Autorita

Enciclopedia delle scienze sociali (1991)

Autorità

Carlo Galli

Introduzione

Il termine 'autorità' riveste, nel linguaggio comune e in quello scientifico, una vasta gamma di significati, designando sia il fondamento o il criterio che origina e legittima un potere ("l'autorità della tradizione era il centro della politica romana") sia il potere legittimo, cioè un potere a cui i subordinati riconoscano il diritto di pretendere obbedienza ('l'autorità dello Stato', 'l'autorità della legge'); spesso però, nell'uso corrente, si perde la nozione di legittimità, e il termine è semplicemente sinonimo di 'potere'. 'Autorità' può inoltre significare il prestigio di una persona o di un testo ('l'autorità di Dante', 'delle Scritture'); infine, per metonimia, può valere anche per le persone o le istituzioni che ne sono portatrici ('le superiori autorità'). In questo articolo ci proponiamo di delineare i molteplici significati che al termine autorità sono stati attribuiti nelle varie epoche storiche dall'antichità a oggi, facendo riferimento di volta in volta ai particolari contesti sociali, politici e istituzionali.

L'auctoritas in Roma

L'età repubblicana

Il termine latino auctoritas significa 'promuovere' e 'dar senso' a ciò che non è autosufficiente, ed è quindi in primo luogo collegabile alla sfera del sacro (si pensi ad augur) (v. Benveniste, 1969; tr. it., p. 396).

Nei significati di 'garanzia', 'certificazione', 'indispensabile approvazione', auctoritas è termine attestato in Roma a partire dal diritto quiritario: che si tratti di un concetto tipicamente romano è ben chiaro a Dione Cassio che ne lamenta l'intraducibilità in greco. Nel periodo arcaico, nell'ambito del diritto di proprietà, l'espressione "adversus hostem aeterna auctoritas esto" (XII Tabulae, VI, 4) significa che allo straniero (hostis) può sempre (aeterna) essere richiesto di esibire la garanzia di un cittadino romano (auctoritas) a conferma del suo diritto alla usucapione.

Nell'antico diritto di famiglia, poi, auctoritas è il potere di direzione che, in quella società gentilizia, è attribuito a chi è superiore per nascita e prestigio: si tratta del rapporto fra due libertà indipendenti e formalmente uguali, tali tuttavia che l'auctus (colui verso il quale è rivolta l'azione dell'auctor) può compiere atti e negozi perfetti solo quando vengano integrati e confermati dall'auctor (e si parla quindi di auctoritas patris, auctoritas tutoris). In generale, l'auctoritas, in quanto capacità personale di tutela, di incremento e di piena attuazione del diritto, è nozione che si riconnette a quella di patronus e, esprimendo "più di un consiglio e meno di un comando" (cfr. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, Tübingen 1889, p. 1028), si differenzia dalla potestas, più diretta ed esplicita. Anche politicamente auctoritas ha grande rilievo in Roma antica, come è attestato dalle espressioni auctoritas patrum e auctoritas augurum: poiché il valore centrale, fondativo e legittimante, nella primitiva Repubblica romana è la tradizione come continuità sacrale con gli antenati, hanno autorità coloro che, più vecchi e ricchi d'esperienza, inseriscono la "volontà del popolo nella visione dei valori collettivi e nella tradizione consacrata" (v. Eschenburg, 1965; tr. it., p. 13), cioè gli anziani (patres) e gli auguri.

L'arcaica auctoritas patrum si istituzionalizza, nei secoli maturi della Repubblica, nell'auctoritas senatus, della quale Cicerone sottolinea la differenza rispetto al potere politico delle magistrature ("cum potestas in populo, auctoritas in senatu sit"; De legibus, 3, 28), all'interno di un complesso 'bilanciamento' fra senato, assemblee popolari e consoli. Tipico dell'auctoritas senatoria, rispetto alla potestas degli altri centri del potere, è di conferire a questi efficacia giuridica completa: è obbligatorio che i consoli consultino il senato, la cui approvazione - pur non indispensabile -perfeziona la loro volontà politica. La fine dell'equilibrio fra ceto senatorio e ceto equestre, su cui si fondava l'assetto politico della Repubblica, ha inizio circa dall'età dei Gracchi e produce, in più di un secolo di guerre civili, il crollo dell'auctoritas repubblicana: l'ideologia e l'azione politica del principato di Ottaviano consistono nel restaurarla, come fondamento di un potere ormai 'mondiale' e di un sistema sociale basato non più solo sul possesso fondiario ma anche sul commercio. È da segnalare che auctoritas - oltre a significare superiorità e garanzia che convergono in un'unità concreta (personale o istituzionale) - ha anche un valore metaforico, come è attestato da Cicerone (Topica, 78) quando afferma che si può ricorrere, per trarne "auctoritas ad faciendam fidem", a scrittori ('autori') ai quali universalmente siano riconosciute dottrina, competenza, virtù.

Il principato e il dominato

Nella seduta senatoria del 16 gennaio del 27 a. C. Ottaviano, che pochi giorni prima ha manifestato la speranza di poter essere detto "optimi status auctor", è salutato "Augustus", con il titolo medesimo dell'augurium augustum con cui fu fondata Roma; anche in questo caso l'auctoritas mostra le proprie caratteristiche peculiari: la sua funzione creativa è infatti eccezionale quanto alla persona che la esercita ed è al tempo stesso il concreto superamento dello 'stato d'eccezione', della guerra civile, presentandosi come normalizzante e pacificante. Secondo l'ideologia della pax augusta, il princeps interpreta un'aspirazione alla pace che viene da tutto il popolo, a cui risponde con una politica sociale e culturale volta a ricostituire il centro tradizionale della vita morale, politica e religiosa di Roma (di qui l'assunzione del pontificato nel 12 a. C., come sanzione sacerdotale dell'auctoritas). La qualifica di augustus, in quanto indica un surplus proprio della persona di Ottaviano, non concerne legalmente e direttamente la potestas propria delle magistrature da lui rivestite (essenziali sono l'imperium proconsulare e la tribunicia potestas); si legge in Res gestae, 34, 3: "auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt"; e in tutto il testo l'auctoritas è collegata - oltre che con il tema 'augusto' della fondazione di Roma - tanto con quello della paternità ("senatus et equester ordo populusque romanus universus appellavit me patrem patriae": ibid., 35, 1) quanto con quello del consenso ("consensus universorum" e "coniuratio totius Italiae").

A partire dal II secolo si ha una progressiva e inarrestabile perdita di prestigio e di influenza da parte delle élites tradizionali e si fa sempre più acuta la necessità di una stabilizzazione 'monarchica' dell'Impero: l'auctoritas principis inizia quindi a essere sinonimo dell'ufficio imperiale in quanto tale, e dell'illimitato potere politico dell'imperatore. L'emergenza politica, militare e sociale dei secoli III, IV e V porta di fatto l'auctoritas a fondersi con la potestas, a significare semplicemente il potere più alto: dalla summa auctoritas dell'imperatore discende tutta la catena gerarchica delle auctoritates politiche e militari subordinate. Si irrigidisce anche l'aura religiosa dell'autorità, che già aveva generato la venerazione di Augusto come divus: l'imperatore si fa dominus e la sua autorità di 'padre' diviene quella del 'padrone' adorato come uomo/Dio. Ma, pure impoverita dei propri valori tradizionali, la nozione di autorità conserva un prestigio tale che, modificandone non poco alcuni parametri, il cristianesimo se ne impadronisce per farne uno dei pilastri della propria dottrina e della propria organizzazione.

Il cristianesimo e l'autorità

I primi secoli

Il pensiero cristiano, fin dalle origini, ricorre alla nozione di autorità per giustificare l'assetto gerarchico e istituzionale della Chiesa: Tertulliano (160-220) e Cipriano (220-258) fondano espressamente su di essa la preminenza dei vescovi rispetto ai semplici sacerdoti e ai laici. L'auctoritas dei vescovi deriva, per questi autori, dalla "successione apostolica", cioè dal loro rapporto diretto e ininterrotto con gli apostoli e con la missione, a questi comandata da Cristo, di custodire il depositum fidei. La lotta per l'autorità, all'interno della Chiesa, ha in palio il monopolio dell'interpretazione vincolante della Parola, rivendicato dal vescovo di Roma come diretto successore di Pietro (curialismo) e di volta in volta osteggiato da altre sedi vescovili (Antiochia, Alessandria, Costantinopoli) o da chi teorizza l'uguale dignità di tutti i vescovi (episcopalismo e conciliarismo). La supremazia del vescovo di Roma su tutta la Chiesa (auctoritas apostolica), chiaramente pretesa da papa Leone I (440-461), è sanzionata - dopo che Costantino ha posto fine alle persecuzioni anticristiane (313), e che Teodosio ha riconosciuto il cristianesimo come religione ufficiale dell'Impero (380) - dagli ultimi imperatori d'Occidente, nel V secolo. Intorno all'auctoritas si accende anche lo scontro fra Chiesa e Impero; a differenza dalla religione romana, eminentemente politica, il cristianesimo è accentuatamente trascendente, e pone quindi il problema di come la trascendenza possa coesistere con l'ordine politico.

