Autore

Enciclopedia del Cinema (2003)

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Giorgio De Vincenti

Concetto generale, non specifico del cinema, che nel campo dell'estetica individua il soggetto dell'operazione artistica. Su questo concetto si focalizzano alcune delle principali questioni della storia e dell'estetica cinematografiche, lungo un itinerario che da un lato risente del più generale dibattito sul concetto di arte ereditato dall'estetica romantica e dall'altro presenta caratteri precipui, connessi con le proprietà specifiche del linguaggio cinematografico. Non a caso, fin dalle prime teorizzazioni è presente questo rapporto problematico tra un concetto di a. come 'creatore' e 'genio', e le due componenti, tecnologica e di lavoro collettivo, che caratterizzano il cinema e danno un carattere peculiare al processo di realizzazione dei film.

L'artista come 'divino artefice'

Il concetto di 'artista' che il Novecento ha ereditato dalla tradizione romantica è il prodotto dello sviluppo e della divulgazione del concetto di 'arte' elaborato tra il Seicento e il Settecento in stretta dipendenza dalla rivoluzione scientifica del 17° sec. (dibattito nel quale occupò un posto di rilievo la Querelle des Anciens et des Modernes che si sviluppò in Francia a cavallo tra i due secoli). L'esigenza di individuare i criteri di distinzione tra scienza e arte contribuì a mettere in luce il diverso funzionamento della 'regola' nell'un caso e nell'altro. Ne derivò un concetto di artista come personalità eccezionale, il cui operato non è riconducibile a regole ed è invece guidato da uno speciale talento naturale, la creatività del 'genio' (nozione, questa di genio, che si trovava già in Platone e che era poi tornata nella cultura rinascimentale, in particolare in Leonardo e Michelangelo). Quelle che vennero chiamate le arti 'belle' (cioè l'arte nel senso moderno della parola) trovavano la loro regola in questo talento naturale, che non può essere insegnato né appreso, e proprio in questo si distinguevano dalle arti 'meccaniche' (la techne e l'ars degli antichi), che si basavano sull'applicazione di regole già date ed erano pertanto vicine alla scienza. Il concetto moderno di arte veniva così ad affermare l'autonomia della creazione artistica sia rispetto alla produzione scientifica sia rispetto a quella pratico-artigianale (e, per risalire più indietro nel tempo, rispetto alla funzione magica e religiosa attribuita all'arte nelle società più arcaiche). Autonomia che fin dal Quattrocento aveva trovato la propria sanzione nella pratica dell'autoritratto e dell'autografia da parte degli artisti, i quali si presentavano come 'autori' e venivano progressivamente circondati da un alone di eccezionalità. Questo aspetto, amplificato nell'età romantica, si trasmise al Decadentismo e all'arte del Novecento, che in parte lo ereditò e in parte lo mise, anche radicalmente, in di-scussione, in virtù di diversi fattori, come per es. la frattura del soggetto idealistico operata dalla psicoanalisi, lo sviluppo delle scienze e delle tecniche, l'interconnessione tra arte e industria, e, più di quanto comunemente si creda, la fotografia e il cinema.

Il cinematografo, una tecnica

Nel cinema delle origini era assente l'idea che il nuovo dispositivo potesse dar luogo a un vero e proprio procedimento artistico. Prodotto del progresso tecnologico, il cinématographe dei fratelli Lumière era considerato dagli stessi inventori come un perfezionamento della fotografia, che poteva riguardare gli scienziati e un pubblico borghese interessato al reportage giornalistico o desideroso di immortalare aspetti della propria vita familiare e sociale. Gli operatori di Louis Lumière realizzavano prodotti che non si definivano come opere d'arte e non pretendevano di possedere quell'unità progettuale, stilistica e semantica che normalmente viene collegata con l'idea di autore. Molto presto, tuttavia, questa condizione del cinema come semplice tecnica di riproduzione fu resa più complessa da operazioni in cui l'artificio si faceva più spinto e dichiarato (per es., con i trucchi di Georges Méliès), in particolare da quando della nuova forma di intrattenimento cominciò a interessarsi l'industria dello spettacolo di massa, in Europa e negli Stati Uniti. E tuttavia anche allora, e per diverso tempo, al cinema non venne riconosciuto quello statuto di linguaggio e al film quel grado di unità progettuale cui sono connessi i concetti di arte e di autore. Inoltre, la condizione di operatore e quella di regista spesso coincidevano, e non di rado la figura più rappresentativa nell'équipe che dava vita a un film era quella dell'attore. Un insieme di motivi, insomma, faceva sì che personalità come quelle di Edwin S. Porter e di David W. Griffith negli Stati Uniti, di Ferdinand Zecca in Francia, di Giovanni Pastrone in Italia (per non dire di casi per molto tempo misconosciuti, come quello di Alice Guy-Blaché, a lungo considerata dagli storici del cinema una semplice segretaria) potessero solo a fatica, in origine, individuarsi come a. nel senso di artisti e di creatori tramandato dalle arti tradizionali. Il che non era privo di conseguenze teoriche di rilievo, perché questa difficoltà, al di là dell'equivoco sull'artisticità del cinema che i formalisti russi si sarebbero incaricati di chiarire (v. formalismo), rifletteva in realtà un particolare modo di essere dell'autorialità nel nuovo linguaggio, dalle implicazioni fortemente produttive per una più generale teoria dell'autore. Questo peculiare modo di essere venne messo in gioco, anche se in forme spesso indirette, da tutti coloro, singoli e gruppi, che teorizzarono il cinema come arte.

