ATENE

Enciclopedia dell' Arte Antica (1958)

Vedi ATENE dell'anno: 1958 - 1973 - 1994

ATENE (᾿Αϑῆναι, Athenae)

W. Johannowski
L. Vlad Borrelli
H. A. Thompson
P. Pelagatti
P. Pelagatti

La città moderna occupa tutta l'area dell'antica, fasciandola da tutti i lati con i quartieri periferici e con i sobborghi, che si stendono oggi quasi ininterrottamente fino ai porti del Falero e del Pireo.

Dalla distesa biancheggiante dell'abitato moderno emergono della città antica, venendo dal mare, le colline della Pnice e del Filopappo, coronata dal monumento funerario di questo magistrato romano, l'Acropoli isolata con i suoi templi dalla patina dorata e con le verdeggianti pendici, in cui si apre la cavea del teatro di Dioniso, si disegnano le terrazze dell'Askiepièion e si alza la sagoma della scena di pietra color miele dell'Odèiòn di Erode Attico, con il lungo portico di Eumene e con la cavea marmorea; più a N, oltre lo spoglio Areopago, si distende la vasta zona dell'Agorà esplorata dagli scavi dalla Missione americana, limitata a O dalla collina del Kolonòs Agoràios, su cui si impianta ancora quasi intatto il cosiddetto Thesèion, e a E dalla ricostruita e candida Stoà di Attalo, adibita a museo. Più a settentrione, in mezzo ai quartieri commerciali moderni, si apre l'area del Dìpylon con la necropoli del Ceramico. Ad E dell'Agorà, nel fitto abitato moderno, rimangono le zone dell'Agorà romana e della Biblioteca di Adriano, mentre nel popoloso e denso quartiere della Plaka, sulle pendici dell'Acropoli, sorge isolata la Torre dei Venti e poco oltre, verso E, si stende l'ampia spianata dell'Olympièion, con l'imponente gruppo delle gigantesche colonne superstiti e con la vicina, intatta Porta di Adriano. Pochi resti antichi sono stati messi in luce nella verdeggiante Valle dell'Ilisso e a NO nel luogo dell'antica Accademia.

In questo panorama dell'abitato moderno domina ancor oggi, come in antico, l'Acropoli, intorno a cui, quasi come un gigantesco mozzo, ruotò nel suo sviluppo urbanistico A., che Erodoto (vii, 140) dice appunto πόλις τροχοειδης (città a forma di ruota).

La morfologia del territorio spiega l'ubicazione e il sorgere di questo centro e la geologia ci fa conoscere i materiali che furono usati attraverso i varî secoli nelle costruzioni della città.

1. Morfologia e geologia. - L'ampia valle del Cefiso, che costituisce la parte centrale dell'Attica, è chiusa fra la bassa catena dell'Aigaleos (Skaratnankà Ore) a NO, il boscoso Parnete a N e il Pentelico e l'Imetto (Trellovuni), ricchi di marmi, a NE e E. Questi gruppi montuosi sono divisi da ampi valichi che rendono facili le comunicazioni con le altre parti della regione. La costa, frastagliata e relativamente alta ad O, dove intorno alla penisola Aktè (m 47,5) e alla collina di Munichia (Kastella, m 86,5) si aprono ben tre porti naturali, continua piatta verso SE con la troppo aperta baia del Falero, che fu il primo porto di A., e la zona poco accidentata di Capo Koliàs. Il corso d'acqua più notevole, ma sempre di portata minima, è il Cefiso, che nasce nella zona di Kiphissià, ai piedi del Pentelico. Ad oriente, fra quest'ultimo e l'Ilisso, corre nella stessa direzione una serie di colline isolate, che culminano a NE nel Turkovuni (m 339), probabilmente l'antico Anchesmòs. Ne fanno parte il Licabetto (m 277,3), l'Acropoli (m 156,2), l'Areopago (m 115) la Pnice (m 109,5), che forma tutt'uno con la collina delle Ninfe (104,8) e il Kolonòs Agoràios, e, più a SE, il Mousèion (m 147,4). L'Ilisso, ridotto ormai ad una fogna, riceve a destra, prima di sboccare nel Cefiso, l'Eridano, proveniente dalle estreme pendici O del Licabetto. Completamente isolate sono, sulla sponda sinistra dell'Ilisso altre due colline, l'antico Ardetto (m 133,1), e il colle di Sikelìa (m 78,8), e a NO, più verso il Cefiso, il Kolonòs Hippios (m 56,7).

A. antica venne ad occupare la zona intorno all'Acropoli, con la Pnice e il Mousèion ad O e parte della bassura dell'Eridano. Dove questo esce dalle mura, a NO del Kolonòs Agoràios (m 68,6), era il punto più basso della città, a m 47. Le parti alte del Licabetto, della collina tabulare dell'Acropoli e dell'Areopago e la Pnice con le sue propaggini sono i resti di una piattaforma di calcare del Cretaceo che degradava verso SO e poggiava su uno strato di marna, il cui fondo era costituito dalla caratteristica ardesia ateniese. Più ad O, sopra lo strato di calcare, sono terreni alluvionali del Pliocene, che si estendono anche oltre il Cefiso. Questa particolare situazione geologica ha favorito la formazione di sorgenti perenni all'incontro del calcare, che assorbe e ritiene le acque meteoriche, con lo strato impermeabile di marna. Le più notevoli sono la Clepsidra, altre tre sulle pendici dell'Acropoli, quelle che alimentano l'Eridano, e alcune sulla riva sinistra dell'Ilisso, dove affiora un altro banco di calcare. Le zone più basse, dove predomina l'ardesia, sono spesso acquitrinose, e i numerosi pozzi scavati nell'antichità sono dovuti all'esistenza di falde idriche, anche notevoli, nel sottosuolo.

2. Dati storici. - La zona di A. era abitata dall'uomo almeno fin dai primi secoli del terzo millennio a. C., come è attestato dalla ceramica di Sesklo rinvenuta nei fondi di capanna sulle pendici meridionali dell'Acropoli. Nell'Elladico antico l'Attica doveva essere già molto popolata, e lo divenne ancora di più al sopraggiungere dei primi Greci, all'incirca all'inizio del secondo millennio a. C. Nell'Elladico medio era infatti abitata anche parte della città bassa di Atene, e assai notevoli sono gli scarichi di questo periodo nella parte N dell'Acropoli.

Mentre i nomi dei due corsi d'acqua più importanti della zona, Ilissòs e Kephissòs, sono sicuramente di origine preellenica, non è da escludere che lo sia anche il nome della città, la cui forma ᾿Αϑῆναι, con il nome della dea tutelare al plurale, è analoga a quella Alalkomènai in Beozia, e si ritrova identica nei pressi di quest'ultima un'altra mitica ᾿Αϑῆναι, che sarebbe stata sommersa dalle acque del lago Copaide. Non sappiamo quanto delle leggende attiche più antiche abbia un nucleo di verità, ma Cecrope ed Eretteo-Erittonio possono essere stati personaggi realmente esistiti, e certi episodî, come la contesa fra Atena e Posidone, possono essere un ricordo delle lotte che precedettero l'unificazione dell'Attica. Con il sinecismo che va sotto il nome di Teseo entriamo nel campo della storia. Allora sarebbe stato fondato il primitivo pritaneo di A. come centro politico dello stato attico, mentre l'Acropoli ne sarebbe divenuta, con l'introduzione dei culti locali degli altri demi, il centro religioso. Non sappiamo quando si sia addivenuti a ciò, ma l'importanza che incominciò ad avere A. a partire dal XV sec. a. C. avanzato ne è il necessario presupposto, se non la conseguenza immediata, e difficilmente possiamo scendere molto più in giù.

Quando, forse dopo un primo tentativo, evidentemente fallito, di cui v'è qualche accenno nella tradizione, nel XII sec. a. C. avanzato i Dori scesero nella Grecia centrale, A. riuscì a resistere, secondo la leggenda, grazie al sacrificio volontario del suo re Codro, e rimase, insieme a Trezene, uno degli avamposti della stirpe ionica sul continente greco. Non sappiamo quando la monarchia fu sostituita dall'arcontato a vita, né quando fu introdotto l'arcontato decennale. Al 683-82 a. C. risalivano le liste degli arconti annuali, che già allora sarebbero stati in numero di nove. L'areopago, una delle istituzioni più antiche dello stato attico, sarà stato costituito già allora almeno in parte da ex-arconti, e avrà avuto la funzione di βουλή, oltre che di tribunale. Non molto tempo dopo il vano tentativo dell'olimpionico Cilone di impadronirsi del potere, per opera di Solone, divenuto arconte nel 594 a. C., il regime aristocratico fu trasformato in timocrazia. Le sue leggi furono incise più tardi nei κύρβεις che erano nella Stoà Basìleios.

Dopo il colpo di stato di Damasia, Pisistrato, messosi a capo del partito dei Diacri, s'impadronì del potere d'accordo con l'alcmeonide Megacle. Cacciato in seguito per opera dello stesso Megacle, Pisistrato tornò nel 546 a. C. e fece esiliare il suo rivale. A Pisistrato successero i suoi figli, Ippia e Ipparco, dei quali il secondo cadde vittima di un tentativo, compiuto da Armodio e Aristogitone, di liberare A. dalla tirannide. Nel 510 a. C. il figlio di Megacle, Clistene, riuscì, con l'aiuto degli Spartani, a cacciare Ippia e riformò la costituzione in senso democratico. Nel 480, dopo che Serse fu penetrato nella Grecia centrale, A. e l'Attica furono evacuate dagli abitanti. A., devastata e distrutta dai Persiani prima della ritirata definitiva, venne subito dopo cinta di mura per opera di Temistocle, che fortificò anche il Pireo, dove fu trasferito il porto militare e commerciale. Accrebbe la potenza politica di A., che ne fu a capo, la Lega delio-attica, istituita ufficialmente per proseguire la lotta contro i Persiani. Dopo la battaglia dell'Eurimedonte (469), Cimone, figlio di Milziade, divenuto ormai l'uomo più influente, fece ricostruire la cinta dell'Acropoli, di cui un breve tratto era stato forse già iniziato da Temistocle. Dopo un tentativo fallito di attaccare i Persiani in Egitto, nel 445, il tesoro della Lega delio-attica venne trasferito da Delo sull'Acropoli. Cimone, tornato dall'ostracismo nel 451, concluse un armistizio con Sparta e concentrò tutti gli sforzi contro i Persiani. Dopo la sua morte fu conclusa nel 449 la pace di Callia. Nel periodo successivo, Pericle, che nel 445 ebbe mano libera in seguito all'ostracizzazione di Tucidide, riuscì, malgrado qualche insuccesso contro i Beoti e la sollevazione dell'Eubea e di Megara, a svolgere un notevole programma edilizio e a fare di A., unendola con il Pireo attraverso le lunghe mura, una piazzaforte difficile ad assediare. L'aiuto concesso poi, nel 435, ai Corciresi contro i Corinzi e soprattutto il successivo blocco commerciale contro i Megaresi, provocarono il lungo conflitto fra A. e Sparta che va sotto il nome di guerra del Peloponneso. A., malgrado la peste del 429, di cui fu vittima lo stesso Pericle, riuscì a resistere alle incursioni spartane in Attica, e condusse contemporaneamente con successo la guerra sui mari. Caduto Cleone ad Anfipoli, nel 421 Nicia nuscì a concludere con Sparta una pace, che da lui prese il nome. In seguito alla disastrosa spedizione contro Siracusa, Teramene instaurò ad A. un regime oligarchico, che fu sostituito dopo la battaglia di Cizico di nuovo dalla democrazia. La lotta continuò con alterne vicende fino al 405, quando la flotta ateniese fu distrutta dagli Spartani ad Egospotami. Dopo esser stata assediata per terra e per mare, A., dove si installò il governo oligarchico dei trenta tiranni, concluse la pace con Sparta. Le condizioni furono durissime, e, fra l'altro, fu imposta la demolizione delle lunghe mura. Per opera di Trasibulo cadde l'oligarchia, e A. riuscì a recuperare, grazie alla vittoria di Conone sulla flotta spartana a Cnido, la sua piena libertà. In seguito alla riscossa di Tebe contro Sparta fu costituita la seconda lega marittima ateniese, con condizioni meno dure per gli alleati che non nella precedente. La guerra contro Filippo di Macedonia, iniziata nel 356, si concluse con un insuccesso, in seguito anche alla defezione di parte degli alleati. Nel 338 A. concluse con Tebe un'alleanza contro Filippo. Dopo la sconfitta di Cheronea essa riuscì tuttavia a conservare parte dei possessi e ad ottenere il riscatto dei prigionieri. Sotto la saggia amministrazione di Licurgo vi fu un breve periodo di floridezza economica, ma, dopo l'esito infelice della guerra di Lamia (323-22), Antipatro impose un governo oligarchico, che, dopo una nuova rivolta, fu sostituito da Cassandro con uno più moderato, a capo del quale fu messo il filosofo Demetrio Falereo. Questi fu scacciato, dopo 10 anni, nel 307, da Demetrio Poliorcete, che ristabilì la democrazia. In onore di quest'ultimo e del padre di lui Antigono furono allora istituite due nuove phylài la Demetriàs e la Antigonìs. Nel 304 Demetrio salvò A. dall'assedio postole da Cassandro, ma nel 301 essa gli si ribellò insieme ad altre città greche. Dopo un terzo intervento di Demetrio, che la costrinse nel 294 a richiamare gli oligarchici esiliati, essa cacciò nel 287 il presidio macedone. Dopo aver subìto un'altra volta, dal 262 al 229, la dominazione macedone, A. si orientò verso i Tolomei e Pergamo, rifiutando di aderire alla lega achea. Nel 229-228 a. C. fu aggiunta la tribù Ptolemaìs a quelle già esistenti e, nel 200 a. C., dopo l'abolizione delle Demetriàs e Antigonìs, fu istituita come dodicesima la Attalis.

Dopo la devastazione del loro territorio da parte di Filippo V, gli Ateniesi divennero alleati di Roma e, dopo il 146 a. C., malgrado il titolo ufficiale di civitas foederata, praticamente soggetti. Quando vi fu la rivolta dei Greci dell'Asia Minore contro i Romani, A. cedette alla demagogia di Aristione e si alleò con Mitridate. Fu presa perciò d'assalto da Silla nell'86 a. C. e subì gravi devastazioni e saccheggi.

Benché avesse preso parte nelle guerre civili prima per Pompeo, poi per Bruto e Cassio e infine per Antonio, A. ebbe a fruire già sotto Augusto della munificenza imperiale. Prodighi di favori furono anche gli altri due imperatori filelleni, Nerone e Adriano; in onore di quest'ultimo fu istituita una tredicesima tribù, la Hadrianìs. Notevoli opere pubbliche furono eseguite anche sotto gli Antonini per la munificenza degli imperatori stessi e soprattutto del retore Erode Attico, originario del demo di Maratona.

Nel 267 d. C. la città fu presa e distrutta dagli Eruli, e solo l'Acropoli si salvò grazie alle sue forti mura. Da questo disastro A. non si riebbe mai più completamente, e solo nel periodo teodosiano vi fu una certa ripresa. La sua università, ancora fiorente allora, pare sia stata soppressa definitivamente da Giustiniano nel 529 d. C.

3. Sviluppo. - Non è cosa facile, anzi quasi impossibile per i periodi più antichi, poter tracciare un quadro dello sviluppo urbanistico di A., poiché i dati di cui disponiamo sono necessariamente parziali. Assai scarse sono le notizie che ci dànno le fonti scritte, di cui nessuna è anteriore al V sec. a. C., e in vaste zone della città sono mancati finora scavi sistematici, soprattutto negli strati più antichi. Inoltre, mentre nelle zone più alte il terreno è stato in gran parte dilavato e in molti casi sconvolto fino alla roccia dalle costruzioni più recenti, sicché i pozzi e le cisterne sono l'unica testimonianza di interi periodi di vita, la città bassa, occupata dal nucleo dell'abitato moderno, può riservare ancora notevoli sorprese.

L'unica zona che, allo stato attuale delle ricerche, risulti abitata senza soluzione di continuità durante tutto il periodo anteriore al submiceneo è la collina dell'Acropoli, con la parte alta delle sue pendici. Ciò sembra confermare, in sostanza, quel che ci dicono le fonti sulla città più antica, la κραναὰ πόλις che sarebbe stata tutta sulla rocca, anche se talvolta il concetto di πόλις equivale a città fortificata, e riguarderebbe quindi, nel caso specifico, tutto il periodo anteriore al 479 a. C. Oltre alle necessità di difesa, la scelta della località è dovuta, naturalmente, alla presenza di ben quattro fonti, di cui la Clepsidra pare sia stata sempre la più importante.

Il poco materiale neolitico rinvenuto a N del Kolonòs Agoràios e una tomba subneolitica nella zona dell'Agorà sono finora isolati, e un abitato dell'Elladico antico, sopravvissuto anche durante l'Elladico medio nella zona dell'Accademia ai piedi del Kolonòs Hìppios, in cui si è voluto riconoscere l'Akàdemos, è già fuori della zona urbana vera e propria. Pure nell'Elladico medio devono esser state abitate, però, a giudicare dalla quantità di ceramica rinvenutavi, la zona dell'Agorà e quella a N del Kolonòs Agaràios a NO dell'Areopago. All'Elladico recente appartengono i primi resti di carattere monumentale sull'Acropoli e avanzi di case, soprattutto sulla pendice N. La cinta della rocca, il cosiddetto Pelasgikòn databile al XIII sec. a. C. (E.R. iii B), è stato preceduto da ben tre fasi costruttive del palazzo e forse da alcune abitazioni sulle pendici N. Non conosciamo invece finora avanzi sicuri, e tanto meno la cronologia, che può esser stata anche più bassa, di una seconda cinta che, almeno a S, doveva comprendere parte delle pendici della collina. Tombe a camera e a fossa databili fra il XV e il XIII sec. a. C. sono state trovate, oltre che nella zona dell'agorà, allora non abitata, sulle pendici N dell'Areopago su quelle SE della collina delle Ninfe e al piede S del Mousèion. L'improvviso abbandono delle case fuori della cinta sulle pendici N dell'Acropoli, avvenuto verso la metà del XII sec. a. C. o poco dopo, è da mettere evidentemente in relazione con l'invasione dorica.

Cessato il pericolo, già fin dall'XI sec. a. C. parte della città bassa dev'esser stata rioccupata, com'è dimostrato dalla presenza di pozzi di questo periodo nella zona dell'Agorà e di numerose tombe submicenee nell'area del Pompèion e del Dìpylon e nelle vicinanze, a S dell'Eridano e, in piccoli gruppi o isolati, sul Kolonòs Agoràios, nell'Agorà, al piede settentrionale dell'Areopago, circa 200 m a NE del Dìpylon (a SE della via del Pireo), dinanzi alla porta di Acarne e a S dell'Olympièion. Confermano questa improvvisa espansione dell'abitato, dovuto probabilmente in parte all'afflusso di elementi ionici e affini da altre zone della Grecia centrale occupate dai Dori, i rinvenimenti di materiale protogeometrico. Pozzi e scarichi di questo periodo sono stati trovati nella zona dell'Agorà e ad O dell'Areopago, verso la porta del Pireo, ma è logico che non si possano trarre in questo caso argomenti ex silentio, essendo mancata finora un'esplorazione sistematica nelle altre zone. Maggiori elementi possiamo ricavare dalla distribuzione delle tombe, che, pur essendo già allora soprattutto fuori dell'abitato, erano abbastanza frequenti anche fra le case. I nuclei più importanti sono finora quelli del Ceramico interno e esterno, nella zona del Pompèion, dove si può seguire uno sviluppo della necropoli da N verso S, e sotto Haghia Triada, ma forse non meno estesi dovevano essere i gruppi trovati ad O del Kolonòs Agoràios, nella zona 200 m a NE del Dìpylon, a S dell'Olympèion e nella zona fra quest'ultimo e il Mouséion, dinanzi alla porta del Falero. Gruppi minori e tombe isolate erano invece nell'Agorà, sulle pendici settentrionali dell'Areopago e fra quest'ultimo e il Kolonòs Agoràios. Da tutto ciò risulta evidente quel che si può forse già sospettare per il periodo precedente, cioè che l'abitato, composto evidentemente da una serie di piccoli agglomerati sparsi, aveva raggiunto già allora, almeno a NO e a SE, i limiti della A. classica. Di particolare interesse sono, a questo riguardo, i ritrovamenti presso l'Olympièion e la porta del Falero, perché dimostrano che non è del tutto infondata, anche se non si può accettarla in senso assoluto, l'ipotesi che fa Tucidide (ii, 15, 3 ss.) circa l'ubicazione del nucleo più antico della città bassa. Egli lo pone infatti a S dell'Acropoli, per l'esistenza in quella zona di alcuni fra i santuarî più antichi, dei quali cita l'Olympièion, il Pöthion e quello di Dioniso ἐν Λίμναις. Sappiamo che il tempio di Zeus Olömpos, iniziato all'epoca dei Pisistratidi, è stato preceduto da uno più antico rimasto praticamente inesplorato, mentre manca qualsiasi prova per l'esistenza di un secondo Olympièion che si vorrebbe localizzare, in base alla errata interpretazione di un passo di Strabone (9, 404), sulle pendici N dell'Acropoli. Inoltre il Pöthion di cui parla qui Tucidide (e anche Strabone nel passo discusso) non è certo l'altro santuario di Apollo Pöthios ὑπὸ μακραῖς, come hanno sostenuto alcuni ancora recentemente, ma quello a S dell'Oiympièion verso l'Ilisso, da cui provengono varie dediche e, fra l'altro, anche due lunghi frammenti dell'iscrizione dell'altare consacrato sotto l'arcontato di Pisistrato il giovane, di cui lo stesso Tucidide (vi, 54, 7) ci dà il testo completo.

Scarichi e pozzi del periodo geometrico sono stati rinvenuti in notevole quantità nella zona dell'Agorà, sulle pendici N, O e S dell'Areopago e a S dell'Olympièion. Gli avanzi di costruzioni riferibili con sicurezza a quel periodo sono invece finora scarsissimi e in pessimo stato, tanto da permettere in un solo caso, al piede NO dell'Areopago, la ricostruzione della pianta ellittica di una casa. Le necropoli più importanti sono finora quelle nel Ceramico esterno, sulle due sponde dell'Eridano, dove si continuò poi a seppellire fino ad età romana tarda e 200 m a NE del Dìpylon, mentre tombe isolate o a gruppi sono state rinvenute sulle pendici N e O dell'Areopago, fra l'Acropoli e la Pnice a S dell'Odèion di Erode Attico e, a N, presso la moderna piazza Omonia. Nel VII sec. a. C. era intensamente abitata anche la zona a S dell'Olympièion, oltre a quelle dell'Agorà, dove si sono trovati pochi avanzi di una casa o officina attigua ad un recinto funerario in uso dal Tardo-Geometrico nei pressi della Thòlos, e alle pendici dell'Areopago. Altre tombe della stessa epoca sono state trovate sulle sponde dell'Eridano e sulla sinistra dell'Ilisso, fuori la porta Diomeia (a S dell'Olympièion).

Fra la fine del VII e l'inizio del VI sec. a. C. dev'esser stato costruito un primo tempio monumentale sull'Acropoli, del quale ci sono pervenuti elementi dell'elevato, e nel periodo di Solone fu sistemata la nuova Agorà ai piedi dell'Areopago, a N. Verso il 566 a. C., quando furono istituite le grandi Panatenee, sorse un nuovo grande tempio sull'Acropoli e fu sistemata, utilizzando in parte strade precedenti, la via Sacra dal Ceramico all'ingresso della rocca. Sotto Pisistrato furono costruiti varî edifici dell'Agorà, fra i quali il prytanikòs òikos e i primitivi sacelli di Apollo Patròos e di Zeus. Non sappiamo se la sistemazione della Kallirrhoe, nella quale sarà da riconoscere una delle fonti sull'Ilisso, probabilmente quella a S dell'Olympèion, sia dovuta a lui o ai suoi figli, né se il nome Enneakroùnos si riferisca ad una o più fontane. Certo è che tutto un sistema di acquedotti, che attingevano l'acqua da più sorgenti nella valle dell'Ilisso, e alimentavano almeno una fontana nell'angolo SE dell'Agorà e una fra l'Areopago e la Pnice, dev'esser stato eseguito fra il 530 e il 510 a. C. all'incirca. Sotto i Pisistratidi furono costruiti inoltre il vecchio tempio di Dioniso Eleutherèus, forse contemporaneamente alla più antica orchestra nello stesso santuario, almeno la peristasi del tempio di Atena Poliàs sull'Acropoli, e fu iniziato il nuovo Olympièion, interrotto evidentemente all'epoca della cacciata dei tiranni. All'arcontato di Pisistrato il giovane (522-21 a. C.) sono datati l'altare del Pöthion e quello dei dodici dèi nell'Agorà, che era al punto di partenza delle vie per i demi rurali sistemate da Ipparco e da lui ornate di erme (᾿Ιππαρχείοι ᾿Ερμαί) a metà strada. All'età di Clistene possono essere attribuiti il più antico Bouleutèrion nell'Agorà, la prima sistemazione della Pnice come luogo di riunione per l'assemblea popolare e, forse, il primo progetto per il Partenone, che secondo alcuni sarebbe invece tutt'uno col secondo e, quindi, posteriore a Maratona.

Dell'abitato del VI sec. a. C. e dei primi due decennî del secolo successivo si sono trovati, oltre a pozzi e scarichi, molti avanzi di muri appartenenti a case, di nessuna delle quali conosciamo però la pianta completa. Erano certamente occupate da abitazioni le pendici dell'Areopago e parte di quelle dell'Acropoli al disotto del Perìpatos, la zona dell'Olympièion, e, almeno in parte, la Pnice e la collina del Mousèion, comprese le loro pendici occidentali, che facevano parte dei demi urbani di Melite a N e di Koile a S. Conosciamo invece troppo poco la zona a N e NE dell'Acropoli e l'ubicazione dei demi Kollytòs e Kydathenàion, anche se il primo era certamente ad O o a S dell'Acropoli, mentre il secondo non doveva essere troppo lontano da quest'ultima. Il tracciato delle strade, rimasto in sostanza invariato nella ricostruzione della città dopo il 479 a. C., coincide in gran parte almeno con le direttrici di traffico quali si erano venute formando dal periodo submiceneo in poi. Esso è conosciuto nelle linee generali discretamente nella parte SE, dove si è però dovuto adattare in gran parte fin dall'inizio al terreno abbastanza accidentato, mentre non ne sappiamo quasi niente in tutto il resto della città.