I termini della questione sono già presenti nell'affermazione di san Paolo (Romani, 13, 1) "non est potestas nisi a Deo", che legittima l'assetto politico esistente, facendolo discendere da Dio e dalla sua volontà orientata al bene, ma al tempo stesso subordina radicalmente ogni potere a Dio, che viene a essere, in quest'ottica, la vera e unica autorità. Da questa fonte di non univoca interpretazione discendono tanto le tesi di Eusebio di Cesarea (260-339) - sostenitore del cesaropapismo, che, teorizzando a favore di Costantino la monarchia di diritto divino (alla monarchia celeste deve corrispondere la monarchia terrena dell'imperatore), conferisce di fatto auctoritas al potere politico - quanto, da parte ecclesiastica, l'attribuzione dell'auctoritas alla Chiesa come unica mediatrice fra Dio e il mondo.

Questa posizione è già evidente in sant'Agostino (354-430), nelle cui opere il termine 'autorità' ricorre assai di frequente; egli la identifica con Dio e con la sua onnipotenza orientata al bene delle creature, e la attribuisce, in questo mondo, alla Chiesa, che ha come fondamento la persona stessa di Gesù. È centrale in Agostino la contrapposizione fra auctoritas e ratio: l'autorità è per lui un vero e proprio trascendimento della ragione, la cui debolezza ha bisogno di quell'aiuto (auxilium, etimologicamente affine ad auctoritas) che è costituito appunto da Dio, dalla sua parola e dalla Chiesa che ne è la portatrice e l'interprete.

Che la Chiesa sia la detentrice dell'auctoritas assume, nel De civitate Dei (415-426), una chiara valenza politica; l'Impero, secondo Agostino, è l'espressione di una potestas che pertiene all'ordine mondano e che, pur necessaria in quest'ambito, ne ha tutti i limiti e le imperfezioni: il potere può giustificarsi solo se si lascia orientare al bene, sottomettendosi all'autorità della Chiesa.L'impostazione dei rapporti fra Chiesa e Impero in termini rispettivamente di 'autorità' e 'potere' trova una tappa di fondamentale importanza nella lettera (494) di papa Gelasio I (492-496) all'imperatore bizantino Anastasio I (491-518), in cui si afferma "duo sunt quibus principaliter mundus hic regitur: auctoritas sacra pontificum et regalis potestas" (cfr. J.-P. Migne, vol. LIX, col. 42). La posizione gelasiana, nota come 'teoria delle due spade', legittima - in prima istanza - le pretese del potere politico di essere indipendente dalla Chiesa (e in questo senso viene ripresa dalle dottrine medievali antiteocratiche); ma poiché alla Chiesa è tuttavia attribuito il monopolio dell'autorità, la formula gelasiana, lasciando aperti i problemi della effettiva delimitazione dei due ambiti, è in pratica fonte di polemica piuttosto che di soluzione dei conflitti fra Impero e Chiesa.

L'autorità nel Medioevo

La dottrina gelasiana - ideologia ufficiale del Sacro Romano Impero - è la soluzione teorica del problema del rapporto fra trascendenza e politica: l'autorità di Dio fonda, attraverso la persona di Cristo, l'autorità della Chiesa, la cui opera mediatrice consente di pensare l'ambito temporale e quello spirituale non in reciproca estraneità, come avverrà nell'età moderna, ma in continuità e cooperazione. All'interno di quest'ordine mondano/divino, voluto da Dio e a Dio orientato, all'autorità della Chiesa si affiancano peraltro le molte auctoritates (la Scrittura, il patrimonio intellettuale antico e, dall'XI secolo, il diritto romano, oltre che l'idea imperiale) alle quali la cultura europea fa riferimento per legittimarsi. La nozione medievale di autorità non è astratta e funzionale, ma realistica e naturale, coinvolgendo contemporaneamente tanto l'istituzione quanto la persona: chi si trova in una posizione d'autorità è in rapporto con una dimensione superiore, di cui anche nella sua persona è simbolo.

Politicamente l'autorità nel Medioevo non è concentrata in un'unica istanza ma si articola in una molteplicità di soggetti, in teoria gerarchicamente organizzati ma in pratica spesso conflittuali tra di loro (pontefici, imperatori, re, signori feudali, città, ceti, ecc.) e titolari del diritto di resistenza. Il monopolio dell'autorità, più decisamente rivendicato dalla Chiesa proprio nei momenti di scontro con il potere laico (prima - XI e XII secolo - con l'Impero per la lotta delle investiture, poi - alla fine del XIII secolo - col re di Francia per la disputa sulle proprietà della Chiesa, infine - XVI e XVII secolo - con lo Stato moderno), genera le teorie della potestas directa e della potestas indirecta.

La prima (la linea 'teocratica' che va da Gregorio VII, 1073-1085, a Innocenzo III, 1198-1216, a Bonifacio VIII, 1294-1303) afferma, in una lunga serie di documenti culminanti nell'enciclica Unam Sanctam (1302), che al pontefice, come unico titolare dell'auctoritas, compete anche la potestas directa in temporalibus. Che in quest'ottica l'autorità sia immediatamente anche 'potere' è attestato dallo scambio fra i due termini presente tanto nell'enciclica Unam Sanctam quanto in Egidio Colonna (1243-1316), che in De ecclesiastica potestate (1301) attribuisce al papa la plenitudo potestatis: il potere civile è radicalmente deficitario e illegittimo se chi lo possiede non è sottomesso a Dio, e non è sottomesso a Dio chi non è sottomesso alla Chiesa. La dottrina della potestas indirecta, invece, sintomo di una posizione difensiva della Chiesa, è formulata, tra gli altri, da Roberto Bellarmino (1542-1621) contro il quale polemizzerà Thomas Hobbes. In quest'ottica la Chiesa, con la sua autorità, ha il ruolo di legittimare spiritualmente il potere politico e, pur non intervenendo direttamente nel suo ambito autonomo, può tuttavia, nel caso di grave empietà dei governanti, appellarsi alle coscienze dei sudditi per suscitare azioni di resistenza.

Altre tesi, anziché sottolineare il monopolio ecclesiastico dell'autorità, interpretano la dottrina gelasiana come una teoria della reciproca indipendenza dei due poteri; gli imperatori assunsero per sé, a partire da Carlo Magno, il titolo di Augustus, e affermarono la propria auctoritas motivandola sulla base dell'uguaglianza di rango fra sacerdotium e imperium: esemplare a questo riguardo l'opera di Giovanni da Parigi, De potestate regia et papali (1302-1303), in cui la tesi gelasiana viene utilizzata contro le pretese della Chiesa tanto alla potestas directa quanto alla potestas indirecta. È affine anche la posizione di Dante, che (Monarchia, 1313, III, 15; Purgatorio, XVI, 107-111) attribuisce l'autorità sia all'Impero sia alla Chiesa, in quanto entrambi creati direttamente da Dio.La tesi dantesca è uno sviluppo, più attento alle ragioni del potere imperiale, della teoria di san Tommaso (1225-1274), che, accanto al potere laico - necessario al 'ben vivere' -, prevede la Chiesa come istituzione titolare dell'autorità, cioè della facoltà di interpretare il bene comune. Questo si manifesta nel diritto naturale, e il potere politico lo realizza razionalmente in sintonia con l'autorità della Chiesa, garantita dalla rivelazione. A differenza che in Agostino, in Tommaso autorità e ragione stanno dunque non in opposizione, ma in continuità gerarchica e orientata a Dio.

Le forme moderne dell'autorità

La crisi dell'autorità medievale e la Riforma

Profonde modificazioni del concetto di autorità sono presenti già in Marsilio da Padova (1275-1343), Guglielmo di Occam (1290-1349) e Bartolo da Sassoferrato (1313-1357); pur con diverse modalità, questi autori danno inizio all'autolegittimazione dell'ordine politico, che tende a sottrarsi alla fondazione trascendente dell'autorità interpretata dalla Chiesa. Questa ricerca di autonomia della sfera mondana è, in prospettiva, la secolarizzazione moderna, e si presenta come lotta contro l'autorità in senso sacrale, e come ricerca di nuove legittimazioni e di nuove forme d'autorità, adatte a rispondere alle mutate sfide politiche e sociali.

L'unità culturale dell'Europa cristiana conosce una serie di crisi storico-politiche che vanno dal tracollo economico e demografico, prodotto dalle grandi epidemie di peste del XIV secolo, al gravissimo indebolirsi tanto dell'autorità imperiale, dal XIII secolo, quanto dell'autorità della Chiesa, a causa della 'cattività avignonese' durata buona parte del XVI secolo.