L'autore cinematografico per i Futuristi

Negli anni Dieci e nella prima metà dei Venti furono tre i principali contesti teorici di riferimento per il nuovo linguaggio: il Futurismo italiano, la prima avanguardia francese o Impressionismo cinematografico e il Formalismo russo. Nei tre casi, anche se con diversa consapevolezza teorica, si ritrova un concetto d'a. che indica molto bene come il cinema sia, tra tutte, l'arte più naturalmente disposta a rimettere in questione il concetto di genio ereditato dal Romanticismo.

Nel manifesto La cinematografia futurista (in "L'Italia futurista", 1916, 9) affiora una precisa coscienza del fatto che la capacità del cinema di lavorare i più diversi materiali costituisce una novità dirompente, che rimescola i rapporti tra le arti, sconvolgendone le retoriche, gli stili e il senso tradizionali, e che per questa via spinge a ridefinire la nozione stessa di artista. Il manifesto parla ancora esplicitamente della "potenza del genio creatore italiano", ma la formula mette in gioco un 'genio' collettivo, insieme naturale e culturale, visto nella prospettiva di un suo "centuplicarsi" dovuto alle immense possibilità artistiche offerte dal nuovo mezzo di espressione, che il manifesto considera come il "più adatto alla plurisensibilità di un artista futurista". Ai "drammi, drammoni e drammetti passatistissimi" vengono contrapposti "i films interessanti di viaggi, caccie, guerre ecc.". E si afferma esplicitamente che "l'universo" costituirà il "vocabolario" della nuova arte, in un'operazione pedagogica e ideologica di sensibilizzazione delle masse. Il concetto di genio veniva così sottratto almeno in parte alla soggettività idealistica e romantica, e aperto ai mille stimoli materiali che il cinema, grazie alla sua capacità di riprodurre materiali di realtà, era in grado di sollecitare. E se la mobilitazione futurista delle risorse del cinema implicava una decisa manipolazione formale di quei materiali, essi svolgevano tuttavia un ruolo decisivo offrendosi come fattori della trasformazione, al tempo stesso, del gusto estetico e della vita sociale e in definitiva come fattori di costruzione culturale di un nuovo 'genio', individuale e collettivo.

L'autore nelle teorie francesi

Una coscienza più acuta e dichiarata del ruolo che la capacità riproduttiva del dispositivo cinematografico ha svolto nel ridefinire il concetto di artista e di a. si ritrova nella prima avanguardia francese e nel contesto critico e teorico in cui essa prese vita e si sviluppò. Tra la fine del primo decennio del Novecento e l'inizio del secondo, Ricciotto Canudo (che sarebbe divenuto sostenitore della prima avanguardia nella sua "Gazette des sept arts", fondata nel 1923) tracciò per primo i lineamenti di una teoria del cinema, basandoli, oltre che sull'apporto dell'artista-regista (l'écraniste) e sulla centralità di un pubblico moderno desideroso di nuove forme di teatralità adeguate alla velocità e alla multiformità della vita contemporanea, anche su alcune precipue caratteristiche del cinema, coincidenti con la qualità riproduttiva del dispositivo cinematografico. Canudo auspicava sì l'intervento di un'"idea direttrice", di una "linea ideale" di senso, di un "principio estetico centrale", istanza che coincideva con quella di un a. nel senso tradizionale del termine, che affrancasse dalle servitù del commercio quella che egli chiamò dapprima la "sesta", poi la "settima arte", l'"arte plastica in movimento". Ma considerava possibile la nascita di questo a. nuovo solo in virtù della "conciliazione fra la Scienza e l'Arte" operata da un dispositivo esatto e scientifico nella costruzione dei propri ritmi, spaziali e temporali, e al tempo stesso basato sulla riproduzione ottico-meccanico-chimica del reale. Di un artista-autore, capace di dare unità estetica al cinema, è dunque possibile parlare solo su questa base, che coinvolge i livelli scientifico, meccanico, riproduttivo del dispositivo cinematografico.

Un discorso analogo, in direzione 'visualista', fu fatto da André Antoine, le cui considerazioni sul cinema, da critico e da regista, sono illuminanti anche per la sua fondamentale esperienza di fondatore e direttore del Théâtre-Libre. Il teatrante 'naturalista' per eccellenza prospettava per il cinema un percorso totalmente diverso da quello di uno sviluppo ulteriore del naturalismo che lo aveva reso famoso a teatro. Nei brani critici che scrisse su "Film", settimanale di Henri Diamand-Berger cui collaborava anche Louis Delluc, Antoine sostiene che il cinema non è "imitazione della natura" (come il teatro naturalista) ma piuttosto "creazione viva nell'aria". A questa concezione Antoine cercò di attenersi nella realizzazione dei suoi nove film, girati tra il 1914 e il 1922. "Creazione viva nell'aria" significa infatti esplicita e radicale attenzione ai materiali della realtà. La forza del cinema, dice in sostanza Antoine, dipende dal suo essere dispositivo di riproduzione; il cinema lavora materiali che sono esterni all'a. e che nel film conservano una forte traccia della loro materialità, e proprio in questo consistono le sue maggiori possibilità, in certo modo la sua specificità.