Il maggior numero di tombe del VI sec. a. C. è stato trovato finora nel Ceramico esterno, sulle sponde dell'Eridano, nel luogo stesso della necropoli più antica. Altre sepolture, isolate o a gruppi, sono conosciute nel quartiere a S dell'Agorà e sull'Ilisso, a SE della collina del Mousèion.

L'unico edificio notevole datato sicuramente a questo periodo trovato nel suburbio è il ginnasio conosciuto sotto il nome di Accademia presso il Kolonòs Hìppios, di cui sussistono le sole fondazioni.

Dopo le distruzioni del 479 a. C. l'abitato dev'esser stato ricostruito, evidentemente, a giudicare da quel poco che ne sappiamo, senza alcun piano di coordinamento. Infatti non risulta finora nessun cambiamento nella pianta della città rispetto al periodo precedente. Le fortificazioni furono costruite immediatamente, e quello che sappiamo dalle fonti circa il reimpiego in esse degli elementi dei monumenti funerari distrutti dai Persiani, è stato confermato dalle scoperte. Il tracciato del muro di Temistocle è ben conosciuto per gran parte della sua lunghezza, e pare ormai sicuro che esso giungesse fino all'Ilisso. Anche un tratto del muro N dell'Acropoli, che segue l'andamento di quello miceneo, è stato attribuito a Temistocle.

Con il bottino della battaglia dell'Eurimedonte, si riuscì a finanziare la ricostruzione quasi totale dei lati S e E delle mura dell'Acropoli, alle quali erano contemporanei o quasi i propilei pre-mnesiclei e la Kalchothèke. Pure dell'epoca di Cimone erano la Thòlos e la Stoà Poikìle nell'Agorà. Sotto Pericle, dal 449 a. C. in poi, fu evidentemente iniziato il restauro definitivo dei santuarî distrutti dai Persiani. Sull'Acropoli furono eretti dal 448 al 432 a. C. il Partenone, contemporaneamente alla fase più recente di questo i Propilei di Mnesicle e, dal 432 al 425, il tempio di Atena Nike. In città furono costruiti allora, e compiuti certo prima del 425 circa, l'Hephaistièion sul Kolonòs Agoràios e il tempio di Ares, la cui ubicazione originaria non è nota. Al più tardi allora fu sistemato il dròmos, l'ampio viale rettilineo che dal Dìpylon andava all'Accademia. Fra le opere di difesa dobbiamo accennare alle lunghe mura da Atene al Pireo e al Falero. Cleone progettò poi almeno un muro divisorio (diatèichisma), di cui non conosciamo avanzi sicuri, per abbreviare il percorso delle mura urbane.

La pace di Nicia (421) segnò l'inizio di una nuova notevole attività costruttiva. Furono costruiti allora varî edifici dell'Agorà, fra i quali il nuovo Bouleutèrion, sull'Acropoli, l'Erechthèion, terminato alquanto più tardi e, nel santuario di Dioniso Eleutherèus, il nuovo teatro e il nuovo tempio.

Dopo il 405 a. C. furono demolite le lunghe mura e proprio alla fine del secolo fu rifatta la Pnice. Conone rifece gran parte dell'elevato delle mura urbane, che furono poi, sotto Licurgo, in parte adattate alle nuove esigenze militari. Al periodo dopo Cheronea risalgono anche la ricostruzione del teatro di Dioniso, il tempio di Apollo Patròos nell'Agorà, e la terza fase della Pnice, rimasta incompiuta.

Dopo la liberazione della città da parte di Demetrio Poliorcete, nei quattro anni successivi al 307-6 a. C., furono costruiti, nell'ambito di un restauro generale della cinta, un phroùrion sul Mousèion e, fra questo e la Pnice, un diatèichisma, notevolmente rafforzato dopo il 229 a. C. Nel secondo e terzo quarto del II sec. a. C. fu ripresa la costruzione, presto interrotta, dell'Olympièion, e furono costruite nell'Agorà le stoài del lato meridionale, la Stoà di Attalo e il nuovo Metròon.

Delle case di abitazione del periodo classico ed ellenistico sappiamo sempre relativamente poco, ma conosciamo la pianta di alcune, del tipo a cortile centrale o più semplici, soprattutto grazie agli scavi di gran parte della zona fra l'Areopago, la Pnice e il Kolonòs Agoràios. Le tombe sono state trovate un po' dovunque fuori le mura, ma finora quasi solo la necropoli dinanzi alla Porta Sacra e al Dìpylon, sull'Eridano, ci ha dato anche avanzi monumentali.

L'assalto dato alla città da Silla nell'86 a. C. e il successivo saccheggio causarono danni gravissimi. Il Pompèion fu distrutto dai proiettili delle macchine d'assedio, la Thòlos e alcuni edifici adiacenti nella parte SO dell'Agorà furono gravemente danneggiati da un incendio; sulle pendici meridionali dell'Acropoli e nella zona antistante fu creata dai difensori la terra bruciata, salvo nei santuarî, che rimasero indenni. Le riparazioni più urgenti ebbero luogo abbastanza presto, ma, per esempio, l'Odèion di Pericle, che era stato incendiato, fu ricostruito solo alcuni decenni dopo, grazie alla munificenza di Ariobarzane. Pure nello stesso periodo, intorno alla metà del I sec. a. C., può essere datato l'Orologio di Andronikos.

In età augustea furono costruiti l'Agrippelon e la Stoà NE nell'Agorà, il tempio di Roma e Augusto sull'Acropoli, una Stoà nel Ceramico interno, e la cosiddetta Agorà romana, e fu trasferito nell'Agorà il tempio di Ares. Sappiamo invece ben poco dell'attività edilizia sotto i Giulio-Claudî e i Flavî e solo un restauro del proscenio del teatro di Dioniso può essere attribuito con sicurezza a Nerone. Al principato di Traiano sono datati la Biblioteca di Pantainos nell'angolo SE dell'Agorà e il monumento funerario di Antioco Filopappo.

Alla munificenza diretta di Adriano, che fu onorato come δεύτερος κτίστης di A., sono dovuti la Stoà con Biblioteca a N dell'Agorà romana, il compimento dell'Olympièion con il peribolo, la ricostruzione del Pompèion e un ginnasio di cui non conosciamo il posto, tutti elencati da Pausania. Contemporaneamente il teatro di Dioniso fu in gran parte rifatto e trasformato soprattutto nella scena.

Conosciamo il posto e l'acquedotto con la conserva d'acqua sulle pendici del Licabetto. La "città di Adriano" a N dell'Olympièion, cui si accedeva dall'arco onorario erettogli dagli Ateniesi, è evidentemente solo una nuova sistemazione urbanistica della zona, forse prima scarsamente abitata, ma comunque inclusa nella cinta almeno fin dal IV sec. a. C., se non già da Temistocle. In essa sorsero, in parte ancora in età adrianea e comunque prima della fine del II sec. a. C., alcuni edifici pubblici, fra i quali due di carattere termale e forse un ginnasio.

Sotto i due primi Antonini cade l'attività di Erode Attico, il quale fece restaurare e rivestire di marmi lo stadio e costruire pure a sue spese il nuovo Odèion ai piedi dell'Acropoli.

Ad età anteriore all'incursione degli Eruli può esser datato forse un rifacimento delle mura, mentre il muro detto di Valeriano, che cinge solo il nucleo più interno della città, è in ogni caso posteriore al 267 d. C., anche se soltanto di qualche decennio. Fra i pochi edifici pubblici restaurati prima della fine del III sec. d. C. sono la Thòlos, ormai fuori della cinta, e il teatro di Dioniso, il cui bèma fu rifatto sotto l'arcontato di Fedro. A partire dal IV sec. d. C. furono costruite in parte anche ricche case a più ambienti, sempre ancora del tipo a peristilio, e alcuni edifici termali minori sulle pendici settentrionali dell'Areopago e certamente anche altrove. Sotto Teodosio e i suoi figli possono essere datati alcuni edifici absidati, probabilmente scholae filosofiche, nella Biblioteca di Adriano, che fu allora ricostruita, al polso del Metròon, nell'Agorà, e a S dell'Odéion di Erode Attico; ma l'edificio più grandioso di tale periodo che ci è conosciuto è il ginnasio, che venne ad occupare tutta la parte centrale dell'Agorà. Fra le basiliche paleocristiane sorte nel V sec. le più notevoli sono quelle presso l'Olympièion, nell'Asklepièion e sull'Ilisso, mentre forse ancora nel VI sec. furono costruite la Megale Panaghia al posto del tetràkonchos della Biblioteca di Adriano, e H. Dionysios Areopaghitis a NE della sommità dell'Areopago.

Materiali e tecniche costruttive. - I materiali da costruzione usati esclusivamente fino al VI sec. a. C. ad A. sono il calcare dell'Acropoli e i mattoni crudi. Il primo è usato nel periodo miceneo, salvo naturalmente per le fondazioni e lo zoccolo dei muri. Solo il Pelasgikòn e in parte i muri di terrazzamento erano in blocchi poligonali di grandi dimensioni, mentre il palazzo miceneo e alcune case attigue sull'Acropoli sono in pietre per lo più di media grandezza. L'opera poligonale, del tipo più rozzo nel periodo miceneo, è poco usata più tardi fino agli inizî del VI sec., epoca in cui è più curata, anche se assai di rado del tipo "Lesbio", e sostituita talvolta già dallo pseudopoligonale, che perdura almeno fino alle soglie del periodo ellenistico. Dalla fine del VII sec. a. C. è usato negli edifici sacri e pubblici, più che altro nell'elevato, anche il poros (calcare del Pireo) normalmente in blocchi squadrati. Il calcare di Karà, più compatto di quello dell'Acropoli e più duro del poros, è stato introdotto come materiale da costruzione, più che altro per le fondazioni di grossi edifici, forse già nel secondo venticinquennio del VI sec. a. C. Esso è frequente soprattutto sotto Pisistrato e i suoi figli, lavorato in blocchi poligonali in pianta disposti ad assise regolari, e, dopo, in blocchi squadrati (2a fase del Partenone). I marmi sono poco usati nel VI sec. come materiale da costruzione, e sempre in parti secondarie, come le metope e le sime dei due peripteri arcaici sull'Acropoli, ma già dalla fine del VII sec. a. C. vengono impiegati per le sculture, e dall'epoca di Pisistrato all'incirca anche per colonne-sostegno di anathèmata, stele-pilastro, basi, iscrizioni ecc. Abbastanza spesso si tratta in età arcaica di marmo bianco dell'Imetto e di marmo insulare, soprattutto nassio e pario. I perni più antichi sono quelli a cuneo, che sotto i Pisistratidi sono usati insieme alle grappe a ???SIM-09???.

Già nella seconda fase del Partenone, che è da datare probabilmente dopo la battaglia di Maratona, l'elevato era previsto in marmo, e in marmo pentelico sono interamente, salvo le fondazioni, il Partenone pericleo, l'Hephaistièion, il tempio di Ares, i Propilei di Mnesikles, e il tempio di Atena Nike. Nelle costruzioni dell'ultimo quarto del V sec. è usato spesso per il krepìdoma o, per l'assisa sovrapposta allo zoccolo, il marmo dell'Imetto e, qualche volta, la pietra di Eleusi, apparsa già nel periodo di Pericle.

In altri edifici pubblici minori del V sec. l'euthynterìa, e spesso anche l'elevato, sono in poros. Le grappe sono a ⌴ e ricorrono abbastanza di frequente perni verticali. Il conglomerato di Agryle, una pietra molto friabile, ma economica, è usata nell'ultimo quarto del V sec. a. C. per le fondazioni nel santuario di Dioniso Eleutherèus, e viene sempre più usato per le parti non visibili degli edifici dal IV sec. a. C. in poi. All'epoca di Licurgo, e spesso anche in età ellenistica, esso costituisce il nucleo dei muri a più filari di blocchi o di terrazzamento. Da allora appare anche associato sempre a quello a ⌴ il tipo di grappa a Ø che sarà poi quello predominante. In età ellenistica non ci sono in fondo grandi novità e il materiale da costruzione varia moltissimo a seconda delle disponibilità di danaro o di materiale di risulta. Nel II sec. a. C. avanzato è frequente l'uso del marmo dell'Imetto per gli ortostati, l'assisa di copertura di questi e gli stipiti delle porte in muri di poros o di marmo pentelico, che troveremo anche dopo, almeno fino all'età augustea. In quest'ultima fa la sua prima, timida, apparizione l'opera a sacco, usata all'inizio solo per fondazioni, e l'effetto policromo nell'architettura è ancora accentuato dai fusti di colonne in marmo dell'Imetto e in cipollino. Forse ancora del I sec. dell'Impero sono le strutture in opera reticolata di una fontana nell'Agorà e di una terma presso l'Accademia di Platone, e nelle costruzioni adrianee sono usati, accanto ai sistemi tradizionali, l'opus incertum e il laterizio. Quest'ultimo e l'opera listata diventeranno dominanti dal IV sec. d. C. in poi, ma continuerà ad essere in auge almeno fino al V sec. d. C. anche l'altra tecnica, abbastanza frequente ad A., dell'opus quadratum con nucleo in opera cementizia.

4. L'Acropoli. - Il nome ᾿Ακρόπολις è usato nel caso specifico esclusivamente per l'ampia collina tabulare che fin dall'inizio sembra aver avuto il carattere di rocca, e non fu mai esteso alle alture adiacenti (Pnice, Mousèion, Areopago). In contrapposizione ad ἀκρόπολις la città bassa era chiamata ὑπόπολις (Poll., 9, 20). Durante l'età classica l'Acropoli è chiamata, sia in alcune fonti letterarie, sia in iscrizioni, qualche volta ancora πόλις mentre per la città bassa è usato, oltre a questo nome, anche quello di ἄστυ. In parte ciò è dovuto certamente alla tradizione secondo la quale la città più antica sarebbe stata sulla rocca e in parte al fatto che l'Acropoli, visibile da lontano con i suoi templi di marmo e la statua della Pròmachos, riassumeva simbolicamente tutta la maestà e grandezza della A. classica. Un altro nome, Γλαυκώπιον, non sarà stato certo quello originario della collina, nel senso di rupe delle civette, ma derivato evidentemente dall'epiteto di Atena γλαυκῶπις "dall'occhio ceruleo".

L'Acropoli era, nel secondo millennio a. C., un esempio tipico di rocca micenea con il palazzo dell'ἄναξ circondato da case. Questo suo carattere si accentuò ancora quando, nel XIII sec. a. C., fu creata intorno ad essa la potente cinta fortificata. Nel corso dei primi secoli del primo millennio essa si trasformò, come quelle di altre città, in un esempio altrettanto tipico di acropoli greca, con i santuarî delle divinità tutelari, i suoi templi e numerosi anathèmata.

Di questa trasformazione rimane chiara testimonianza in due passi di Omero. Nell'Odissea (vii, 81) Atena, giungendo dall'isola di Feaci ad Atene, entra nella casa di Eretteo; nell'Iliade (ii, 549), invece, è ricordato che Atena aveva allevato Eretteo, il figlio di Ghe, collocandolo nel suo tempio in Atene. Nel primo caso Eretteo è ancora il principe dominatore dell'Acropoli che offre alla dea l'ospitalità nel suo palazzo, nel secondo invece Eretteo è il protetto di Atena, che diverrà compagno al suo culto nel tempio dell'Acropoli. Siccome il passo dell'Iliade ha nei versi seguenti un accenno alle feste Panatenaiche, di cui Pisistrato fu il riordinatore, si è fatta l'ipotesi che in esso abbia da vedersi una di quelle interpolazioni che poté introdurre nel testo omerico la recensione pisistratea. Così egualmente sotto l'influenza ateniese sembra stare l'episodio del vi libro (86 ss.) dell'Iliade, in cui Ettore incarica la madre di salire sull'acropoli di Ilio, di entrare nel tempio di Atena e di deporre sulle ginocchia della dea il peplo più bello. V'è certo qui un duplicato del dono del peplo nelle feste panatenaiche, e, come in A., il tempio della dea è immaginato sull'acropoli. Se in questo episodio il nome acropoli è ancora spezzato nei suoi elementi costitutivi ἐν τόλει ἄκρῃ, la parola unica, egualmente per l'acropoli di Ilio, appare nell'Odissea (viii, 494, 504). Questo costituirsi di un aspetto letterario, omerico, dell'acropoli troiana sul modello dell'Acropoli di A., apparsa esemplare per situazione e per culto, naturalmente non coinvolge il problema del suo aspetto reale, per quanto gli scavi sulla collina di Hissarlik abbiano per il sesto strato, quello della civiltà micenea, accertato, sì, l'esistenza di Ilio sulla collina, ma non rimesso in luce una vera e propria acropoli separata dalla restante città.

L'Acropoli è una zolla tabulare di calcare bluastro, venato di rosa, abbastanza compatto, con pareti a picco molto frastagliate, nelle quali si aprono delle grotte, che poggia su una bassa conoide di marna dal pendio piuttosto ripido, unita ad O con le pendici dell'Areopago. Il punto più alto della spianata (m 156), le cui dimensioni massime erano, in età classica, di m 310 da E ad O e di m 135 da N a S, è nella parte orientale, a NE del Partenone, nel luogo dov'era l'altare di Zeus Polièus. Le sole vie d'accesso erano ripide erte, facilmente difendibili al centro del lato occidentale e a NE, dinanzi alla facciata dell'Erechthèion. Ai piedi della rupe sgorgano ben quattro fonti perenni, cioè le due nella zona dell'Asklepièion a S e la Clepsidra e quella presso la scala delle arrephòroi a N. Le ultime due, più ricche d'acqua e ad un'altezza maggiore delle altre, furono rese accessibili dall'alto in epoche diverse per rifornire d'acqua la rocca in caso d'assedio.

Nessuna delle colline fra l'Ilisso e il Cefiso si prestava perciò meglio ad una posizione di difesa.

Il Turcovuni era troppo accessibile dalla parte di terra su per le sue comode pendici, come lo erano altresì, dalla parte di mare, il Mousèion, la Pnice, la collina delle Ninfe, per il loro lento digradare verso la pianura. Il cono troppo sfilato del Licabetto, se cadeva a picco verso SO, troppo facilmente si poteva scalare alle spalle attraverso la sella che lo riuniva al Turcovuni e, ad ogni modo, il suo strettissimo cocuzzolo non era adatto a ricevere una fortezza. Solo l'Acropoli, massiccio isolato sulla pianura con rocce a picco su quasi tutti i suoi fianchi, e neanche facilmente raggiungibile dalla sella che la riuniva all'Areopago, costituiva una naturale posizione di difesa e di dominio e offriva anche al suo culmine un sufficiente pianoro per l'impianto di una fortezza murata. Il predominio sulla pianura attica doveva toccare di necessità ad una fortezza così felicemente collocata, e doveva restarle anche quando l'acropoli di un principe miceneo si trasformò in acropoli sacra di una città greca. Nel mitico sinecismo di Teseo si cela questa lenta opera storica di assorbimento da parte di A. delle comunità circostanti dell'Attica, anche fuori dei monti e dei passi che chiudevano la sua pianura. L'accoglimento sull'Acropoli e nelle immediate sue vicinanze degli dèi appartenenti a queste comunità assorbite (Artemide di Braurone, Dioniso di Eleutere, Demetra di Eleusi, Dioscuri di Afidna), comprova questo predominio di Atene anche quando l'Acropoli era divenuta santuario: sui numi minori, che aduna intorno a sé, dominatrice rimane la dea Atena.

L'aspetto naturale ed originario dell'Acropoli appare ora modificato dalle mura, che ne hanno serrato e in parte nascosto le rocce e dalla discesa dei detriti che ne hanno attenuato il salto su tutte le pendici, ma quando essa per la prima volta si offrì all'abitazione umana doveva presentarsi, non solo per la sua elevazione, ma anche per la caduta a picco o frastagliata dei suoi fianchi e per gli spacchi e per le grotte che si aprivano in essi, come una sede singolarmente attraente e munita.

Età preistorica. - Se gli scavi condotti sul pianoro dell'Acropoli, sia per il rimaneggiamento degli strati sia per la scarsa attenzione che allora si prestava a queste modeste reliquie, non hanno accertato l'esistenza di abitazioni di età preistorica, questa invece è risultata sicura negli incavi della roccia e nelle pendici.

Naturalmente esse dovevano attendersi più che sul lato settentrionale, rivolto verso i monti e d'inverno fortemente battuto dai venti, dal lato meridionale, il cui declivio solatio guarda il mare.

È probabile che un rifugio o anche una comoda abitazione avessero offerto agli uomini primitivi alcune minori grotte del lato settentrionale ed una vastissima nell'angolo di NE; ma le prime, se anche avevano conservato residui di vita umana, dovettero essere vuotate e ripulite quando, in età storica, furono adibite al culto delle Ninfe, di Pan, di Apollo, e l'altra, se anche non prima, fu certo spazzata via, allorquando si riversò in essa parte dello scarico degli scavi fatti sul pianoro dell'Acropoli, giacché l'esame del suo riempimento, che fu portato sino alla roccia, rivelò che esso era tutto rimescolato e non conteneva né cocci né altri oggetti di età preistorica.

Non c'era da aspettarsi che l'Acropoli fosse stata abitata in età paleolitica, poiché finora le tracce di questa civiltà nel bacino dell'Egeo sono scarsissime.

Per altro un indice che l'uomo avesse là dimorato in età neolitica o, ancor meglio, in periodo eneolitico si aveva nella presenza di frammenti di coltelli di ossidiana raccolti sul declivio meridionale. A questo si era aggiunta la scoperta casuale sulla medesima pendice di una tomba ad inumazione di periodo eneolitico, che aveva restituito ceramica di impasto e freccioline di ossidiana.

Una ricerca appositamente istituita nelle vicinanze della tomba, per ritrovare altre tracce di questa vita preistorica, mise allo scoperto il fondo di una casa di periodo neolitico. Essa si era venuta ad impiantare in un incavo naturale esistente tra due brevi dorsi di roccia: l'incavo, perché potesse offrire un piano orizzontale all'abitazione, era stato riempito di ciottoli e terra, cui erano frammischiati cocci, frecce e coltelli di ossidiana, appartenenti al disfacimento di case precedenti risalenti fino al periodo detto di Sesklo (inizio terzo millennio a. C.). Sulla fronte a valle della piccola casa questo riempimento era stato trattenuto e chiuso da uno spesso murello a scarpata di argilla cruda di color giallo. Egualmente di argilla cruda si debbono immaginare le mura dell'elevato, ma esse, perché bruciate nell'incendio della casa, erano venute a costituire, cadendo, uno strato di argilla rossiccia al di sopra del pavimento. Nel mezzo della casa esisteva il focolare delimitato da pietre fitte. Il materiale trovato nel terreno appoggiato alla fronte della casa e sul piano della casa stessa non è differente da quello capitato nel riempimento di essa; soprattutto la presenza di qualche coccio decorato a fasce rosse seghettate e di freccioline di ossidiana ad alette con peduncolo allungato conferma la sua appartenenza al periodo neolitico.

Al medesimo periodo, per quanto forse ad una fase più antica, riporta il materiale trovato esplorando una grotticella e un riparo sotto roccia, che si aprono nel calcare egualmente dalla parte meridionale. La grotticella, avendo servito da rifugio anche in età moderna, non ha restituito materiale preistorico nel suo piano; invece dinnanzi ad una piccola finestra, che è a lato dell'ingresso e da cui evidentemente erano stati gettati residui di cibo e materiale inutilizzabile, si trovarono coltelli di ossidiana e frammenti di ceramica di rozzo impasto, insieme a qualche frammento di una ceramica di argilla depurata con ornati marroni, anch'essa caratteristica del periodo neolitico. Il medesimo materiale si è trovato nello strato più profondo del riparo sotto roccia.

Scarichi degli stessi periodi, ma meno estesi, sono stati rinvenuti poi anche sulle pendici settentrionali e a NO. Nelle vicinanze della Clepsidra, sono stati esplorati alcuni pozzi tardo-neolitici e medio-elladici, e frammenti ceramici dell'Elladico antico e dell'Elladico medio sono stati rinvenuti in punti diversi delle pendici. Sulla sommità della collina quasi tutto quello che rimaneva in superficie degli strati più antichi è stato dilavato o sconvolto, e solo nella parte più settentrionale dell'area che fu poi occupata dal palazzo abbonda il materiale dell'Elladico medio.

Periodo miceneo. - Benché le distruzioni avvenute nei secoli posteriori abbiamo ridotto notevolmente le testimonianze della civiltà micenea sull'Acropoli, gli scavi sistematici ne hanno rimesso alla luce avanzi assai più cospicui di quelli delle fasi di civiltà precedenti. Tra essi vanno menzionati il palazzo e il muro di cinta.

Del palazzo, che sorgeva a NO della parte più alta della collina, nell'area poi occupata dal più antico tempio di Atena Poliàs e dall'Erechthèion, a cavallo di una delle due vie d'accesso, ci sono pervenuti avanzi troppo esigui per poterne riconoscere con sufficiente esattezza la disposizione. La parte occidentale era su una terrazza artificiale sostenuta da un muro, che servì poi da terrazzamento al tempio di Atena e rimase in piedi durante tutta l'antichità classica. Il fosso di fondazione, scavato nella roccia, ha permesso di riconoscerne l'andamento. Esso formava il lato N della rampa di accesso alla sommità dell'Acropoli, piegava a N fra la Kalchothèke e l'edificio delle Arrephòroi e si dirigeva poi verso E, in direzione dell'Erechthèion. La pianta della parte più cospicua non doveva essere troppo dissimile, a giudicare dai pochi tratti di fondazione rimasti, da quella del palazzo di Tirinto; il mègaron, di cui si son volute identificare le basi di due delle colonne interne, era, a quanto pare, nella zona della cella del tempio di Atena e doveva avere, come questa, l'accesso ad E. Nel cortile antistante doveva sorgere l'altare, nell'area poi occupata da quello di Atena, che fu in origine la dea protettrice del palazzo. Meglio conservati sono alcuni piccoli vani ad E del cortile, che almeno in parte saranno stati magazzini, e altri a N, dove, a difesa della porta, cui si accedeva per una scalinata dalle pendici N, sporgeva una torre. I muri, che appartengono a ben tre fasi costruttive, sono, come tutte le strutture micenee dell'Acropoli all'infuori del Pelasgikòn, che è di data più recente, in pietre non lavorate, di dimensioni relativamente piccole, unite con argilla e frammiste a scheggiame.

