21; Verg., Aen., VI, 242, e, per il valore di questa etimologia, cfr. F. Muller Jzn, Altitalisches Wörterbuch, Gottinga 1926, p. 53]. Vi si entrava dopo essersi propiziati con sacrifici i numi sotterranei, e v'erano sacerdoti che si erano assunti l'amministrazione del luogo e sui riti davano le necessarie indicazioni. V'è qui una fonte di acqua potabile in prossimità del mare, ma se ne astenevano tutti, credendola acqua dello Stige: e qui v'è la sede dell'Oracolo; ed attestavano l'esistenza del Piroflegetonte dalla presenza delle acque calde vicino alla Palude Acherusia". Presso l'Averno si venerava un Dio omonimo, deus Avernus, personificazione del lago stesso (cfr. Corp. Inscr. Lat., X, 3792); e i Greci avevano localizzato in quella regione varie saghe relative alle loro idee sull'oltretomba (v. ade): così vi avrebbero avuto dimora i Cimmerî, e di lì Ulisse era sceso agl'Inferi secondo la omerica νέχυια, e di lì pure era passato Enea per visitare il Tartaro, guidato dalla Sibilla cumana, custode del sacro bosco (Strab., V, 243; Verg., Aen., III, 441 e segg., VI, 42 segg.; Ovid., Metam., XIV, 114, ecc.). Era dunque l'Averno il vero e proprio ingresso dell'oltretomba; e tale lo riguardarono sempre i Romani (ianua Ditis: Verg., Aen., VI, 126 seg.; Ovid., Metam., XIV, 101 seg.): mentre, però, nella più antica poesia romana il nome di Averno serve a designare specificamente il lago cumano quale vestibolo dell'oltretomba, nei poeti più tardi il nome medesimo è usato, senza più alcun riferimento locale, come una designazione generica degl'Inferi (Val. Flacco, II, 602 segg.; IV, 700; V, 347; Sil. Ital., XVI, 76; Marziale, VII, 47,7). Al nome di Averno si riconnettono pertanto le varie concezioni romane sulla vita ultraterrena.

L'idea della sopravvivenza dell'uomo dopo la morte fa parte delle più antiche credenze religiose dei Romani; e ciò che si dice a questo proposito dei Romani, vale per i Latini e, in genere, per gl'Italici. Dopo che il morto era stato seppellito, o cremato, sua dimora ultraterrena diveniva la tomba ove era stato deposto il cadavere o le ceneri di esso: leti domus, leti domicilium è detta la tomba nelle epigrafi funerarie, nelle quali troviamo anche frasi come: sic habitat, haec certa est domus, e simili; e le urne cinerarie avevano frequentemente la forma di casa o di capanna. E poiché, come sarà detto più oltre, al morto si attribuiva una natura divina, così la sua abitazione era naturalmente ritenuta sacra e inviolabile (Cic., De leg., II, 22, 87; II, 26, 64; Plut., Quaest. Rom., 14, ecc.). La vita del defunto, là dentro, si riguardava come continuazione dell'esistenza terrena; e pertanto si aveva cura di porre nella tomba tutto ciò che alla vita del trapassato poteva riuscire necessario e gradito: cibi e bevande, armi e vesti, strumenti da lavoro (Petron., Sat., 71; cfr. Verg., Aen., VI, 232 segg.). In tempo molto antico pare si offrissero al morto anche sacrifici umani, specialmente di quelle persone i cui servigi erano stati, in vita, indispensabili al defunto, cioè di donne e di servi favoriti; in età meno barbara, al sacrificio umano sottentrarono l'immolazione di animali, il cui sangue si lasciava Lolare nella tomba, e, per influsso etrusco, le lotte dei gladiatori, durante i giuochi funebri; del pari, l'offerta di cibi e bevande fu di solito accompagnata o sostituita dal banchetto funebre, al quale si pensava che anche il defunto partecipasse.

Dal concetto della tomba singola si sviluppò gradatamente quello della dimora comune dei defunti nel mondo sotterraneo, di una grande tomba collettiva (cfr. Cic., Tuscul., I, 16, 36); concetto che, peraltro, non si sostituì a quello primitivo, ma coesisté con esso, sicché ai morti si finì con l'attribuire, come agli dei, una doppia esistenza: nella tomba singola e nell'oltretomba comune.