Discorso, questo, che implica una condizione del tutto particolare dell'a. cinematografico, che si trova così a costruire il proprio testo artistico manipolando materiali in qualche modo resistenti e indipendenti da lui. Di qui le straordinarie virate 'visualiste' dei suoi film, dove l'atmosfera degli esterni dialoga in contrappunto con l'impianto tradizionale della narrazione, e lo spettatore è a sua volta attivato in un gioco visivo che lo vede protagonista immerso nella visione, presente nel mezzo delle cose. Di questa qualità 'visualista' del lavoro cinematografico di Antoine ben si accorse Delluc, il teorico della fotogenia, che ne sottolineò tuttavia anche l'incompiutezza. Fotogenia significava per lui anzitutto capacità di cogliere "la vita per caso", una proprietà insita nel dispositivo fotografico (che del cinema costituisce la base), esaltato nell'uso dell'"istantanea", nella quale Delluc vedeva, con un riferimento esplicito al Futurismo, il mezzo capace di esprimere lo spirito del Novecento. Un possibile uso artistico del cinema non può che basarsi su questa capacità di cogliere la vita. All'"eccesso di coscienza laboriosa e artificiosa" dei film di successo, Delluc contrappose la forza emozionale delle "attualità" colte sul fatto: "un esercito in marcia, greggi in un prato, il varo di una corazzata, la folla su una spiaggia, un decollo d'aerei, la vita delle scimmie o la morte dei fiori ‒ e pochi secondi ci danno un'impressione così forte che li consideriamo artistici.

Non si può dire altrettanto del film drammatico ‒ di 1800 metri ‒ che viene dopo" (1920, poi in L. Delluc 1985, p. 34). E a proposito del cinema delle "eleganti cartoline": "meglio che questi eccessi tecnici rappresentino il capriccio ‒ o il genio ‒ di un solo regista e non lo snobismo di tutta la corporazione" (p. 38). Il termine genio è dunque per Delluc sinonimo di un'autorialità ancora troppo legata agli stilemi di una cultura paludata, produttrice di "pellicole vuote come begli scrigni", ottocentesca; laddove il cinema, arte nuova per eccellenza, può sollecitare una nuova forma di 'genio' soltanto a patto di uno scandaglio delle sue risorse più specifiche, della sua radicale implicazione con le cose, gli oggetti, le mille forme della natura e della realtà. La fotogenia presuppone quindi uno sviluppo dell'arte cinematografica nella direzione di quella che più tardi, da André Bazin e dalla critica di matrice fenomenologica, sarà chiamata la depurazione della forma: "Come far capire che una buona fotografia (cinematografica) è proprio quella che non ha un aspetto artistico? Che tutto sia naturale al cinema! Che tutto sia semplice! Lo schermo chiede, invoca, esige tutte le raffinatezze dell'idea e della tecnica, ma lo spettatore non deve sapere il prezzo di questo sforzo, deve soltanto guardare l'espressione e riceverla completamente nuda o che gli sembri tale" (p. 38). Ma se la nuova arte del Novecento, per nascere, dovette negarsi paradossalmente come tale, il paradosso fu solo apparente, perché ciò che era veramente in gioco era la capacità precipua del cinema di ridefinire il campo stesso dell'arte e lo statuto stesso dell'artista, dell'autore.

Di questa consapevolezza erano partecipi anche gli altri esponenti della prima avanguardia, come per es. Jean Epstein, che nel suo Bonjour cinéma, del 1921, scrisse l'apologia della nuova arte e della ridefinizione estetica che il dispositivo cinematografico di base, la cinepresa, comporta: "La Bell-Howell è un cervello di metallo, standardizzato, fabbricato, diffuso in qualche migliaio di esemplari, che trasforma il mondo esterno in arte. La Bell-Howell è un artista, ed è soltanto dietro di essa che ci sono altri artisti: regista e operatore. Finalmente una sensibilità si può acquistare e si trova in commercio e paga diritti di dogana come il caffè o i tappeti orientali" (trad. it. 1978, p. 73).

I formalisti russi

Per i formalisti russi (Boris M. Ejchenbaum, Jurij N. Tynjanov, Viktor B. Šklovskij e Osip M. Brik) il concetto di fotogenia è insufficiente a dar conto delle operazioni in atto nell'uso del nuovo linguaggio, che Ejchenbaum avvicina alla lingua dei linguisti: non è la riproduzione del reale che li interessa, ma la "ripianificazione semantica del mondo" che, come osserva Tynjanov (Ob osnovach kino, 1927; trad. it. Le basi del cinema, 1971, p. 64), il cinema produce grazie alle risorse formali della ripresa e del montaggio, "deformazione" del reale e non sua restituzione sullo schermo. È per questo che il cinema è un'arte, e il film è sempre discorso di qualcuno, di un a. che utilizza il nuovo linguaggio per suscitare emozioni e trasmettere concetti. Ma questo non significa affatto, per i formalisti, adottare un punto di vista autoriale nel senso tradizionale del termine. Nel suo Montaž attrakcionov (1923; trad. it. Montaggio delle attrazioni, 1964, pp. 520-21) Sergej M. Ejzenštejn ‒ che del contesto dell'avanguardia russa e sovietica era partecipe come i formalisti, cui era legato da amicizia e stretti rapporti di collaborazione ‒ sostiene un metodo di costruzione del testo (teatrale, ma il discorso è valido anche per il cinema) basato sulla "sperimentazione" e sul "calcolo matematico" del prodursi degli effetti "ideali dello spettacolo" (il "cammino della conoscenza") attraverso "un'azione sensoria o psicologica" che determini "scosse emotive" nello spettatore. Al procedere logico del soggetto proprio dello spettacolo tradizionale, il montaggio delle attrazioni sostituisce "azioni arbitrariamente scelte, indipendenti, anche fuori della composizione data e dell'aggancio narrativo dei personaggi", "montaggio di cose reali", allestimento di "programmi da music-hall e da circo".

