Atti e trattamenti discriminatori [dir. lav.]

Diritto on line (2018)

Maria Cristina Cimaglia

Abstract

Il contributo analizza il tema degli atti e dei trattamenti discriminatori nell’ambito dell’ordinamento giuslavoristico, alla luce della normativa nazionale e sovranazionale. Seguendo l’evoluzione della legislazione in materia, viene analizzato l’ampliarsi del campo di applicazione del diritto antidiscriminatorio, con particolare riferimento ai fattori protetti dall’ordinamento e al mutare delle fattispecie individuate dal legislatore. Vengono, altresì, esaminate le tecniche di tutela predisposte dalla normativa, finalizzate a garantire l’effettività del principio antidiscriminatorio, ivi comprese le funzioni demandate agli organismi collettivi.

Premessa

La tutela dagli atti e dai trattamenti discriminatori trova espressione, nella nostra Costituzione, nel principio generale di eguaglianza – formale e sostanziale – sancito dall’art. 3 Cost. e nell’art. 37 Cost. espressamente dedicato al principio di parità di trattamento della donna rispetto all’uomo lavoratore.

Alle norme contenute nella Carta fondamentale vanno aggiunte quelle dell’ordinamento europeo, a cominciare dal Trattato di Roma ove il principio di parità salariale e il connesso divieto di discriminazioni retributive in ragione della nazionalità e del sesso a parità di lavoro svolto trovavano ispirazione nell’esigenza di creare un mercato comune e, soprattutto, evitare forme di dumping sociale. Con il Trattato di Amsterdam (art. 13 TCE, ora art. 19 TFUE) il principio di non discriminazione amplia la sua sfera di intervento ad altri fattori quali la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale, mentre con la modifica dell’art. 119 del Trattato istitutivo viene allargato il campo del principio di eguaglianza di genere dal solo aspetto retributivo al complesso delle condizioni di lavoro e occupazione.

Ma la compiuta costituzione del diritto antidiscriminatorio europeo avviene con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la ratifica ad opera del Trattato di Lisbona nel 2009, in cui il principio di eguaglianza viene declinato come diritto a non essere discriminati sulla base delle caratteristiche soggettive costitutive dell’identità della persona e come diritto a preservare la propria diversità, che si deve tradurre, altresì, in garanzia sostanziale di libertà e tutela sociale, nonché di promozione della piena partecipazione alla vita della comunità in cui si è inseriti (artt. 20-26; Barbera, M., Introduzione, in Barbera, M., a cura di, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Milano, 2007, XXI).

L’attuale composito quadro normativo in materia di tutela antidiscriminatoria trova, quindi origine principalmente nel diritto europeo, che a partire dagli anni settanta ha cominciato ad incidere sugli ordinamenti nazionali attraverso le numerose direttive che nel tempo si sono succedute. Al primo blocco di direttive dedicate alle discriminazioni di genere, si sono poi aggiunte le dir. 2000/43/CE e dir. 2000/78/CE, che hanno dato un nuovo impulso alla materia, non solo con l’ampliamento dei fattori protetti dall’ordinamento, ma anche per aver fatto propria l’elaborazione complessa e articolata della Corte di giustizia nella qualificazione delle fattispecie discriminatorie. La corposa elaborazione giurisprudenziale sulle discriminazioni di genere è stata presa a riferimento per coniare nozioni comuni ai diversi fattori, con il conseguente allargamento del campo di applicazione del divieto dall’ambito tradizionale del mercato e del rapporto di lavoro, per estendersi all’accesso e alla fornitura di beni e servizi. La Corte di giustizia europea ha così contribuito ad affinare le categorie tipiche del diritto antidiscriminatorio, portando all’affermazione del principio di non discriminazione come diritto fondamentale e, in quanto tale, prevalente sugli ordinamenti nazionali e nei rapporti fra privati.

I primi interventi antidiscriminatori nella legislazione nazionale

Il licenziamento discriminatorio

La prima tipologia di atto datoriale sanzionabile qualora adottato per motivi discriminatori previsto nel nostro ordinamento è il licenziamento, sanzionato dal legislatore con la sanzione della nullità. È con l’art. 4 l. 15.7.1966, n. 604 che si introduce il principio generale di nullità del licenziamento discriminatorio, cui fa seguito la disciplina dell’art. 18 della l. 20.5.1970, n. 300.