Poco più a SE, sul punto più alto, era l'altare di Zeus Pohèus, dove il culto risaliva evidentemente ad età micenea, come dimostra la cerimonia della bouphonìa che vi si celebrava ancora in età classica in occasione delle Diipolie. Infatti soprattutto l'uso della bipenne e il processo che si faceva ad essa, dopo che era stata gettata via da colui che aveva sacrificato il toro, ricordano concezioni religiose di quel periodo, sopravvissute anche in altre parti del mondo greco. Oltre a quello di Artemide Brauronia, introdotto con il sinecismo di Teseo, altri culti più tipicamente locali dell'Acropoli saranno stati di origine micenea o anche più antica, ma, dato che la tradizione letteraria che ad essi si riferisce è stata perlomeno arricchita in età storica, sia pure molto antica, se ne tratta più avanti. Manca inoltre qualsiasi elemento archeologico concreto, salvo le opere di adattamento del portico delle κόραι dell'Erechthèiòn alla cosiddetta tomba di Cecrope, la cui esatta natura ed età ci sfuggono, e alcune terrecotte votive tardo-micenee trovate fra il materiale scaricato dall'alto sulle pendici N.

Gli avanzi di alcune costruzioni lungo il lato N, fuori dell'area del palazzo, fra l'Erechthèion e i Propilei, non sembrano aver avuto alcun riferimento con luoghi di culto anche più recenti. Esse sono costituite soprattutto da ambienti relativamente piccoli, uno dei quali, ben conservato e senza accesso dall'esterno, doveva essere un silos, e appartenevano evidentemente a case private. Lo stesso si può dire degli scarsi resti di muri sul pendio meridionale e soprattutto su quello settentrionale.

Nel muro di cinta è stato riconosciuto il famoso Πελασγικόν delle fonti antiche. La tradizione posteriore voleva che questo muro fosse stato costruito dai Pelasgi, i quali una volta avrebbero abitato sotto l'Acropoli (Paus., i, 28, 3) e sull'Imetto.

La scienza moderna nega questo ricollegamento del muro ai Pelasgi, per quanto riesca difficile ammettere che il nome originario, Πελαπγικόν, dovesse significare "muro delle cicogne", e che la sua trasformazione in Πελασγικόν abbia condotto ad inventare la presenza di Pelasgi in A. secondo il racconto che Ecateo ne ha lasciato in Erodoto (vi, 137). L'uso della forma Pelargikòn per Pelasgikòn indica solo una pronuncia attica e uno scambio di suoni simile a quello che si trova in un altro nome di popoli la cui sorte è intrecciata con quella dei Pelasgi, dei Tyrsenoi-Tyrrenoi.

Insanabilmente discordi sono le notizie degli antichi sul luogo del Pelasgikòn. È certo per altro che da Tucidide (ii, 17, 1) a Luciano (Bis accus., 9, 12; Pisc., 42, 47) il Pelasgikòn, o almeno quella parte di esso che ancora si vedeva dalla parte di settentrione, stava sotto l'Acropoli. Questo è confermato da un'iscrizione della seconda metà del sec. V a. C. (Inscr. Graec., i, suppl., 27 b, p. 59 ss), in cui è fatto divieto di asportare pietre dal Pelasgikòn o di cavarne terra, divieto incomprensibile se si fosse trattato solo della cima dell'Acropoli. Allo stesso divieto si riferisce un motto oracolare riportato in Tucidide (ii, 17, 2) per cui era "meglio che il Pelasgikòn rimanesse deserto", e allo stesso risultato, che non potesse il Pelasgikòn chiudere solo la cima dell'Acropoli, conduce la sua testimonianza che durante la guerra del Peloponneso la popolazione della campagna che si rifugiava in città fu accolta anche dentro il Pelasgikòn nonostante tale divieto.

Appare pertanto giustificata l'ipotesi secondo la quale, oltre al muro che recingeva l'Acropoli, ve ne fosse un altro, che scendeva sino a comprenderne parte delle pendici. Non ne conosciamo tuttavia avanzi sicuri ma, fra le varie proposte, appare abbastanza plausibile quella recente, secondo la quale esso avrebbe seguito il tracciato del peribolo S dell'Asklepiéion e della fonte attigua, anche perché, in tal caso, sarebbe stato difeso meglio l'accesso all'Enneàpylon, che era appunto su quel lato.

Nelle parti conservate il Pelasgikòn giunge sino allo spessore di 6 metri: esso è costituito da un paramento esterno di grossi blocchi naturali di calcare dell'Acropoli, da un paramento interno di analoga struttura, ma messo insieme con blocchi di minori dimensioni, e da un riempimento interno fatto di pietre e terra. Ora in altezza è conservato solo sino a 4 m, ma certo il muro variava di elevazione a seconda del punto a cui doveva scendere per trovare il piano di posa sulla roccia, e sembra che in qualche tratto raggiungesse i 10 metri.

In base ai frammenti ceramici trovati negli interstizî, esso può essere datato al più tardi nel XIII sec. a. C. avanzato. Il tracciato coincideva a N, dove ne rimangono poche tracce, più o meno con quello del muro più recente. Presso il luogo dove poi sorse l'edificio delle Arrephòroi era una postierla che dava accesso alla fontana (v. appresso). L'altra, più antica, ad E dell'Erechthèion pare sia stata invece temporaneamente obliterata, poichè alcune case, abbandonate poi nel XII sec. a. C., si sovrapposero alla scala d'accesso. Ad E e a S il Pelasgikòn era invece arretrato rispetto al muro di Cimone e aveva un andamento più sinuoso. L'Enneàpylon era in corrispondenza del pörgos di Atena Nike, nel quale è chiuso il bastione miceneo, tuttora ben conservato, intorno al quale girava la via d'accesso all'Acropoli che proveniva da SE. Un ambiente all'interno del torrione fungeva da corpo di guardia e permetteva di sorvegliare meglio la rampa. Meno chiara è invece la disposizione delle porte stesse.

Contemporaneamente alla costruzione della cinta fu resa accessibile dall'alto, attraverso una spaccatura naturale, la fonte che si trova in una grotta sotto la casa delle Arrephòroi, mediante una scalinata parte in legno, parte in pietra con un intelaiatura di grosse travi. Questa audacissima costruzione rimase in uso solo fino verso la fine del XII sec. a. C., epoca in cui crollò, o in seguito alla mancata sostituzione delle travi marcite, o per terremoto, seppellendo la fonte, della quale si conservò però il ricordo nella tradizione locale riferita da Platone (Kritias, 112 D). La parte superstite della scala, in grossi gradini di pietra, fu riadattata e servì alle Arrephòroi, per recarsi, nel corso di una cerimonia segreta, nel sottostante santuario di Afrodite ed Eros.

Età arcaica. - Dalla fine del XII sec. a. C., dopo la mancata conquista di A. da parte dei Dori, quando riprese la vita nella città bassa, l'Acropoli dev'essere stata man mano abbandonata e ridotta a santuario. Scarsissimi sono i frammenti ceramici e le terrecotte votive del periodo che va dal Submiceneo a tutto il VII sec. a. C., rinvenuti quasi esclusivamente sulle pendici N della collina, in scarichi molto più recenti, e manca qualsiasi traccia di costruzioni che possano essere datate con qualche sicurezza intorno a quel mezzo millennio.

Sopravvisse certamente, oltre a quelli di cui abbiamo già parlato, il culto di Atena, che da dea tutelare del palazzo e dell'ἄναξ divenne protettrice di tutta la πόλις ed ebbe l'epiteto di Poliàs. Fu forse all'inizio venerata nel mègaron stesso del palazzo, trasformato in tempio come a Tirinto e poi sostituito, non sappiamo quando, ma al più tardi nel VI sec. a. C., da un tempio il cui altare si sovrappose a quello del palazzo. La troviamo forse rappresentata ancora nell'atteggiamento della dea dei serpenti minoica, su un pìnax della metà circa del VII sec. a. C., dalle pendici settentrionali dell'Agorà. Un altro legame con la civiltà micenea è indicato dal posto che, accanto ad Atena, viene a prendere Eretteo in questo più antico santuario.

Eretteo, che può essere stato, al pari di Minosse di Creta, persona reale, condivide come divinità il tempio con Atena. Più tardi, cioè al di là dell'orizzonte omerico, egli viene identificato, per il significato del suo nome, con Posidone. È probabile che da questa coesistenza, riuscita col tempo inesplicabile, sia sorto il mito della contesa di Atena con Posidone per il dominio dell'Acropoli, contesa che si risolse con un miracolo compiuto da ciascuna delle due divinità: sull'arida roccia dell'Acropoli Atena fece nascere improvviso l'olivo, Posidone con un colpo di tridente fece scaturire una polla di acqua salata. La vittoria rimase ad Atena per il suo benefico dono. Ma i segni della contesa erano stati conservati nel recinto del santuario.

Sulla pendice settentrionale, nell'Aglàurion, si additava il luogo in cui Aglauro si era gettata, come voleva una tradizione del mito, alla vista di Erittonio (v.) che Atena aveva a lei affidato chiuso in una cassa. Dallo sperone dell'Acropoli, dove sorse poi il tempio di Atena Nike, si sarebbe precipitato Egeo quando vide tornare con vele nere la nave di Teseo dall'impresa del Minotauro.

La fontana sulla pendice meridionale dell'Acropoli, presso la quale sorse poi il santuario di Asklepios, si voleva che fosse quella presso la quale Ares aveva ucciso Alirrozio, figlio di Posidone, che aveva disonorato sua figlia Alcippe. Tra il teatro e il santuario di Asklepios si additava la tomba di Calo, che era stato ucciso da Dedalo, suo zio e suo maestro.

Non fu distrutta la cinta di mura: costituiva una tale salda difesa che non si sentì necessità di rinnovarla neanche più tardi, e forse durò pressocché integra sino all'assedio persiano del 480 a. C.

Appunto a causa dell'incendio e della distruzione persiana, che tolsero di mezzo edifici vecchi e nuovi, è difficile dire quali costruzioni possano attribuirsi ai secoli che corrono tra la fine del periodo miceneo e il V sec. a. C. La mancanza di qualsiasi accenno nelle fonti letterarie e il carattere frammentario delle testimonianze epigrafiche ha dato luogo a svariate ipotesi. I soli dati sicuri sono l'esistenza di un ἀρχαιος νεώς citato in una iscrizione della fine del VI secolo a. C., e di un βωμός di un νεώς e di οἰκήματα in un ἑκα-τόμπεδον menzionati da una iscrizione del 485-84 a. C. Sull'ἑκατόμπεδον si è molto discusso, e vi si è voluto riconoscere il σηκός del tempio di Atena Poliàs, che veniva ritenuto più antico della peristasi ed è lungo effettivamente 100 piedi. Ma dall'epigrafe risulta che con ogni probabilità il νεώς e l'ἑκατόμπεδον erano due cose differenti, anche se non è chiaro se quest'ultimo sia stato un edificio o un recinto o, piuttosto, il Partenone pre-pericleo, che doveva essere in costruzione proprio allora. Infatti sappiamo che la cella del Partenone di Pericle lunga 100 piedi attici aveva il nome di ἑκατόμπεδος νεώς, che può anche essere derivato, insieme alla misura, da un tempio cbe occupava precedentemente lo stesso posto e la cui esistenza è, se non sicura, probabile. In tal caso si potrebbero ritenere gli οἰκήματα parti rimaste in piedi di quest'ultimo. Il solo edificio di grandi dimensioni databile con sicurezza ancora al VI sec. a. C., di cui conosciamo le fondazioni, è il tempio di Atena Poliàs, un periptero di 6 × 13 colonne con il σηκός; probabilmente fra doppie ante costituito da due celle, di cui quella orientale, più grande, a tre navate, e da due ambienti minori in funzione di àdyton. Le fondazioni del rettangolo interno sono in blocchetti di calcare dell'Acropoli e di Karà, quelle della peristasi in blocchi poligonali di calcare di Karà disposti ad assise regolari, e in blocchi squadrati dello stesso calcare di Karà è lo stilobate (di cui sussistono pochi avanzi). Pare sia stato ormai dimostrato, in seguito ad uno scavo, ancora inedito, eseguito nel 1947, che le due parti del tempio, nonostante la struttura diversa, sono contemporanee. La cr0nologia di queste fondazioni, sulle quali poggiava sicuramente un elevato in poros, con metope e sculture frontonali in marmo, databile verso il 520 a. C., è discussa, anche se è probabile che esse abbiano appartenuto ad un tempio costruito verso il 570-60 avanti Cristo. Infatti, mentre il gradino unico del krepìdoma, il nessun rapporto esistente fra la disposizione dei blocchi di questo e quello delle colonne e il tipo dei perni a cuneo sembrano essere elementi di arcaismo, l'uso dello scalpello dentato, che troviamo, però, in qualche scultura della stessa Acropoli, databile intorno al 570 a. C., sarebbe, secondo alcuni, un elemento di seriorità. Oltre a tutti gli elementi della peristasi del tempio dell'epoca dei Pisistratidi, e a molti altri pertinenti a costruzioni minori, di cui alcuni senza contesto potrebbero anche venire dal di fuori della rocca, ci sono pervenute parti assai notevoli di due grandi edifici arcaici pure in poros. Al più antico possono essere attribuiti alcuni frammenti di epistilio e di triglifi e soprattutto poco meno della metà di un grandioso frontone a rilievo, che presuppone una larghezza di ben 16 metri e un numero dispari di sostegni sulla facciata. Nella parte superstite del rilievo è rappresentato un leone nell'atto di addentare un toro e, probabilmente, la stessa scena faceva da pendant, come in due frontoni più recenti dalla stessa Acropoli. Lo stile del rilievo ricorda molto quello degli ultimi vasi protoattici dello "stile colossale", soprattutto del Pittore di Nesso e del Pittore delle Gorgoni, il che suggerisce una datazione intorno al 600 a. C. Allo stesso edificio apparteneva con ogni probabilità, per le sue dimensioni, una delle più antiche decorazioni fittili dall'Acropoli, con la sima a gola semplice e antefisse a palmetta. Si è voluto mettere in rapporto con questi elementi un taglio nella roccia lungo il lato N del Partenone, ma anche se non è affatto da escludere, e anzi probabile, che quest'ultimo occupasse il posto di un tempio più antico, assai difficilmente se ne potrà avere la prova decisiva.

Un secondo tempio, di cui ci sono pervenuti tutti gli elementi utili per la ricostruzione dell'elevato, sia della peristasi, sia del rettangolo interno, può essere collocato sulle fondazioni del tempio di Atena Poliàs. Anche se si dovesse ammettere la cronologia bassa di queste ultime, è sempre probabile che esse abbiano sostituito altre più antiche di un edificio delle stesse dimensioni, dato che, salvo nell'area poi occupata dal Partenone, nelle altre zone non troppo accidentate dell'Acropoli non v'è spazio per un altro edificio così grande. L'esastilo dorico che si può così ricostruire può essere datato, in base all'architettura e alle sculture, verso il 570-60 a. C., e probabilmente la sua consacrazione sarà da mettere in rapporto con l'istituzione delle grandi Panatenee nel 566 a. C. Oltre alla policromia di vari elementi è conservata parte della decorazione incisa e dipinta dei listelli superiori delle metope in marmo (rosette a petali), del lato inferiore del gèison obliquo (uccelli ad ali spiegate e fiori di loto), della sima in marmo (palmette e fiori di loto) e delle antefisse a palmette. Almeno uno degli acroteri centrali era costituito da una Gorgone in movimento, mentre non è sicura l'ubicazione originaria di lastre di marmo con leoni e pantere che hanno il lato posteriore piano e sono state perciò attribuite ad un ipotetico fregio ionico del pronao. Delle sculture frontonali, quasi a tutto tondo, opere invero di altissima qualità, ci è pervenuta una parte assai notevole, in cui la policromia è abbastanza ben conservata. Forse alla fronte occidentale possono essere assegnati, se ammettiamo che il tempio era quello di Atena Poliàs, sostituito poi nel V sec. a. C. dall'Erechthèion, un gruppo centrale con due leoni che addentano un toro e due laterali con divinità marine in evidente relazione con il culto di Posidone, cioè Eracle in lotta con il Tritone e sull'altro lato un mostro a tre teste dal corpo anguiforme, in cui si è voluto riconoscere Proteo, nell'atto di essere consultato da Menelao, del quale non è stata però ancora trovata la figura. Nell'altro frontone erano due gruppi contrapposti di leoni che agguantano tori e due serpenti, attributi di Atena Poliàs.

Anche della peristasi dell'epoca dei Pisistratidi conosciamo tutti gli elementi dell'elevato e soprattutto la trabeazione, di cui un tratto è stato ricomposto probabilmente già all'epoca di Temistocle nel muro settentrionale della rocca. Dei gruppi frontonali ci sono pervenute le figure centrali di quello con la gigantomachia, cioè Atena, un gigante (forse Encelado contro Eracle?) e parte dell'altro rilievo, che ha lo stesso schema araldico dei leoni che addentano tori che abbiamo trovato già nei due templi più antichi.

Oltre a quelli descritti, dovevano esistere sull'Acropoli almeno cinque edifici minori di cui non conosciamo l'ubicazione. Uno di questi, della metà circa del VI sec. a. C., i cui elementi sono reimpiegati in massima parte nelle fondazioni della Pinacoteca, era a pianta absidata con cinque sostegni sulla fronte e aveva la sima in marmo. Non si conoscono invece finora con sicurezza elementi architettonici che possano esser messi in relazione con quattro frontoni di medie e piccole dimensioni. Due, a rilievo piuttosto basso, con Eracle e l'Idra di Lerna e con Eracle e il Tritone, sono di bassa qualità artistica, e possono essere datati rispettivamente verso il 570 a. C. e verso il 560-50 a. C.

Fra quelli con le figure quasi a tutto tondo il più antico, con l'apoteosi di Eracle, del 570 a. C. circa, è anche il più notevole per valori stilistici. Nell'altro, databile verso il 55o-40 a. C., dove si notano già influssi ionici nel panneggio, è rappresentato un òikos con alberi d'ulivo sullo sfondo, in cui si è voluto riconoscere il più antico Pandrosèion. Sembra però più accettabile la recente ipotesi, secondo la quale il soggetto della scena sarebbe l'agguato di Achille a Troilo. Un frontone dipinto con una leonessa e elementi decorativi, datato, anche recentemente, al VII sec. a. C., appartiene invece ai primi decennî del V sec. a. C.

Con ogni probabilità può essere datato ancora in età pre-persiana il Partenone pre-pericleo, indipendentemente dalla questione se esso abbia avuto due fasi costruttive, dovute a progetti diversi, o una sola. Anche la cronologia è discussa, e oscilla fra il periodo di Clistene e quello di Cimone. Anche se in questo caso particolare il problema potrà essere risolto definitivamente solo da uno scavo stratigrafico nei pochi punti non ancora esplorati o, superando enormi difficoltà, sotto l'edificio stesso, tutto quello che sappiamo sembra confermare che l'accordo con gli altri Greci di non ricostruire subito i templi distrutti dai Persiani, è stato osservato ad A. fino al 449 a. C. Inoltre la enorme fondazione del lato S in blocchi squadrati di poros disposti per testa e per taglio ad assise alternate (alt. all'angolo SE m 10, 77 = 22 assise) poggia sulla roccia e poteva stare in piedi anche senza i due muri poligonali antistanti. Il più interno di questi ultimi, contemporaneo o di poco posteriore alla fondazione, dev'essere ancora pre-persiano, perché la terra retrostante conteneva frammenti architettonici e scultorei non bruciati, e non pertinenti quindi alle rovine dei Persiani. Non si può dire lo stesso per il secondo muro attraversato da due scale, che presuppone la distruzione parziale del Pelasgikòn, i cui avanzi gli servono da fondazione nelle parti esterne e che non sembra essere di molto anteriore al muro di Cimone. Il basamento in poros del primo tempio misura all'euthynterìa, composta di blocchi accuratamente lavorati sulla faccia a vista, m 76,81 × 31,39, mentre le misure definitive dello stilobate erano di m 72,27 × 26,87. Del krepìdoma sono conservati il primo gradino, in calcare di Karà, e parte del secondo, che era, come lo stilobate, in marmo pentelico. In marmo sono anche alcuni blocchi sagomati dello zoccolo dei muri e di un'anta e parecchi rocchi di colonna incompiuti, reimpiegati in parte, forse già sotto Temistocle, nel muro N e in parte nelle fondazioni di un muro di sostegno a squadra contemporaneo a quello di Cimone presso l'angolo SO del tempio. Benché non sia affatto sicuro se le corrosioni su questi ultimi e le tracce sulle strutture in poros siano dovute al fuoco o ad altre cause, l'ipotesi più accettabile sembra, allo stato attuale delle cose, sempre quella secondo cui la costruzione del tempio, iniziata già sotto Clistene, oppure dopo Maratona, sarebbe stata interrotta nel 480 a. C.

L'unico fra i santuari minori del periodo pre-persiano di cui ci siano pervenuti avanzi di un certo interesse, è, grazie forse alla sua posizione periferica, quello di Atena Nike. Oltre ad un tratto del muro del tèmenos in opera poligonale vi è stata rinvenuta un'eschàra con statuette votive forse del VII sec. a. C., chiusa poi in un recinto rettangolare di cui è conservata una assisa di ortostati uniti da grappe a ???SIM-09??? del VI sec. avanzato. Un frammento dell'altare del VI sec. a. C. reca l'iscrizione ΤΕS ΑΘΕ[ναίας] | ΤΕS ΝΙΚΕS | ΒΟΜΟS ΓΑΤΡΟΚ〈λ〉ΕS | ΕΓΟΙΕSΕΝ.

Scarsi sono anche i resti di costruzioni sulle pendici dell'Acropoli al di sopra del peripatos, una specie di sentiero di circonvallazione esterna ricordato in un'epigrafe del IV sec. a. C., ma certamente più antico. Al VI sec. possono essere attribuiti il lungo muro in opera poligonale sul lato O, che serviva forse da terrazzamento alla via d'accesso all'Acropoli, e quello, nella stessa tecnica, del bacino della fonte ad O dell'Asklepiéion, che presenta due fasi costruttive.

Negli scarichi fatti subito dopo il 479 e in parte anche quando fu costruito il muro di Cimone, sono stati trovati, oltre alla maggior parte degli elementi architettonici, numerosi avanzi degli anathèmata dedicati soprattutto ad Atena Poliàs che erano sull'Acropoli in età pre-persiana. Fra le sculture in marmo, di cui le più antiche risalgono intorno al 570 a. C. circa, predominano le figure femminili.

Non mancano però del tutto le statue virili, come il Moschophòros dedicato da Rhombos, che è fra le più antiche, il cavaliere Rampin, del periodo pisistrateo e il Kouros attribuito da alcuni a Kritios, certamente posteriore a Maratona. Di un gruppo faceva parte il magnifico torso del cosiddetto Teseo, degli ultimi anni del VI sec. a. C. Alcune Korai sono di artisti non attici (fra l'altro due sono in marmo di Nasso), ma molto vicine alla tendenza samia, databili intorno al 560 a. C. circa, e quella n. 675, del 530-20 a. C. circa, di tendenza chiota. In quelle locali, di cui la n. 589 è la più antica e quella con il peplo, del 540 circa, è fra le più notevoli, incominciano ad apparire elementi ionici, dapprima mal compresi o adattati a scopo puramente decorativo, limitati del resto in sostanza al panneggio, verso il 540 a. C. Intorno al 500 a. C. va datata una testa maschile in bronzo di tendenza peloponnesiaca e ad un artista che deve aver avuto stretti rapporti con la tendenza argiva può essere attribuito il cosiddetto Efebo biondo, la cui datazione in epoca anteriore al 480 è però dubbia. Più tipicamente attiche, e anch'esse di qualità alquanto superiore alla media, sono una Kore cui appartiene quasi certamente una base con la firma di Antenor, dell'ultimo decennio del VI sec. a. C., molto vicina alle sculture del tempio di Apollo a Delfi (che sono forse sempre dello stesso Antenor) e due figure femminili del secondo decennio del V sec. a. C.; dal panneggio alquanto più rigido la Kore di Euthydikos e una Nike o Iris su una colonna dedicata dal polemarco Kallimachos da Afidna a ricordo della battaglia di Maratona. Altre colonne, di cui le più antiche, in poros, avevano capitelli dorici o di tipo eolico e le più recenti per lo più capitelli ionici o una semplice cornice, sostenevano alcune fra le κόραι di migliore qualità e statue di bronzo. Relativamente tarde sono anche le basi a pilastro, mentre quelle basse del tipo più semplice sono le più comuni in tutte le epoche. Fra le firme di artisti che ci sono pervenute sono, oltre a due di Antenor, una di Archermos da Chio e forse due di Endoios. Di questo ultimo era una Atena seduta, che alcuni hanno voluto riconoscere in una statua acefala della dea, databile intorno al 540 a. C., rinvenuta sulle pendici settentrionali.

Età post-persiana. - Non sappiamo se la Atena seduta di Endoios, che all'epoca di Pausania era ancora sull'Acropoli, sia stata per caso risparmiata dai Persiani o se sia stata rimontata sulla base, come alcune statue arcaiche di Atena, annerite e mal ridotte dall'incendio, che Pausania vide nel Pandrosèion, a S del tempio di Atena Poliàs, dove era l'olivo sacro. Certamente il sekòs del tempio fu ricoperto con un tetto provvisorio, cui sembra appartenere una sima fittile di grandi dimensioni, databile non molto dopo il 479, mentre la peristasi dev'esser stata smontata.

Egualmente si può rimanere in dubbio se dalla furia persiana si fosse salvata, anche malconcia, la quadriga in bronzo che gli Ateniesi avevano dedicato verso il 5o6 a. C. per la loro vittoria sui Beoti e sui Calcidesi, e che trovavasi sul pianoro dell'Acropoli ad oriente dei Propilei a mano sinistra (Herod., v, 77), o se essa fosse stata rinnovata dopo l'incendio persiano. L'opera di Temistocle per l'Acropoli sembra essersi limitata ad un'affrettata costruzione di parte di quel muro settentrionale che oggi corre sull'orlo della roccia, certo per chiudere la falla aperta dall'invasione e dalla distruzione persiana. In questo muro, che va dall'altezza dell'Eretteo sin dove esiste un moderno belvedere, trovarono impiego blocchi di poros e lastre di marmo dei monumenti distrutti dai Persiani, ma, soprattutto nelle vicinanze dell'Eretteo, tronchi di colonne non ancora lavorate e blocchi dello stilobate e dei gradini dell'antico Partenone. Infine nell'età di Temistocle l'Acropoli deve aver accolto una nuova divinità. Le grotte sull'estremità più occidentale della parete settentrionale, che dài più antichi tempi erano state dedicate al culto di Ninfe delle acque e della natura verdeggiante sotto il nome di Aglauridi (Aglauro, Erse, Pandroso), dànno ospitalità anche a Pan, una divinità semicaprina di Arcadia, che una leggenda aveva ricollegato alle guerre persiane, anzi ne aveva fatto l'incitatore degli Ateniesi nella battaglia di Maratona (Herod., vi, 105).