Questo mettere al centro del "sistema di costruzione dello spettacolo" gli elementi materiali che la tradizione considerava accessori e che invece vengono considerati da Ejzenštejn come "il conduttore fondamentale delle anormali intenzioni di regia" (posizione che resterà sostanzialmente valida anche quando Ejzenštejn articolerà il suo complesso, polifonico e organico sistema teorico sulla regia cinematografica), lo si ritrova anche in una corrente dell'avanguardia sovietica per molti versi distante, la 'fattografia', che fa di questa matericità il punto essenziale di distinzione tra il vecchio e il nuovo, in tutte le arti, a cominciare dalla letteratura. Così, per es., Brik nel saggio Fiksacija fakta (1927; trad. it. La "fissazione" del fatto, 1971) lega alla capacità di riproduzione fotografica di oggetti in movimento "tutte le possibilità ulteriori del cinema" (p. 89) e sottolinea il nuovo, più diretto rapporto che nelle arti del Novecento, e, tra di esse, nel cinema, si è instaurato tra il "consumatore di prodotti culturali" e il "materiale reale": mentre prima tra i due si frapponeva l'artista e l'opera d'arte si trovava al primo posto, ora invece in primo piano c'è il materiale, mentre l'opera d'arte non è che "uno dei tanti metodi della sua realizzazione, e un metodo tutt'altro che perfetto" (p. 96).

Nel complesso, la concezione che i formalisti russi, 'fattografi' e non, avevano del cinema e dell'arte in generale era tale da rimettere in questione il concetto ottocentesco di artisticità e di autore. Come si è visto a proposito del concetto ejzenštejniano di attrazione, la relazione 'forma/materiali', affermata con forza da Šklovskij e ripresa da tutti i formalisti, sostituita alla relazione tradizionale 'forma/contenuto', esigeva che si ripensasse l'attività di produzione estetica nella direzione di un'imprescindibile (anche se problematica dal punto di vista teorico, come mostra l'opera successiva di Ejzen-štejn) reciprocità tra artista e materiali. In questa direzione vanno i più importanti concetti generali elaborati dal gruppo, come la determinazione della forma da parte del materiale (per es., i suoni per la musica o le parole per la poesia), o il concetto di 'procedimento' (sia nell'accezione šklovskijana di 'straniamento' sia, e ancor più, in quella di 'costruzione' assunta da Tynjanov) con il correlato concetto di 'funzione'. Nel loro complesso, i formalisti russi affermano una nozione di artista, a., 'creatore', radicalmente opposta a quella della tradizione romantica, in virtù della loro concezione dell'attività artistica in generale, a prescindere dalla novità costituita dall'invenzione del cinema; novità della cui importanza peraltro i formalisti russi sono non solo del tutto consapevoli ma anche strenui sostenitori.

In ogni caso, il contesto avanguardista in cui essi si muovevano (cubofuturismo, suprematismo, transmentalità e zaum, LEF, costruttivismo, fattografia), nel suo rappresentare il nuovo secolo e la rivoluzione industriale avvenuta, appare fortemente debitore dell'arte che ‒ in virtù dell'esplicitezza e della tecnicità dei suoi procedimenti: riproduzione e montaggio ‒ più di ogni altra sembra coniugare insieme la 'realtà' dei materiali e l'operazione costruttiva dell'artista. Non è un caso che Šklovskij chiami mondo della visione il luogo del linguaggio poetico, contrapposto al mondo del riconoscimento proprio del linguaggio pratico (in Literatura i kinematograf, 1923; trad. it. Letteratura e cinema, 1971, p. 118): il riferimento è a un universo di significazione che nel vedere, attività radicale del regista e dello spettatore cinematografici, trova la sua sintesi più felicemente esplicativa. Quello stesso Šklovskij il quale affermava che dire che "l'uomo è un creatore" equivale a dire che è "un semplice punto geometrico di intersezione di linee, di forze generate fuori di lui" (p. 116). Formula che ben rappresenta quel fondamentale dinamismo di reciproche determinazioni tra soggetto e mondo che caratterizza l'operazione di costruzione di un'opera d'arte.

La totale implicazione dell'artista nelle nuove tecnologie

Posizioni analoghe a quelle fin qui riportate sono diffuse nelle teorie del cinema maturate negli anni Venti e Trenta, che oscillano tra l'esaltazione delle qualità riproduttive del dispositivo cinematografico e quella delle capacità di estensione del visivo che il cinema possiede potenzialmente, andando però tutte, per lo più implicitamente, nella direzione di un ripensamento radicale del concetto romantico di 'artista' e di 'autore', in sintonia con i livelli egemonici raggiunti dal processo di industrializzazione e con la conseguente trasformazione sia del sistema produttivo e di mercato sia della stessa qualità artistica dei prodotti. In questa direzione vanno, per es., l'"uomo visibile" come protagonista del cinema secondo Béla Balázs (1924); il cinema (e prima di esso la fotografia) come fattore di decostruzione delle modalità percettive tradizionali di László Moholy-Nagy; il ruolo della fotografia e del cinema, procedimenti per eccellenza della riproducibilità tecnica nel processo che porta alla caduta dell'"aura", e la necessità dell'artista di prenderne atto e di spingere il processo alle logiche conseguenze, messi in evidenza da Walter Benjamin nel suo Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936).Con la riflessione di Benjamin si opera un'importante virata nella riflessione sul concetto di arte nel Novecento. Al centro del suo discorso c'è la nuova concezione dell'arte e dell'artista che è venuta a determinarsi in seguito alla rivoluzione costituita dalla possibilità di riprodurre l'opera d'arte, possibilità che ha trovato prima nella fotografia e poi nel cinema un'accelerazione decisiva.