Un’altra ipotesi specifica di licenziamento discriminatorio è quello riconducibile alla maternità o paternità, ivi compresi i casi di affidamento e adozione, come disposto all’art. 54 del d.lgs. 26.3.2001, n. 151, cui sono riconfluite anche disposizioni risalenti nel tempo che avevano disciplinato la materia. Il divieto di licenziamento copre il periodo che va dall’inizio della gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino, ad eccezione di alcune ipotesi tassative previste dalla legge stessa. Ulteriori ipotesi di licenziamento vietate previste dal legislatore sono il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino, anche da parte del padre, nonché per la fruizione del congedo di paternità. Oltre alla sanzione della nullità, l’inosservanza delle disposizioni normative è punita con una sanzione amministrativa.

Lo statuto dei lavoratori

Il primo corpo normativo dell’ordinamento nazionale contenente il principio di non discriminazione non ascrivibile ad una fattispecie tassativa, ma a qualunque “patto o atto” inerente il rapporto di lavoro è contenuto nella l. n. 300/1970 (il cd. statuto dei lavoratori), agli artt. 15 e 16. L’art. 15 è la norma simbolo dell’evoluzione legislativa in materia che, nel sancire la nullità di patti o atti discriminatori indicava come motivi vietati – nella formulazione originale – quelli di natura sindacale, politica e religiosa (ove il riferimento alla religione, a differenza delle situazioni odierne che caratterizzano il dibattito dottrinario e giurisprudenziale, era indicativo di una determinata affiliazione politica e a tale fattore, pertanto, assimilabile). Con l’art. 13 della l. 9.12.1977, n. 903 la norma è stata integrata con i riferimenti alle discriminazioni per motivi inerenti il sesso, la lingua e la razza. Con l’attuazione in Italia delle direttive europee di seconda generazione sono stati introdotti ulteriori fattori quali l’handicap, l’età, l’orientamento sessuale e le convinzioni personali (art. 4, co. 1, d.lgs. 9.7.2003, n. 216).

L’art. 16 st. lav. vieta, per gli stessi motivi di cui all’art. 15, i trattamenti economici collettivi di maggior favore, sanzionati con l’obbligo del pagamento di una somma pari all’importo di tali trattamenti illegittimamente corrisposti al fondo adeguamento pensioni, per un periodo massimo di un anno. Legittimate ad agire sono le associazioni sindacali cui i lavoratori abbiano conferito mandato.

La nozione di discriminazione

L’attuale quadro definitorio del diritto antidiscriminatorio si compone di un corposo filone normativo che interessa i diversi fattori di rischio individuati dall’ordinamento, accomunati – come si è detto in precedenza – dalle nozioni elaborate a seguito dell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale della materia, confluita nei testi legislativi europei e nazionali.

La discriminazione diretta si ha quando una disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento produca un effetto pregiudizievole discriminando un lavoratore a causa della sua appartenenza – per nascita o scelta – ad uno dei fattori protetti dall’ordinamento, ovvero quando il lavoratore sia, sia stato o sarebbe trattato in modo meno favorevole rispetto ad un altro.

Questa nozione di discriminazione elaborata a livello comunitario amplia anzitutto la tipologia di comportamenti datoriali sanzionabili. Con una elencazione non tassativa, il legislatore è andato oltre la tipizzazione di fattispecie riconducibili ad atti – siano essi formalizzati o meno – assunti dal datore di lavoro, per ricomprendere un alveo più ampio che comprende genericamente i trattamenti dei lavoratori, ivi compresa l’adozione dei criteri che li determinano.

Il secondo profilo di interesse della norma – ampiamente dibattuto in dottrina – riguarda l’allargamento alle situazioni ipotetiche dei termini di comparazione dei trattamenti che si adducono come discriminatori, che dà adito ad una possibile discrezionalità di valutazione da parte del giudice. Sul punto è intervenuta la Corte di giustizia europea, chiarendo (C. giust., 12.12.2013, C-267/12, Hay c. Crédit Agricole) che la comparabilità della situazione deve essere analizzata non in astratto, ma alla luce degli obiettivi e delle condizioni collegate al beneficio oggetto della controversia (nel caso di specie un premio stipendiale e un congedo straordinario in caso di sottoscrizione di un patto civile di solidarietà fra persone dello stesso sesso).