Neanche a Cimone fu dato di lavorare all'abbellimento dell'Acropoli nei pochi anni, tra il 460 e il 455 a. C., che corsero tra la sua vittoria sull'Eurimedonte e il suo esilio e in quegli altri pochissimi che corsero tra il suo richiamo in patria nel 452 e la sua morte. Tuttavia lasciò un'opera grandiosa che nella sua intenzione doveva certo preludere a questo abbellimento ulteriore. Con il bottino della vittoria sull'Eurimedonte egli circondò l'Acropoli, sul lungo lato meridionale e sul breve lato orientale, con un potentissimo muro a leggera scarpata che prese il posto del Pelasgikòn.

Esso si attacca all'angolo SO all'unico tratto del Pelasgikòn, rimasto visibile anche dopo, che è pertinente alla parte più interna del bastione dell'Enneàpylon; si ferma con l'estremo angolo NE, nel punto dove è il moderno belvedere e dove cominciava il breve tratto del muro di Temistocle. È difficile dire quali siano state le ragioni che arrestarono là la sua opera, cioè se essa fosse troncata dalla sua morte o dalla mancanza di mezzi o se la natura assai scoscesa della roccia dalla parte settentrionale facesse considerare non necessaria la sostituzione del muro di Temistocle.

Il muro meridionale ha una lunghezza di m 297, quello orientale una lunghezza di m 63. L'altezza e lo spessore naturalmente variano a seconda del punto in cui esso ha trovato la roccia per poggiarvisi e a seconda della colmata retrostante. Il suo tratto più alto e più forte è quello dell'angolo di SE, dove ancora oggi si possono riconoscere 29 assise di blocchi disposti per testa e per taglio per un'altezza di m 14. Il forte spigolo costituito in questo punto dall'incontro dei due muri dette più che mai all'Acropoli l'aguzzo aspetto di una prora. Lo spessore oscilla tra i m 6,50 nelle parti inferiori e i m 2,50 nelle parti superiori. Sul lato orientale esso misura in alto appena 1,50 e doveva così più organicamente collegarsi allo scarso spessore del muro di Temistocle.

Per la costruzione del muro furono adoperati anche blocchi di edifici anteriori alla distruzione persiana, ma per la maggior parte sono blocchi rettangolari di poros tagliati appositamente. Il muro era liscio, senza torri, e non si sa se avesse un coronamento e di quale forma.

Solo l'angolo SE ha conservato più o meno l'aspetto originario, assai alterato altrove dai restauri medioevali e moderni.

Ma un'opera di tal mole a torto la si considererebbe solo una costruzione di difesa. Sembra che anche altri fossero stati gli intenti di Cimone: quello di allargare sul lato meridionale la terrazza dell'Acropoli portandola oltre il Pelasgikòn, e ancor più, quello di preparare un saldo contrafforte per la pressione del terreno, qualora si fosse ripresa la costruzione dell'antico Partenone. Questa formidabile spinta che avrebbe apportato l'elevazione si era preveduta anche prima, poiché per frenarla si era già costruito tra il muro di Cimone e le fondamenta dell'antico Partenone un muro parallelo a queste ultime, appoggiandolo al Pelasgikòn.

A sostegno della parte SO della terrazza fu poi aggiunto dopo la prima delle due fasi costruttive, che si possono riconoscere nel muro di Cimone, un muro a squadra in materiale in massima parte riutilizzato.

Contemporaneamente furono costruiti i Propilei premnesiclei, forse in sostituzione di un precedente Pròpylon. Era un edificio rettangolare di m 17 × 14 circa, di cui è conservato l'angolo meridionale, che si appoggia al tratto superstite del Pelasgikòn. I muri erano in poros, e le ante, di cui quella SE della fronte esterna è in parte conservata, come evidentemente anche le colonne, in marmo. Una esedra che corre lungo il lato esterno del Pelasgikòn fino all'attacco del bastione, piegando poi ad angolo retto verso NO, è rivestita da metope di marmo del tempio pre-persiano di Atena.

Pure all'epoca di Cimone risale la sistemazione della Empedo-Clepsidra, evidentemente in vista di una sua inclusione nelle mura. La fonte, che era stata sfruttata prima solo attraverso alcuni pozzi, venne resa accessibile, con la costruzione di un profondo bacino quadrangolare in ortostati di poros. Nello stesso tempo fu sistemato sul davanti, verso la via processionale delle Panatenee, un piazzale d'accesso al santuario di Apollo ὑπὸ μακραῖς, che era in una grotta nelle vicinanze.

Forse ancora sotto Cimone possiamo porre la costruzione della Kaichothèke e la prima sistemazione del Braurònion, ambedue sul lato S dell'Acropoli. La prima, di cui rimangono pochi avanzi e parte della decorazione fittile del tetto, era una grande aula di m 41 × 15, con due frontoni alle estremità e sostegni all'interno, destinata all'esposizione di macchine da guerra e preceduta, dalla fine del V sec. a. C., da un portico. Il Braurònion era un recinto trapezoidale fiancheggiato da un portico (in pessimo stato) a S e da un edificio più complesso ad E. Quest'ultimo risale all'età di Pende, quando il recinto fu ridotto sul lato N.

Età di Pericle. - Non fu per altro concesso a Cimone di riprendere la costruzione del Partenone. La gloria di far sorgere, sulle rovine dell'Acropoli in calcare del periodo miceneo e di quella in poros del periodo pisistrateo, un'Acropoli in marmo doveva essere riservata a Pericle, al grande uomo di stato che governò A. dalla morte di Cimone al 429 a. C., anno della sua morte. E l'impulso dato dall'opera sua valse ad assicurare nuove e sontuose costruzioni anche nell'età di Alcibiade ed oltre, fino alla soglia del sec. IV a. C.

Il primo edificio innalzato fu il Partenone. Nella mente di Pericle questo doveva essere, nello stesso tempo, omaggio alla dea che aveva protetto la città nei difficili frangenti delle guerre persiane e simbolo della potenza ateniese che da questo pericolo era ascesa trionfante a stabilire la propria egemonia sulla Grecia. Per il nuovo Partenone furono adoperate le fondamenta dell'antico. Peraltro la preoccupazione che il suo elevato, nonostante la presenza del muro di Cimone, desse un'eccessiva spinta al terrapieno verso mezzogiorno, indusse ad allargare le fondamenta verso settentrione, dalla parte cioè dove l'edificio avrebbe poggiato sulla roccia e a spostarlo fino sull'orlo di questa aggiunta, allontanandolo invece dall'orlo meridionale. Non la medesima preoccupazione ma la concezione di un piano diverso, più allungato, indusse ad un analogo spostamento del tempio fino sull'orlo occidentale del basamento.

I lavori iniziati nel 447 erano essenzialmente finiti nel 438 a. C. quando vi fu collocata la grande statua in oro ed avorio di Atena Parthènos, opera di Fidia, ma si continuò a lavorare ai frontoni e al fregio fino al 432 a. C. Architetto ideatore del tempio fu Iktinos, soprintendente ai lavori Kallikrates. Il Partenone, tutto in marmo pentelico, è un periptero dorico (69,54 × 30,87), con otto colonne sulle fronti e diciassette sui lati (alt. 10,43; diam. inf. 1,905). Uno stretto ambulacro (largh. 2,57) divide il colonnato dal tempio (59,02 × 21,72). Quest'ultimo comprende, oltre ad un vestibolo anteriore ed uno posteriore, una grande cella (29,89 × 19,19), che conteneva la statua dell'Atena Parthènos ed era divisa da colonnati interni in tre navate, e da una sala adiacente detta opisthòdomos. Non da una sala del tempio riservata alle vergini ateniesi per il culto della dea, ma dall'epiteto del suo simulacro, Parthèos, è sorto il nome di Partenone, nome per altro che non si vede comparire prima del sec. IV a. C. Da principio infatti dovette essere genericamente chiamato "il tempio" o "il gran tempio" e, data la lunghezza della sua cella, che era quella di 100 piedi attici della misura eginetica adottata posteriormente (0,296), era stato applicato ad esso anche il nome di Hekatòmpedon. In realtà questo nome risaliva forse al tempio che aveva preceduto il Partenone pericleo.

Ricchissima era la decorazione scultoria del Partenone. Ad altorilievo erano ornate le 92 metope della trabeazione, e i loro soggetti erano ad E la gigantomachia, ad O l'amazzonomachia, a N e a S la ceutauromachia, insieme a scene di miti ateniesi ed episodî della guerra di Troia. Con statue a tutto tondo in marmo pario erano riempiti i due cavi frontonali: in quello orientale era rappresentata la nascita di Atena, in quello occidentale la contesa tra Atena e Posidone per il dominio dell'Acropoli. Un fregio continuo a bassorilievo correva esternamente in alto, sul muro della cella, ed in esso si svolgeva una processione solenne a similitudine di quella che ogni quattro anni, durante la celebrazione delle grandi Panatenee, saliva sull'Acropoli per offrire alla dea il peplo che era stato tessuto e ricamato dalle nobili fanciulle ateniesi. Infine gronde a teste leonine stavano ai quattro estremi dei lati N e S, una serie di antefisse a palmette costituiva l'ornamento delle tegole terminali lungo i due spioventi del tetto, e grandi acroteri traforati a palme e foglie di acanto sormontavano i fastigi del tempio. Nessuna fonte antica, tolte poche parole per i frontoni (Paus., i, 24, 5), ci descrive questa decorazione scultoria e ci dice il nome di chi l'ha creata; ma se Fidia, un genio riconosciuto sommo da tutta l'antichità, fu accanto a Pericle come suo ispiratore e se in queste sculture v'è il segno di un'arte a nessuna seconda, legittima è l'illazione che creatore ne sia stato Fidia, anche qualora si debba ammettere che egli abbia avuto dei coadiutori in suoi compagni e in suoi discepoli, particolarmente in Alkamenes e in Agorakritos. Tanto più si può pensarlo in quanto era di Fidia la statua della dea per la quale si era preparata una così ornata casa. Compresa la base, l'Atena Parthènos (Paus., i, 24, 5 ss.) misurava in altezza circa 15 m. Solo di oro vi erano stati impiegati 40 o 50 talenti (1 talento attico = circa 26 kg). La dea vestita di peplo attico e armata di elmo e di egida, era in piedi, e poggiava la sinistra sullo scudo a terra, mentre sulla sua destra era una Vittoria. Ornati a rilievo erano lo scudo (amazzonomachia), l'orlo dei sandali (centauromachia), la base (nascita di Pandora): una gigantomachia, della quale abbiamo qualche riflesso su alcuni vasi attici della fine del V sec. a. C., era dipinta nell'interno dello scudo. L'arte di Fidia aveva dovuto comporre nella penombra della cella col fulgore dell'oro, col candore dell'avorio, un'immagine di stupenda bellezza, d'imponente maestà.

Purtroppo la Parthènos ci è nota solo attraverso poche repliche, per lo più di piccole dimensioni e di scarsa qualità e dei rilievi dello scudo, nei quali Fidia risente ancora dell'influsso di Polignoto da Taso, non conosciamo che copie parziali soprattutto su alcuni rilievi neoattici trovati in massima parte nel porto del Pireo. Di più possiamo invece dire sulla decorazione scultorea dell'esterno. Mentre nelle metope si notano ancora tendenze stilistiche diverse, da quella di Kritios a quella di Mirone, ed anche influssi esterni, dal Peloponneso e dalle Cicladi, nel fregio lo stile di Fidia le ha completamente amalgamate. Nel frontone occidentale invece qualcuno degli scultori ha dato più libero sfogo alla propria personalità artistica, pur attenendosi ai limiti imposti dal progetto.

Contemporaneamente la vasta area dinanzi alla Kalchothèke fu chiusa a N da un recinto con Pròpylon, di cui ci sono poche tracce, e sistemata a corte d'ingresso del tempio. L'effetto prospettico della visione di quest'ultimo era accentuato dalla grande scalinata, in parte scavata nella roccia, in parte costruita dinanzi a tutta la facciata occidentale, che ha la stessa curvatura del krepìdoma del Partenone. Sia la scala, sia le aree adiacenti erano piene di anathèmata, soprattutto stèlai. La via processionale vera e propria continuava invece in leggera salita verso E, fiancheggiata dai muri di sostegno delle terrazze del Partenone e dell'antico tempio di Atena.

La costruzione del Partenone, dopo secoli in cui l'Acropoli era stata soprattutto fortezza, diede ad essa definitivamente il carattere di santuario. E, terminati i grandiosi lavori, Pericle poté pensare a sbarrarne l'ingresso ad occidente con alcuni sontuosi propilei, opera di ornamento e non di difesa (Paus., i, 22, 4). Essi tolsero di mezzo il Pròpylon pisistrateo ma conservarono, come venerando avanzo, un tratto del Pelasgikòn cui quello era appoggiato; di più modificarono la direzione di accesso all'Acropoli: vennero infatti a collocarsi, in direzione quasi esatta OE, sulla linea centrale dell'Acropoli che stava tra il Partenone e il tempio di Atena Poliàs. Invece dalla parte occidentale l'accesso all'Acropoli dovette rimanere serpeggiante, quale era nel periodo pisistrateo; e, come indicano gli incavi nella roccia, la strada rasentava il lato occidentale del torrione di Atena Nike, si dirigeva obliquamente verso l'ala settentrionale dei Propilei e di là obliquamente tornava verso il loro corpo centrale. I Propilei furono costruiti in cinque anni (437-433 a. C.). Ne fu architetto Mnesikles. Sono in marmo pentelico e sembrano il raggiante diadema sulla fronte dell'Acropoli. La parte centrale (largh. 13,12, prof. 25,04) ha sei colonne doriche (altezza 8,81) sulle due facciate di O e di E. Lo spazio interno è diviso da una parete a cinque porte (alt. della maggiore 7,37) in due vestiboli di cui l'occidentale, più ampio, ha tre navate separate da due file di tre colonne ioniche (alt. 10,29). Alla costruzione centrale si riattacca a N un edificio formato da un'ampia sala (8,96 × 10,76) e da un vestibolo. È la Pinacoteca, così detta (Paus., 1, 22, 6) perché in essa erano raccolte alcune pitture. A S vi era un semplice vestibolo a colonne. L'architetto dei Propilei dovette lottare per la sua costruzione non soltanto contro il dislivello della roccia, ma anche contro lo spazio che gli veniva limitato a S dal santuario vicino, già esistente, di Atena Nike. Ma tale asimmetria del piano generale non viene neanche avvertita, tanta è stata l'abilità nella costruzione simmetrica dei prospetti, anch'essi a colonne doriche. Non sappiamo se alle intenzioni di Pericle e ai suoi progetti debbano risalire altri edifici che sorsero sull'Acropoli dopo la sua morte: certo il Partenone e i Propilei furono un incitamento a rinnovare e a costruire anche in altri santuarî. La sorte volle per altro che queste nuove costruzioni fossero portate a compimento nell'età di Alcibiade. Già nel 448 era stata decisa la costruzione di un nuovo tempio di Atena Nike su progetto di Kallikrates, nel cui santuario era stato intanto restaurato l'àbaton e eretto un nuovo altare, ingrandito non molto dopo con una struttura in mattoni crudi rivestita di stucco. Per questa preventivata costruzione dovette risultare mozza l'ala meridionale dei Propilei. Perché divenisse degno basamento del tempio e facesse simmetria all'alto basamento che si era dovuto costruire per la Pinacoteca, fu rivestito il torrione di Atena Nike sui tre lati di N, dì O e di S con un saldo muro a blocchi rettangolari di poros, che incluse nel suo interno il più antico rivestimento in calcare e, ricollegandosi al muro di Cimone, venne a comprendere questo sperone nell'insieme costruttivo di tutta l'Acropoli. E sull'estremo orlo occidentale del torrione fu costruito il tempietto di Atena Nike (Paus., 1, 22, 4). Questo gioiello di arte ionica, un vero scrigno in pentelico, sorse negli anni tra il 430 e il 420 a. c. È un tempio ionico (8,27 × 5,44), con quattro colonne sulle due fronti (alt., m 4,06) e con unica cella (3,78 × 4,19). Un fregio continuo correva sul quattro lati ed era decorato ad alto rilievo con lotte tra Greci ed Orientali alla presenza degli dèi: si è pensato alla battaglia di Platea (479 a. C.). La statua del culto era in legno: la dea teneva nella destra una melagrana, nella sinistra l'elmo. Sembra che dopo che al simulacro della dea furono rubate le ali d'oro sia entrato in uso l'epiteto di Vittoria senz'ali o Nike Apteros. Una balaustrata di marmo pentelico a rilievo recingeva il tempio di Atena Nike su tre lati e su una piccola parte della fronte. Essa fu innalzata forse negli ultimi anni del sec. V a. C., dopo i successi ottenuti da Alcibiade nell'Ellesponto, tra il 411 e il 407. La sua decorazione era tutto un inno di trionfo: dinanzi ad Atena seduta le Nikai portavano tori al sacrificio, alzavano trofei di vittorie terrestri e di vittorie navali. Come nell'ingresso dell'Acropoli era stato contrapposto il delicato ordine ionico del tempietto di Atena Nike al saldo ordine dorico della fronte dei Propilei, un medesimo contrasto rispetto al Partenone fu posto nell'interno dell'Acropoli quando, in stile ionico, si ricostruì il tempio di Atena Poliàs.

La ricostruzione in marmo pentelico del tempio di Atena Poliàs incominciò forse nel 421 a. C. dopo la pace di Nicia, fu interrotta per il disastro di Sicilia dal 413 al 409; fu ripresa in quell'anno, come attestano documenti epigrafici sull'andamento dei lavori, e fu condotta a termine poco dopo.

Accanto al nuovo tempio rimase in piedi quello antico forse fino al 400 a. C., quando fu costruita la loggetta delle kòrai. Solo più tardi, dal nome di Posidone Erechthèus, compagno della dea, deve essere sorto il nome di Eretteo (᾿Ερεχϑεῖον), che, del resto, nella testimonianza letteraria appare solo in periodo romano (Paus., 1, 26, 5).

Nella ricostruzione del tempio di Atena Poliàs l'architetto Philokles dovette risolvere ardui problema di dislivello e di spazio per chiudere i varî santuarî che ad esso appartenevano in un solo edificio; egli creò un tempio asimmetrico che è una geniale eccezione alla monotona simmetria esterna dell'architettura greca. Il corpo principale dell'edificio è un tempio ionico (20,03 × 11,21) con sei colonne sulla fronte orientale (alt. 6,80) come accesso alla cella di Atena Poliàs, ma con alta parete chiusa, a colonne incastrate, nella fronte occidentale. Ha di più, nel lato settentrionale, un ampio vestibolo (largh. 10,6o, lungh. 6,75), con quattro colonne ioniche sulla fronte ed una su ciascun lato (alt. 6,50), che racchiudeva il segno del colpo di tridente di Posidone e dava accesso alla cella del dio. Nel lato meridionale, sul medesimo asse, v'è la cosiddetta loggetta delle Cariatidi, la cui trabeazione anziché da colonne, è sostenuta da sei statue femminili (alt. 2,30): essa dava accesso alla tomba di Cecrope. Di finissimo lavoro è la decorazione dei capitelli e delle basi delle colonne (che continuava anche sui muri della cella), e così pure l'incorniciatura della porta e il soffitto del vestibolo settentrionale. Inoltre un singolare fregio in pietra nera di Eleusi, al quale erano attaccate figure in marmo ad altorilievo, recingeva tutto il tempio, compreso anche il portico settentrionale. Dagli scarsi frammenti conservati sembra che i soggetti si riferissero al mito di Erittonio, il protetto di Atena, e a cerimonie attiche.

Nella cella di Atena Poliàs era onorato il venerando ed antichissimo simulacro in legno della dea che si voleva fosse caduto dal cielo. Di esso non è possibile farsi più alcuna idea. Dinanzi al simulacro rimaneva costantemente accesa la lampada d'oro, opera di Kallimachos, il fumo della quale veniva tirato fuori della cella attraverso una palma di bronzo che stava sopra la lampada e giungeva sino al soffitto (Paus., 1, 26, 6 ss.). Inoltre erano conservati nella cella cimeli di arte antichissima, come un Hermes in legno che si voleva dedicato da Cecrope e un sedile pieghevole che si voleva opera di Dedalo, oppure trofei delle guerre persiane, come la corazza di Masistio e la spada di Mardonio (Paus., 1, 27, 1).

Adiacente al tempio, dalla parte O, era il Pandrosèion, recinto sacro a Pandroso, una delle Aglauridi. Esso conteneva il famoso olivo di Atena, quello che in una sola notte era rinato dopo la distruzione persiana, e presso l'olivo v'era l'altare di Zeus Herkéios.

Invece non è possibile indicare con certezza il luogo di abitazione della sacerdotessa di Atena e delle sue aiutanti, le ᾿Αῤῥηϕόροι, (Paus., 1, 27, 3) e uno spazio riservato a queste ultime per il giuoco della palla. È probabile che tali edifici e recinti dovessero trovarsi a ridosso del muro settentrionale dell'Acropoli. Uno di essi è forse possibile identificarlo con un lungo vano rettangolare (27 × 12) che sta appunto tra il muro dell'Acropoli e la scaletta di accesso all'Aglàurion. Può essere stato costruito insieme o poco dopo: posteriore invece è un altro più piccolo edificio quadrato (circa m 12) a due vani (vestibolo e cella), che è venuto a piantarsi nel sec. IV a. C., o anche in età ellenistica, al disopra del suo angolo più orientale.

La costruziolie dei Propilei, come regolò la sistemazione del santuario di Atena Nike, così regolò, certo negli ultimi decenni del secolo, anche quella di santuarî adiacenti dalla parte interna dell'Acropoli. Accanto all'angolo meridionale del vestibolo orientale dei Propilei stava il piccolo santuario di Atena Hygieia (Paus., 1, 23, 4). Addossata infatti alla colonna estrema di quest'angolo si è ritrovata in posto la base della statua dedicata dagli Ateniesi e che era opera dello scultore Pirrhos (Plin., Nat. hist., xxxiv, 80; Inscr. Graec., 1, 335). La leggenda voleva che la statua fosse stata dedicata da Pericle perché la dea, apparendogli in sonno, gli aveva indicato come doveva curare, per salvarlo, l'artiere più attivo e più volonteroso che era caduto dal fastigio del Partenone durante la costruzione (Plutarc., Per., 13): più probabile è che sia stato un dono votivo alla dea dopo la grande peste del 420 a. C.

Nel Braurònion sono menzionati un simulacro più antico, che doveva essere seduto e di legno o di poros, ed uno più recente, in piedi e in marmo, che era opera di Prassitele. Di quest'ultimo si è creduto di riconoscere una copia nell'Artemide di Gabii (Louvre, Parigi).

Non adiacente al Braurònion ma sulla via sacra presso il Partenone, e, secondo la descrizione di Pausania (1, 24, 3), nelle immediate vicinanze di una statua di Ghe di cui appunto là si è ritrovata l'iscrizione incisa sulla roccia (Inscr. Graec., iii, I, 166), deve collocarsi il piccolo santuario di Atena Ergàne, cioè della protettrice del lavoro. Alcune tavolette votive a rilievo di arte arcaica e iscrizioni del sec. V a. C. attestano l'esistenza del suo culto fino da quell'età, ma nulla può dirsi della forma del recinto che poteva del resto non avere maggiore estensione di quello di Atena Hygieia. È da escludere che vi fosse un tempio.

La ricchezza dei templi e il numero dei santuarî non bastano a dare un'idea di quello che dovesse, essere l'Acropoli alla fine del sec. V a. C., quando giunse al termine il periodo della sua splendida ricostruzione. Lungo la via sacra, nei vestiboli dei Propilei, dei templi, nel recinto dei santuarî, statue, pitture, iscrizioni avevano dato all'Acropoli una sontuosità di aspetto, una testimonianza di vita religiosa e civile che vincevano di gran lunga quelle che erano state distrutte dall'incendio persiano.

Per l'Acropoli avevano già subito cominciato a lavorare gli artisti che erano stati testimoni di tanta rovina. Di Kritios e di Nesiotes v'era una statua in bronzo, dedicata da Epicarino, clie forse rappresentava Epicarino stesso come vincitore della corsa armata (Paus., 1, 23, 9; Inscr. Graec., 1, 376).

Opera di Amphikrates era una leonessa in bronzo che aveva la lingua mozza e in cui si voleva riconoscere l'immagine simbolica della flautista Leena, amica di Armodio e di Aristogitone che, dopo l'uccisione di Ipparco, pur essendo stata fatta torturare da Ippia sino alla morte, non aveva lasciato uscire dalla sua bocca alcuna rivelazione (Paus., 1, 23, 1; Plin., Nat. hist'., xxxiv, 72).

Poi era sopravvenuta la generazione più giovane, quella dei maestri che appartengono al periodo di transizione all'arte di Fidia. V'era così l'Afrodite di Kalamis, cioè la famosa Sosandra dedicata da Callia durante il governo di Cimone (Paus., 1, 23, 2; Inscr. Graec., 1, 392, Suppl., p. 44). V'era una statua in bronzo di guerriero con l'elmo, opera di Kleoitas, figlio di Aristokles (Paus., 1, 24, 3; vi, 20, 14). E in bronzo v'erano, di Mirone, il Perseo (Paus., 1, 23, 7) e il gruppo di Atena e Marsia (Paus., 1, 24, 1; Plin., Nat. hist., xxxiv, 57). Ma forse erano di lui anche il gruppo di Teseo e del Minotauro (Paus., 2, 24, 1) e quello di Eretteo e di Eumolpo (Paus., 1, 27, 4; ix, 30, 1). E sull'Acropoli un tempo era stata la sua statua di una vacca, bronzo di famosa naturalezza (Tzetz., Chiliad., viii, 373).