Sono inoltre di capitale importanza, per la fine dell'ideologia medievale dell'autorità, sia gli scismi d'Occidente (1378-1417 e 1431-1449) - a cui si intreccia la dottrina conciliare (dichiarata eretica da Pio II, nel 1460, in quanto gravemente lesiva dell'autorità del papa) - sia la riscoperta della cultura classica a opera dell'umanesimo; ma le più profonde e radicali modificazioni del concetto d'autorità sono dovute alla Riforma protestante, all'individualismo che ne scaturisce, e alle nuove realtà politiche che si avviano all'egemonia in Europa, gli Stati.

Scopo dell'azione intellettuale e politica di Martin Lutero (1483-1546) è combattere la dottrina cattolica dell'autorità, come mediazione fra trascendenza e mondo, istituzionalizzata nella Chiesa. Lutero (Della libertà del cristiano, 1520) separa radicalmente i due 'regni' dell'interiorità spirituale e dell'esteriorità mondana: nel primo il cristiano è assolutamente libero e realizza un rapporto immediato con Dio attraverso la privata interpretazione della Scrittura - l'autorità spirituale -, nel secondo è invece soggetto all'autorità secolare e alla sua spada, istituita direttamente da Dio "per impedire le opere malvage" (Sull'autorità secolare, 1523).

Lutero, insomma, ammette la genesi divina del potere, ma ne rifiuta la fondazione ecclesiastica; in lui l'autorità perde il proprio nome, troppo legato alla tradizione latina, e diviene uberkeytt (tedesco moderno Obrigkeit), termine che rivela, nel riferirsi a über/oben ('sopra'), la coincidenza dell'autorità con la 'superiorità' invincibile del potere. Secondo Lutero alla funzione punitiva e strumentale del potere non si sottrae neppure il giusto, la cui obbedienza all'autorità esteriore è espressione di libertà interiore e non di mera paura, come accade invece per i malvagi. Nel dissociare bene e potere, il luteranesimo è un momento importante tanto del moderno passaggio a una nozione di autorità non più personale e simbolica ma inerente all'ufficio (cioè coincidente con la stessa istituzione 'superiore'), quanto della formazione della moderna soggettività che, affrancata dalle gerarchie dell'ordine medievale, obbedisce all'autorità avendola interiorizzata e riconosciuta.

Anche per Giovanni Calvino (1509-1564) col peccato originale l'umanità ha perso, insieme al libero arbitrio, la capacità di operare il bene; la sola mediazione possibile fra uomo e Dio è quindi la fede, che, come gratuito dono divino, permette al giusto di salvarsi al di là di ogni merito soggettivo; in questo quadro di rigida e assoluta predestinazione l'unica autorità è evidentemente quella di Dio e della sua parola. Al governo civile, perciò, spetta solo di conservare la legge divina, di "garantire e mantenere il servizio di Dio nella sua forma esteriore", e di educare gli uomini alla pace e alla tranquillità (Istituzione della religione cristiana, 1536, poi più volte modificata fino al 1560, IV, 20, 2).

Come Lutero, anche Calvino teorizza i due regni, quello spirituale, in cui il giusto è libero, e quello terreno, in cui deve essere sottomesso all'autorità civile; il diritto di resistenza - negato poiché il potere, come funzione distinta dalla persona che lo esercita, è istituito da Dio (ibid., IV, 20, 24-31) - è ammesso solo nel caso che il governante pretenda di invadere la sfera spirituale (ibid., IV, 20, 32). La decisione sui reciproci confini delle due sfere, cioè sulla resistenza, non è demandata a una gerarchia ecclesiastica ma alla coscienza del singolo giusto, che è allora, in linea di principio, libero da ogni vincolo esteriore e legittimato a perseguire nel mondo la propria vocazione di salvezza, la cui riprova sarà il successo. Anche per Calvino, quindi, l'autorità deve necessariamente essere obbedita ma al tempo stesso deve essere liberamente riconosciuta.Nelle sette protestanti (ad esempio gli anabattisti) prevale la teoria dell'insurrezione contro l'autorità politica iniqua: i giusti, in quanto tali, rifiutano di essere sottoposti a legalità esterne. Si rinnova così il medievale 'diritto di resistenza', ma su basi soggettivistiche e non più cetuali-corporative, e si generano quei conflitti di religione che sconvolgono l'Europa nei secoli XVI e XVII; a questi dà risposta la nuova forma dell'autorità politica, cioè lo Stato.

L'autorità dello Stato

Se la Riforma rivoluziona l'aspetto religioso dell'autorità, Thomas Hobbes (1588-1679) distrugge quello collegato alla tradizione; infatti, nel XVI capitolo del Leviatano (1651), egli afferma che l'autorità è "il diritto di fare un'azione" e che "fatto per autorità" significa "fatto per commissione o con il permesso di chi ha il diritto". Nella situazione di eccezionale emergenza in cui si trova ad argomentare, Hobbes intende l'autorità non come fondamento e fine dell'ordine, ma come autonoma facoltà di agire propria di tutti gli uomini, naturalmente liberi e uguali, con i rischi d'instabilità che derivano dall'assenza di gerarchie tradizionali o naturali (nello stato di natura l'uomo è 'lupo' per ogni altro uomo). Ma se l'autorità, per Hobbes, si manifesta dapprima come disordine individualistico, emerge immediatamente l'esigenza degli effetti positivi dell'autorità: è quindi per lui compito della politica costruire un'autorità artificiale, che assolva alla funzione semplificata non di realizzare il sommo bene ma di evitare il sommo male, i rischi di morte violenta per il singolo.

Secondo Hobbes l'autorità viene costruita dalla ragione dei singoli, che si uniscono grazie a essa in un patto, dando vita allo Stato, cioè al sovrano rappresentativo di cui tutti i singoli sono "autori" e nel quale alienano integralmente la propria capacità d'azione politica in una tensione all'unità lontanissima dall'assetto internamente pluralistico dell'autorità medievale. In seguito al patto, solo lo Stato ha autorità: questa coincide con il potere legittimo dello Stato, la cui legittimazione sta nel realizzare razionalmente, at traverso un efficace rapporto di comando e obbedienza, lo 'scopo' concreto della protezione dei singoli. Nel XXVI capitolo del Leviatano Hobbes afferma "auctoritas, non veritas, facit legem"; questa contrapposizione fra autorità e verità è il segno che l'autorità non è, per lui, fondamento trascendente ma sommo potere, sovranità, capacità d'azione dello Stato, imperio universale della legge, che realizza la volontà - non arbitraria ma razionale - del sovrano.

La posizione di Hobbes è antitetica rispetto alle difese tradizionali del potere regio, come il diritto divino dei re, teorizzato da Jacques-Benigne Bossuet (1627-1704), o la naturale paternità del re rispetto ai sudditi, difesa da Giacomo I Stuart (1566-1625) e da Robert Filmer (1588-1653). Privata tendenzialmente di ogni determinazione personale e trasformata in capacità ordinativa, artificiale e al tempo stesso efficace, l'autorità è anche sottratta, da Hobbes, alla Chiesa (Hobbes è il grande avversario della potestas indirecta teorizzata da Bellarmino) e a ogni altra organizzazione intermedia (oltre che i singoli - tranne che non vogliano ritornare allo stato di natura - anche i ceti e le fazioni perdono il diritto di resistenza), ed è attribuita direttamente ed esclusivamente allo Stato.

Da un punto di vista storico-politico il pensiero hobbesiano risponde così alle esigenze di sicurezza rese urgenti dall'ingresso sulla scena sociale del settarismo protestante e dell''individualismo possessivo', e delinea il quadro istituzionale - privo di ipoteche metafisiche, di finalità trascendenti e di istanze arbitrarie - che rende reciprocamente compatibili i nuovi dinamici interessi borghesi, senza subordinarli ad altre esigenze che non siano quelle della 'forma' politica e dell'ordine pubblico. Accentuando la differenziazione fra spirituale/religioso da una parte, e politico/statuale dall'altra (cioè fra privato e pubblico), Hobbes prosegue la secolarizzazione iniziata da Lutero e da Calvino; ma per questi ogni potere è autorità, a cui si contrappone la coscienza del singolo, mentre per Hobbes l'autorità del Leviatano, pur assoluta, cioè sciolta da ogni altra istanza, è un prodotto della ragione, e solo per questo è irresistibile.