La discriminazione indiretta, invece, si ha quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere persone appartenenti a un determinato gruppo, caratterizzati da uno dei fattori di rischio vietati dall’ordinamento, in una posizione di particolare svantaggio rispetto alle altre.

Tale condizione non si verifica se la disposizione, il criterio o la prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima ed i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

La giurisprudenza in materia di discriminazioni di genere ha particolarmente affinato la nozione di discriminazione indiretta, attribuendo rilievo al sindacato dei requisiti o dei criteri assunti a base degli atti o dei trattamenti aventi un impatto discriminatorio, con l’obiettivo di verificarne la ragionevolezza. L’apparente neutralità dei criteri, infatti, non esime da un sindacato sulla effettiva necessità e adeguatezza della scelta compiuta. Il sindacato sulla necessità dell’atto implica che il fine – legittimo – non possa essere perseguito in altro modo, ovvero che il requisito richiesto sia effettivamente funzionale allo svolgimento della prestazione lavorativa. Si veda in tal senso il caso in cui è stata considerata illegittima la richiesta di un titolo di studio riferibile solo al personale maschile, nell’ipotesi in cui non ne risulti dimostrata l’incidenza sulla capacità a svolgere le mansioni per le quali era richiesto (Trib. Catania, 22.11.2000, in Foro it., 2001) ovvero la previsione di una statura minima uguale tra uomini e donne in un bando di concorso (C. giust., 18.10.2017, causa C-409/16, Ypourgos Esoterikon e Ypourgos Ethnikis paideias kai Thriskevmaton c. Maria-Eleni Kalliri).

Le discriminazioni collettive, invece, si realizzano quando sono lesi una pluralità di soggetti, anche se non sono individuabili in modo immediato e diretto i destinatari. La peculiarità che caratterizza questa fattispecie riguarda l’azione in giudizio che, non essendo riconducibile ad un singolo lavoratore, compete a organismi collettivi cui la legge attribuisce questo compito. Nel caso delle discriminazioni di genere possono agire in giudizio i/le consiglieri/e di parità regionali o nazionale (art. 37 d.lgs. 1.4.2006, n. 198); nel caso di discriminazioni razziali possono agire le organizzazioni e associazioni rappresentative delle persone in ragione della loro razza o etnia (art. 5 d.lgs. 9.7.2003, n. 215) o le rappresentanze locali delle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale (art. 44 d.lgs. 25.7.1998, n. 286 e art. 5 d.lgs. n. 216/2003).

A queste categorie generali vanno aggiunte fattispecie specifiche tipizzate dal legislatore e qualificate, altresì, come discriminatorie.

Costituisce discriminazione ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti (art. 25, co. 2-bis, d.lgs. n. 198/2006).

Una fattispecie espressamente prevista (art. 28 d.lgs. n. 198/2006) riguarda le discriminazioni retributive, che investe anche i sistemi di classificazione professionale.

Costituiscono discriminazioni le molestie e le molestie sessuali, intendendosi per tali quei comportamenti indesiderati adottati per uno dei motivi vietati e aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Il comportamento indesiderato a connotazione sessuale può essere espresso in forma fisica, verbale o non verbale. Sono discriminatori, altresì, i trattamenti meno favorevoli subiti in conseguenza del rifiuto o della sottomissione alla molestia, nonché i trattamenti sfavorevoli adottati in reazione ad un reclamo o ad un’azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento (art. 26 d.lgs. n. 198/2006, da ultimo modificato dalla l. 27.12.2017, n. 205).

A connotare la fattispecie, pertanto, è un parametro soggettivo (della vittima) di valutazione di lesività della dignità personale della condotta assunta, indipendentemente dall’intento della persona che ha posto in essere il comportamento.

Parimenti l’ordine di discriminare è qualificato come discriminazione.

In ultimo la mancata predisposizione di adattamenti ragionevoli a favore delle persone con disabilità è ascrivibile ad una discriminazione, in ossequio a quanto disposto dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.

Di conio giurisprudenziale sono ulteriori fattispecie discriminatorie.

La discriminazione per associazione si configura quando la vittima subisce la discriminazione non in ragione di una sua personale appartenenza ad uno dei fattori di rischio individuati dall’ordinamento, ma in quanto associata e associabile a persone appartenenti a tali categorie, come nel caso dei caregivers di una persona con disabilità (si veda il leading case C. giust. 17.7.2008, C-303/06, S. Coleman c. Attridge Law e Steve Law).