Ma in quale parte dell'individuo si prolunga, secondo le credenze romane, la vita ultraterrena? In quella parte che alla morte del corpo si scioglie da esso, e che ha nome anima, ed è una cosa sola con lo spirito vitale (spiritus); parte incorporea, ma che conserva vagamente la figura del trapassato, in quella forma, di solito, sotto la quale era uscito di vita o era stato sepolto: imago par levibus ventis volucrique simillima sono (Verg., Aen., VI; 701 segg.). In relazione all'oscurid della tomba, s'immaginavano anche le anime di colore scuro o nero (Pers., V, 185; Hor., Carm., II, 13, 21), simili alla notte, della quale specialmente si compiacevano; talvolta invece si pensarono pallide e mute, come il cadavere (Lucr., De rer. nat., I, 123; Ov., Metam., XI, 654; Verg., Aen., VI, 265, 480); ora appaiono nude (Ov., Metam., XI, 654), ora avvolte in bianche vesti (Plin., Epist., VII, 27, 13), ora semplici scheletri (Prop., IV, 5, 4). L'esistenza di queste anime era ritenuta come una monotona, incolore continuazione della vita terrena; e le anime stesse s'immaginavano fosche e tristi (tristes: Varr., in Macrob., Saturn., I, 16, 18) e tristi si consideravano i riti (tristia dona, tristes supplicationes, infelices preces), con i quali si cercava di rendere meno infelice la loro condizione. Benché languida e triste per la sua monotona uniformità, si concepiva tuttavia la vita ultraterrena come un riposo calmo e tranquillo, sgombro di cure, simile a un eterno sonno (Cic., Tusc., I, 49, 117): lo dicono le espressioni che più spesso ricorrono nelle epigrafi: quieti aeternae, paci et quieti aeternae, pax tecum aeterna, ecc. (Corp. Inscr. Lat., III, 1720, 758, 831). L'idea precisa d'una sanzione ultraterrena delle azioni compiute in vita, di un premio per i buoni e di un castigo per i malvagi, mancò certamente alla religione romana, o soltanto tardi si sviluppò in modo assai vago, sotto l'influsso greco. Nella credenza popolare più diffusa, il diverso grado di felicità delle anime si riteneva invece che dipendesse dalla cura con cui i viventi compievano verso i morti i loro doveri; così le anime di coloro che non erano stati seppelliti secondo il rito (rite conditi) non potevano penetrare nell'Averno e si aggiravano sulla terra gemendo e ululando; ugual sorte era serbata alle anime dei suicidi e degli assassinati, tormentati dal dolore d'aver perduto precocemente o ingiustamente la vita (Cicer., Tuscul., I, 44, 107; Serv., Ad Aen., IV, 384, 386; Tertull., De anima, 56, ecc.), e a quelle dei defunti che, per la negligenza dei viventi, erano angustiati nella tomba dalla fame o dalla sete (Prop., IV, 5, 2; Ov., Fasti, II, 547 segg.). Questi spiriti si riteneva che perseguitassero i loro assassini o chi aveva fatto loro del male, assumendo talora aspetti terrificanti (Hor., Epod., 5, 91 segg.; Ovid., Fasti, V, 46 seg., ecc.); che s'aggirassero, inquieti e paurosi, come spettri che bisognava placare e tranquillare con determinate offerte e sacrifici (Serv., Ad Aen., III, 63; IV, 518) o tener lontani con gesti o atteggiamenti determinati (cfr. Ovid., Fasti, V, 433 segg.).

Da siffatte credenze sulla condizione dei morti nell'oltretomba si doveva naturalmente sviluppare il concetto di una distinzione fra gli spiriti buoni, che hanno trovato riposo nella tomba e che ricambiano con la loro benevola protezione l'affetto e le cure che i viventi hanno prodigato ad essi nell'atto della sepoltura e nelle successive cerimonie rituali; e gli spiriti maligni, privati del riposo della tomba o privi delle rituali offerte ad essi dovute, che s'aggirano inquieti e vendicativi, minacciando i vivi con la loro sinistra potenza: i primi sono chiamati Mani (v.), i secondi sono detti Lemuri (v.) o Larve.