Con la riproducibilità tecnica entra in crisi il "valore unico dell'opera d'arte autentica" (trad. it. 1966, p. 26), fondato sulla sua funzione rituale, quel valore che Benjamin chiama aura e che tutta una serie di artisti, teorici e critici cercano di restaurare, sforzandosi di "far rientrare il cinema nell'arte", e di attribuirgli "quegli elementi cultuali che non ha" (p. 30). Per Benjamin, invece, la principale funzione rivoluzionaria del cinema sta nella possibile coincidenza della sua utilizzazione scientifica e di quella artistica, in virtù della quale il cinema è in grado di arricchire in modo esponenziale le nostre capacità di percezione e la nostra conoscenza del mondo, ristrutturando gli spazi e il tempo grazie alle sue risorse, come per es. il primo piano e il ralenti, e permettendoci di conoscere qualcosa del nostro 'inconscio ottico', vale a dire del modo in cui l'uomo si rappresenta il mondo circostante. Logica conseguenza di questo discorso è una posizione del tutto particolare dell'a. cinematografico. Anzitutto è significativo che Benjamin non parli della regia ma dell'"operatore", in una sorta di identificazione dell'uomo di cinema con la funzione della cinepresa. Questo operatore è da Benjamin contrapposto al pittore come il chirurgo è contrapposto al mago. Punto discriminante tra le due figure è la diversa 'distanza' rispetto al paziente e la diversa 'autorità' che esse hanno nei suoi confronti: il mago è distante ma esercita grande autorità, mentre il chirurgo è vicino, penetra operativamente nell'interno del malato, ma si astiene dall'esercitare autorità, in virtù della "cautela con cui la sua mano si muove tra gli organi". Conclude Benjamin: "Il mago e il chirurgo si comportano rispettivamente come il pittore e l'operatore. Nel suo lavoro, il pittore osserva una distanza naturale da ciò che gli è dato, l'operatore invece penetra profondamente nel tessuto dei dati. Le immagini che entrambi ottengono sono enormemente diverse. Quella del pittore è totale, quella dell'operatore è multiformemente frammentata, e le sue parti si compongono secondo una legge nuova" (p. 38).

A questo 'operatore-chirurgo' corrisponde un nuovo spettatore, in cui atteggiamento critico e piacere coincidono. Ma contro questo nuovo, progressivo modo di porsi delle masse nei confronti dell'arte, che comporterebbe una profonda ridefinizione dei rapporti di proprietà, si pone l'estetizzazione della politica operata dal fascismo: essa utilizza il cinema per la produzione di valori cultuali, finalizzata a lasciare inalterati tali rapporti di proprietà, e trova il suo compimento nella guerra imperialistica, segno abnorme del fatto che "la società non era sufficientemente matura per fare della tecnica un proprio organo, e che la tecnica non era sufficientemente elaborata per dominare le energie elementari della società". La risposta che Benjamin auspica a questa estetizzazione della politica che il fascismo persegue, "compimento dell'arte per l'arte", è la "politicizzazione dell'arte" operata dal comunismo (pp. 47-48).

Dal Neorealismo cinematografico italiano alla Nouvelle vague francese

L'elemento progressivo che Benjamin vede attivato dalla riproducibilità tecnica e che dovrebbe produrre nel cinema sia il nuovo 'operatore-chirurgo' sia il nuovo pubblico, simultaneamente mosso dal piacere e dall'attività critica, viene meno nell'elaborazione di Th. W. Adorno, che dell'industria culturale sottolinea il carattere di mistificazione di massa, e del cinema, "medium per eccellenza dell'industria culturale" (Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, 1951; trad. it. 1954, p. 198), la predisposizione ontologica alla riproduzione superficiale delle apparenze e quindi alla giustificazione dell'esistente. Il metodo dell'industria culturale è "anticipare la propria imitazione da parte dello spettatore e di fare apparire come già esistente l'intesa che mira a creare. [...] Intesa che […] non si tratta tanto di produrre quanto di ripetere ritualmente. Il suo prodotto non è uno stimolo, ma un modello per reazioni a stimoli inesistenti" (p. 195). Per Adorno questa condizione è senza via d'uscita, perché "all'industria culturale non giova neppure la sua cattiva coscienza. [...] Il riconoscimento del fatto che i film diffondono ideologie è già di per sé ideologia diffusa" (p. 196). Questa impasse va ben oltre il cinema, e investe il razionalismo illuministico, ineluttabilmente spinto a rovesciarsi nel suo contrario, il mito. Quanto al cinema, esso "ha realizzato integralmente la trasformazione dei soggetti in funzioni sociali, al punto che le vittime, immemori di ogni conflitto, godono la propria disumanizzazione come umanità, come felicità e calore. Il contesto totale dell'industria culturale, che non lascia nulla al di fuori di sé, fa tutt'uno con l'accecamento sociale totale" (p. 202). Quando scriveva i Minima moralia, Adorno era residente negli Stati Uniti, dove era dovuto emigrare a causa del nazismo.