Le discriminazioni potenziali, invece, si verificano quando non sia individuabile direttamente il soggetto leso, ma possono essere individuati quelli potenzialmente colpiti dal comportamento discriminatorio (C. giust., 10.7.2008, C-54/07, Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding c. Firma Feryn NV; C. giust., 25.04.2013, C-81/12, Asociaţia Accept c. Consiliul Naţional pentru Combaterea Discriminării).

Le deroghe legittime al divieto di discriminazione

Il principio di divieto di trattamenti discriminatori è soggetto a delle deroghe espressamente tipizzate dal legislatore, che si differenziano per i diversi fattori di rischio.

In materia di discriminazioni di genere è possibile adottare trattamenti differenziati quando la caratteristica richiesta sia un requisito essenziale e determinante per l’attività lavorativa, in ragione della natura dell’attività e del contesto, purché l’obiettivo sia legittimo ed il requisito proporzionato.

Un’eccezione riguarda le categorie di età e disabilità, fondata sul requisito essenziale e determinante da valutare in base alla necessità di preservare il carattere operativo dei servizi delle forze armate, della polizia, penitenziari o di soccorso (v. C. giust., 12.1.2010, C-229/08, Wolf c. Germania, che ha qualificato legittimo il limite massimo di età per l’accesso alla posizione lavorativa di vigile del fuoco), nonché – con riferimento all’età – deroghe necessarie alla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati, alla tutela della salute e delle libertà altrui.

Nello specifico l’art. 4 bis del d.lgs. n. 216/2003 ammette trattamenti differenziati in ragione dell’età con riferimento alla definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, per favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione dei lavoratori interessati; ammette, inoltre, la fissazione di condizioni minime di età per l’accesso all'occupazione o a taluni vantaggi connessi all'occupazione e di un'età massima per l'assunzione, basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o sulla necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento. Tali deroghe sono valide purché giustificate da una finalità legittima in quanto obiettiva e ragionevole se collegata ad obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, qualora i mezzi per il conseguimento di tali finalità siano appropriati e necessari (sulla conclusione del contratto al raggiungimento dei 25 anni, in ragione della finalità di favorire l’ingresso nel mercato del lavoro del contratto di lavoro intermittente C. giust. 19.7.2017, C-143/16, Abercrombie & Fitch Italia Srl c. Antonino Bordonaro).

Differenze di trattamento possono essere, altresì, basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell'ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività (art. 3, co. 5, d.lgs. n. 216/2003).

Per quanto riguarda le donne sono consentite deroghe in fase di accesso al lavoro se riguardano mansioni particolarmente pesanti individuate dalla contrattazione collettiva, ovvero l’assunzione in attività della moda, dell’arte e dello spettacolo quando l’appartenenza a un determinato sesso sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione (art. 27, co. 4 e 6, d.lgs. n. 198/2006).

Più in generale le deroghe sono ammesse quando il possesso di un determinato requisito costituisca elemento essenziale e determinante ai fini dello svolgimento della prestazione di lavoro o per l’accesso a determinati beni o servizi.

L’ambito di applicazione

Al rispetto dei principi di non discriminazione sono soggetti tutti i datori di lavoro pubblici e privati, nonché le agenzie per il lavoro, i soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati di effettuare qualsivoglia indagine o trattamento di dati ovvero di preselezione di lavoratori, anche con il loro consenso (art. 10 d.lgs. 10.9.2003, n. 276), nonché le forme pensionistiche complementari e di assistenza sanitaria.