La coincidenza di autorità e potere legittimo razionale è evidente anche nel pensiero di John Locke (1632-1704), le cui principali opere politiche (Primo trattato sul governo e Secondo trattato sul governo, 1690) costituiscono una tappa decisiva per la moderna concezione dell'autorità, che in lui è orientata alla salvaguardia non solo della vita, ma anche della libertà, individuale e sociale. Il primo obiettivo polemico di Locke è la tesi filomonarchica di Robert Filmer (che attribuisce al sovrano la stessa autorità di un padre sui figli), alla quale Locke reagisce dimostrando la differenza che intercorre fra rapporti naturali di subordinazione (quali si danno tra i figli minori e il padre) e rapporti politici: questi si fondano sulla naturale libertà di tutti gli uomini (e quindi sulla loro uguaglianza) e perciò possono formarsi solo artificialmente, come risultato di una specifica volontà individuale e razionale di unione 'orizzontale' (sociale) e, in seguito, di sottomissione 'verticale' (politica). L'autorità politica, dunque, richiede l'autorizzazione che, dal basso, legittimi il potere: c'è "società politica" soltanto quando vi siano governanti "autorizzati dalla comunità a far eseguire" le leggi che essa stessa si è data (Secondo trattato). L'autorità politica, frutto di un patto e rappresentativa, è, a differenza di quanto accadeva in Hobbes, limitata da istanze (individui e società) alle quali deve rispondere; la polemica lockiana contro Hobbes nasce dal fatto che nel sovrano assoluto Locke vede, anziché la sovranità della legge, il permanere di un potere arbitrario e incontrollabile.

L'esigenza, presente in Hobbes e in Locke, che l'autorità sia razionale, artificiale e impersonale, esprime la pretesa, tipicamente moderna, che si debba prestare ubbidienza solo all'universale, cioè alla legge e non a una istanza particolare: e questa è l'essenza stessa dello Stato moderno; tale esigenza si accompagna - nell'ideologia liberale implicita in Hobbes e palese in Locke - all'ineliminabile presenza dell'individuo, di cui si presuppongono l'autonomia e l'uguaglianza 'naturale' rispetto a ogni altro soggetto. Che l'autorità dello Stato sia limitata dall'obbligo di rispettare il libero convincimento dei cittadini, che cioè debba essere riconosciuta interiormente dal singolo, è tesi che governa d'ora in poi il pensiero politico europeo; nella modernità l'autorità è quindi concepita negativamente, come dogmatismo che ostacola la ragione e la libertà, ed è valutata positivamente solo in quanto in essa (come nello Stato razionale, e solo in questo) il soggetto si possa riconoscere e identificare. La moderna autorità della ragione - che implica tanto l'individuazione personale quanto l'identificazione statuale - è l'istanza suprema del giusnaturalismo secentesco e settecentesco: l'autorità trascendente - pur conservata nell'edificio dottrinale e istituzionale della Chiesa tridentina - non ha piena cittadinanza nell'epoca moderna, in cui, in linea di principio, non si è subordinati a istanze imposte dall'esterno e si rifiuta la tradizione come peso morto.Le ideologie politiche dell'uguaglianza, di origine protestante e razionalistica, possono coesistere con il permanere di forti disuguaglianze effettive, rese per certi aspetti più dure dal nascente sistema capitalistico: la subordinazione sociale all'autorità della ricchezza, infatti, non è più giustificata con argomenti trascendenti o attraverso il riferimento a una superiorità 'naturale' (del clero e dell'aristocrazia), ma è attribuita, dall'ideologia borghese-calvinistica del successo, a differenze di 'virtù', di meriti e di impegno individuali - e quindi, teoricamente, superabili con sforzi soggettivi (v. Bendix, 1956).

Anche il nascente pensiero scientifico oppone, all'autorità delle Scritture e della tradizione, il libero convincimento che si forma dall'incontro fra esperienza e vaglio critico della ragione (con argomentazioni largamente presenti anche in Hobbes); secondo Galileo (1564-1642), che la rivelazione e la tradizione valgano come autorità nelle scienze naturali è pretesa ingiustificata: "le umane autorità" sono impotenti "sopra gli effetti della natura, sorda e inesorabile ai nostri vani desideri" (Il Saggiatore, 1623, §44). Nasce di qui il moderno ideale dell'autorità della scienza, anch'essa, come - in teoria - l'autorità politica, priva di esoterismi e affidata alla sfera pubblica e razionale.

Autorità e ragione

Lo Stato dell'assolutismo illuminato combatte, durante il XVIII secolo, le pretese politiche delle autorità tradizionali, le Chiese o i ceti; ma la sua paternalistica azione di 'polizia' - da cui i sudditi sono trattati come 'minorenni' e non come 'cittadini', secondo quanto lamenta Kant - entra in conflitto con le esigenze dei teorici più conseguenti del razionalismo e dell'illuminismo, che coniano la locuzione "principio d'autorità" in riferimento alla teoria del diritto divino e paterno dei re, mai completamente abbandonata dal potere regio quale fondamento della propria legittimazione; dalle polemiche contro questo principio deriva, già nei secoli XVII e XVIII, una svalutazione del concetto di autorità, che passa a designare, ad esempio in Christian Thomasius (1655-1728), "ciò a cui si crede senza prova" (v. Rabe, 1972, p. 22); anche in Immanuel Kant (1724-1804) il termine esprime il 'sommo potere' nella sua forza impositiva, a cui si contrappongono - con la loro critica peraltro solo teorica - i filosofi (Per la pace perpetua, 1795) e l'autorità razionale della morale assoluta. E anche in un autore che, come Giambattista Vico (1668-1744), si muove lungo percorsi speculativi in parte differenti da quelli del razionalismo moderno, l'autorità viene pur sempre a coincidere con la libertà (Diritto universale, 1720-1722 ).

Nell'età dei lumi l'autorità è intesa come dogmatismo, paternalismo, assenza di articolazione individuale, come appare dalla voce Autorità (nel discorso e negli scritti) dell'Enciclopedia (1751). Vi afferma Denis Diderot (1713-1784) che l'autorità "deve servirci d'appoggio e non di guida, altrimenti usurpa i diritti della ragione". Lo stesso autore, nell'articolo Autorità politica, concede che l'unica forma d'autorità naturale sia la patria potestà sui minori, limitata esclusivamente all'ambito familiare e non trasferibile in quanto tale all'interno della dimensione politica, dato che "nessun uomo ha ricevuto dalla natura il diritto di comandare gli altri". In senso positivo, Diderot usa 'autorità' come sinonimo di 'potere legittimo' o di 'governo', e individua le condizioni della legittimità nel patto ("il principe riceve dai sudditi l'autorità che ha su di loro") e nel "consenso" dei popoli al potere, che ne garantiscono un "uso legittimo, utile alla società e vantaggioso per lo Stato"; la sottomissione all'autorità deve in ogni caso avvenire "con ragione e misura", e non essere l'obbedienza a un "capriccio".La Rivoluzione francese accelera la tendenza dell'autorità a divenire concetto polemico.

I pensatori controrivoluzionari come Joseph de Maistre (1753-1821), Louis de Bonald (1754-1840), Hugues-Félicité-Robert Lamennais (1782-1854), oppure, per l'area tedesca, Friedrich Julius Stahl (1800-1861) e Franz von Baader (1765-1841), la interpretano come un tentativo di rovesciare l'autorità tradizionale e consacrata dei re e della Chiesa, per sostituirvi nuovi principî di legittimazione del potere (la ragione, la libertà, l'uguaglianza); questi, incapaci di fondare e stabilizzare l'ordine sociale e politico, sono il necessario sviluppo della logica dello Stato assoluto, che ha condotto a non "credere più al cristianesimo sull'autorità di Dio, ma a credere a Dio sull'autorità del re" (cfr. H.-F.-R. Lamennais, Saggio sull'indifferenza, 1817-1824). Le dinamiche della modernità, in quest'ottica, appaiono destinate a produrre "servitù o ribellione"; solo in un ritorno all'autorità del papa Maistre vede la possibilità di istituire un centro stabilizzante della politica europea (Il Papa, 1819). Divenute, con molte mediazioni, l'ideologia della restaurazione, queste dottrine (e quella - pur diversa, in quanto 'storicisticamente' argomentata - dell'inglese Edmund Burke, 1729-1797) contribuiscono al discredito che la nozione di autorità incontra, nel XIX secolo, presso il pensiero politico liberale, democratico, socialista.

Nonostante i molti compromessi ideologici e istituzionali che nel XIX secolo le borghesie stipulano col principio d'autorità e col potere regio, il termine 'autorità', in quanto tale, conosce nell'Ottocento una profonda crisi, ed è utilizzato, insieme al suo derivato polemico 'autoritarismo', per definire quelle configurazioni di potere che - come ad esempio il regime di Napoleone III, ma anche gli Imperi centrali e quello russo - si sottraggono ai correnti criteri di legittimazione.

L'uso 'positivo' del termine - come sinonimo di 'potere legittimo' - vale per i casi in cui il potere si adegua a quei criteri: questi sono principalmente la rappresentanza, lo Stato di diritto (nel quale vigono l'autorità della legge, universale e formale, e le 'autorità' burocratiche che devono garantire l'imparziale amministrazione della cosa pubblica) e la fiducia positivistica, liberale e democratica, nel progresso tecnico, scientifico e morale; in generale l'autorità deve promuovere e rispettare come proprio limite l'autonomia e l'uguaglianza dei soggetti (è questa la posizione di John Stuart Mill, 1806-1873, in Saggio sulla libertà, 1859).