Di Fidia, oltre alla Parthènos, v'erano altre due immagini di Atena: la Pròmachos e la Lémnia (Paus., 1, 28, 2). Una tradizione voleva che la Pròmachos fosse stata innalzata col bottino di Maratona, un'altra invece che fosse stata eseguita con la parte ateniese del comune bottino greco delle guerre persiane. Essa si trovava nella zona occidentale dell'Acropoli dietro i Propilei. Era di bronzo e misurava circa m 7,50 in altezza. Era rappresentata combattente, e l'estremità della lancia e la punta del cimiero rutilanti al sole erano il primo saluto della patria al navigante che avesse girato il capo Ζωστήρ. Avanzi della fondazione della sua base sono stati identificati di fronte ai Propilei, dinanzi al muro di sostegno miceneo. Ad essa appartengono forse i frammenti di una iscrizione e una grande cornice con kymàtion ionico. La Lèmnia, anch'essa in bronzo, avrebbe tratto il suo epiteto dall'essere dono votivo di coloni ateniesi inviati a Lemno nel 451-447 a. C., ma non si ha certezza su tale avvenimento. E di Fidia v'era sull'Acropoli anche l'Apollo Parnòpios (Paus., 1, 24, 8), statua in bronzo che si voleva fosse stata dedicata con tale epiteto perché il dio aveva tenuto lontano dal paese un invasione di cavallette (πάρνοπες) che infestavano la terra. Dubbio è se fosse opera di Fidia una civetta, animale sacro di Atena e simbolo della città (Hesych., γλαῦξἐν πόλει; Dion. Chrysost., xii, 6).

Del compagno di Fidia, Alkamenes, erano, presso i Propilei, un Hermes Propölaios a forma di erma (Paus., 1, 22, 8) di cui si è trovata una replica in Pergamo e, presso il torrione del santuario di Atena Nike, una tricorporea Ecate, nota sotto l'epiteto di Epipyrgìdia (Paus., ii, 30, 2). E v'era anche un gruppo di Procne e Iti (Paus., 1, 24, 3), in marmo, recuperato negli scavi dell'Acropoli.

Di Kresilas (da Cidonia), v'era il ritratto di Pericle (Paus., 1, 25, 1; 28, 2; Plin., Nat. hist., xxxiv 74), che è stato riconosciuto in copia in un'erma del Museo Vaticano in Roma, e v'era una statua di Ermolico, figlio di Dütrefe (Inscr. Graec., 1, 402; Paus., 1, 23, 3 ss.), rappresentato come un ferito a cui vengono meno le forze.

A Likios, il figlio di Mirone, si dovevano le statue dei Dioscuri che stavano sui due pilastri di testata della fronte occidentale dei Propilei (Paus., 1, 22, 4; Inscr. Graec., 1, Suppl., n. 418 h, p. 183 s.) e una figura di fanciullo che teneva un bacino d'acqua per lustrazioni (Paus., 1, 23, 7).

Era opera di Strongylion una colossale figura del cavallo di Troia, dal quale si affacciavano Menesteo e i figli di Teseo, Acamante e Demofonte, eroi ateniesi, e Teucro figlio di Aiace, eroe di Salamina (Paus., 1, 23, 8; Inscr. Graec., 1, 406); si sono ritrovati dei blocchi della base con l'iscrizione dell'artista e del dedicante Cheredemo.

Allo scultore Deinomenes si dovevano le statue di Io e di Callisto, eroine ambedue amate da Zeus e odiate da Hera, l'una mutata in vacca, l'altra in orso (Paus., 1, 25, 1).

Unica e famosa creazione di Styppax di Cipro era la statua dello Splanchnòptes che rappresentava un giovine in atto di arrostire delle viscere e di soffiare sul fuoco con le gote gonfie.

Infine, per quanto si sia voluta mettere in dubbio l'attribuzione, è da ricordare che presso l'ingresso dell'Acropoli si additava un rilievo rappresentante le Canti o Grazie (Paus., 1, 22, 8) di cui si voleva autore Sokrates.

Di altre statue e di altri gruppi si conosce solo il soggetto e talvolta il dedicante, mentre se ne ignora l'artista. Così dei primi anni dopo l'incendio dell'Acropoli, se non salvatosi dal periodo pre-persiano, era il gruppo scultoreo di Antemio figlio di Difilo, rappresentato accanto al proprio cavallo da corsa (Arist., Ath. Pol., vii, 4; Poll., viii, 131). E i figliuoli di Temistocle avevano innalzato un'immagine in bronzo di Artemide Leukophriène, la dea onorata nella città di Magnesia (Paus., 1, 26, 4). Un palladio dorato era stato dedicato da Nicia, il generale ateniese delle guerre del Peloponneso (Plut., Nic., 3, 3). Una dedica di Pericle, o almeno del suo tempo, dobbiamo ritenere la statua del padre di lui Santippo, combattente contro i Persiani a Micale nel 479 a. C. (Paus., 1, 25, 1). Ugualmente ai decennî intorno alla metà del sec. V a. C. deve riportarsi una statua di Anacreonte che si trovava accanto a quella di Santippo e che lo rappresentava nell'ebbrezza del vino e del canto (1, 25, 1). Se ne è stata giustamente riconosciuta una replica nell'Anacreonte Borghese (Gliptoteca Ny Carlsberg, Copenaghen). Pur dovendo essa appartenere al secolo V, d'incerta data è la statua del pancraziaste Ermolico, figlio di Eutino (1, 23, 10) che era morto in un combattimento tra gli Ateniesi e gli abitanti di Caristo verso il 472 a. C. (Herod., ix, 105). Nella seconda metà del secolo dovette essere innalzata la statua di Formione, lo stratega del tempo di Pericle (Paus., 1, 23, 10). Invece una dedica della fine del secolo dovettero essere le statue di Tolmide, navarca ateniese durante la guerra del Peloponneso, e di suo figlio, l'indovino Teeneto (1, 27, 5).

Vi erano poi statue di cui non è possibile neanche indicare l'età, per quanto sia da presumere che appartengano a questo secolo. Erano particolarmente gruppi mitici: Frisso che sacrifica l'ariete, il piccolo Eracle che lotta contro i serpenti, Atena che nasce dalla testa di Zeus, Atena in gara con Posidone (Paus., 1, 24, 3), Eracle che combatte con Cicno (1, 27, 6), Teseo che lotta contro il toro Maratonio (1, 27, 10). Forse al mito calidonio apparteneva una figura isolata di cinghiale (1, 27, 6). Invece immagini simboliche, scelte anche per la bellezza della loro forma naturale, dovevano essere alcune figure di animali, quali il toro dedicato dall'Areopago (1, 24, 2) e un ariete in bronzo (Hesych., s. v. άσέλγεια). E anche di esse ignoriamo la precisa età.

Finalmente si deve pensare che dopo la costruzione dei Propilei siano state raccolte nell'edificio dell'ala settentrionale, che appunto per questo prese il nome di Pinacoteca, alcune pitture di Polignoto (1, 22, 6) che dovevano prima trovarsi in altre parti dell'Acropoli. Dalle descrizioni sappiamo i soggetti. Vi erano Ulisse con l'arco di Filottete e Diomede col Palladio; vi era l'uccisione di Egisto da parte di Oreste, e, da parte di Pilade, quella dei Nauplidi accorsi in aiuto d'Egisto; vi era il sacrificio di Polissena sulla tomba di Achille, v'era Achille a Sciro tra le figlie del re Licomede e v'era l'incontro di Ulisse e Nausicaa. Insieme alle pitture di Polignoto o poco più tardi deve essere stata collocata nella Pinacoteca un'immagine di Alcibiade e v'era nel quadro un'indicazione dei cavalli con cui egli aveva ottenuto la vittoria nella corsa a Nemea (Paus., 1, 22, 7). È probabile che egli fosse rappresentato sulle ginocchia di Nemea personificata e che la pittura fosse opera di Aglaophon, figlio di Aristophon, fratello di Polignoto (Athen., xii, 534 d; Plut., Aicib., 16). Nel sec. IV a. C. venivano accolti nella Pinacoteca anche un Palestrita dipinto da Timenetos (Paus., 1, 22, 7) e due personificazioni della sponda marina, Pàralos e Hammonias, opera di Protogene (Plin., Nat. hist., xxxv, 101).

Ad un privato, Telemaco, non altrimenti conosciuto, si deve, nel 420 a. C., la fondazione del santuario di Asklepios e Igea, che si trova ad occidente del teatro (Inscr. Graec., ii, 3, 1649). Prima già esisteva un altare dedicato alle due divinità (ii, 1350, 3) e può anche essere che questo culto avesse preso origine intorno ad una fonte salutare, forse quella di cui più sopra sono stati ricordati il recinto e la iscrizione. Ma solo in questi ultimi decennî del secolo dovettero essere qui apprestate quelle costruzioni che erano necessarie per il culto di Asklepios, giacché esso non consisteva soltanto in riti religiosi, ma anche nel trattamento miracoloso dei malati che ricorrevano al dio. E così nel recinto, di, Asklepios si riconoscono un altare, un tempio e un portico. Dell'altare (3,5 × 6) e del tempio (6 × 10,50) si conservano, solo le fondamenta, per la maggior parte costituite da blocchi di poros. Il portico è addossato alla parete della roccia e dava accesso alla fonte salutare che ancor oggi sgorga in una piccola grotta a cupola. Nel portico doveva aver luogo l'incubazione dei malati: mentre dormivano appariva in immagine il dio e li guariva. La struttura del portico (breccia nelle fondamenta, poros per l'elevato, marmo dell'Imetto per il suo rivestimento) è quella comune per gli edifici del sec. IV a. C. e per il periodo ellenistico, e quindi esso non appartiene alla prima fondazione di Telemaco. Il portico (49,50 × 9,90) era ornato sulla fronte di diciassette colonne doriche ed era diviso in due navate da un colonnato interno più rado, forse ionico. Poteva avere un piano superiore, ad ogni modo era chiuso con pareti nella sua estremità occidentale e là una scala conduceva su un ripiano della roccia in cui esiste ancora una fossa (diam. 2,70, profond. 2,20) rivestita di blocchi poligonali di calcare dell'Acropoli, orlata di blocchi di breccia e circondata da quattro basi di colonne che dovevano sostenere una copertura. Non è improbabile che fosse destinata ai serpenti che tanta parte avevano nel culto di Asklepios e nella cura dei malati.

Siccome documenti epigrafici tardi riguardanti il santuario parlano di un tempio più antico, che fa supporre quindi un tempio più recente, si è creduto di poter additare come parte del santuario ad occidente di questi edifici un altro portico (20 × 14; in poros e marmo dell'Imetto, con colonne ioniche sulla fronte) e un altro piccolo tempio (5,06 × 4,25). E poiché v'è anche qua una fonte, il santuario avrebbe avuto analoghi edifici nella parte orientale e nella parte occidentale. Difficile per altro è dire quali fossero i più antichi: il portico occidentale e il tempietto orientale sembrano i più recenti (v. Asklepieion).

Ad occidente del santuario di Asklepios esistono solo poche mura di recinzione. Qui doveva trovarsi il tempio di Themis dinanzi al quale era collocata la tomba di Ippolito, il figlio di Teseo (Paus., 1, 22, 1). Al di sopra della tomba di Ippolito, cioè più in alto sulla roccia, v'era un santuario di Afrodite, che si voleva fosse stato fondato da Fedra. Sembra tuttavia che debba distinguersi da un altro tempio di Afrodite, quello dell'Afrodite Pàndemos, che si diceva fondato da Teseo, quando questi aveva riunito in una sola città gli Ateniesi di tutti i demi (1, 22, 3), e che doveva trovarsi egualmente in questa regione, ma più ad occidente, al disotto dell'ingresso dell'Acropoli. Al tempio di Afrodite Pàndemos appartiene un fregio scoperto in queste vicinanze: vi sono scolpite delle colombe che sorreggono col becco, una collana. Egualmente sulla pendice occidentale dell'Acropoli debbono cercarsi i santuari della Ghe Kourotròphos e di Demèter Chlòe (1, 22, 3). Invece erano già fuori delle vere e proprie pendici dell'Acropoli l'Eleusinion (1, 13, 3), cioè il santuario di Demetra e Kore, che può ricercarsi verso l'angolo di SO, e l'Anàkeion, o santuario dei Dioscuri (1, 18, 2), che era in vicinanza dell'Aglàurion. Così egualmente al disotto del versante settentrionale dell'Acropoli v'era il Prytàneion, il luogo che conteneva la Hestìa, cioè il focolare sacro della città e dove si conservavano le antiche leggi di Solone (Pausania, 1, 18, 3).

Infine, forse negli ultimi anni del sec. V a. C. o, ancor meglio, nel principio del IV, certo sotto l'influenza della tragedia Ian di Euripide, che aveva collocato nelle grotte di Pan e delle Ninfe l'incontro di Apollo e Creusa e la nascita di Ione, capostipite degli Ioni e quindi degli Ateniesi, fu introdotto il culto di Apollo Pöthios nella pendice settentrionale dell'Acropoli con l'epiteto di Apollo ὑκὸ Μακραῖς, "sotto le lunghe rocce" oppure ὑπ᾿ Ακραις o ὑποακραϊς, cioè "sotto l'Acropoli". Fu allora destinata ad Apollo la grotta più occidentale, quella più alta e più larga, ampiamente visibile, mentre a Pan rimase quella più orientale più profonda, più bassa e dallo stretto ingresso, quella dove del resto era stato sin dal principio posto il suo culto. Dinanzi alla grotta di Apollo vi è traccia di un altare e, nella sua parete di fondo, alcuni incavi della roccia erano destinati ad accogliere tabelle votive ed iscrizioni. Dalle iscrizioni conservate risulta che ad Apollo Hypoakràios rendevano particolare culto, del collegio degli arconti, i tesmoteti.

Più ad oriente era infine un santuario di Afrodite ed Eros, con ogni probabilità quello di ᾿Αρροδίτη ἐν κήποις, dove si recavano le Arrephòroi. Ne è stata rinvenuta parte della stipe, ma mancano quasi completamente avanzi di costruzioni.

Poco si aggiunge all'Acropoli nei decennî che corrono dal principio del sec. IV a. C. agli anni di Licurgo. Lo scultore Leochares creò la statua di Zeus Polieùs (Paus., 1, 24, 4). Una notizia non controllabile (Callistrat., Stat., ii) ricorda, come opera di Prassitele, la statua di bronzo di un giovane Diadoùmenos. Statue furono innalzate a ConQne e a suo figlio Timoteo (Paus., 1, 24, 3; Inscr. Graec., ii, 3, 1360) come anche allo stratega Ificrate (1, 24, 7). A questi decennî, anziché risalire al sec. V, deve appartenere la statua di vivo realismo con cui lo scultore Demetrios di Atene aveva rappresentata la vecchia Lisimache che era stata sacerdotessa di Atena per sessantaquattro anni (Plin., Nat. hist., xxxiv, 75): essa si trovava nell'Eretteo (Paus., 1, 27, 4). Opera di Stennis e di Leochares erano le statue di un gran monumento familiare di due privati, altrimenti ignoti, Pandete e Pasicle (Inscr. Graec., ii, 3, 1395).

E cominciano i doni di principi stranieri: del bottino per la vittoria sul Granico (334 a. C.) Alessandro il Grande dedicava sull'Acropoli trecento armature persiane (Arr., Anal., 1, 16, 7).

Ma lo Stato non ha più né la volontà né la capacità di dare monumenti all'Acropoli. Sulla piattaforma di essa nessun edificio fu costruito in questo periodo. Di statue onorarie è menzionata una di Olimpiodoro, stratega valoroso nella lotta contro Demetrio Poliorcete (287 a. C). Due donarî soli sono ricordati e sono di prìncipi stranieri.

Uno degli Attali di Pergamo, forse Attalo II (159-138 a. C.) anziché Attalo I, dedicò un vasto insieme di piccole statue rappresentanti la gigantomachia, l'amazzonomachia, la battaglia di Maratona e la sconfitta dei Galati (Paus., i, 25, 2). Dovevano essere state collocate presso il muro meridionale dell'Acropoli al disopra del teatro. Copie di figure isolate dei diversi gruppi sono conservate in varî musei d'Europa.

Là vicino, cioè sempre sul muro dell'Acropoli, al disopra del teatro e in vista di tutta la città, trovavasi una grande egida di bronzo dorato, con testa di Gorgone al centro, che era stata dedicata da un Antioco di Siria (Paus., i, 21, 3; v, 12, 4), forse Antioco IV Epifane (175-164 a. C.).

Dopo la guerra mitridatica A. sempre più decadde nella condizione di città amata e protetta per il suo passato. Romani illustri presero in questo la posizione che prima avevano avuto i prìncipi ellenistici, ma durante l'età di Cesare questa benevolenza di Roma per A. non fu rivolta a donarle nuovi monumenti. Invece Atene fu prodiga di statue onorarie a questi Romani benefattori. Tuttavia per l'Acropoli abbiamo notizia solo della dedica di due statue ad Antonio e Cleopatra (Cass. Dio, l, 15, 2), e si ha il dubbio che per esse fossero state adoperate, con adattamenti e cambiandone l'iscrizione e la testa, due statue colossali di Eumene e di Attalo (Plut., Ant., 6o, 2) che dovevano trovarsi presso il donano pergameno.

Le condizioni mutarono con l'età di Augusto e con lo stabilirsi dell'impero. Roma, i suoi prìncipi, i suoi uomini illustri furono innalzati alla gloria dell'Acropoli, talvolta dedicando loro nuovi monumenti, talvolta riadattando monumenti più antichi. Ma non poterono modificare gran che l'aspetto dell'Acropoli. Il più importante tra i nuovi monumenti fu il tempio di Roma ed Augusto (Inscr. Graec., iii, 1, 63) che fu innalzato di fronte al Partenone. Fu scelta per esso la forma italica del tempio circolare (diam. 7,48) e vi fu adoperato il marmo pentelico. Il peristilio era formato da 9 colonne ioniche. Si è in dubbio se dentro il colonnato vi fosse la cella o un semplice altare. Si suole attribuirlo all'età di Augusto, ma il carattere della costruzione lascia adito all'ipotesi che possa essere stato almeno rinnovato nell'età di Adriano, al che non portano difficoltà né i caratteri né il contenuto dell'iscrizione dedicatoria.

Ad Agrippa, il grande generale di Augusto, fu innalzato un monumento (Inscr. Qraec., iii, 1, 575) su alta base di marmo pentelico e marmo dell'Imetto (alt. 13,40) all'ingresso dell'Acropoli, a lato della Pinacoteca, sulla linea del torrione di Atena Nike. A giudicare dalle tracce di posa sembra che Agrippa fosse su una quadriga. È stata fatta l'ipotesi che il basamento sia più antico, appartenga cioè al monumento di un principe ellenistico: non è per altro sicuro. Invece è certo che, per onorare Germanico durante la sua dimora in A. (18 d. C.), si mutò l'iscrizione di uno dei Dioscuri che sormontavano i pilastri dei Propilei, e che le basi del gruppo di Pasicle e di Pandete furono usate per un gruppo di Augusto, Tiberio, Druso, Germanico, cui fu aggiunto in seguito Traiano (Inscr. Graec., iii, 447-450, 462). Non si sa se a tale scopo furono riadoperate anche alcune delle statue mutandone la testa. In età claudia fu costruita la grande scalinata monumentale dinanzi ai Propilei, e nel 61 d. C., nell'epistilio orientale del Partenone, al disotto di scudi che si ritiene fossero stati dedicati da Alessandro, fu affisso con grandi lettere di bronzo un decreto in onore di Nerone.

Non sono da considerare una bell'aggiunta all'Acropoli la parete a porta e i due torrioni laterali (alti circa m 9) che Fl. Settimio Marcellino (Inscr. Graec., iii, 826, 398) nella prima metà del sec. III d. C. innalzò ai piedi dei Propilei. È questa la porta che, dall'archeologo francese che la dissotterrò, è chiamata porta Beulé ed è la porta nella quale andò a finire per la maggior parte il materiale del monumento di Nicia, distrutto pochi decennî prima nell'innalzamento del portico detto di Eumene. Contemporanea a questa costruzione deve essere la scalinata in marmo che fu disposta sulla pendice dell'Acropoli tra la porta e i Propilei e che per il suo allineamento ne presuppone la esistenza. Questa scalinata, messa insieme con materiale di secondo impiego, non può infatti risalire all'età di Tiberio e di Claudio, come prima si voleva, sulla base di iscrizioni che riguardano i custodi dell'Acropoli e i guardiani della sua porta, la quale per altro è quella dei Propilei. Anche se non possiamo considerarla una vera e propria opera di difesa, la porta di Marcellino indica che per l'Acropoli si chiude l'èra in cui era stata santuario e comincia quella in cui tornerà fortezza. Sono alle porte di A. le incursioni barbariche e una prima orda di Eruli, nel 267 d. C., s'impadronisce della città.

Cominciano intanto le spoliazioni a favore di Costantinopoli, la nuova capitale dell'Impero. Sotto Teodosio II (408-459 d. C.) fu trasportata a Costantinopoli l'Atena Parthènos di Fidia, forse sotto Giustiniano (527-565 d. C.) vi fu trasportata l'Atena Pròmachos.

Cominciano anche le distruzioni come conseguenza del trionfo della nuova religione. Al volgere del sec. V al VI d. C. fu distrutto il santuario di Asklepios, dove certo si esercitava un culto taumaturgico, quanto mai in contrapposizione con lo spirito cristiano. Sul suo recinto sorsero più tardi cappelle e poi una chiesa e un monastero. Vero è che l'anima popolare, che ritrova sempre se stessa attraverso i secoli, nella ricerca di un bene materiale che può solo venirle dalla divinità, ha riacceso il lume della fede cristiana nella stessa grotta di Asklepios dove sgorgava l'acqua salutare.

Ma, per fortuna, la nuova religione non tutto distrusse: essa disereda i vecchi dèi ed occupa qualcuno dei monumenti maggiori. Al tempo di Giustiniano il Partenone fu trasformato in chiesa di S. Sofia, più tardi fu dedicato alla Madonna. E in una chiesa fu anche trasformato l'Eretteo. Non solo queste trasformazioni presuppongono che fossero andati distrutti tutti i doni votivi che i templi contenevano, ma il nuovo rito, che poneva l'altare ad oriente, richiese anche manomissioni delle strutture perché l'ingresso potesse aprirsi ad occidente. Nell'interno del Partenone fu rimaneggiato il colonnato della cella e fu aperto un accesso nella parete che la divideva dall'opistodomo. Nell'Eretteo fu stabilita una cripta. Divenuta A. così una provinciale città bizantina, sull'Acropoli fu innalzato il palazzo dell'episcopo, certo a spese del materiale antico che essa offriva.

Pendici meridionali dell'Acropoli. - Teatro di Dioniso. - Non sappiamo quando fu sistemata la primitiva orchestra nel santuario di Dioniso Eleuthèreus, ma con ogni probabilità, ciò avvenne sotto Pisistrato, o, al più tardi, sotto i suoi figli, quando fu costruito anche il tempio più antico. Ne sono rimasti due brevi tratti curvi del muro di sostegno in opera poligonale e un terzo, forse a sostegno della pàrodos occidentale; ma gli elementi a nostra disposizione sono troppo scarsi per averne un'idea più esatta. Del tempio è conservato poco più dell'angolo NO con l'euthynterìa in calcare di Karà su fondazioni in poros ma ne possiamo ricostruire più o meno la larghezza grazie ad un grande frammento del rilievo frontonale in poros, con sileni e menadi, databile verso il 520-10 a. C.

Dopo la pace di Nicia ebbe luogo una nuova sistemazione di tutto il santuario. Fu costruito allora, accanto al tempio più antico, un portico in poros con ortostati in marmo dell'Imetto e le fondazioni in conglomerato. Il muro di fondo di quest'ultimo, con un piccolo pròpylon sul lato anteriore, aveva la doppia funzione di muro di terrazzamento dell'orchestra e di frontescena. Dinanzi ad esso sono incassi per travi in più file che dovevano servire a fissare gli scenarî. Non conosciamo invece con sicurezza la forma dell'orchestra e del kòilon. Alcuni elementi dei sedili della proedrìa, reimpiegati nel canale dell'epoca di Licurgo, sono rettilinei. Evidentemente gli altri gradini dovevano essere lignei. Il tempio nuovo, di cui sussistono le sole fondazioni, in conglomerato, era un prostilo tetrastilo di m 21,95 × 9,30 con il pronao molto profondo. La statua criselefantina di Dioniso Eleutherèus, fatta da Alkamenes, occupava gran parte della cella. Sulle pareti, non sappiamo se del pronao o di quest'ultima, erano dipinte scene del mito di Dioniso: il ritorno di Efesto, la punizione di Penteo e Licurgo e il rinvenimento di Arianna.

Licurgo dette al teatro una grandezza e una magnificenza di costruzione che sostanzialmente si sono salvate attraverso i secoli.

Un potente muro di recinzione con fondamenta e fodera in blocchi rettangolari di breccia e con paramento esterno in poros sorreggeva la cavea del teatro soprattutto dalla parte occidentale dove essa confinava ed era imminente sul santuario di Asklepios. Sul lato occidentale la parte più bassa della cavea aveva dovuto rispettare il recinto dell'Odèion di Pericle che si inseriva in essa ad angolo retto. La cavea si arrampica sulla pendice dell'Acropoli per circa 30 m in !altezza ed ha un'estensione massima che all'incirca misura in lunghe7za 100 m e in larghezza 90. Due corridoi (διαζόματα) orizzontali dividono lo spazio destinato agli spettatori in tre sezioni che, alla loro volta, sono divise in cunei (κερκίδες) da scalette verticali: 13 cunei nella sezione inferiore, 20 nelle sezioni superiori. I sedili erano in poros e si calcola che i loro 78 ordini potessero offrire posto a circa 15.000 spettatori. Attraverso il corridoio superiore passava una strada che faceva il giro dell'Acropoli (περίπατος).

Ai piedi della cavea, divisa da essa da un canale coperto, si estendeva l'orchestra, cioè il piano destinato al coro. La sua forma è quella di un semicerchio allungato, ha un diametro di m 19,61. Nel mezzo doveva esservi l'altare (ϑυμέλη) di Dioniso.

Sullo stesso piano dell'orchestra faceva fronte allo spettatore la scena, che era una costruzione stabile formata da una vasta sala (lungh. 46,50, largh. 6,40). Il prospetto della scena o προσκήνιον era anche esso una costruzione stabile a colonne doriche collocate dinanzi ad una parete di fondo, nella quale si aprivano tre porte. Ai lati del proscenio v'erano due brevi avancorpi egualmente ornati a colonne che fungevano da quinte (παρασκήνια). Tra essi e il muro di sostegno della cavea v'erano i corridoi di accesso all'orchestra e al teatro (πάροδοι). L'edificio della scena era diviso in due navate da una serie di pilastri ed aveva forse alle due estremità, dietro i παρασκήνια, le scale d'accesso ad un piano superiore. Forse a qualche macchina scenica per questo piano serviva un'armatura in legno stabilita al centro della parete di fondo dell'edificio. La sala della scena serviva alla conservazione degli apparati scenici e all'adunata degli attori e del coro.

Nel teatro erano state collocate le statue in bronzo dei tre grandi tragici e quella di Menandro (Paus., i, 21, 1 ss.), oltre a statue di poeti minori e di uomini politici ed oratori come Demostene e Licurgo.