L’ambito di applicazione oggettivo della tutela antidiscriminatoria è stato anch’esso nel tempo ampliato, fino ad arrivare a coinvolgere ogni profilo inerente il mercato del lavoro e l’occupazione. I divieti di discriminazione riguardano l’accesso al lavoro sia autonomo che subordinato, investendo anche i processi propedeutici all’assunzione stessa, come i criteri di preselezione (anche a mezzo stampa) e selezione, l’orientamento, la formazione, nonché le condizioni di lavoro. Permeano il rapporto di lavoro investendo l’attribuzione di mansioni e qualifiche e le progressioni di carriera, la formazione e riqualificazione professionale e le retribuzioni. Proprio sul versante delle discriminazioni retributive il lavoro compiuto dalla Corte di giustizia europea è stato finalizzato a dare effettività ai principi di non discriminazione, con un processo interpretativo che ha ampliato la nozione di retribuzione per comprendere, oltre al salario o lo stipendio, tutti i vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, a motivo dell’impiego del lavoratore (dir. 2006/54). In conseguenza di tale ampia nozione i sistemi di classificazione del personale devono adottare criteri comuni per uomini e donne al fine di ovviare ad impatti discriminatori. L’accezione ampia di retribuzione fa sì, inoltre, che vi rientrino il regime pensionistico aziendale (C. giust., 10.2.2000, C-34/96 e 235/96, Deutsche Telekom) e che siano oggetto di sindacato anche i sistemi di job evaluation, poiché questi non esauriscono i criteri da adottare per formulare un giudizio di equivalenza fra lavori di diversa natura (C. giust., 6.7.1982, C-61/81, John Forman c. Regno Unito). L’affermazione della necessità di garantire dal punto di vista sostanziale la parità retributiva, quindi, si è concretizzata in un’ampia sindacabilità dei sistemi di inquadramento aziendali e professionali, per verificare se criteri apparentemente neutri siano in realtà causa di uno svantaggio di genere, salvo il caso in cui sussistano giustificazioni oggettive (C. giust., 27.10.1993, C-127/1992, Frenchay Health Authority).

Vi è poi il fronte delle politiche occupazionali e della protezione sociale, anch’esso permeato dal divieto di trattamenti discriminatori, in cui rientrano l’accesso alle prestazioni previdenziali e alle forme pensionistiche collettive (per le donne art. 28-30 bis d.lgs. n. 198/2006), nonché la sicurezza sociale, l’assistenza sanitaria, le prestazioni sociali, l’istruzione l’accesso a beni e servizi, compreso l’alloggio (per quanto riguarda i divieti di discriminazione di razza e origine etnica, art. 3 d.lgs. n. 215/2003). In questi ambiti il giudizio di ragionevolezza si complica, investendo spesso scelte sottese a politiche economiche e occupazionali. Il fattore età è quello su cui maggiormente impattano scelte di politica economica con particolare riferimento a istituti volti a promuovere l’occupazione con misure agevolative in relazione all’età in ingresso nel mercato del lavoro che si sostanziano in trattamenti differenziati – con impatto negativo – per i giovani, o forme di minor tutela dal mantenimento dell’occupazione laddove la garanzia del reddito possa essere soddisfatta dalla maturazione dei requisiti per prestazioni di vecchiaia. Sul fronte della sicurezza sociale l’etnia è uno dei fattori di rischio maggiormente interessati. Uno dei profili più rilevanti riguarda l’accesso alle prestazioni sociali e l’esclusione di prestazioni di assistenza sociale a carattere non contributivo di cittadini di altri Stati membri che non godano del diritto di soggiorno (C. giust., 11.11.2014, C-333/13, Dano c. Jobcenter Leipzig, C-333/13).

La tutela avverso le discriminazioni

La tutela giurisdizionale avverso le discriminazioni è stata ricondotta ad un unicum normativo. I giudizi civili avverso atti e comportamenti discriminatori per tutti i fattori protetti dall’ordinamento sono regolati, infatti, dall’art. 28 del d.lgs. 1.9.2011, n. 150 e, in caso di accertamento di atti o comportamenti discriminatori, dall'art. 44, co. 11, del d.lgs. n. 286/1998.

La tutela giurisdizionale viene, inoltre, estesa anche ai casi di cd. vittimizzazione, ovvero a coloro che subiscano un pregiudizio per aver difeso una vittima di discriminazione (art. 41 bis d.lgs. n. 198/2006, art. 4 bis d.lgs. n. 215/2003 e art. 4 bis d.lgs. n. 216/2003).

Un elemento che caratterizza la tutela giurisdizionale antidiscriminatoria è il regime probatorio agevolato. Viene, infatti, prevista l’inversione dell’onere della prova, consentendo all’attore che agisce in giudizio di fornire elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza della discriminazione. Spetta al convenuto l’onere di fornire prova piena che il comportamento posto in essere o il trattamento applicato non sia una discriminazione (art. 40 d.lgs. 198/2006, art. 4 d.lgs. n. 215/2003, art. 4 d.lgs. n. 216/2003).