Nel complesso, le ideologie ottocentesche, eredi del razionalismo moderno, prevedono la scomparsa dell'autorità come istanza esterna all'uomo e il trionfo dell'autorità della ragione; questa tendenza culmina nella tesi idealistica della perfetta coincidenza fra libertà e autorità realizzata nel corso della storia, e nel marxismo che affida alla rivoluzione, come autorità storica e razionale, il compito di eliminare disuguaglianza ed estraneazione.

Ma queste autorità 'positive' manifestano profonde contraddizioni, poiché non eliminano ma rafforzano momenti di comando e di imposizione non conciliabili con l'autonomia e l'uguaglianza dei soggetti: già Alexis de Tocqueville (1805-1859) constata che l'assetto razionalistico delle forme di governo postrivoluzionarie riproduce e potenzia il centralismo autoritario dell'antico regime; e accanto a questa dinamica che ha origine dallo Stato se ne presenta, per lui, un'altra, solo apparentemente opposta, cioè il sorgere - dalla società - di elementi di illibertà (la "tirannide della maggioranza").

Lorenz von Stein (1815-1890) rileva il sussistere, dentro lo Stato moderno, di una contraddizione permanente fra uguaglianza politica e disuguaglianza sociale, a cui si può far fronte solo rafforzando il momento centralistico dell'amministrazione statale. Michail Bakunin (1814-1876) polemizza contro l'autoritarismo pedagogico e contro il centralismo metafisico che scorge nel marxismo, mentre Friedrich Engels (1820-1895) nel 1873 (Dell'autorità) riconosce la necessità dell'autorità per organizzare le moderne tecnostrutture (e cita, tra l'altro, le ferrovie), oltre che per attuare il processo rivoluzionario, affermando che "una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che ci sia".

La crisi dell'autorità della ragione culmina, filosoficamente, nell'opera di Friedrich Nietzsche (1844-1900); in ambito storico, d'altra parte, il nascente Stato sociale inizia a servirsi, a partire dagli anni ottanta dell'Ottocento, di 'provvedimenti' rivolti, a fini di controllo e di stabilizzazione sociale, verso obiettivi particolari e produce una crescita degli apparati burocratici che fa di queste autorità altrettante istanze autonome, le cui logiche 'orientate allo scopo' si sottraggono alla critica razionale. Anche la tecnica, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, tende a imporre come autorità oggettiva i propri saperi specialistici; la crisi del moderno rapporto fra libertà e autorità è poi evidente nel trasformarsi dei cittadini in masse e nel ripresentarsi - in queste - di un 'bisogno' d'autorità che, contrastando con la presunta autonomia del soggetto, ripropone, invece dell'uguaglianza, la dipendenza dei molti dai pochi.

Queste difficoltà fanno quindi dell'autorità un problema irrisolto che, a partire dalla 'svolta del secolo', è affrontato dalle scienze sociali con una strategia orientata a relativizzarlo e a riconoscere che l'autorità è ambigua per sua natura.

L'autorità nelle scienze sociali

Le scienze sociali analizzano l'autorità come una funzione che riveste un ruolo significativo a livello politico, sociale, familiare, psicologico, e la trattano scientificamente come una regolarità, riconoscendo che la sua ambiguità strutturale nasce dal fatto che i confini fra razionale e irrazionale non sono rigidi - come è invece richiesto dall'ideologia moderna - ma sfumati. A questa tendenziale avalutatività si accompagna spesso - ma non sempre, e l'eccezione è costituita dai primi grandi sociologi, e in particolare da Max Weber, oltre che da alcuni esponenti del pensiero politico - l'attenuarsi della consapevolezza dello spessore storico/concettuale dei significati di 'autorità'. Questa revisione interpretativa non impedisce però che le scienze sociali distinguano fra autorità e potere, né che riproducano la dicotomia valutativa fra autorità positiva e autorità negativa, spesso definita, quest'ultima, attraverso la categoria di autoritarismo.

Sociologia, psicologia, antropologia

A. Émile Durkheim (1858-1917) si distacca dalla posizione liberale classica e dai suoi esiti utilitaristici, quali si danno in Jeremy Bentham (1748-1832), e tratta l'autorità come una funzione della società: "l'autorità è la caratteristica di un uomo elevato al di sopra degli altri uomini; [ma] soltanto la società è al di sopra degli individui: da essa, dunque, emana ogni autorità", che è perciò una "specie di trascendenza della società nei confronti dei suoi membri" (L'educazione morale, 1923). In quanto modo d'esistenza e di 'funzionamento' della società, per Durkheim l'autorità è una regolarità necessariamente presente in ogni ordine politico; la pressione della società sull'individuo viene da questi interiorizzata, divenendo la voce della coscienza morale. In polemica con il moderno rapporto individuo/Stato e con i suoi esiti meccanicistici, Durkheim afferma che l'autorità non limita ma anzi rende possibile la libertà; il singolo è libero, per lui, solo se è immerso in una pluralità di gruppi sociali (famiglia, Chiese, corporazioni) la cui autorità, indipendente da quella dello Stato, dà senso all'azione individuale e la sottrae ai rischi di disordine e di anomia.

Secondo Georg Simmel (1858-1918) l'autorità è la funzione che integra e cementa le associazioni umane, che ne stabilisce i fini e che costituisce il legame vitale fra l'individuo e il gruppo (Soziologie, 1908, pp. 136 ss.). Anche Simmel rifiuta la rigida opposizione fra libertà e autorità: quest'ultima esiste solo se c'è spontaneo riconoscimento da parte del subordinato. Caratterizzata da una sovraordinazione (che acquista senso attraverso l'interazione) piuttosto che da attributi sostantivi, l'autorità è specificata, da Simmel, in tre tipi formali: la "centralizzazione individuale dell'autorità", che consiste nella sottomissione a una singola persona (nella forma del livellamento oppure della piramide), la "subordinazione alla pluralità", che si realizza quando il centro di gravità sociale risiede in gruppi impersonali (le maggioranze, nelle repubbliche), e la "subordinazione a un principio", che è tipica della modernità con i suoi astratti processi organizzativi, che culminano nell'autorità della norma o della legge.

Il principale contributo di Vilfredo Pareto (1848-1923) sul tema dell'autorità consiste nel considerarla un residuo, cioè un elemento costante, non logico, delle azioni umane. L'autorità come sentimento di gerarchia che "sussiste pur sempre nelle società che in apparenza proclamano l'uguaglianza degli individui" (Trattato di sociologia generale, 1916, § 1153) è un residuo della classe IV, di quelli "connessi alla socialità", che rafforzano la vita sociale, di per sé eterogenea, attraverso la disciplina dei singoli e dei gruppi. Questo residuo si manifesta nelle derivazioni della classe II (ibid., §§ 1434-1462), cioè in quelle argomentazioni che fanno riferimento, per spiegare atti sociali, all'autorità "di un uomo o di più uomini", "della tradizione, di usi e costumi", e infine "di un essere divino o di una personificazione". La 'scienza' di Pareto vuole svelare il carattere ideologico delle grandi 'costruzioni' metafisiche e razionalistiche con cui si è giustificata l'autorità, e al tempo stesso afferma la necessità che quella che di volta in volta è l'élite di governo mantenga con la forza la stabilità sociale, attraverso 'travestimenti', quali ad esempio l'astrazione dello Stato di diritto (ibid., §§ 2181-2185).

L'opera di Max Weber (1864-1920) è una tappa fondamentale nello sforzo di costruire tipologie scientifiche dell'autorità: in Economia e società (1922), accanto a passi in cui la distinzione fra potere e autorità non è formalizzata - "Il potere (autorità) può fondarsi sui più diversi motivi di disposizione a obbedire, dalla cieca abitudine fino a considerazioni puramente razionali rispetto allo scopo" -, autorità (Autorität) si precisa, per Weber, come sinonimo di potere legittimo (legitime Herrschaft) e questo si distingue dal potere in quanto tale - che esercita il "comando in virtù di una costellazione d'interessi" - poiché presuppone un "dovere d'obbedienza"; nell'età moderna il monopolio del potere legittimo appartiene allo Stato. Ma oltre che potere legittimo, in Weber 'autorità' significa anche il fondamento, "i principî ultimi sui quali può fondarsi la validità di un potere". Il criterio di legittimazione razionale del potere, l'autorità razionale, culmina, per Weber, nella moderna burocrazia come ordinamento legalmente statuito, impersonale, fondato sulla competenza e sull'ufficio; la burocrazia, in quanto potere che si autolegittima grazie alla propria intrinseca razionalità organizzativa e procedurale, è essa stessa 'autorità' ed è sottoposta alla contraddizione di rovesciarsi in cieco specialismo. Il criterio di legittimazione tradizionale (l'autorità tradizionale) consiste nell'"autorità dell'eterno passato", nella tradizione che consacra l'"autorità personale" di chi esercita il potere; infine, la legittimazione carismatica del potere (l'autorità carismatica) è "l'autorità dello straordinario dono di grazia personale", "l'autorità di una personalità concreta" che innova in modo rivoluzionario la tradizione e lo status quo.Questa tipologia delle forme d'autorità è un decisivo punto di riferimento sia per le scienze sociali sia per le scienze politiche; il suo valore euristico e scientifico sta - oltre che nella capacità di spiegare tanto le forme istituzionali dell'autorità (d'ufficio) quanto quelle personali (carismatiche) - nel modo disincantato con cui viene assunta l'ambiguità dell'autorità: in Parlamento e governo (1918) e in Il lavoro intellettuale come professione (1919) Weber afferma che gli esiti 'illiberali' e autoritari del moderno trend razionalistico, cioè il rovesciarsi dell'autorità razionale/burocratica in "gabbia d'acciaio", sono contrastabili dall'azione innovativa di un'autorità carismatica.