Probabilmente nella prima metà del II sec. a. C. fu costruito un proscenio stabile in marmo, circa m 2,20 più avanti del frontescena, mentre, contemporaneamente, i parasceni furono arretrati di m 1,50. Fra la fine del II e l'inizio del I sec. a. C. fu rinnovata tutta la proedrìa, con sedili di marmo e un trono con rilievi e decorazione arcaizzante per il sacerdote di Dioniso Eleutherèus. Sotto Nerone venne rifatto il proscenio, sul cui architrave venne incisa l'iscrizione dedicatoria, ed ebbero forse luogo dei restauri, sia ai parasceni che al frontoscena, ma lo stato di conservazione rende difficile ogni giudizio.

In età adrianea ebbe luogo la trasformazione del teatro di Dioniso in teatro romano con il pulpitum molto profondo, ornato sulla fronte da rilievi di stile classicheggiante con le nozze di Dioniso, la βασίλιννα e altre scene di più difficile interpretazione. Alla stessa epoca può essere attribuita la scenae frons nella sua forma ultima a due piani con colonne di cui ci sono pervenuti capitelli con foglie d'acanto e foglie d'acqua con le statue colossali della Tragoedia e Comoedia e alcuni papposileni. Adriano fu a sua volta onorato dagli Ateniesi nello stesso teatro, dove gli fu innalzata una statua in ogni cuneo.

Dopo la devastazione da parte dégli Eruli, Verso la fine del III sec. d. C., o forse all'inizio del IV sec., sotto l'arcontato di Fedro, ebbe luogo un ultimo restauro del pulpitum, per cui fu utilizzata ogni sorta di materiale di risulta e fra l'altro due sileni accovacciati. Ne rimane memoria in una epigrafe incisa sull'ultimo gradino della scalinata centrale costruita allora. L'Odèion di Pericle, innalzato negli anni intorno al 445 a. C., era un edificio rettangolare sormontato da un singolare tetto a padiglione, e si diceva fatto ad imitazione della tenda di Serse. Il legno era stato largamente adoperato nell'interno per il soffitto, per i sedili e forse anche per le colonne: esso proveniva dalle navi prese ai Persiani.

Ben poco ci è pervenuto delle strutture originarie dell'edificio, ma probabilmente già allora il pròpylon doveva essere al centro del lato orientale e la copertura doveva essere sostenuta da una serie di pilastri, la cui disposizione ricorda quella nel Telestèrion di Eleusi, di cui fu iniziata proprio allora la ricostruzione.

Nell'86 a. C. Aristione incendiò l'Odèion per impedire che i Romani utilizzassero per l'assedio il legname della costruzione. Ben presto per altro l'Odèion fu ricostruito dal principe di Cappadocia Ariobarzane II Filopatore (63-51 a. C.) che ne dette l'incarico agli architetti C. e M. Stallius e Menalippos (Vitr., v, 9, 1; Inscr. Graec., iii, 1, 541).

A tale restauro appartengono probabilmente gli ortostati in marmo dell'Imetto e i frammenti di sedili di marmo ornati di civette.

In memoria della moglie Regilla, Erode Attico innalzò dopo il 161 d. C. sulla pendice meridionale dell'Acropoli, verso il lato occidentale, un magnifico Odèion (Paus., vii, 20, 6), in simmetria a quello di Pericle, rinnovato da Ariobarzane, che stava verso il lato orientale. La pendice non si era qui prestata come per il teatro ad una adagiata collocazione della cavea sulla roccia naturale. Per creare questa cavea alta e stretta fu adoperata nel riempimento la struttura romana dell'opera cementizia. I sedili invece furono fatti in marmo dell'Imetto. La cavea (diam. 76) era divisa in due sezioni da un corridoio orizzontale. Le venti file di gradini della sezione inferiore erano divise in 5 cunei, le 13 della sezione superiore in 10. Si calcola che vi fosse posto per 5000 spettatori. Un portico correva in alto intornQ a tutta la cavea. L'orchestra (19 × 12) era coperta di lastre di marmo bianco e grigio dell'Imetto. Tre scalette davano accesso dall'orchestra al palco. E il palco faceva parte dell'edificio della scena che era in poros rivestito di marmo. La scena era a tre piani e si apriva nel fondo con tre porte fiancheggiate da nicchie. Un avancorpo sulla strada al di dietro della scena doveva costituire l'ingresso principale all'Odèion e comprendere le sale per il deposito degli apparati scenici e per l'adunata degli attori. Una notizia antica parla di un meraviglioso soffitto di cedro (Philostr., Vit. soph., ii, 1, 5), ma è da escludere che esso coprisse l'intera costruzione. Il largo uso della vòlta e dell'arco nell'Odéion di Erode Attico non soltanto rivela che l'architettura rettilinea greca ha ormai ceduto alla curvilinea architettura romana, ma pone un singolare segno della nuova civiltà sotto l'orizzonte dell'Acropoli dominato dalle classiche sagome angolari degli edifici di Pericle.

Contemporaneamente all'Odèion o poco dopo fu costruito il portico detto di Eumene che si distende sulla pendice meridionale dell'Acropoli (163 × 17,65). L'errata interpretazione di un éorrotto passo di Vitruvio (v, 9, 1) vi ha fatto vedere una costruzione del principe pergameno' Eumene II. La struttura lo rivela chiaramente romano. Per sostenere la spinta che doveva venirgli dalla pendice retrostante era stato costruito un muro di fondo ad archi, in breccia e in poros. Questo era nascosto da un rivestimento in poros e in marmo dell'Imetto. Il portico era forse a due piani, ma non si conosce l'ordine che era stato in essi adoperato. Alla sua estremità occidentale il portico è in comunicazione con l'Odèion; all'estremità orientale, dove per la sua costruzione si dovette togliere di mezzo il monumento di Nicia, di cui solo rimane qualche avanzo delle fondamenta, si arresta poco prima di raggiungere la cinta del teatro. Certo il portico era destinato agli spettatori del vicino Odèiòn, sulla cui costruzione è stato infatti allineato, ma doveva anche costituire un comodo passaggio coperto di comunicazione tra l'Odèion e il teatro.

Il recinto di Dioniso fu ornato nel primo ellenismo da alcuni dei suoi più sontuosi monumenti coregici, che i cittadini vincitori nell'allestimento delle gare drammatiche innalzavano in questo recinto o sulla via dei Tripodi che dalla pàrodos orientale del teatro conduceva fino al Pritaneo, per collocarvi il tripode in bronzo che avevano ricevuto come premio della vittoria.

Dopo una vittoria del 319 a. C. fu innalzato il monumento coregico di Trasillo. Esso trovavasi al disopra del teatro. Nella roccia dell'Acropoli una grotticella naturale era stata riadattata a cella con apertura quadrangolare e dinanzi ad essa era stato disposto un piccolo portico dorico in marmo pentelico (lung. 7,5, alt. 6,8). Al disopra di questo era collocato il tripode. Traside, il figlio di Trasillo, per due vittorie che ottenne come agonoteta nel 271 a. C., rialzò con un attico il monumento paterno.

Per una vittoria ottenuta nel 219 a. C. fu innalzato il monumento coregico di Nicia. Le fondamenta si additano all'estremità orientale del portico detto di Eumene da cui fu appunto distrutto; il materiale del suo elevato è finito, quello di marmo pentelico nella parete della porta di Fl. Settimio Marcellino ai piedi dell'Acropoli, quello in calcare e in poros nei torrioni che la fiancheggiano. Il monumento doveva avere la forma di un tempio dorico (13 x 24) senza peristilio e con 6 colonne sulla fronte.

A questo medesimo periodo ellenistico debbono riportarsi le due alte colonne corinzie isolate (v'è traccia di una terza) che più su del monumento di Trasillo si elevano dinanzi al muro dell'Acropoli. I loro capitelli triangolari indicano che dovevano sostenere anch'esse tripodi coregici (v. Coregici, Monumenti).

5. L'Agorà. - Prima della sistemazione a pubblica piazza della zona a N dell'Areopago, avvenuta, per quanto ci è dato sapere, nei primi decennî del VI sec. a. C., doveva già esistere ad A. una Agorà. Con questa ἀρχαία ἀγορά è messo in relazione, in un passo di Apollodoro riportato da Arpocrazione, il santuario di Afrodite Pàndemos. Pausania menziona quest'ultimo, accanto a quelli di Ghe Kourotròphos e di Demetra Chlòe, fra l'Asklepièion e i Propilei dell'Acropoli, e il reimpiego, nella Porta Beulé, di due iscrizioni provenienti da quel santuario, di cui una incisa in un epistilio di marmo non facilmente trasportabile, potrebbe essere una conferma alla notizia. Alcuni hanno voluto perciò localizzare il primo centro della vita pubblica ateniese a SO dell'Acropoli, altri più ad O, nel quartiere scavato dal Doerpfeld fra la Pnice e l'Areopago, dove manca però qualsiasi elemento concreto; recentemente si è tentato di identificarlo addirittura con l'esiguo spiazzo fiancheggiato da gradinate che era dinanzi ai Propilei pre-mnesiclei. È tuttavia molto probabile che Apollodoro abbia voluto fornire una etimologia dell'epiteto Pàndemos, fondandosi sulla tradizione che sapeva dell'esistenza di una più antica agorà, senza conoscerne il luogo, e allora cadrebbe il presupposto più valido per tali ipotesi. Sarebbe infatti più logica una ubicazione presso il Pritaneo, che in origine non poteva essere disgiunto dalla pubblica piazza, e quindi sempre ai piedi dell'Acropoli, ma a N, se vogliamo ammettere che anche il Thesmothetèion era lì, o a NE.

L'Agorà più recente occupava un'area in leggero declivio verso N, limitata ad E da una bassa propaggine della collina delle Ninfe, il Κολονὸς ᾿Αγοραιος. Almeno la parte più settentrionale, molto vicina all'Eridano, era entro i confini del Ceramico interno.

Età preistorica e protostorica. - La più antica testimonianza è una tomba a pozzo tardo-neolitica rinvenuta dinanzi al portico del Metròon. L'abbondanza degli scarichi dell'Elladico Medio fa presupporre l'esistenza di abitazioni, delle quali, peraltro, non ci sono pervenuti avanzi. Piuttosto scarsi sono invece i ritrovamenti in superficie di ceramica dell'Elladico Recente, periodo durante il quale la zona fu usata soprattutto come luogo di sepoltura. Le tombe a camera, scavate nella roccia, possono essere datate fra l'E. R. II e l'E. R. III b, e solo qualcuna sembra esser rimasta in uso fino alla prima metà del XII sec. a. C. Esse sono, con una sola eccezione, allineate da E ad O, fra la stoà NE e l'angolo NO del tempio di Ares, evidentemente lungo una strada, che, a giudicare dalla direzione dei dròmoi, doveva passare più a N. Le tombe a fossa contemporanee sono sparse in più punti, ma particolarmente frequenti nell'angolo NE della piazza, sotto l'estremità settentrionale della Stoà di Attalo e ad oriente di questa.

Dopo la parentesi dell'invasione dorica la zona cominciò a ripopolarsi. Al periodo submiceneo possono essere datati, oltre ad una tomba a S del tempio di Ares, almeno due pozzi, a S della fontana SO e sotto l'Agrippèion, cui, nel X sec. a. C., se ne aggiunsero due ad O dell'Agrippèion e uno a SE della Thòlos. Le tombe protogeometriche, non molto numerose, seguono l'allineamento di quelle a camera micenee; presuppongono quindi la sopravvivenza della strada. Al IX o VIII sec. a. C. risale il battuto più antico della via che seguiva il lato O dell'Agorà la cui parte centrale e orientale era allora occupata in gran parte da case, di cui i pozzi sono l'unica testimonianza. L'area abitata nel VII sec. a. C. non era molto più estesa e solo un pozzo a NO dell'Odèion e un complesso con fornace a S della Thòlos non sembrano essere in zone non occupate precedentemente. Quel che rimane delle fondazioni di quest'ultimo e il recinto costruito contemporaneamente, alla fine dell'VIII sec. a. C. o all'inizio di quello successivo, intorno ad un attiguo sepolcreto tardo-geometrico, sono le sole strutture superstiti anteriori all'impianto dell'Agorà. Su un basamento in pietrame unito da argilla poggiava l'elevato in mattoni crudi, che dev'essere crollato già verso la metà del VII sec. a. C., epoca dalla quale anche il sepolcreto non è stato più usato per quasi cento anni.

Il materiale più recente trovato nei pozzi nell'area della piazza non è posteriore ai primi decennî del VI sec. a. C., mentre la zona marginale ad E era occupata ancora nel V sec. a. C. da edifici privati.

L'Agorà pre-persiana. - Con ogni probabilità il trasferimento dell'Agorà verso il quartiere industriale del Ceramico, avvenuto, a giudicare dai dati archeologici, all'incirca fra il primo e il secondo decennio del VI sec. a. C., è da mettere in rapporto con i profondi mutamenti politici e sociali del periodo di Solone. In quella più antica lo spazio per l'assemblea popolare sarà stato insufficiente e non dovevano esserci locali adatti per la βουλή dei Quattrocento. Ciò non vuol dire, tuttavia, che la ἀρχαία ἀγορά abbia perso allora ogni importanza politica. Il Pritaneo, dov'era l'altare di Hestìa, non cambiò sede e anche dopo la costruzione del πρυτανικὸς οἶκος vi rimase l'ufficio dell'arconte eponimo e dei ϕυλοβασιλείς.

Fra i fattori che devono aver influito sulla scelta del luogo per la piazza, quello urbanistico non era il meno importante. Lungo il lato N passava, con ogni probabilità, la ἱερὰὁδός per le Pitaidi, che veniva da Eleusi e proseguiva verso i quartieri orientali della città. A NE sboccava la strada da Acarne. La via sacra per le Eleusinie attraversava l'Agorà obliquamente da NE a SE in direzione dell'ingresso dell'Acropoli e venne poi a coincidere, in questo tratto, dal 566-65 a. C. in poi, con quella delle grandi Panatenee. Infine la strada che seguiva il lato O continuava a salire fra l'Areopago e la Pnice e raggiungeva Melite, e quella, pure di origine piuttosto antica, alle spalle del lato S, proseguiva verso il Pireo.

Fin dall'inizio il lato O dell'Agorà, ai piedi del Κολονὸς ᾿Αγοραίος, sembra aver avuto una posizione di preminenza. Ancora nel primo quarto del VI sec. vi sorse il muro di sostegno di una breve terrazza, sulla cui parte settentrionale insisteva il muro orientale di una costruzione a due vani (C), che può avere già avuto carattere pubblico. Forse contemporaneamente, o comunque poco più tardi, fu ricavato nel fianco della collina, poco più a S, una specie di κοῖλιν, che dev'esser stato il più antico Bouleutèrion. Nel secondo quarto del VI sec. a. C. furono costruiti, sempre sulla terrazza, a S di C, gli edifici D e E; il primo era costituito da un vano centrale e due laterali più stretti, mentre del secondo si è trovato solo un angolo di muro. I muri di queste costruzioni più antiche sono, almeno nella parte bassa, in pietre poligonali di piccole dimensioni in calcare dell'Acropoli, con molti tasselli. C ed E furono demoliti già verso il 550 a. C., quando fu costruito, più a S, il complesso F, alcuni vani del quale avranno ereditato le loro funzioni. Quest'ultimo, a pianta trapezoidale, aveva un cortile centrale circondato su tre lati da portici e da ali di fabbricato, ed era collegato con l'edificio C da un nuovo muro di terrazzamento in poligonale lesbio antistante al primo e interrotto, nella parte N, da una gradinata. Le parti basse delle strutture sono in opera poligonale di medie dimensioni con pietrame minuto negli interstizî, e basi circolari pure in calcare dell'Acropoli sostenevano le colonne lignee. In questo vasto edificio, che fu poi sostituito dalla Thòlos, si può riconoscere con ogni probabilità il πρυτανικὸς οἶκος, dove almeno una parte dei pritani siedeva in commissione permanente.

Verso il 550 sorsero, nella parte N del lato occidentale dell'Agorà, i templi primitivi di Apollo Patròos, la divinità tutelare della stirpe ionica, e di Zeus, che dopo il 479 ebbe l'epiteto di Eieuthèrios. Il primo, a pianta absidata e regolarmente orientato, occupò parte dell'area di una costruzione preesistente, la cui cronologia assoluta non si è potuta determinare, ma che sembra aver servito poco prima da officina di scultori. Infatti vi si rinvennero frammenti delle forme di due koùroi di bronzo e la fossa per l'adattamento di una di esse. Il tempio di Zeus, forse di poco posteriore, aveva una cella stretta e lunga, pure regolarmente orientata, ed era preceduto, molto probabilmente, dall'altare di Zeus Agoràios (dove prestavano giuramento gli arconti) di cui si son voluti riconoscere gli avanzi in una fondazione in calcare di Karà posta da N a S (m 3,65), inclusa nell'altare ellenistico. Nello stesso periodo pisistrateo dev'esser stata inoltre sistemata, probabilmente, come si vedrà più avanti, nella parte centrale della piazza, ad O della via processionale, l'orchestra per le grandi Dionisie. Al terzo venticinquennio del VI sec., può essere datato un vasto recinto quadrangolare nel settore occidentale del lato S della piazza, accessibile da N per mezzo di una scala che ne occupava tutta la larghezza. Si è voluto riconoscere in questo recinto la sede del tribunale della Helìaia, istituito già da Solone che, secondo la tradizione letteraria, sarebbe stato nell'Agorà, ma manca qualsiasi elemento sicuro per tale identificazione.

Sotto i Pisistratidi, fra il 530 e il 520 circa, la piazza e i suoi dintorni sembrano esser stati sistemati secondo un piano più unitario. Non è tuttavia possibile averne una visione completa, poiché il lato N non è stato ancora scavato, gran parte di quello S dev'essere ancora esplorato in profondità e quello E è stato sconvolto dalle successive costruzioni.

Ad E della via che passava dinanzi agli edifici pubblici più importanti fu scavato un ampio canale con i muri laterali in opera poligonale, per smaltire le acque provenienti dalle colline, e contemporaneamente il terreno nei pressi dell'edificio F fu livellato mediante una colmata. Alla stessa epoca appartiene la fontana SE, costituita da un ambiente centrale aperto verso N e ad E e O da due bacini. Le fondazioni sono in assise regolari di blocchi poligonali di poros uniti da grappe a ???SIM-10???, mentre i bacini erano rivestiti originariamente da lastre di marmo. L'acqua veniva attraverso un condotto di tubi fittili nel sottosuolo della strada a S. I due tubi di scarico immettono, a breve distanza dalla fontana, in un condotto che proseguiva verso NE.

Nel 522-21 a. C., sotto l'arcontato di Pisistrato il giovane, fu eretto nella parte N dell'Agorà l'altare dei dodici dèi (Thuc., vi, 54, 6-7), che coincide molto probabilmente con quello della Pietas, di cui parla Stazio (Thebais, xii, 481-509). Esso è stato identificato grazie alla dedica sulla base di Leagros, tuttora in situ sul lato occidentale del recinto. L'unico elemento originario finora conosciuto rimasto in situ è l'assisa di fondazione del peribolo, di m 9,35 × 9,85, in blocchi squadrati di poros accuratamente lavorati con gli incastri per il parapetto. L'ingresso era probabilmente al centro del lato lungo occidentale, presso la base di Leagros. All'elevato dell'altare stesso appartengono alcuni elementi in poros reimpiegati nelle strutture della seconda fase, fra i quali frammenti degli ortostati e della parte superiore, che aveva una cornice con becco di civetta e due pulvinaria con volute alle estremità.

Anche il periodo immediatamente successivo alla riforma di Clistene è caratterizzato da una notevole attività costruttiva nell'Agorà. Furono allora demoliti l'edificio C, l'ala settentrionale di F e parte dei muri di terrazzamento nella zona intermedia per far posto al Bouleutènon. Quest'ultimo era di pianta pressocché quadrata (m 23,80 × 23,30) con due ambienti, di cui quello minore, a S, serviva evidentemente da vestibolo. Nell'aula più grande sono conservati avanzi delle fondazioni in blocchi di due dei pilastri interni, che erano probabilmente disposti a Ø. Contemporaneamente sorse, poco più a N, il primo tempio della Meter, collegato al Bouleutèrion, con il quale era in asse, per mezzo di un muro. La cella rettangolare, stretta e lunga, era preceduta ad E da un pronao, il cui lato anteriore è andato distrutto. Le fondazioni, in blocchi irregolari di calcare dell'Acropoli, profonde fino a m 1,40, sono conservate a tratti e l'assisa più alta conserva le tracce dell'euthynterìa. L'ala demolita dell'edificio F, che era stato ampliato già prima verso O, fu sostituita da un nuovo corpo di fabbrica sul lato S. Nella parte orientale di quest'ultimo era una grande aula quasi interamente aperta verso N, con due colonne unite più tardi da parapetti fra le ante. I muri, conservati per l'altezza di m 0,65, sono in pietrame unito da argilla e le Colonne, probabilmente lignee, poggiavano su basi in calcare. Nello stesso tempo furono aggiunti altri ambienti verso O e fu ripristinato il recinto del cimitero che, nel frattempo, era stato di nuovo utilizzato per qualche sepoltura di bambino.

Al periodo di Clistene risalgono anche due hòroi dell'Agorà, di cui uno, conservato in situ all'estremità superiore del grande canale, indicava l'angolo SO della piazza originaria, e un recinto con eschàra a S dell'altare dei dodici dèi, nel quale si è voluto riconoscere l'Aiàkeion, dedicato verso il 500 a. C. Manca invece qualsiasi elemento utile per l'identificazione di un altare circolare entro un recinto di cui sussistono le fondazioni sotto la parte N della Stoà di Attalo. Il gruppo dei Tirannicidi di Antenor, eseguito con ogni probabilità nel 509 a. C. (Plin., Nat. hist., xxxiv, 16-17), era quasi certamente nello stesso posto dove fu poi collocato quello di Kritios e Nesiotes, cioè nel luogo dell'antica orchestra per la celebrazione delle grandi Dionisie. In età imperiale le due statue erano nella zona a N dell'Odèion di Agrippa, da dove proviene anche un frammento della base più recente, ma non è da escludere che esse fossero originariamente nel luogo dove poi sorse l'Odèion, sotto la cui orchestra è stata rinvenuta la fondazione di una base che per le dimensioni, l'orientamento analogo a quello dell'altare dei dodici dèi e la cronologia può essere stata facilmente quella originaria. Comunque stiano le cose, è quindi per lo meno molto probabile che l'antica orchestra fosse nella parte centrale della piazza e ad occidente della via processionale delle Panatenee. Pure nel periodo di Clistene, quando la sede abituale dell'assemblea popolare fu trasferita dall'Agorà sulla Pnice, fu sistemato il περισχοίνισμα, un recinto chiuso evidentemente con funi, destinato alle riunioni per l'ostracismo. In base alle notizie letterarie questo ultimo doveva essere a S dell'altare dei dodici dèi e a poca distanza dalla Stoà di Zeus, quindi nella parte NO della piazza e ad una certa distanza dall'orchestra, con la quale alcuni lo hanno voluto mettere in rapporto e altri lo hanno perfino confuso.

L'unica base di donano dell'età pre-persiana rimasta in situ è quella già menzionata di Leagros accanto all'altare dei dodici dèi, che può essere datata in base ai caratteri epigrafici e per il ritmo della statua di bronzo, di cui rimangono i perni, nel decennio dopo Maratona.

L'Agorà classica. - Le distruzioni e devastazioni provocate dai Persiani furono assai gravi anche nell'Agorà. Per quanto sappiamo finora, rimasero più o meno indenni solo il Bouleutèrion, la fontana SE e forse il recinto della cosiddetta Helìaia. Solo il πρυτανικὸς οἶκος, che era stato incendiato, fu ricostruito in parte quasi subito, anche se in forma provvisoria. Nel 477 a. C. si provvide a far eseguire da Kritios e Nesiotes il nuovo gruppo dei Tirannicidi, in sostituzione di quello portato via dai Persiani. Ma le prime opere importanti furono eseguite anche nell'Agorà soltanto dopo il 469, con il bottino della battaglia dell'Eurimedonte. Al periodo di Cimone risalgono la Thòlos, che sorse nel luogo stesso dell'edificio F, e la Stoà Poikìle che venne ad occupare, a giudicare da quel poco che ne sappiamo, gran parte del lato N. Fra i doni votivi possiamo menzionare l'Apollo Alexìkakos di Kalamis, che era nei pressi del santuario di Apollo Patròos. L'area a N di quest'ultimo era stata invece occupata da officine di vasai che cessarono di funzionare quando fu costruita la Stoà di Zeus.

Mentre probabilmente poco dopo il 457 fu iniziata la costruzione del tempio di Efesto sul Kolonòs Agoràios e durante tutta l'età di Pericle e di Cleone lo sforzo ricostruttivo fu concentrato altrove, soprattutto sull'Acropoli, l'Agorà ebbe un suo assetto definitivo solo nei due decennî successivi alla pace di Nicia (421 a. C.). Furono allora costruiti la Stoà di Zeus, il nuovo Bouleutèrion, il c. d. Strategèlon a SO della Thòlos, la fontana SO, il pròpylon della c. d. Heliaia, la Stoà meridionale più antica, la c. d. Zecca e la sede di un tribunale a NE e fu sistemato un perìphragma ad E del vecchio Bouleutèrion. Nello stesso tempo furono restaurati l'altare dei dodici dèi, il recinto attiguo a S e la fontana SE, mentre l'antico Bouleutérion, dato in uso ai Metragirti, divenne il nuovo Metròon e accolse la statua della Μήτηρ, di Agorakritos.

Non sappiamo con esattezza fino a qual punto questa nuova sistemazione edilizia dell'Agorà rispondesse ad un piano d'insieme o per lo meno ad un programma unitario, ma comunque è assai improbabile che le teorie ippodamee realizzate nella pubblica piazza del vicino Pireo abbiano influito in modo notevole su di essa. La fisionomia greco-continentale dell'Agorà ateniese del V sec. a. C. avanzato, che non rimase un esempio isolato in Grecia anche in epoche più recenti, si conservò, come vedremo, malgrado tutte le aggiunte e trasformazioni, fino al 267 d. C.