Era la moderna società statunitense che egli descriveva indirettamente nel libro, ed era il cinema americano che egli aveva presente quando tracciava il suo ritratto apocalittico del funzionamento del cinema nell'industria culturale. Se in Europa le proprietà del dispositivo cinematografico di base erano, come si è visto, un elemento che agiva in direzione della relativizzazione del concetto di a., altra cosa avveniva nell'industria cinematografica hollywoodiana, luogo mitopoietico di trasmissione dell'ideologia dominante e di riproduzione dei modelli del conformismo sociale necessario all'economia capitalistica. Lo scarto tra l'ottimismo della volontà di Benjamin e il pessimismo della ragione di Adorno sta in buona misura in questa esperienza americana del secondo, nel suo incontro con un'industria quale quella hollywoodiana, che considerava a. dei suoi prodotti la sua stessa ideologia, che in quei prodotti trovava il veicolo ideale per la propria esportazione colonizzatrice nel resto del mondo. Lo studio system si reggeva proprio su questa sorta di anonimato del regista, al quale veniva riconosciuta solo la funzione di assicurare che fosse condotta a termine l'operazione di realizzazione del film, riconducibile allo scopo primario della diffusione dell'American way of life. Di qui l'assenza di teorie esplicite dell'a. nel cinema hollywoodiano, e, per converso, la presenza di una salda e non dichiarata teoria implicita dalla forte componente ideologica.

Tra le manifestazioni di questa implicita ideologia c'era la parcellizzazione delle figure professionali (regista, sceneggiatore, direttore della fotografia, produttore ecc.) effettuata allo scopo di impedire il costituirsi di quella che Adorno chiama la "responsabilità estetica"; da questa il film sarebbe svincolato grazie alla sua "indipendenza dalle norme dell'opera autonoma", l'ossequio alle quali, osserva lo stesso Adorno, ha avuto per lo più carattere reazionario: "di fatto, tutte le intenzioni dirette a nobilitarlo artisticamente hanno un che di storto, di artificiale e sostenuto, di formalmente mancato" (p. 198). Proprio perché a. del film dev'essere l'ideologia, è necessario che l'industria hollywoodiana metta in atto le procedure necessarie a rendere acefalo il procedimento della sua realizzazione, e a sostituire alla 'creatività' individuale della tradizione un sistema di controlli imperniato sulla figura del producer, la moltiplicazione dei collaboratori, la specializzazione esclusiva delle loro funzioni, e i generi cinematografici, sorta di binari predeterminati sui quali far viaggiare il senso desiderato (in una dimensione in cui, come già avevano visto Benjamin e Adorno e come sarà successivamente teorizzato in modo esplicito da M. McLuhan, il medium finisce per coincidere con il messaggio).

Questo stato di cose, perfettamente compiuto con l'avvento del sonoro, venne imitato fuori degli Stati Uniti tutte le volte che si cercava di creare una vera e propria industria cinematografica. Cosa che avvenne anche in Italia con la realizzazione del Centro sperimentale di cinematografia (1935) e di Cinecittà (1937). La tradizione italiana, tuttavia, difficilmente si accordava con le esigenze della moderna industria culturale, e quindi il concetto di artista-autore, nel senso ottocentesco del termine, finì con il coesistere accanto al processo di industria-lizzazione della cinematografia italiana. Così, dal 1933 al 1939, lavorò prima presso l'Istituto nazionale per la cinematografia educativa, poi presso il Centro sperimentale di nuova istituzione, quel Rudolf Arnheim che nel 1932 aveva pubblicato in Germania il volumetto Film als Kunst, che riprendeva il concetto di artisticità del cinema proprio dei formalisti russi, basato sull'osservazione della 'povertà' riproduttiva del dispositivo cinematografico e quindi della sua predisposizione all'intervento creativo dell'artista; concetto che, soprattutto nella formulazione di Arnheim, restava al di qua di un discorso sull'industria culturale, mirato com'era sul solo cinema muto. E mentre Umberto Barbaro, reduce da esperienze avanguardiste, traduceva Balázs e Vsevolod I. Pudovkin, Luigi Chiarini ‒ con Barbaro figura di spicco del panorama critico e teorico italiano del periodo, e con lui coinvolto nell'attività didattica, di ricerca e direttiva del Centro sperimentale ‒ si muoveva ancora in una direzione crociana, nella sua rivendicazione delle ragioni dell'arte contro l'industria.

Con il Neorealismo la rinnovata istanza 'autoriale' acquistò un valore nuovo e di notevole importanza, come reazione al silenzio imposto dal regime sulle questioni culturali, sociali e politiche: l'a. diventò così il simbolo di una recuperata capacità critica, di una rinnovata attività interpretativa, dopo un ventennio di più o meno colpevole sottomissione, dissimulata sotto il velo di una regia intesa come mestiere al servizio della costruenda, autarchica, industria cinematografica italiana. L'esempio del Neorealismo italiano, con la sua attenzione all'a., venne seguito fuori dell'Italia, nel generale clima di ricostruzione del dopoguerra, in diversi Paesi del mondo, spesso anche in virtù di produttive mediazioni critiche e teoriche. La cinematografia francese, con i giovani che avrebbero dato vita alla Nouvelle vague, fu una delle più ricettive nei confronti della lezione neorealista, che venne interpretata in chiave fenomenologica da critici come André Bazin, capaci di rilanciarne la produttività sul terreno del cinema degli anni Cinquanta e Sessanta. La rivista "Cahiers du cinéma", fondata da Bazin nel 1951, divenne il luogo di formazione della giovane generazione di François Truffaut, Claude Chabrol, Jacques Rivette, Eric Rohmer e Jean-Luc Godard, che diedero vita alla pratica della politique des auteurs, da Bazin al tempo stesso qualificata come culto della personalità e riconosciuta come espressione di competenza tecnico-linguistica.