Un esempio di utilizzazione sociologica del concetto di autorità come una regolarità funzionale indispensabile per spiegare - in questo caso con metodo comparativo - i processi storici, economici, organizzativi relativi all'industrializzazione, è dato da Reinhard Bendix (v., 1956). Per lui l'autorità è l'insieme delle ideologie direzionali che hanno consentito sia il disciplinamento sociale degli operai sia l'autolegittimazione dei ceti dirigenti. All'interno del quadro della moderna uguaglianza formale, la subordinazione reale degli operai agli imprenditori è stata motivata, in Occidente, non attraverso ideologie naturali/tradizionali, ma con riferimento al merito e al conseguente successo individuale: chi al momento è socialmente subalterno può e deve quindi sforzarsi di elevarsi, emulando le virtù dei capi. La fine delle forme più personali e individualistiche di comando aziendale (l'avvento dei managers che soppiantano i padroni) produce poi, per Bendix, una nuova ideologia direzionale, fondata sulla psicologia delle relazioni umane (ciascuno opera al livello che gli è più congeniale) e su di una nuova etica della prestazione. Pur partendo da presupposti molto lontani (l'autocrazia zarista) e pur essendo passata attraverso un'esperienza socialista (in cui la disciplina sociale e di fabbrica era motivata dallo scopo di realizzare una 'nuova umanità'), anche la Russia converge, secondo l'analisi di Bendix, su modelli occidentali di legittimazione e organizzazione del lavoro, con l'importante assenza, tuttavia, rispetto all'Occidente, del momento della individuazione personale.Da un punto di vista più propriamente storico-politico, Bendix ricostruisce poi, attraverso la categoria di autorità, la vicenda medievale e moderna delle forme di legittimazione del potere, con particolare attenzione alle continuità che, nonostante la secolarizzazione, vi si manifestano (sacralizzazione diretta o indiretta del potere: v. Bendix, 1978).

Oggi la sociologia distingue fra autorità legale e autorità funzionale, che sostituisce la prima quando gli apparati pubblici istituzionalizzati non siano in grado di svolgere il loro compito di 'dar senso' all'azione sociale; la nozione d'autorità è un indicatore dei processi di differenziazione e di coesione sociale, ed è utilizzata per analizzare le motivazioni dell'obbedienza. Che l'autorità sia una dipendenza che si istituisce all'interno di un sistema di scambio simbolico e di interazione è la tesi di François Bourricaud (v., 1961, p. 377), che ne ammette la moderna identificazione col potere legittimo.

Julien Freund, sociologo della politica, definisce l'autorità come un prestigio personale che ha anche una funzione politica, e le attribuisce la caratteristica di provenire dall'alto e di essere ubbidita grazie a un riconoscimento che viene dal basso (v. Freund, 1965, p. 378); sul tema del riconoscimento insiste anche Heinrich Popitz, che interpreta l'autorità come una relazione di disuguaglianza in cui il subalterno accetta la scala di valori del superiore e si sforza di apparire come questi desidera (v. Popitz, 1986, pp. 7-36).

Il momento di più marcata accentuazione del carattere funzionale dell'autorità è in Niklas Luhmann: per lui, in una società "senza vertice" e "senza centro" come la nostra - che è caratterizzata dalla circolarità autoreferenziale delle organizzazioni complesse e che quindi esclude l'idea di bene comune, funzionando con procedure di 'autopoiesi' - l'autorità è un metodo per abbreviare i tempi di risposta del sistema alle sollecitazioni ambientali (v. Luhmann, 1981; tr. it., pp. 77-80).

B. L'autorità è interpretata, dalla psicanalisi, in termini di proiezione ambivalente verso la figura paterna. Nel 1913 Sigmund Freud (1856-1939) in Totem e tabù ha avanzato, per spiegare la genesi della società, l'ipotesi del "parricidio originario", secondo la quale il padre - l'autorità esterna - è stato ucciso dall'orda primitiva; ma nella società così formatasi il padre morto è divenuto oggetto di un'obbedienza retrospettiva e interiorizzata che obbliga tutti a rispettare i suoi divieti (i tabù, e primariamente il tabù dell'incesto). Questa strutturazione della società (filogenesi) trova corrispondenza nella strutturazione psichica del soggetto (ontogenesi): in Il disagio della civiltà (1930) Freud afferma che l'autorità esterna viene introiettata come Super-Io dal soggetto, che così si identifica col padre; tale autorità interna riproduce, resi coattivi dal senso di colpa, i divieti paterni contro le pulsioni primarie (cioè contro il "complesso d'Edipo", che deve quindi essere sublimato).

I processi d'individuazione personale e d'identificazione con l'istituzione, propri dell'autorità, vengono così spiegati tanto nella loro ambivalenza e ambiguità (verso l'autorità - come verso il padre - il soggetto prova contemporaneamente sentimenti di paura e di identificazione) quanto nella loro necessità: l'introiezione e la razionalizzazione di quegli stessi divieti che la società ha dovuto far propri sono l'unico modo, per il soggetto, di vivere una normale e integrata esistenza sociale. Il modello freudiano spiega anche il fenomeno delle masse gregarie, alla ricerca di un'autorità più forte e meno razionale di quella che trovano nello Stato e nella legge; già oggetto d'analisi da parte di Gustave Le Bon (Psicologia delle folle, 1895) che l'aveva definito "sete di sottomissione", il gregarismo di massa è interpretato da Freud come atto erotico che esprime un vincolo libidico: "il temuto posto del padre primigenio", che come Super-Io orienta le normali dinamiche d'individuazione e d'identificazione, è preso in questi casi da un oggetto esterno, il "capo della massa", con esiti patologici (Psicologia delle masse e analisi dell'Io, 1921).

Nell'ambito psicologico e psicanalitico si incontrano diversi modi di interpretare l'ambiguità dell'autorità e di distinguere fra autorità positiva e negativa; quest'ultima viene definita attraverso le categorie di carattere autoritario e di autoritarismo (concetti che denotano rispettivamente la mancanza di libera e consapevole individuazione, e l'assenza di responsabilità del sistema politico). L'incontro della psicanalisi con il marxismo (e con la sociologia), realizzato dagli autori della cosiddetta Scuola di Francoforte, avviene sul problema dell'identificazione freudiana dell'autorità con la repressione dell'Edipo: Max Horkheimer (1895-1973), Herbert Marcuse (1898-1979) ed Erich Fromm (1900-1980) sostengono in Studi sull'autorità e la famiglia (1936) che l'attuale contrapposizione di autorità e libertà è dovuta all'interiorizzazione - mediata dalla famiglia - dei rapporti alienati di classe, che danno origine al carattere autoritario/masochistico, mentre in altre condizioni socioeconomiche "l'autorità come dipendenza approvata può significare rapporti progressivi, corrispondenti agli interessi dei partecipanti (v. Horkheimer e altri, 1936; tr. it., p. 294). Horkheimer ha poi sviluppato in Lo Stato autoritario (1942) la tesi centrale per la revisione marxista della psicanalisi freudiana: la repressione non è l'unica forma possibile d'autorità ma solo quella funzionale al sistema capitalistico di 'dominio' (così si preferisce tradurre Herrschaft nell'ambito teorico francofortese), culminante nel fascismo.

Analogamente argomentano Wilhelm Reich (1897-1957) e, successivamente, Marcuse (v. Reich, 1933; cfr. Marcuse, Eros e civiltà, 1955), le cui teorie sono all'origine dei movimenti antiautoritari degli anni sessanta, che affermano la possibilità di una 'sublimazione libera' e non 'repressiva' degli istinti. Fromm, per il quale l'autorità non è una 'qualità' di una persona, ma un rapporto interpersonale, distingue fra autorità razionale (una superiorità che tende a dissolversi perché l'inferiore possa crescere fino a raggiungere uno status di uguaglianza) e autorità inibitoria (che perpetua la disuguaglianza e il dominio); quest'ultima si manifesta oggi in forma anonima, presentandosi come una sottile suggestione che pervade tutta la vita sociale e favorisce l'insorgere del carattere autoritario (Fuga dalla libertà, 1941).