Nel 375 a. C., o poco dopo, fu innalzato dinanzi alla Stoà di Zeus il gruppo di Eirene e Ploutos di Kephisodotos, e più o meno dello stesso periodo saranno state le statue onorarie di Conone e di suo figlio Timoteo nella stessa zona, mentre intorno alla metà del IV sec. a. C. può essere datata una base con la firma di Bryaxis trovata in situ a N della Stoà di Zeus. All'incirca contemporanei a questa ultima sono una clessidra monumentale accanto al pròpylon della cosiddetta Helìaia e un bacino circolare di ignota destinazione a S della Stoà di Zeus, che fu rimpiazzato, ancora incompiuto, da un sacello. Accanto a questo, la cui attribuzione è ipotetica, sorse poi, dopo il 338, il nuovo tempio di Apollo Patròos, forse il monumento più importante del IV sec. a. C. nell'Agorà. Pure al periodo di Licurgo può essere assegnato un edificio a peristilio, mai compiuto, che avrebbe dovuto sostituire il tribunale nella parte NE della piazza.

Non conosciamo la data della sistemazione sulle pendici E del Kolonòs Agoràios di un ϑέατρον rettilineo con banchi di poros, ma esso non dev'essere di molto posteriore alla costruzione del tempio di Efesto, e comunque è anteriore agli edifici del lato O della piazza.

La Stoà di Zeus, che sembra esser stata, malgrado le riserve di varî studiosi, tutt'uno con la Stoà Basìleios, è stata riconosciuta, in base alla descrizione di Pausania, nell'edificio del lato occidentale più vicino alla via sacra. Essa è stata preceduta da officine installate dopo il 479 nell'area del più antico tèmenos di Zeus. Due cisterne rettangolari con pavimento in lastre di calcare e le pareti in pietrame sono state rinvenute rispettivamente sotto il muro S e la parte centrale del colonnato anteriore. La seconda apparteneva, insieme ad un pozzo e un fosso semicircolare, ad una fonderia, le cui scorie occupavano tutta la parte centrale dell'area. La funzione di un edificio più a NO, con muri in mattoni crudi su zoccolo di pietra, non è chiara, mentre un vano scavato nella roccia a SO faceva parte di una figulina che, fino verso il 420 a. C., rimase in funzione.

La Stoà, lunga m 46,55 e larga m 18 circa, era del tipo comune a due navate, ma con le due estremità girate in avanti ad angolo retto, in modo da costituire due avancorpi profondi m 5,50 circa. Le fondazioni non molto profonde, conservate a tratti, e la euthynterìa, che doveva essere visibile a N, dove il livello del terreno era più basso, erano in blocchi squadrati di poros. Dell'elevato, che doveva essere in marmo pentelico, salvo qualcuno dei quattro gradini in marmo dell'Imetto, e, forse, il muro di fondo, è conservato in situ solo un tratto del gradino inferiore a S. Un rocchio di colonna, due blocchi quasi interi del gèison con notevoli avanzi della decorazione policroma e alcuni minuti frammenti dei capitelli e dei triglifi sono tutto quel che resta del colonnato esterno, di ordine dorico, che occupava tutta la fronte. Ancora più scarsi sono gli elementi delle colonne interne, di ordine ionico, che, come al solito, poggiavano su fondazioni isolate. Al frontone S possono essere attribuite, con ogni verosimiglianza, due Nikai acroteriali in marmo di stile postfidiaco, databili più o meno verso il 420-10 a. C., e frammenti di un acroterio centrale fittile, con una donna che sorreggeva un fanciullo, rinvenuti tutti nell'area antistante. Quest'acroterio è evidentemente uno dei due della Stoà Basìleios descritti da Pausania, e precisamente quello con Eos e Kephalos, mentre l'altro rappresentava Teseo e Scirone. Il muro di contenimento della scarpata retrostante, contemporaneo alla Stoà, è in blocchi squadrati di poros e continuava a S, per piegare poi ad angolo retto verso E.

All'interno la Stoà era ornata da pitture di Euphranor rappresentanti Teseo, la Democrazia e la partecipazione ateniese alla battaglia di Mantinea, eseguite probabilmente non molto dopo il 362 a. C. Una grande fondazione circolare in poros dinanzi alla parte centrale della Stoà, cui è contemporanea, apparteneva forse alla statua di Zeus Eleuthèrios. Non conosciamo invece l'ubicazione esatta della Eirene di Kephisodotos, e delle statue di Evagora, Conone e Timoteo, che, secondo Pausania, dovevano essere nella stessa zona.

Il tempio di Apollo Patròos fu ricostruito, come si è visto, solo all'epoca di Licurgo, e non sappiamo neanche a che cosa sia stata adibita l'area del témenos dopo il 479 a. C. L'Apollo Alexìkakos di Kalamis era infatti almeno dal IV sec. a. C. nella zona antistante, forse nei pressi dell'altare. Il bacino circolare, che in base ai frammenti ceramici rinvenuti nel fosso di fondazione non può essere anteriore al 350 a. C. circa, era intonacato e aveva il fondo in conglomerato e le pareti quasi interamente in poros. Il tempietto sovrapposto ha le fondazioni in blocchi di conglomerato e l'euthynterìa, in gran parte conservata, in poros. Esso era costituito da una semplice cella rettangolare di m 5,20 × 3,65, quasi interamente aperta sul lato anteriore. In base ad un giuramento di Demostene (Κατά Μειδίαν, 198) in nome di Apollo, Zeus e Atena e a un passo di Platone (Euthydemos, 302, c) dove ad Apollo Patròos sono associati Zeus Phràtrios o Herkèios e Atena Phràtria, si è voluto mettere in relazione con questo sacello un ortostato di altare con dedica a queste ultime due divinità, databile ancora al IV sec. a. C., ma rinvenuto reimpiegato sul lato opposto della piazza.

Per la costruzione del tempio di Apollo Patròos fu distrutto quasi tutto il tratto E-O del muro di terrazzamento contemporaneo alla Stoà di Zeus. La pianta è quella di un tempio in antis con cella relativamente larga e un ambiente laterale a N, alle spalle del sacello di cui sopra. Le fondazioni, abbastanza profonde sotto il pronao, e il nucleo dell'euthynterìa e del krepìdoma sono in blocchi di conglomerato. Nell'euthynterìa, in poros, e nei tre gradini in marmo dell'Imetto, di cui si sono identificati degli elementi, sono usate grappe a ???SIM-02??? e a Ø. La base e i pochi tratti conservati dei muri della cella sono in blocchi di calcare con giunti qualche volta obliqui probabilmente reimpiegati. Un torso colossale di Apollo citaredo, databile verso il 340-30 a. C., trovato a poca distanza dal tempio, è molto probabilmente la statua di culto, scolpita da Euphranor. Conferma l'attribuzione del tempio il rinvenimento, nelle vicinanze immediate, di due omphalòi in marmo dell'Imetto con attacchi per il serpente di bronzo. Non sappiamo esattamente dove fossero l'Apollo Alexìkakos di Kalamis, e l'Apollo di Leochares, quest'ultimo forse di poco anteriore o contemporaneo al tempio, citati ambedue da Pausania nell'area antistante, né è chiaro se un ortostato di altare con dedica provenisse originariamente da questo o da un altro santuario di Apollo Patròos.

Il nuovo Bouleutèrion, costruito alle spalle di quello più antico e ad un livello di poco più alto, era un edificio rettangolare di m 22,50 × 17,50. Esso venne ad occupare l'area del kòilon, che era stato probabilmente la prima sede della Boulé nella nuova Agorà, e si sovrappose anche ad alcune cisterne rettangolari di cui rimangono scarsi avanzi. Le fondazioni, l'euthynterìa e l'elevato erano in blocchi squadrati di poros. I muri, dei quali è rimasto in situ solo qualche avanzo delle massicce fondazioni del lato S, erano in blocchi disposti secondo il sistema a chiave per testa e per taglio, con bugne rustiche circondate da fasce levigate sulla faccia a vista. Quattro colonne molto vicine ai lati lunghi E e O, di cui rimangono una fondazione e due incavi nella roccia, rinforzavano evidentemente la copertura, mentre avanzi di fondazioni nella parte centrale dovevano appartenere al bèma e ai sedili inferiori. Ad una prima cavea evidentemente lignea e, a quanto pare, a pianta rettangolare, fu sostituita, non sappiamo quando, con ogni probabilità una curvilinea. Per la ceramica rinvenuta nei cavi di fondazione, per la tecnica costruttiva e le grappe a ???SIM-02???, l'edificio può essere datato non molto dopo il 420 a. C. e a questa data ben si adatta un altare circolare quasi completo in marmo pentelico con ramo di ulivo a rilievo, trovato nella parte O dell'antico Bouleutèrion.

Contemporaneamente fu sopraelevato il pavimento del Bouleutèrion più antico, evidentemente nel corso della sua sistemazione a Metròon. Alcune scaglie di pietra di Eleusi e un frammento di ortostato nello stesso materiale possono essere messi forse in rapporto con la base della Μήτηρ di Agorakritos. Sull'aspetto di quest'ultima siamo informati da numerosi naìskoi votivi, di cui qualcuno è stato anche rinvenuto negli scavi recenti.

La Thòlos era un edificio circolare di m 18,32 di diametro, con almeno una porta ad E e sei colonne, di cui le due nell'asse dell'ingresso più vicine al centro. L'elevato del muro esterno, conservato in un punto fino alla seconda assisa, poggiava per tre quarti della circonferenza su una fondazione in pietrame, a NO direttamente sulla roccia. La parte bassa, in blocchi accuratamente squadrati con anathörosis e grappe a ⌴, serviva da zoccolo a quella superiore in mattoni crudi. Le colonne, di cui sono conservate in situ la parte del primo rocchio, inclusa nei pavimenti posteriori e la fondazione in blocchi squadrati, erano in poros e avevano il fusto liscio. In base alla ceramica da tavola fra la quale era una kölix contrassegnata dalla sigla graffita Æ trovata in uno scarico sotto il pavimento in battuto, questa prima fase costruttiva può essere datata nel decennio 470-60 a. C. Ad essa possono essere attribuite tegole fittili triangolari con antefisse e lato anteriore dipinti e altre, più frequenti, a forma di losanga. Già da allora la parte centrale del tetto sembra esser stata in materiale diverso, forse in bronzo. La cucina più antica viene identificata in un piccolo ambiente rettangolare sul lato N, al cui tetto appartenevano forse alcune tegole con opàion e l'iscrizione [δ]ημο[σίον]. Il muro del recinto, in blocchi poligonali di calcare dell'Acropoli uniti a blocchetti minori, è sicuramente contemporaneo. Quando fu costruito il nuovo Bouleutèrion il lato N fu spostato, ma del nuovo muro non rimangono che avanzi della massicciata di fondazione. Verso la fine del V sec. a. C., probabilmente in seguito ad un incendio, fu soprelevato il pavimento e rifatta la parte alta del muro esterno. A tale restauro possono essere attribuiti blocchi di copertura della parte in pietra del muro in marmo dell'Imetto, di cui si sono trovate le scaglie di lavorazione fra i due pavimenti. Il taglio superiore di questi è preparato per ricevere mattoni crudi e alcuni elementi sembrano dimostrare l'esistenza di finestre. Nel corso di un secondo restauro dell'epoca di Licurgo fu ampliata la cucina e si aggiunse un impianto di rifornimento idrico scavato nella roccia a NO.

In un edificio della fine del V sec. a. C., a SO della Thòlos, con un cortile centrale circondato da ambienti, si è voluto riconoscere lo Strategèion. Ma il rinvenimento, nei pressi, di iscrizioni in onore dei taxiarchi non è sufficiente per tale identificazione e non è quindi escluso che il complesso abbia avuto carattere privato, come, a quanto pare, un'altra costruzione a SE della Thòlos. Quest'ultima, sorta già nel VI sec. avanzato e demolita nella parte orientale verso la metà del IV sec. a. C., ha il muro N, ben conservato, in opera pseudopoligonale e gli angoli in blocchi squadrati.

La fontana SO, dalla pianta piuttosto singolare, a squadra, era del solito tipo con il bacino preceduto da un portico. Essa era alimentata all'angolo SE da un acquedotto in blocchi di poros nel sottosuolo della strada a S. Sia le fondazioni, sia l'elevato, di cui ci sono pervenuti pochissimi elementi, erano in poros.

In pessimo stato è anche quel che rimane dello stereobate e del krepìdoma del pròpylon della cosiddetta Helìaia, largo m 11. La clessidra ad O di esso è costituita da un bacino intonacato ad E, dal quale l'acqua entrava in un pozzo di m 0,97 per lato, profondo m 2,53. Il foro con bordo metallico che immette nel canale di scarico è accessibile all'esterno del pozzo da una scala che scende lungo i lati O e N. La struttura è tutta in conglomerato e il rifornimento idrico avveniva attraverso una diramazione dell'acquedotto della fontana SO.

La stoà S, più antica, era in asse con la strada che delimitava a meridione l'area della piazza e occupava tutto lo spazio fra la cosiddetta Helìaia e la fontana SE. Essa misurava m 87 × 15 ed era del solito tipo a due navate, ma con una fila di botteghe, divisa da una scala che saliva al piano della strada. Le fondazioni, lo stilobate, di cui è conservata una parte in situ, le colonne e le prime due assise dei muri erano in poros. Al colonnato esterno potrebbe essere attribuito un capitello dorico in poros dalla sagoma caratteristica di quelli dell'ultimo quarto del V sec. a. C. rinvenuto nell'area stessa della stoà, mentre non si conosce neanche l'ordine del colonnato interno. La parte alta dei muri, di cui si conservano notevoli resti, è in mattoni crudi.

Alla fontana SE furono apportate, verso la fine del V sec. a. C., alcune modifiche, fra le quali l'abbassamento del livello interno della vasca occidentale. Anche l'acquedotto e lo scarico furono in gran parte rifatti allora. Contemporaneamente le fu costruito accanto un vasto edificio con un cortile, diversi ambienti, due fornaci e due bacini d'acqua. Per il rinvenimento di alcuni tondelli di bronzo nella parte N di esso, vi si è voluta riconoscere, probabilmente a ragione, la Zecca.

Sotto la parte N della Stoà di Attalo sono stati trovati avanzi di due edifici sovrapposti. Il più antico era costituito da un recinto trapezoidale forse aperto verso la piazza a S, e da ambienti di pianta non ben determinabile a N. I muri avevano lo zoccolo in pietrame e la parte alta in mattoni crudi. Una fogna correva lungo il muro S del recinto, cui si accedeva per una scala nell'angolo SE e del cui muro O non si conoscono avanzi. In base al rinvenimento di gettoni discoidali in bronzo con l'iscrizione ψῆϕος δημοσία e delle sigle, soprattutto in uno degli ambienti a N, è probabile che quest'edificio sia stato sede di un tribunale, forse il Παράβυστον, che era sicuramente nell'Agorà. Sotto Licurgo il recinto fu sostituito da un peristilio, che aveva lo stesso orientamento del muro NE. Al centro del lato SE era una larga porta, e in quello di fronte un'apertura di 17 m, al cui posto era forse previsto un pròpylon. Dello stilobate sono conservati pochi avanzi, con l'impronta di una colonna angolare.

Alla Stoà Poikìle, chiamata anche Peiszanàkteios, sono stati attribuiti alcuni elementi architettonici di ordine dorico con notevoli avanzi della policromia, reimpiegati in un muro tardo-romano nella parte NE della piazza e databili al secondo quarto del V sec. a. C. Particolarmente notevoli sono un capitello d'anta e alcuni blocchi del muro lasciati grezzi su un lato per ricevere le pitture che ornavano l'interno. Queste erano in parte contemporanee alla costruzione, come l'Amazzonomachia di Mikon, l'Iliupersis di Polignoto e forse la Battaglia di Oinoe; in parte forse più recenti, come la Battaglia di Maratona di Panainos, fratello di Fidia. In questa stoà erano esposti, fra l'altro, gli scudi tolti agli Spartani a Sfacteria, di cui uno, con l'iscrizione ΑΘΗΝΑΙΟΙ | ΑΓΟ ΛΑΚΕΔ | ΑΙΜ[Ο]ΝΙΩΝ | ΕΚ [ΓΥ]ΛΟ, è stato rinvenuto presso l'Hephaistièion. Tutto fa supporre che la Stoà Poikile chiudesse a N l'Agorà e che essa rimanesse in piedi fino al 267 d. C.

L'altare dei dodici dèi fu completamente rinnovato verso il 420 a. C. e il recinto fu pavimentato con lastre rettangolari di poros. La balaustra era costituita, come si può dedurre dalle tracce rimaste, da pilastrini, fra i quali erano incastrati alcuni ortostati. Contemporaneamente fu restaurato l'attiguo recinto con eschàra che ebbe anch'esso un pavimento in poros, una balaustra a quanto pare continua, e forse un pròpylon. I blocchi, accuratamente lavorati, erano uniti da grappe a ⌴ e da pernî. Un terzo recinto a pianta rettangolare di m 18,40 × 3,68, pare sia stato sistemato ex novo nella zona dinanzi al Metròon, pure negli ultimi decennî del V sec. a. C. In una assisa di blocchi di poros erano incastrati i piedritti, in origine forse lignei, della balaustra, sostituiti poi da elementi in poros di egual tipo e misura, di cui si sono trovati frammenti. Vi si è voluto riconoscere, soprattutto in base alle tracce di un ampliamento verso S, che ne portò la lunghezza fino a 21 m, e agli avanzi di una lunga fondazione all'interno, il recinto con le statue degli eroi eponimi delle phylài, che era anche il luogo per le pubbliche affissioni.

Fra le statue di età classica di ubicazione incerta possiamo citare quelle di Callia e di Licurgo. Quanto alle erme, menzionate già da Senofonte, tutto fa ritenere che esse fossero nei pressi della Stoà Poikìle e poco lontano dalla Stoà di Zeus, forse nella zona che non è stata ancora scavata.

Età ellenistica. - Durante il primo ellenismo l'attività costruttiva nell'Agorà non sembra esser stata molto intensa. Verso la fine estrema del IV sec. a. C. o all'inizio di quello successivo fu ampliata alle estremità la fontana SO ed ebbe luogo un altro restauro della Thòlos, forse limitato al pavimento (nel quale fu inserita, a m 2,40 dal muro, una fascia in marmo dell'Imetto) e alla cucina. Contemporaneamente o poco più tardi furono sistemati gli accessi al nuovo Bouleutèrion mediante l'aggiunta di un portico a S, l'impianto dinanzi ad esso di un piazzale cui si saliva da E attraverso una larga scalinata, e la costruzione di un pròpylon sulla piazza a S del Metròon e di una seconda scalinata a N. Le fondazioni di tutte queste strutture e il muro di terrazzarnento della collina ad O e S del piazzale sono in blocchi reimpiegati di poros, calcare e conglomerato. Lo stilobate del portico, di cui sono state trovate scaglie di lavorazione nelle fondazioni, doveva essere in marmo pentelico, mentre l'unico blocco conservato in situ del primo gradino del pròpylon è in marmo dell'Imetto. Nello stesso tempo l'impianto idrico della Thòlos fu sostituito da uno nuovo, pure sotterraneo, ma più vasto.

Fra i monumenti onorarî eretti in questo periodo l'unico di cui conosciamo approssimativamente l'ubicazione è la statua di Demostene, eseguita da Polyeuktos nel 280 a. C., che doveva essere nella zona fra il tempio di Ares e l'altare dei dodici dèi.

Praticamente nessun lavoro di una certa entità pare sia stato eseguito durante il periodo successivo, e solo nei decennî intorno alla metà del II sec. a. C. possiamo assistere ad una ripresa edilizia che cambiò completamente l'aspetto di due lati della piazza.

All'inizio del III sec. a. C. possono essere datati i pochi avanzi di una serie di ambienti, forse botteghe, aperti verso N, subito a S della costruzione a peristilio ad E della piazza, allora in parte già distrutta. Essi furono a loro volta demoliti quando sorse la Stoà che chiude quasi tutto il lato orientale, dovuta, come testimoniano i frammenti dell'epigrafe sull'epistilio del colonnato inferiore, alla munificenza di Attalo II di Pergamo e databile, quindi, fra il 159 e il 138 a. C. È un grandioso edificio a due piani, con doppio portico e 21 botteghe, della larghezza complessiva di m 19,40. Il dislivello del terreno era corretto da un ampio ripiano antistante sostenuto da un muro di terrazzamento più alto a N e accessibile da S. In un primo momento la lunghezza prevista era minore, ma ancora durante la costruzione fu aggiunta la parte settentrionale con le tre ultime botteghe e la scala d'accesso al piano superiore, portandone così la lunghezza da m 102 a m 116,50. Grazie all'inserimento della parete di fondo nel cosiddetto muro di Valeriano le parti estreme della Stoà sono conservate in qualche punto per tutta l'altezza originaria e ancora nel secolo scorso esisteva parte del frontone meridionale. Le fondazioni sono in conglomerato, gli ortostati, gli stipiti e architravi delle porte in marmo dell'Imetto, tutte le altre parti dei muri in poros, mentre la facciata e le colonne interne erano in marmo pentelico. Nel piano inferiore le 45 colonne doriche del colonnato esterno insistevano su un krepìdoma di tre gradini e le 22 di ordine ionico su fondazioni isolate. Nel piano superiore le colonne esterne erano ioniche, mentre quelle interne avevano, a quanto pare, capitelli a foglie di palma di tipo pergameno. Le botteghe, nelle quali furono inserite in età romana alcune pergulae, erano munite di finestre nel muro di fondo, e altre aperture erano nei frontoni. La ricostruzione eseguita fra il 1953 e il 1956 è sicura, salvo qualche particolare di secondaria importanza, ma la parte moderna è troppo evidente rispetto a quella antica, soprattutto nel portico. Forse contemporanea alla Stoà è una fondazione rettangolare di m 5,70 × 6,20 dinanzi alla parte centrale del terrapieno, al cui elevato sono stati attribuiti blocchi in marmo dell'Imetto con i perni per una quadriga in bronzo collocativi, forse, quando vi fu incisa una dedica a Tiberio.

Dello stesso periodo della Stoà di Attalo è il complesso costruito a tappe successive sul lato S dell'Agòrà. La Stoà di mezzo, iniziata intorno al 160 a. C. o poco prima, e in origine completamente isolata, misurava m 147 × 18,30, non compresa la terrazza a S, che correggeva il dislivello. Le fondazioni in conglomerato. molto profonde ad O, dov'erano rivestite nella parte visibile da blocchi di poros, sono discretamente conservate. I tre gradini e le colonne doriche non scanalate, di cui rimangono elementi in situ nella parte orientale, erano in poros. Un muro centrale che non raggiungeva le estremità divideva in due la Stoà, aperta sui quattro lati. Di poco posteriore è la Stoà E, di m 14 × 40, 30, divisa da un muro NS in due parti, di cui quella orientale, a livello superiore, comunicava con l'altra attraverso una scala larga m 8,50. Manca qualsiasi elemento delle colonne e della trabeazione e ignoriamo anche la funzione della parte SO, isolata da un muro certamente originario. La tecnica costruttiva e i materiali sono però identici a quelli della Stoà di mezzo ed è quindi probabile che essa non fosse molto diversa nell'aspetto esteriore. Lo stesso si può dire della Stoà meridionale II, di poco più recente, il cui livello è inferiore di un gradino all'ala adiacente di quella E e alquanto più basso dell'antica Stoà del V sec. a. C. Essa misura m 93,60 × 8,50 ed è ad una sola navata. Nel muro di fondo, in conglomerato rivestito da blocchi di poros, rifatto in parte in età romana, è una fontana del tipo più semplice. Sul tratto conservato dello stilobate, che poggiava su un solo gradino, sono visibili tracce di colonne doriche scanalate, di cui si è trovato qualche frammento.

Si è supposto che la parte meridionale della piazza, inclusa fra questi tre portici, fosse adibita ad usi commerciali, ma data la completa assenza di botteghe, non è da escludere una funzione diversa.

Nel terzo venticinquennio del II sec. può datarsi il nuovo Metròon, la cui tecnica costruttiva ricorda molto la Stoà di Attalo, mentre le sagome hanno già carattere tardo-ellenistico. Esso venne ad occupare un'area più vasta di quello precedente, di cui utilizzò in parte le fondazioni. Tre ambienti rettangolari e un peristilio a N erano preceduti da un lungo portico aperto verso la piazza. Le fondazioni in conglomerato si prolungano sotto le colonne di quest'ultimo verso il basso con pilastri quadrati. Sull'euthynterìa in poros sono conservati alcuni tratti del toicobate e degli ortostati in marmo dell'Imetto. Nello stesso materiale erano il krepìdoma del portico esterno, costituito da tre gradini, e lo stilobate del peristilio. Le grappe sono a coda di rondine nei muri e a Ø nei gradini, dove sono usati anche perni. Dell'ordine esterno in marmo pentelico sono conservati una base attica tuttora in situ, frammenti del fusto liscio di qualche colonna e elementi della trabeazione con l'architrave a tre fasce e il gèison molto sporgente. Il peristilio aveva quattro colonne per lato e al centro una base, di cui è conservata la fondazione in poros. Ai lati dell'ingresso erano due piccoli ambienti, forse per scale, e altri tre vani disposti in modo asimmetrico, di cui quello centrale a livello più alto, erano ad O. Circa la destinazione dei vari ambienti dell'edificio, uno dei quali serviva da archivio, non si possono fare che ipotesi, ma è probabile che il secondo da S servisse a facilitare l'ingresso al Bouleutèrion. L'identificazione del complesso è comunque sicura, anche perché vi sono stati trovati un frammento di rilievo votivo e numerose tegole con dedica alla Μήτηρ nel bollo.

Pressappoco dello stesso periodo sono inoltre il pronao del sacello attiguo al tempio di Apollo Patròos, di cui sussiste però solo lo stereobate in conglomerato, e un ampliamento verso SO del recinto della Thòlos. Una fondazione di m 8,50 × 5,95 dinanzi alla Stoà di Attalo, verso la via per le Panatenee, può aver appartenuto al bèma, che deve essere sorto anch'esso in età tardo-ellenistica.

Fra i monumenti onorarî possiamo citare le statue dei Tolomei, che erano in età romana dinanzi all'Odèion e risalivano, con ogni probabilità, agli ultimi decennî del III sec. a. C., e quella seduta di Carneade nei pressi della Stoà di Attalo.