Erano anni in cui si avvertiva in numerose cinematografie, emergenti o accreditate, il bisogno di rivoluzionare i modi della produzione, reagendo all'uniformità imposta da strutture talvolta inadeguate agli stessi bisogni del mercato. Il quale, da parte sua, stava vivendo un periodo di profonda ristrutturazione, dovuto all'avvento della televisione e al differenziarsi dell'offerta di intrattenimento e di forme di occupazione del tempo libero conseguente alla ripresa economica in atto a livello internazionale. Il marchio autoriale divenne in breve la garanzia di qualità del prodotto: Ingmar Bergman, Federico Fellini, Kurosawa Akira, Michelangelo Antonioni, Alain Res-nais, Truffaut e tanti altri, compresi alcuni hollywoodiani, come l'inglese Alfred Hitchcock, l'irlandese John Ford, l'americano Howard Hawks, e l'a. per eccellenza del cinema statunitense, Orson Welles, diventarono i punti di riferimento della cinefilia, che conobbe una rapida espansione raccogliendosi nei cineclub e nelle sale d'essai, capaci di selezionare il prodotto 'di qualità'. Lo stesso 'sapere' cinematografico passava attraverso la conoscenza delle poetiche autoriali, sulle quali venivano per lo più costruite anche le storie del cinema. Gli anni Cinquanta e Sessanta furono forse quelli in cui maggiormente si sentì, in Italia e fuori, la forza del concetto stesso di a. come pietra di paragone di ogni approccio al cinema, non soltanto al livello della cinefilia, ma anche a quello del mercato.

L'autore nel cinema 'moderno' e 'postmoderno'

Questo trionfo dell'autorialità, se ha avuto il valore di una rivendicazione di responsabilità estetica nei confronti degli stereotipi dell'industria di massa, è sembrato però riportare il dibattito teorico a formulazioni pre-avanguardiste e ottocentesche. La forza dell'industria culturale non ha lasciato apparentemente altro scampo, per affermare il valore della 'differenza', che il recupero di un concetto che il nuovo linguaggio pareva aver messo radicalmente in crisi. Alla fine del Novecento, con il trionfo dell'industria culturale è parso insomma chiudersi un circolo vizioso, e sono state annullate le istanze più innovative proposte dal 20° sec. e le più avanzate acquisizioni teoriche relative sia al concetto di a. nelle arti sia alla più generale concezione (scientifica, psicologica, filosofica e culturale) della 'soggettività'. E ciò almeno (ma non solo) al livello della cultura di massa, di un sapere diffuso e acquisito negli stili di vita dominanti. In questa direzione sembra aver spinto il cinema che è stato chiamato postmoderno: nel suo gioco parossistico di ripetizione consapevole delle tante componenti dell'immaginario collettivo, tale cinema ha aperto la via a un nuovo 'culto della personalità', centrato sui cineasti che con più efficacia sanno attivare i meccanismi di quella ripetizione, esaltando il rispecchiamento spettatoriale di massa e proponendosi come gli officianti della nuova liturgia mass-mediologica. È il compimento di quel percorso negativo di disumanizzazione che Benjamin aveva sperato di poter confinare nel fascismo: "L'umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dei dell'Olimpo, ora lo è diventata per sé stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim'ordine" (1936; trad. it. 1966, p. 48).

Ma se è vero che l'a. cinematografico, nella seconda metà del Novecento, è tornato prepotentemente alla ribalta, è anche vero che spesso queste pratiche autoriali hanno assunto problematicamente la relazione forma/materiali, delineando un filo rosso che rinnova l'interrogativo di fondo sul concetto di a., adeguandolo alla mutata realtà del cinema sonoro nell'industria culturale. Queste pratiche sono state chiamate moderne in senso forte, e risultano caratterizzate da una dichiarata consapevolezza della disposizione a 'riprodurre' connaturata al dispositivo cinematografico di base, consapevolezza che innesca un interrogativo metalinguistico sullo statuto del cinema, sulla sua storia e sulla sua funzione. In questa linea della modernità cinematografica il concetto di a. assume una dimensione paradossale densa di conseguenze sia sul piano pratico sia su quello teorico.

Jean Renoir, per es., celebrato come uno dei massimi 'autori' della storia del cinema, avverte nella prefazione al suo libro autobiografico Ma vie et mes films (1974; trad. it. 1992) che quello che egli chiama individuo-re, vale a dire l'a. in senso idealistico, è in realtà il risultato dell'insieme delle esperienze che ci si è trovati a vivere, dall'amico d'infanzia all'eroe del primo romanzo che si è letto, all'insieme degli elementi che hanno accompagnato la nostra formazione. Renoir chiama questa condizione "permeabilità rispetto all'ambiente", e cita la massima del padre, il pittore Auguste, secondo la quale bisogna lasciarsi andare alla vita come un turacciolo nella corrente di un fiume. Coerentemente con questa posizione, i film di Renoir mostrano una precisa coscienza del gioco della costruzione su e a partire da materiali culturali e fenomenici. La messinscena tipica del cineasta francese realizza proprio questo punto fondamentale: l'apertura del 'soggetto' (nel doppio senso di a. e di argomento del film) al mondo, e in definitiva la costruzione del soggetto da parte del mondo. È da questa lezione che deriva il particolare autobiografismo di questo tipo di cinema, che si ritrova anche nelle pratiche successive di Godard, di Rivette, di Philippe Garrel, di Jean Eustache e di altri, anche molto diversi tra loro, come Bernardo Bertolucci, Robert Kramer, Abbas Kiarostami. Autobiografia che non è affatto il racconto degli avvenimenti della propria vita, l'irruzione del privato personale spesso riscontrabile nelle pratiche tradizionalmente 'autoriali'; autobiografia che è invece, all'opposto, l'identificarsi della vita con la pratica di cineasta, espresso negli indici stilistici messi in atto dai testi.