L'importanza dell'autorità in senso positivo, ai fini dell'individuazione del soggetto, è teorizzata da Melanie Klein (1882-1960), secondo la quale la libera personalità si forma grazie a un'autorità genitoriale 'buona' che, già nell'età infantile, pur imponendo al bambino le necessarie frustrazioni, gli permetta di liberarsi dell'ansia persecutoria (v. Klein, 1932).

Alexandre Mitscherlich, analizzando le cause che hanno portato all'attuale crisi della patria potestas (spersonalizzazione dell'autorità, nuovi conformismi di dipendenza dal gruppo, socializzazione orizzontale che conduce a una "società fraterna"), riconosce la positività di questa evoluzione, pur individuandovi il rischio che si formino "automi sociali", acriticamente asserviti alle pulsioni; a ciò può porre rimedio un'educazione alla sublimazione consapevole, che consenta lo sviluppo di un Io critico e autonomo (v. Mitscherlich, 1963).

Dal punto di vista empirico, in La personalità autoritaria (1950) Theodor Adorno (1903-1969) e altri hanno trovato una stretta correlazione, peraltro oggetto di numerose critiche, fra atteggiamenti autoritari a livello psicologico/familiare (misurati attraverso varie 'scale') e scelte specificamente politiche ('fasciste'). Che l'obbedienza all'autorità sia un potente 'bisogno' psichico è invece il risultato dell'esperimento di Stanley Milgram, nel quale un'autorità scientifica induce persone a procurare sofferenze ad altre per presunti motivi di ricerca: ciò fornisce la conferma empirica del fatto che le norme morali e il senso critico possono essere fatti tacere con una facilità che ha indotto l'autore a ipotizzare un "istinto all'obbedienza" (v. Milgram, 1974).

Alla funzionalità evolutiva (adattatività) della gerarchia e dell'autorità accenna su basi empiriche anche Konrad Lorenz; muovendo dall'osservazione dei comportamenti animali, egli interpreta analogicamente l'autorità interumana come il risultato di strategie di ridirezione dell'aggressività innata, che consentono tanto l'individuazione del soggetto quanto la costruzione di un ordine capace di rispondere alle sfide ambientali e culturali; l'odierna ostilità verso l'autorità rischia, per Lorenz, di far perdere all'uomo la capacità di controllare le proprie dinamiche pulsionali (v. Lorenz, 1963).C. Nella prospettiva antropologica l'autorità è solitamente interpretata come il sistema dei significati complessivi che le diverse culture elaborano per giustificare il potere: l'autorità viene quindi dopo il potere, ma è necessaria perché la fondamentale ineguaglianza delle società umane si centralizzi e si formalizzi, e perché la leadership carismatica temporanea divenga gerarchia permanente; nelle società primitive il potere è a tale scopo collegato simbolicamente alla sfera del sacro, in modo che l'ordine sociale appaia un riflesso dell'ordine soprannaturale (v. Geertz, 1973; tr. it., p. 369). L'autorità è quindi un potere legittimato che sanziona un predominio di fatto, e può esplicare i propri effetti di protezione e di ridistribuzione dei beni sociali senza fare ricorso diretto alla forza (v. Lewellen, 1983; tr. it., p. 85; v. Gil, 1983, pp. 84-85).

Il pensiero politico

A. Buona parte della riflessione politica del XX secolo è caratterizzata dal venir meno della fiducia nell'autorità dello Stato: Harold J. Laski (1893-1950) nega (v. Laski, 1919) che lo Stato abbia ancora legittimamente autorità sulla società, e propone un ritorno a un assetto politico pluralistico, riprendendo il pensiero corporativo di Otto von Gierke (1841-1921). In ambito filosofico Hannah Arendt (1906-1975) definisce l'autorità "la pietra angolare che ha reso il mondo durevole e permanente" e afferma che l'età moderna, da Hobbes in poi, non ha più posto l'autorità a base dell'esperienza politica, perdendo così "la continuità, la solidità e le fondamenta del mondo" (v. Arendt, 1961; tr. it., p. 105); assume invece un tipica posizione liberale Bertrand Russell, che colloca l'autorità fra i due estremi della coesione sociale e della libera individualità, e che sottolinea i rischi impliciti nelle coazioni della tecnica (v. Russell, 1949). Fra i teorici del diritto, Hans Kelsen (1881-1973) individua l'autorità non più nello Stato, ma nell'ordinamento giuridico fondato sulla Grundnorm: all'interno di questo l'autorità si manifesta nella auctoritatis interpositio grazie alla quale la norma viene applicata al caso concreto (v. Kelsen, 1945).

Carl Schmitt (1888-1985) distingue 'autorità' da 'potere' sulla scorta della differenziazione classico-romana fra auctoritas e potestas (v. Schmitt, 1928; tr. it., pp. 109-110) e riconosce che il moderno Stato di diritto è finito quando - tra Otto e Novecento - la sua autorità universale e razionale, ma anche storicamente concreta e politica in senso forte, è andata distrutta nella logica positivistica secondo cui la legge vale solo perché 'posta' dallo Stato (Legalità e legittimità, 1932). L'autorità deve oggi, secondo Schmitt, combinare la decisione - con la quale un popolo afferma la propria esistenza politica -, la rappresentazione - attraverso cui si perviene a una forma politica - e l'amministrazione, in una logica tendenzialmente post-statuale (v. Schmitt, 1928). Anche Michel Foucault (1926-1986) nega che l'autorità - in quanto capacità di dare senso alle relazioni di potere - appartenga allo Stato sovrano e ai suoi apparati coercitivi, che sono sovrastrutturali e secondari rispetto alla produzione di 'verità', efficacemente attuata da "reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche" (Microfisica del potere, 1977).

B. Teoria e scienza politica - che con l'autorità si confrontano a lungo, anche se in modo non sempre sistematico - sono orientate tanto a fornirne definizioni abbastanza comprensive da salvaguardare la complessità del concetto, quanto a specificarlo progressivamente: si differenzia quindi l'autorità come prestigio personale o competenza dall'autorità in senso propriamente istituzionale e politico, distinta, questa, dal semplice potere e identificata col potere legittimo. È opinione diffusa in ambito politologico che l'autorità sia una specificazione del potere: ma questa specificazione ripresenta il problema del criterio o della qualità della legittimazione, cioè delle caratteristiche e dei requisiti irrinunciabili e in un certo senso 'fondativi'. Scopo di queste classificazioni e distinzioni è definire il concetto attraverso progressive delimitazioni di ambiti e di forme d'esercizio, per applicarlo a situazioni empiriche, e di distinguere, comparativamente, i diversi modi in cui si esplica l'autorità, differenziata rispetto all'autoritarismo.Il rapporto fra autorità e potere è presente fin dalla trattazione di Robert Michels (1876-1936), per il quale l'autorità, in quanto "capacità, innata o acquisita, di esercitare ascendente sopra un gruppo" (v. Michels, 1933, p. 69), è quella manifestazione del potere che richiede una relativa distanza fra governanti e governati e che utilizza una simbologia per obbligare all'obbedienza. Che l'autorità sia una specificazione del genere 'potere' è anche implicito tanto nella definizione relazionale di Robert Bierstedt (v., 1964, pp. 79-80) che la considera un "potere formale e istituzionalizzato", quanto in quella funzionale di Carl J. Friedrich (v., 1958, p. 36), secondo il quale l'autorità è "la qualità di una comunicazione capace di essere razionalmente elaborata" e quindi in grado di ottenere razionalmente obbedienza.

Anche Harold D. Lasswell e Abraham Kaplan definiscono l'autorità come "il potere formale" e come "il possesso atteso e legittimo del potere" (v. Lasswell e Kaplan, 1950; tr. it., p. 150), e classificano i regimi politici sulla base del rapporto tra potere effettivo e potere formale (autorità): "è formalistica ogni struttura di potere in cui esista un divorzio fra autorità e potere effettivo" (ibid., p. 154); ad esempio in Inghilterra, dove l'autorità risiede nel re, che non governa, l'autorità, centro ideale della lealtà politica, svolge funzioni molto importanti per i veri detentori del potere.