Quali divinità benevole o malevole ai vivi erano dunque riguardate le anime dei morti, ma anche veri e proprî dei si pensava che avessero sede nell'oltretomba, corrispondenti alle divinità del cielo: erano essi gli dei inferi, in contrapposto agli dei superi. Tale fu prima di tutti Orco (Orcus; v.), e poi Marcia, Lara, Dea Muta, Tellus o Terra Mater; altri, come Dis Pater e Proserpina, di origine straniera; altri ancora, come Saturno, Conso, Cerere, posti in relazione all'oltretomba solo perché divinità della vegetazione; infine, più importante di tutti, Vediove, il Giove sotterraneo (v. queste voci). Anche i riti che si osservavano nelle cerimonie e nelle feste sacre agli dei inferi rivelavano il contrasto con quelli dedicati agli dei superi. Durante le feste degli inferi stavano chiusi i templi degli dei celesti (Ovid., Fasti, II, 563; V, 485); ad essi si libava con la mano sinistra (Serv., Ad Aen., VIII, 106) e al flamine di Giove era proibito di toccare le fave, sacre ai morti, e di pronunziare anche soltanto la parola faba (Paul., Festi ep., p. 87).

La morte non precludeva alle anime dei trapassati ogni relazione col mondo dei viventi: esse potevano, anche quelle che avevano trovato pace nella tomba, ritornare in epoche determinate sulla terra. A questi ritorni servivano non solo quelle aperture o caverne che si additavano, in certe regioni, come ingressi naturali dell'Orco (e una di queste era appunto quella dell'Averno), ma anche quelle fosse artificiali che si scavavano in ogni città, costruita secondo le regole della limitazione, nel punto d'incontro del cardo col decumano. Questa fossa si diceva mundus e rappresentava il legame fra il mondo di sopra e quello di sottoterra. A Roma il mundus del Palatino si apriva, sollevando la pietra che lo teneva chiuso, tre giorni all'anno: il 24 agosto, il 5 ottobre, l'8 novembre; questi giorni, del pari che quelli del febbraio destinati alla commemorazione dei defunti, erano riguardati come religiosi, cioè preclusi alla trattazione di qualsiasi affare importante pubblico o privato (contrassegnati negli antichi feriali con l'indicazione: mundus patet; cfr. Fest., pp. 142, 154; Macrob., Saturn., I, 16, 17 segg.).

Ma non soltanto nei giorni in cui il mundus patet e in quelli delle feste a loro dedicate (Parentalia e Feralia, Lemuria) le anime dei morti risalivano sulla terra; si credeva che potessero anche esservi evocate volontariamente con i ben noti antichissimi riti della necromanzia (v.) (cfr. Plin., Nat. Hist., XXVIII, 2, 17); ai quali erano simili quelli della devotio (v.) e della consecratio (v. consacrazione), con cui si mirava, mediante la recitazione di determinate formule (carmina, verba concepta, precationes solemnes, ecc.), a dare l'oggetto del rito in potere degl'Inferi.

Già nell'ultimo secolo della repubblica l'antica credenza nella dimora dei trapassati nell'Orco s'era affievolita in gran parte del popolo, e si pensavano le anime come dimoranti in cielo o nelle stelle, in comunanza con gli dei (Cic., Somnium Scip., III, 5, 8; VII, 17; Tuscul., I, 31, 76; Verg., Aen., V, 722): oppure, mescolando le due concezioni, si ammetteva che scendessero all'Averno le anime degli uomini volgari, e salissero invece al cielo quelle di coloro che s'erano distinti, in vita, per grandi e nobili azioni (Cic., Somnium Scip., III, 5; V, 10; IX, 21; Tuscul., I, 12, 27). Al che si riconnette la distinzione (assai frequente dall'ultimo secolo della repubblica in poi) fra sedes piorum, in cielo, e sedes impiorum, sottoterra. E, mentre nelle opere dei poeti le idee greche relative all'oltretomba (v. ade) si andavano sostituendo in misura sempre più larga a quelle indigene o mescolando con esse, già al tempo di Cicerone era assai diffusa la credenza che l'anima non sopravviva al corpo (Lucr., III, 417-827).

Bibl.: Peter, in Roscher, Lexikon der griech. und röm. Mythologie, I, colonne 739-41; Steuding, ibidem, II, coll. 234-261; Wissowa, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., II, col. 2285 segg.; Hülsen, ibidem, II, col. 2286; Latte, art. Inferi, ibidem, IX, coll. 1541-1543; Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., Monaco 1912, p. 232 segg.; F. Cumont, Afterlife in Roman paganism, New Haven 1922; C. Pascal, Le credenze d'oltretomba, 2ª ed., Torino 1923; L. Preller, Römische Mythologie, 3ª ed., Berlino 1883, II, p. 61 segg.

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