Questo genere di pratica del cinema coincide con una forma estrema di sperimentazione, nel senso etimologico di un esperire al tempo stesso la vita e il cinema, il suo linguaggio, i suoi processi di significazione. È un'intera concezione dell'arte cinematografica che qui viene messa in gioco. Lo stesso Renoir dichiarava di non comprendere il senso di una scena prima di averla vista materializzata in immagini, prima di averla girata: l'atto del 'dare' senso alle cose attraverso il cinema coincide con quello del 'trovare' il senso delle cose stesse; è un atto di 'costruzione', proprio come dicevano i formalisti russi, dove i materiali giocano un ruolo altrettanto decisivo della coscienza che li ordina e li fa significare. Al medesimo contesto di discorso appartiene l'elaborazione teorica (più estrema della sua pratica di sceneggiatore) di Cesare Zavattini, propugnatore di uno sviluppo del Neorealismo in direzione opposta a quella del 'realismo critico' proposto negli stessi anni da Guido Aristarco sulla rivista "Cinema nuovo", e anticipatrice piuttosto del Cinéma-vérité di Jean Rouch ed Edgar Morin (per il quale v. Teorie del cinema: Il cinema come dispositivo dell'immaginario).

La consapevolezza che il senso non precede ma coincide con la messa in forma, con la messa in scena, porta Zavattini a parlare di un cinema del "soggetto pensato durante" (1979, p. 395), formulazione il cui significato va oltre lo stesso 'film-inchiesta' di cui Zavattini, all'inizio degli anni Sessanta, tracciò le coordinate, e che coinvolge una concezione dell'autorialità vicina a quella di Renoir. È il soggetto stesso del film, l'argomento di cui si parla, che non è dato a priori, e che nasce piuttosto 'durante' le riprese e il montaggio, dalla relazione tra la cinepresa e il profilmico. Questo senso di cui parla Zavattini è dunque molto diverso dalla Weltanschauung che l'a. della tradizione romantica 'incarna' nell'opera. I film che appartengono alla modernità cinematografica, della quale Zavattini è un esponente di spicco, dicono semplicemente che il senso è immanente al testo, non gli preesiste, e che, conseguentemente, quello di a. è un concetto innervato nelle stesse operazioni costruttive che al testo danno vita e nelle quali i materiali hanno un ruolo decisivo.

Un'identica, più o meno esplicitata, concezione del cinema e del ruolo dell'a., è presente in molti altri cineasti del secondo dopoguerra. In Roberto Rossellini, per es., la cui opera può essere vista come un vasto ipertesto dove confluiscono i più diversi materiali culturali e che non a caso trova il suo compimento nell'enciclopedia storica attuata dai suoi lavori televisivi. In Michelangelo Antonioni, il cui lavoro sul cinema, sullo sguardo, sul senso del filmare, ha una fortissima componente epistemologica, e si dà come riflessione, tra le più rigorose nella storia della settima arte, sull'operazione formalizzatrice della macchina da presa nella sua relazione fenomenologica con il 'reale'. In PG. De Vincenti, ier Paolo Pasolini, la cui pratica di un cinema saggistico, interpretazione critica dei materiali ereditati dalla storia della cultura, diviene sempre più esplicita con il procedere del suo lavoro. Fino a Godard, costruttore di fascinosi prototipi dell'ipertestualità, alla luce dell'affermazione più volte ripetuta nei suoi film, citazione rielaborata del surrealista ante litteram P. Réverdy: "un'immagine non è forte perché è brutale o fantastica, ma perché la solidarietà delle idee è lontana e giusta". La 'solidarietà delle idee lontana e giusta' non è altro che il montaggio di materiali eterogenei tra i quali si stabilisce un'associazione che viene percepita come sensata. Procedimento questo, per associazione di idee, che Godard utilizza nel corso dell'intera sua opera, rendendolo esplicito e tematizzato nei film dagli anni Ottanta in poi, e che implica un concetto di a. molto vicino a quel "punto d'intersezione di forze generate al di fuori di lui" di cui aveva parlato Šklovskij. D'altra parte, la consapevolezza di Godard, nel corso di tutta la sua carriera, della carica dirompente di senso portata dal 'dettaglio' è spinta fino a considerare il 'piacere dell'istante' come un elemento profondo di disorganizzazione dell'insieme, un elemento difficilmente governabile, che introduce nel testo la disarticolazione stessa del soggetto, inaugurando così una relazione dinamica e sempre irrisolta tra le parti e il tutto, tra i materiali e il principio autoriale della loro unificazione nel testo.

Questo modo di darsi dell'a. nel cinema moderno è la forma più coerente della critica del concetto di a. che il cinema ha contribuito a sviluppare nell'arco del Novecento. È la lezione di un cinema che mostra di saper dubitare di sé e delle cose, dello sguardo e dei valori stabilizzati, della nostra e altrui compiutezza e onnipotenza; e di saper mettere in gioco le cose, l'altro da sé, le differenze, invitando alla pratica del viaggio, del vagabondaggio e della ricerca sperimentale. Una pratica che coinvolge il soggetto, non lo esalta e non lo annulla, semplicemente lo relativizza, e così facendo lo allontana dai totalitarismi neo-idealistici, dai sacerdozi postmoderni, dalla regressione alle forme cultuali della Mediasfera, e lo avvicina alla radicale democraticità e laicità del pensiero scientifico. In sintonia con il quale, il Novecento abbandona questa attenzione alla materia e al coinvolgimento con essa, per restituire un nuovo modo di guardare e di pensare, e, con paradosso solo apparente, per ricondurre il soggetto schizofrenico illusoriamente esorcizzato dall'idealismo a una qualche, minima ma preziosa, forma di consistenza.

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