Fra le definizioni avalutative di autorità come potere formale ha avuto molta importanza quella di David Easton; questi si basa sull'assunto che la politica sia spiegabile come un "sistema di comportamento", e quindi per lui una "politica è autoritativa quando coloro a cui si rivolge pensano di dovervi obbedire", e i motivi per cui si obbedisce debbono essere tenuti distinti dal dato di fatto che si obbedisce (v. Easton, 1953, p. 132); per Easton, dove ci sia allocazione di importanti risorse e di valori generali attraverso un comando, c'è autorità. Affine è anche la tesi di Talcott Parsons (cit. in Friedrich, 1958), che definisce l'autorità "il complesso dei diritti istituzionalizzati di esercitare il controllo sui membri della società in ordine al raggiungimento di obiettivi comuni".Le critiche a queste concezioni sottolineano che 'autorità' è termine politologicamente utilizzabile solo quando siano stati definiti gli standards a cui ci si debba attenere per valutarla: da un suo uso solo formale, infatti, derivano difficoltà e indeterminatezze. Per autorità politica non si dovrà intendere allora ogni obbligazione politica, ma soprattutto il fondamento legittimante di questa (cfr. W. E. Connolly, Modern authority and ambiguity, in Pennock e Chapman, 1987, pp. 9-27): inerisce insomma all'autorità il giustificarsi attraverso procedure discorsive o assunzioni di valori. La distinzione tipologica tra autorità de facto e autorità de jure (v. Martin, 1976, p. 54; v. Bayles, 1976, p. 105) vuole appunto rispondere all'esigenza di definire il termine in modo non semplicemente operativo, ma di introdurre nella definizione la nozione di consenso, cioè di rapportare l'autorità alla libera individualità. A partire da questa esigenza la politologia incontra la filosofia politica contemporanea nelle sue versioni neocontrattualistiche (cfr. J. Raz, Governement by consent, in Pennock e Chapman, 1987, pp. 76-95).

La posizione di Rex Martin è illuminante al riguardo: per lui l'autorità politica è definita dal compito di stabilire le leggi, dall'aspettativa del consenso generale e dal possesso del monopolio della violenza legittima (v. Martin, 1976, p. 57; altri autori, però, come il già citato Bayles, sottolineano che l'autorità è caratterizzata dall'assenza dell'uso o della minaccia della forza). Per Martin non è sufficiente parlare dell'autorità come fondamento dell'obbligazione politica: per evitare di trattare l'autorità come un dato esterno e incontrollabile, che è l'esito logico dei tentativi di spiegare qualunque forma di obbedienza (ibid., p. 65), Martin propone di utilizzare l'autorità politica come un concetto normativo, cioè come autorità de jure, essa stessa produttrice di diritti (ibid., p. 71).

L'introduzione delle nozioni di 'consenso' e di 'libera individuazione' nella definizione dell'autorità costituisce un parametro decisivo per distinguere l'autorità dall'autoritarismo e per comparare diversi sistemi politici; alla teoria politica quelle nozioni servono anche a respingere i rischi impliciti nelle proposte tecnocratiche. Infatti, dal punto di vista della scienza dell'organizzazione l'autorità è un modo per incrementare, attraverso la gerarchia, la cooperazione all'interno di un sistema in vista di scopi precisi (v. Bendix, 1956; v. Peabody, 1964; v. Page, 1985): anche queste definizioni puramente funzionali dell'autorità sono criticate perché non forniscono argomenti contro l'autorità "epistemocratica", cioè contro la pretesa che l'autorità epistemica (la competenza particolare e specialistica) abbia valore - come tecnocrazia - al livello politico, per definizione generale (cfr. T. Ball, Authority and conceptual change, in Pennock e Chapman, 1987, pp. 52-53).La differenza fra autorità e competenza è stata ampiamente trattata da Richard T. De George che distingue fra "autorità deontica" (o "performativa") e "autorità epistemica" (o "dichiarativo-emotiva"): alla prima appartengono l'autorità paterna e l'autorità "operativa", cioè quella di cui i subordinati investono il leader o l'istituzione allo scopo di perseguire un fine comune; la seconda, al contrario, non ha rilievo politico perché si basa sul prestigio e sull'influenza che derivano dalla conoscenza (v. De George, 1976, pp. 78-79).

Anche Michael D. Bayles, dopo aver proposto una dicotomia fra "autorità sulle credenze" e "autorità sui comportamenti", distingue fra il caso in cui le direttive del superiore sono eseguite perché chi comanda è un'autorità in un campo specifico, e il caso in cui l'obbedienza è dovuta per il fatto che colui che impartisce l'ordine è in posizione d'autorità (v. Bayles, 1976, pp. 100 e 103).Il problema dell'autorità per competenza è centrale nell'attuale teoria politica, e incrocia le riflessioni sulla tecnica e sullo Stato sociale che si sono sviluppate nel XX secolo; l'autorità politica, infatti, nel Novecento ha cessato di legittimarsi solo attraverso l'astrazione universale della legge e, con l'aiuto della tecnica e dei saperi specialistici, si è sempre più presa cura concretamente e puntualmente di ogni aspetto dell'esistenza dei cittadini, che, da parte loro, hanno aumentato le richieste di tutela e di sicurezza, conferendo di fatto sempre maggiore autorità alle superiori competenze degli apparati amministrativi. Contro questo rinnovato 'Stato di polizia' si danno periodicamente reazioni di tipo radicale e genericamente antiautoritario, o di tipo neoliberale: il quadro teorico-politico attuale appare così caratterizzato, nei paesi industriali avanzati, dalla sfida fra l'autorità delle tecnostrutture e l'autonomia, variamente motivata e designata, del soggetto.

Conclusioni

L'analisi delle diverse accezioni e implicazioni del termine 'autorità' - condotta attraverso la storia del concetto e la ricognizione della sua utilizzazione nelle scienze sociali - ha permesso di cogliere sia le categorie più generali che ineriscono all'autorità come costanti, sia le variabili che col loro mutare ne determinano i significati.In linea di massima, l'autorità implica quali costanti sia una relazione di diseguaglianza sia un criterio comune, un centro condiviso e riconosciuto che fornisca, in modo duraturo, un senso al rapporto di potere: gli effetti unificanti dell'autorità - come centro che è anche fondamento e fine (τέλοϚ) dell'azione - non devono impedire l'articolazione interna del sistema (altrimenti si parlerà di 'dominio'). È insomma proprio dell'autorità che questa agisca in modo 'affermativo', come incremento, tutela, garanzia e orientamento nei riguardi di chi vi è sottoposto: queste caratteristiche la distinguono dal potere, del quale l'autorità viene considerata sia il fondamento (se la si interpreta come il nucleo simbolico da cui discendono gli ordini sociali e politici) sia una specificazione (se è vista come sua ideologica legittimazione ex post).

Un'altra costante emersa è la difficoltà di trattare dell'autorità a prescindere da una sua valutazione, positiva o negativa; perfino le scienze sociali faticano, in questo caso, a scindere i giudizi di fatto dai giudizi di valore: all'autorità, infatti, inerisce strutturalmente un momento di 'senso', di 'valutazione', che si ripresenta come problema e difficoltà irrisolta.L'assunzione di variabili disciplinari ha permesso di evidenziare che l'autorità si manifesta in ambiti differenti, in quello politico, in quello sociale, in quello scientifico, familiare, e nella formazione psicologica della personalità; soprattutto, si è sottolineato che l'autorità, tradizionalmente considerata un'entità oggettiva, è trattata, dalle scienze sociali, come una regolarità e una funzione interne a ogni sistema sociopolitico (non necessariamente statuale).

La più importante variabile storica è risultata la cesura con cui si apre la modernità, che sposta il significato di 'autorità' da quello di fondazione tradizionale, sacra o comunque trascendente del potere, a quello di potere legittimo o di criterio razionale e immanente di legittimazione, vincolato al rispetto di istanze quali la libertà del singolo e la ragione; si è posto in evidenza che il nuovo nesso persona/istituzione è l'inizio tanto di una riqualificazione del termine 'autorità' in senso razionale quanto di una sua svalutazione che per molti versi non è ancora cessata. Fra gli esiti della svolta moderna ci sono infatti teorizzazioni che contestano ogni forma d'autorità come 'autoritarismo': queste posizioni radicali vengono spiegate, da una parte del pensiero filosofico contemporaneo (è il caso di Eric Voegelin, 1901-1985, e di settori consistenti del pensiero cattolico), come le conseguenze del nichilismo in cui cade la razionalità quando si distacca dalle sue fonti trascendenti. Si è visto che le scienze umane e sociali cercano di uscire dalle contrapposizioni più rigide elaborando classificazioni che tengano conto sia dell'ambiguità dell'autorità (cioè della possibilità che questa sia tanto fattore d'incremento della libertà personale e politica quanto estranea istanza di dominio) sia della sua persistenza: l'autorità, qui, non è contrapposta in linea di principio alla libertà, pur potendolo essere di fatto.

L'attuale ricerca sull'autorità, orientata ai problemi della tecnica e dello Stato sociale, si chiede se oggi si sia di fronte ad autorità sempre più esenti da critica, o se invece siano ancora possibili (e in tal caso come siano promuovibili) rapporti d'autorità capaci di rispettare la libera personalità soggettiva; permangono d'altra parte posizioni, pur ambigue, di contestazione antiautoritaria (oggi non solo attraverso strumenti analitici marxiani, ma anche in forma di pacifismo non violento e di ecologismo radicale). Come espressione tanto della coazione esercitata da simboli e istanze del passato e del presente, quanto dell'esigenza che il potere sia più che imposizione esterna, l'autorità si conferma quindi un problema ricorrente, una categoria la cui indagine si presenta, anche per il futuro, particolarmente fruttuosa e necessaria.

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