La legittimazione ad agire compete anche ai soggetti collettivi deputati a rappresentare le categorie tutelate dall’ordinamento, ovvero le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell'interesse leso. Queste possono agire, su delega, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l'atto discriminatorio. Questi soggetti sono, altresì, legittimati ad agire iure proprio nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.

La tutela giurisdizionale è improntata al principio di effettività e dissuasività. Il provvedimento del giudice che accerta la discriminazione contiene, infatti, l’ordine di cessazione del comportamento illegittimo nonché la rimozione degli effetti che ha causato. A tal fine può essere prevista l’adozione di un piano di rimozione degli effetti discriminatori.

La deterrenza della tutela rimediale è affidata al riconoscimento del risarcimento del danno, anche non patrimoniale (art. 37, co. 1 e 2, d.lgs. n. 198/2006), che comincia ad assumere una funzione deterrente e punitiva. Ai fini della sua quantificazione, infatti, il giudice tiene conto del fatto che l'atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. Inoltre, il riconoscimento dell’azione iure proprio da parte dei soggetti collettivi consente il risarcimento del danno a loro favore, in ragione degli interessi (lesi) di cui si fanno portatori (per la Consigliera di parità v. Trib. Pistoia, 8.9.2012, n.177, in Riv. giur. lav., 2013, II, 85 ss.).

La legittimazione processuale riconosciuta a soggetti titolari di interessi collettivi è espressione del carattere di effettività che si intende dare alla tutela antidiscriminatoria. In via preventiva, peraltro, gli organismi collettivi assumo anche funzione di promozione dell’eguaglianza e lotta alle discriminazioni (si consideri il Comitato nazionale di parità e pari opportunità, il Consigliere/la Consigliera nazionale di parità a livello centrale, regionale e provinciale e la loro Conferenza nonché, per le discriminazioni razziali, l’Unar, art. 7 d.lgs. n. 215/2003).

Il giudice può, inoltre, ordinare la pubblicazione del provvedimento di condanna, per una sola volta e a spese del convenuto, su un quotidiano di tiratura nazionale.

Per i titolari di benefici, agevolazioni o appalti pubblici, è prevista la decadenza dagli stessi in caso di accertamento di comportamenti discriminatori e, nei casi più gravi, l’esclusione del responsabile per due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie, ovvero da qualsiasi appalto.

In un’ottica preventiva, invece, va menzionato l’art. 51 bis del Codice Pari opportunità che affida ai contratti collettivi la previsione di misure specifiche (codici di condotta, linee guida o indicazione di buone prassi) per la prevenzione delle discriminazioni sessuali nei luoghi di lavoro, in particolare delle molestie e molestie sessuali.

Il divieto di discriminazione dei lavoratori atipici

Per completezza espositiva va menzionata la tutela antidiscriminatoria che individua come fattore di rischio la tipologia contrattuale di impiego dei lavoratori. Anche in questo caso sulla scia dell’intervento europeo in materia, la legislazione italiana ha introdotto una tutela antidiscriminatoria operante nei confronti dei lavoratori a tempo parziale, a tempo determinato e ai lavoratori somministrati tramite agenzia, nonché a favore dei lavoratori intermittenti. La tutela si sostanzia in un obbligo di trattamento paritario – fermo restando il principio del pro-rata temporis – a quello di un lavoratore comparabile con un lavoratore a tempo pieno (art. 7 d.lgs. 15.6.2015, n. 81), a durata indeterminata (art. 25 d.lgs. n. 81/2015) ovvero alle dipendenze dirette del datore di lavoro, impiegato con mansioni comparabili (artt. 33-34 d.lgs. n. 81/2015 e, per i lavoratori intermittenti, art. 17).

Fonti normative

Art. 3, co. 1, Cost.; art. 37 Cost.; artt. 15-16 l. 20.5.1970, n. 300; d.lgs. 25.7.1998, n. 286; d.lgs. 26.3.2001, n. 151; d.lgs. 9.7.2003, n. 215; d.lgs. 9.7.2003, n. 216; art. 10 d.lgs. 10.9.2003, n. 276; d.lgs. 1.4.2006, n. 198; d.lgs. 6.11.2007, n. 196; l. 3.3.2009, n. 18; artt. 7, 17, 25, 33, 34 d.lgs. 15.6.2015, n. 81.

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