Età romana. - La conquista di A. da parte di Silla nell'86 a. C. e il successivo saccheggio causarono danni assai rilevanti, soprattutto alla parte SO dell'Agorà, più vicina alla porta del Pireo. Andarono distrutte la Thòlos e la casa ad O della Stoà di mezzo, e fu devastata l'area antistante al Bouleutèrion. Non poche statue devono esser state asportate in quella occasione, mentre altre furono distrutte insieme a numerose iscrizioni. Nei nuovi edifici e nelle parti restaurate o aggiunte di quelli preesistenti sono usati nei decennî successivi, soprattutto nelle parti non visibili, materiali di risulta di ogni genere. La Thòlos fu ricostruita quasi subito e ornata di un pròpylon di cui ci sono pervenute le fondazioni di struttura assai irregolare e qualche avanzo del primo gradino in marmo dell'Imetto. L'impianto idrico, messo fuori uso, fu interrato e sostituito da una fontana entro il recinto a S, con una platea di fondazione rettangolare, nella quale sono riutilizzati molti blocchi dei muri esterni della stessa Thòlos. Non si conosce invece la funzione di una costruzione pure in pessimo stato, di m 6,10 × 7,10, di fronte al portico del Bouleutèrion. Mal conservato è anche un piccolo edificio con tre ambienti costruito allora dinanzi alla parte occidentale della Stoà di mezzo, dinanzi al quale è una base con campioni in marmo di tegole fittili regolamentari di tipo laconico. L'altare in marmo pentelico del IV sec. a. C. ad E del recinto antistante al Metròon fu trasferito nell'Agorà, nello stesso periodo, forse dalla Pnice. L'unico monumento onorario conosciuto di qualche importanza, che può essere attribuito sicuramente ad età repubblicana è una colonna presso l'estremità S della Stoà di Attalo, con sulla base una dedica a Q. Lutazio Catulo, che fu console nel 61 a. C.

Sotto Augusto l'Agorà ebbe l'aspetto che, salvo qualche cambiamento di scarsa importanza, le rimase fino al 267 d. C. La costruzione nella parte centrale dell'Odèion di Agrippa (Agrippèion) e il trasferimento del tempio di Ares nella zona più a NO implicarono lo spostamento di varî monumenti minori, soprattutto di carattere onorario. Furono costruiti allora anche la Stoà NE e il pròpylon del recinto della Thòlos.

L'Agrippèion, che dev'essere sorto intorno al 15 a. C., quando Agrippa visitò A., è un vasto edificio rettangolare, che misurava, senza il piccolo pròpylon a N, m 43,20 × 51,38. Intorno all'ambiente centrale più alto girava su tre lati un criptoportico a due navate, che aveva evidentemente un piano superiore, mentre il quarto lato era occupato dal post-scenio. Le fondazioni, mal conservate, sono in parte in blocchi squadrati di poros, in parte in opera a sacco, inframezzata qualche volta da blocchi. Dell'elevato sono conservati in situ una parte del muro esterno del criptoportico, soprattutto a S, per l'altezza massima di due assise, e le parti basse di alcune colonne di questo ultimo, che erano in marmo pentelico e avevano il fusto liscio. Alla fase augustea appartengono inoltre la ruderatio dei gradini inferiori della cavea poco meno che semicircolare, frammenti dei gradini stessi e alcuni elementi caduti, in marmo pentelico. Fra questi sono molto notevoli i grandiosi capitelli corinzî di alcuni dei pilastri che scandivano, sia all'esterno, sia all'interno, la parte alta dei muri del rettangolo interno, attraversata evidentemente da finestre, e alcuni capitelli di colonne delle stesse dimensioni, sia di ordine corinzio, sia a foglie d'acqua su una fila di foglie d'acanto. Alla stessa architettura possono essere attribuiti frammenti di alcune basi dell'epistilio, del fregio e della cornice e alcuni blocchi di uno stilobate in marmo dell'Imetto, trovati anch'essi in posizione di caduta. Il pavimento in marmi colorati dell'orchestra appartiene invece, come la decorazione del pulpitum, ad un restauro del II sec. d. C.

Il trasferimento del tempio di Ares è datato dal rinvenimento di frammenti ceramici sotto le fondazioni, dai caratteri delle lettere incise sui blocchi per facilitare la ricomposizione e dalle basi di statue di membri della famiglia Giulio-Claudia trovate nelle vicinanze immediate del tempio.

La Stoà NE, di cui si conservano le fondazioni in blocchi uniti da calce, era prostila e del tipo più semplice, con 11 colonne sulla fronte. Il krepidoma era in marmo dell'Imetto, le basi e i capitelli in marmo pentelico e i fusti delle colonne, lisci, in cipollino. La decorazione ricorda assai da vicino quella del tempio di Roma e Augusto sull'Acropoli.

Il pròpylon del recinto della Thòlos ha, come l'esedra dello stesso periodo poco più ad E, le fondazioni in conglomerato. Vengono ad esso attribuiti alcuni blocchi di krepìdoma in marmo dell'Imetto e varî elementi architettonici in poros di ordine dorico trovati nei pressi. In base alla ceramica rinvenuta sotto il pavimento lastricato di marmo pentelico, possono essere datati in età augustea anche i due ambienti aggiunti dietro il lato di fondo della Stoà di Zeus, di cui quello meridionale conteneva un podio per una, o più statue.

Al I sec. dell'Impero può essere attribuito, per la qualità della malta, un grosso nucleo in opera a sacco rivestito da blocchi di conglomerato, di m 11 × 21, dinanzi alla Stoà di mezzo. Con ogni probabilità si tratta del podio di un tempio, che, malgrado il ritrovamento nelle vicinanze di una dedica da parte dell'areopago a Livia, non può essere per ora identificato. Di non molto posteriori sono una stoà con fondazioni in blocchi di conglomerato appoggiata al muro di terrazzamento della Stoà di mezzo e un piccolo edificio adiacente collegato ad E con l'Agrippèion. Sempre nel I sec. la fontana SE dev'esser stata sostituita con una nuova nell'area antistante, di cui è conservata parte del muro del bacino con paramento in opus reticulatum. Contemporaneamente, in età Claudia, il pavimento della Thòlos fu sostituito da uno in scaglie di marmo che tiene già conto dell'esistenza di una base al centro, e fu costruita una larga scalinata per rendere più facile l'accesso dall'Agorà all'Hephaistièion.

L'edificio a S della Stoà di Attalo, con un peristilio circondato da ambienti e preceduto da un portico con colonne di ordine ionico, può essere identificato grazie all'iscrizione sull'architrave della porta, trovato reimpiegato lì vicino nel muro di Valeriano, con la Biblioteca dedicata da un T. Flavius Pantainos fra il 98 e il 102 d. C. ad Atena Poliàs e a Traiano. Da esso provengono forse due torsi loricati di personificazioni dell'Iliade e dell'Odissea, di uno dei quali si è trovata anche la base con l'iscrizione.

Ad età adrianea risale il pulpitum dell'Odéion, a forma di balaustra con erme e due statue alle estremità, e forse anche il pavimento dell'orchestra. La statua dell'imperatore, della quale è stato rinvenuto il torso loricato dinanzi alla Stoà di Zeus, era probabilmente quella menzionata da Pausania, aggiunta nel 125 d. C., quando fu istituita la phylè agli eroi eponimi. Ad età antoniniana possono essere riferiti i rifacimenti della fontana SE e del post-scenio dell'Odèion, e la costruzione di un monòpteros dinanzi alla Stoà di Attalo. La fontana era, in questo suo aspetto più recente, evidentemente del tipo a cascata, come fa supporre l'alto podio in blocchi di poros reimpiegati, e aveva un muro di fondo semicircolare di cui si è trovato il fosso di fondazione. Alla decorazione di quest'ultimo spettano i frammenti di una trabeazione curva, che doveva poggiare su colonne antistanti e forse un capitello corinzio e una statua del tipo della Afrodite di Fréjus. Le strette analogie con il ninfeo di Erode Attico ad Olimpia, soprattutto nella pianta, possono far supporre che il donatore sia stato lo stesso personaggio. La sostituzione del post-scenio dell'Agrippèion con un portico sostenuto da due giganti e due tritoni dev'essere avvenuta sotto Marco Aurelio o piuttosto sotto Commodo. Infatti le sculture, nelle quali sono evidenti le reminiscenze pergamene, risentono, malgrado il carattere generale ancora classicheggiante, già del barocco tardo-antoniano. Il monòpteros, del diametro di m 8,10, aveva colonne lisce in serpentino con basi e capitelli compositi in marmo pentelico, mentre la copertura era a cupola.

Non si sa quando, ma comunque nel II sec. d. C., furono tolte le colonne interne della Thòlos e ne fu rifatto di nuovo il pavimento. La parte centrale, cruciforme, fu lastricata in marmo pentelico e gli spazî angolari in marmo dell'Imetto. Non sappiamo invece se l'ambiente aggiunto sul lato E, che è in ogni caso posteriore all'edificio tardo-repubblicano di fronte al portico del Bouleutèrion, sia più antico o contemporaneo al restauro in questione o ancora più recente.

Numerose dovevano essere anche in età romana le statue onorarie, anche a giudicare da quel poco che ce ne è pervenuto e dalle non molte basi di cui si sono conservati elementi. A monumenti abbastanza notevoli di questa categoria devono aver appartenuto due grandi fondazioni dinanzi alla Stoà di Zeus, del I sec. a. C. e una presso l'angolo NE dell'Agrippèion.

6. Mura. - A parte il Pelasgikòn, di cui si è parlato sopra, non abbiamo finora alcuna prova sicura dell'esistenza ad A. di una cinta fortificata anteriore al 479 a. C. Infatti è dubbio se i Βραχέα τοῦ περιβόλου rimasti in piedi dopo la distruzione, di cui parla Tucidide (1, 89) appartengano piuttosto al Pelasgikòn. Comunque è sempre bene non trarre a priori conclusioni da un argumentum ex silentio, poiché le necropoli più estese erano, già dal periodo geometrico, fuori dell'abitato, che deve aver avuto, come i demi, dei confini, forse contrassegnati in origine soltanto da hòroi, e non sono da escludere sorprese.

La prima cura di Temistocle fu, dopo il 479, di mettere la città in condizioni di difesa, e di questa più antica fase conosciuta delle mura dell'ἄστυ (larghe in media 3 m) ci sono pervenuti anche avanzi sicuri. La struttura, a due cortine, consiste, come per tutti i restauri e rifacimenti di età greca, in una fondazione in poros, uno zoccolo di calcare dell'Acropoli λιϑολόγημα, alto in media da 1 a 2 m circa sul piano di campagna, sul quale insisteva la parte alta in mattoni crudi. La struttura è in opera pseudoisodoma non sempre molto regolare nelle torri, quadrate, che misurano in media 6-7 m per lato, e nelle fiancate delle porte, e in opera pseudopoligonale con blocchetti minori intermedi di tutte le forme e dimensioni nei μεταπύργια. Nel terrapieno e spesso nella struttura stessa sono reimpiegati moki elementi di monumenti funerarî in marmo e in poros. In una seconda fase temistoclea, cui risalgono alcuni rafforzamenti della porta Sacra, è stata usata, oltre l'opera pseudoisodoma, anche quella poligonale, molto curata, di tipo molto vicino a quello lesbio.

Al V sec. a. C. avanzato vengono datate altre due fasi costruttive sempre in calcare dell'Acropoli, l'una, in opera poligonale a bordi rettilinei, con molti angoli rientranti e faccia a vista a sbozzatura rustica, che è stata attribuita all'epoca di Cleone; l'altra in opera trapezoidale. La fase successiva, di cui ci sono pervenuti avanzi in più punti della cinta, in pseudopoligonale molto curato con incisioni più o meno parallele a scopo in un certo senso decorativo sulla faccia a vista, è stata messa in relazione con un restauro da parte di Conone, verso il 395 a. C. Meglio datate, grazie anche a saggi stratigrafici, sono alcune parti delle mura, che possono essere attribuite, rispettivamente, all'epoca di Licurgo, cioè all'ultimo decennio del IV sec. a. C. e fra il 229 e il 200 a. C. Alla prima di queste fasi appartengono il Dìpylon, con le sue torri, dal nucleo in conglomerato rivestito da blocchi di poros disposti per testa e per taglio con fasce levigate su tre lati dei singoli blocchi, oltre a parte di una torre della porta Sacra e da una torre semicircolare in conglomerato presso la porta del Pireo. Con il decreto relativo al restauro delle mura del 307-09 a. C. (Insc. Gr.2, ii, 1, 463) possono esser messi in rapporto il diatèichisma citato nell'iscrizione e il fortilizio sul Mousèion, in blocchi squadrati di conglomerato e di poros, dalla faccia a vista non levigata, e numerosi diatoni collocati trasversalmente per collegare meglio le due cortine. Di struttura più massiccia è il muro del III sec. a. C. avanzato, in blocchi di conglomerato uniti per testa e per taglio e con pilastri all'interno per sostenere parte del cammino di ronda, che fin dalla fase precedente doveva essere, come risulta dall'iscrizione, coperto da un tetto.

Le cinte tardo-romane, infine, e il restauro giustinianeo di quella esterna, sono interamente in materiale reimpiegato, con due cortine in blocchi di dimensioni molto diverse e un nucleo interno in calcestruzzo.

Mentre la metà sud-occidentale è, malgrado il pessimo stato di conservazione di lunghi tratti, abbastanza ben conosciuta, l'altra è nota in sostanza solo da scavi fortuiti compiuti a scopo edilizio negli ultimi cinquant'anni soprattutto. Il Dìpylon, attraverso il quale usciva dalla città il dròmos fiancheggiato dalle tombe di Stato, che andava all'Accademia, coincide probabilmente con le Θπιάσιαι πύλαι con cui lo identifica Plutarco (Plut., Per., 30, 3), e con le Κεραμεικαὶ πύλαι (Hesych., s. v. Κεπαμεικός. Già la fase temistoclea, i cui pochi avanzi sono ancora inediti, pare sia stata costituita almeno da due torri esterne e da una porta arretrata di ben 40 m rispetto alla cinta e preceduta da un'area fiancheggiata su due lati dal muro. Tutto il complesso fu ricostruito da Licurgo con quattro torri, due delle quali ai lati della porta a due aperture, fra le quali, sul lato interno, era un altare dedicato a Zeus Herkèios, Hermes e Acamante. Pure all'interno della porta, sul lato orientale, è una fontana ad essa contemporanea, con il bacino a squadra, di cui rimane la pavimentazione. Lo spazio fra le due torri esterne fu chiuso da una seconda porta a doppia apertura in età romana, e ancora più tardi al pilastro centrale di questa fu addossata una larga base preceduta da una schola in marmo.

Segue un tratto di muro della quinta fase, preceduto da un bacino di età imperiale e poi la ἱερὰ πύλη, attraversata a O dalla ἱερὰ ὁδός per Eleusi e a E dall'Eridano, della quale sono tuttora ben conservate, limitatamente allo zoccolo in muratura e ad una parte dell'elevato in mattoni crudi della più antica, le due fasi temistoclee. Alla prima appartengono le parti basse delle due torri angolari esterne e una prima porta non molto arretrata rispetto al muro. Sia questa, sia quella che poi la sostituì alquanto più a S, sono a due passaggi, per uno dei quali usciva il fiume. Durante la seconda fase venne alquanto rinforzato e soprelevato il muro di fiancheggiamento orientale, mentre quello di fronte fu rifatto nel V sec. avanzato, e, limitatamente alla cortina, all'inizio del IV sec., se dobbiamo accettare la cronologia assoluta proposta per le soprelevazioni dello zoccolo, che nella torre occidentale può essere attribuita all'epoca di Licurgo.

Segue verso O, dopo una postierla, un tratto della fase attribuita a Cleone, che, poco più in là, poggia sullo zoccolo temistocleo della prima fase, in cui erano reimpiegate due basi con rilievi della fine del VI sec. a. C. La porta del Pireo, ad O dell'insellatura fra il Kolonòs Agoràios e la collina delle Ninfe, è stata intravista nel corso di scavi a scopo edilizio o stradale. Essa era costituita da due aperture successive, con un cortile intermedio antistante la cinta. Tutto il complesso pare sia in gran parte temistocleo, ed anche qui furono trovati reimpiegati numerosi elementi di monumenti funerarî arcaici. La torre semicircolare, più a S, del diametro di 6 m, fu aggiunta evidentemente sotto Licurgo al muro di Temistocle, discretamente conservato. Sulla collina delle Ninfe presso il Baratro dove si è potuto identificare il posto delle Δήμιαι πύλαι e nel suo successivo tracciato attraverso Melite dove erano le Μελίτιδες πύλαι e Kòile fino al Mousèion esistono solo scarsi avanzi della cinta, pertinenti soprattutto alla fase più antica. In uno stato relativamente discreto ci è pervenuto gran parte del diatéichisma della fine del IV sec. a. C., che univa le due colline passando per la Pnice e il valico presso H. Dimitrios, dov'era una porta. Il fatto che le strutture di quest'ultima si siano sovrapposte agli avanzi di una casa della metà circa del IV sec. a. fa escludere che il diateichisma di Cleone avesse lo stesso tracciato e non è ingiustificata l'ipotesi che esso sia rimasto allo stato di progetto. Le numerose torri sono quadrangolari, salvo una circolare sulle pendici del Mousèion, e la porta, originariamente ad una sola apertura, aveva uno schema simile a quello del Dìpylon, ma con due sole torri agli angoli esterni e l'area antistante assai meno profonda. Negli ultimi decennî del III sec. a. C. gran parte del muro sulla Pnice fu ricostruita più avanti, con torri rettangolari e una semicircolare. A questa stessa fase, caratterizzata, fra l'altro, dall'uso di un poros bianco, appartiene un restauro della porta, cui fu allora aggiunta una parte anteriore con doppia apertura. In età romana, poi, rimase in piedi solo quest'ultima, trasformata in una porta monumentale.

Scarsissimi sono gli avanzi del fortilizio eretto sulla collina del Mouséion, e sulle pendici orientali di questa il muro è, salvo pochi tratti di epoche diverse, completamente distrutto. Probabilmente all'epoca di Licurgo appartengono un tratto di muro già in pianura e una porta, poi rimaneggiata, trovata più ad E, in corrispondenza della Odòs Erechthìou, in cui si è voluta riconoscere la porta del Falero. Pochi avanzi del muro, in sostanza dello stesso periodo, con rifacimenti e aggiunte tardo-romane, sono stati trovati lungo il resto del lato S e presso l'Ilisso, dov'erano probabilmente la porta Diòmeia, in una rientranza a SO dell'Olympièion e poco più oltre, di fronte agli estesi avanzi, che si son voluti attribuire al ginnasio del Cinosarge, la porta Itonia. Del lato orientale erano ancora visibili avanzi nel secolo scorso, mentre quello N, nel quale si aprivano le porte di Diocare e di Acarne, è noto soprattutto grazie a rinvenimenti fortuiti. Particolarmente importanti sono, in questa parte meno conosciuta della cinta, un tratto trovato recentemente a S, presso l'Ilisso, e uno scoperto molto prima a N della Platìa Syntàgmatos, databili al IV sec. a. C., perché hanno rivelato che la "città di Adriano" era compresa entro le mura preesistenti.

Scarsissimi sono gli avanzi delle lunghe mura che, partendo ai due lati della porta di Melite, univano A. al Pireo, e del muro del Falero più a S. Esse furono ricostruite evidentemente all'epoca di Conone e restaurate più tardi, certamente dopo il 307-6 a. C.

7. I quartieri urbani. - Il nuovo ordinamento della campagna e della città introdotto da Clistene, che sostituî alle quattro antiche tribù di stirpe le dieci nuove tribù di abitazione, di cui ciascuna comprendeva un certo numero di demi, cioè di quartieri della costa, della città, della campagna, regolò per tutte le età ulteriori, appunto perché poggiata su una distribuzione spaziale, la costituzione topografica della città. Pietre iscritte indicavano il confine tra demo e demo.

Qui interessano i demi della città e della sua immediata periferia, ma possono essere ricordati solo quelli la cui ubicazione è sicura o lo è almeno approssimativamente.

L'Acropoli, limitata dal peripatos, in cui nessuno poteva nascere, perché era santuario, doveva essere considerata fuori e al di sopra dei demi.

Le sue ultime pendici, che invece erano abitate, dovevano essere state distribuite tra i demi vicini.

A giudicare dall'etimologia del nome, il demo di Kydathenàion, cioè della "gloriosa Atene", doveva essere nelle immediate vicinanze dell'Acropoli, ed è probabile che comprendesse la regione a nord di essa, anche perché là v'era il Pritaneo, l'edificio del focolare sacro della città; più d'ogni altro esso può aver suggerito questo nome che sembra non tratto da una tradizione storica, ma inventato col nuovo ordinamento.

Sappiamo che il demo di Kollytòs confinava con quello di Melite e con Diòmeia, la cui ubicazione non è sicura ma che si tende a mettere a S di Atene. Non è pertanto da escludere che esso comprendesse la zona a S e forse anche ad O dell'Acropoli, fino alla Pnice, ma anche altre soluzioni sono possibili. Lo attraversava lo στενωπὸς Κολλυτός, che doveva avere un carattere abbastanza popolare, e una tradizione scherzosa (Tertull., De anim., 20) voleva che i bambini di Kollytòs imparassero a parlare prima degli altri.

Sulla pendice occidentale della Pnice si deve invece ricercare il demo di Kòile: il significato del nome, "l'incavo", bene si adatta a quella parte della collina che s'infossa presso la porta di Melite.

Tutta la restante collina della Pnice e la collina delle Ninfe erano invece comprese nel demo di Melite. La casa di Temistocle era in questo demo ed era vicina al Baratro, che appunto si trovava sotto il salto della collina delle Ninfe. Per altro il Baratro apparteneva al demo di Keiriàdai (Bekker, Anecd. Graec., i, p. 219, 10, s. v. Βάραϑρον), che appunto si deve cercare ad occidente della Pnice e della collina delle Ninfe.

È dubbio che costituisse un demo il Kolonòs Agoràios, cioè la collina sormontante l'Agorà, perché una notizia antica lo dà come parte del demo di Melite (Harpocr., s. v. Εὐρυσάκειον, Κολωνέρας).

Siamo invece meglio informati sull'estensione del demo del Ceramico, grazie soprattutto a ben cinque pietre di confine tuttora in situ. Esso era diviso dalle mura in Ceramico interno e Ceramico esterno, e mentre il primo comprendeva almeno la parte settentrionale dell'Agorà e la zona fra questa e il Dìpylon, il secondo arrivava a N fino all'Accademia di Platone e comprendeva il dròmos.

Probabilmente confinava a oriente col Ceramico esterno il demo di Colono, così denominato da Kolonòs Hìppios, una collinetta isolata a nord della città che traeva il suo nome dal tempio di Posidone Hìppios: l'odierna nudità della sua roccia rievoca per contrasto il boschetto animato dal canto degli usignoli dell'Edipo a Colono di Sofocle.

L'immediato sobborgo nella parte meridionale della città apparteneva a tre demi dei quali si può indicare solo approssimativamente la posizione, procedendo da O verso E: essi sono i demi di Diòmeia, nel quale si trovava il ginnasio del Cinosarge, di Anköle, che si estendeva verso l'Imetto (Inscr. Gr., iii, 61 a, col. ii, v. 22), di Agrale, al quale apparteneva la collina dell'Ardetto, cioè quella a cui si appoggiava lo stadio (Harpocr., s. v. ᾿Αρδηττός).

All'infuori del Ceramico interno, il quale comprendeva l'Agorà, cioè la piazza principale della città, non sembra che i quartieri costituissero unità monumentali sulle quali possa perciò poggiare una descrizione della città. Tale descrizione meglio si distribuisce girando intorno all'Acropoli e partendo dal Dìpylon.

Come parte dell'Agorà si deve considerare il Kolonòs Agoràios, che si trova dietro il lato occidentale della piazza. Su questa collina facevano stazione i braccianti che cercavano lavoro giornaliero, e che venivano appunto detti Kolonètai (Harpocr., s. v. Κολωνέτας), mentre, alla loro volta, avevano procurato alla collina un secondo epiteto, quello di Misthios (Schoi. in Aristoph., Av., 997). Inoltre sulla collina si estendevano le botteghe dei calderai (Andoc., i, 40; Bekker, Anecd. Graec., i, 316, 23) e si comprende che si fossero posti sotto la protezione di Efesto, il cui tempio appunto era sulla cima della collina.

Anche la parte alta del colle, intorno a questo, era occupata nel VI sec. a. C. da officine di bronzisti, di cui si sono trovate molte tracce durante lo scavo. Fra il materiale rinvenuto sono particolarmente notevoli i frammenti delle forme di alcune statue di koùroi in bronzo.

Il tempio di Efesto, che non è stato preceduto nella stessa area da nessun edificio sacro più antico e fu ritenuto a lungo il Thesèion dagli studiosi, è periptero dorico in marmo pentelico di m 31,77 × 13,73, con 6 colonne sulle fronti e 13 sui lati (alt. m 5,88; diam. inf. m 1,00). La cella, fra doppie ante, aveva un colonnato interno su tre lati, che correva molto vicino alle pareti ed era di ordine dorico e a due piani. Le pareti interne, lasciate grezze, erano evidentemente intonacate o dipinte.

Le forme architettoniche lo indicano presso a poco contemporaneo del Partenone, ma deve essere stato forse iniziato prima e terminato dopo (449-425 a. C.). Lo stesso è indicato dalla decorazione scultoria, che ha forme ancora arcaiche nelle metope e forme derivate dal Partenone nei fregi. Delle metope sono ornate a rilievo solo 18: dieci sulla fronte orientale presentano le fatiche di Eracle, otto, quelle immediatamente vicine sui lati nord e sud, presentano le fatiche di Teseo. Nel fregio del pronao, dinnanzi a due gruppi di divinità, Zeus, Hera, Atena, Urano, Ghe, Efesto, viene combattuta una battaglia contro i tre Ciclopi armati di massi; nel fregio del vestibolo occidentale si ha una centauromachia.

Delle sculture frontonali, di cui rimangono gli incassi nel géisom orizzontale, conosciamo solo qualche frammento di pertinenza sicura. Ci è pervenuta invece parte di un gruppo acroteriale con scena di ephedrismòs, che per lo stile è assai vicino al gruppo di Procne e Itys di Alkamenes. Di quest'ultimo erano le statue di culto del tempio di Atena e Efesto (Cic., Nat. deor., i, 30), alla cui larga base rettangolare appartenevano forse alcuni frammenti in pietra di Eleusi.

L'area intorno al tempio era, in età classica, piantata a giardino, come dimostrano, fra l'altro, i grandi vasi fittili per le piante trovati in appositi pozzetti scavati nella roccia e disposti su due file a N e a S.

Sulle pendici settentrionali della collina sono scarsissimi avanzi di un edificio ellenistico a più navate e del tempio di Afrodite Urania (Paus., i, 14, 7 ss.), la cui statua di culto in marmo pario era di Fidia. A S dell'Hephaistièion doveva essere l'Eurysakèion, dato che si sono trovate due stele che erano collocate in esso.

La regione a O dell'Acropoli. - È questo il quartiere collinoso che costituiva nello stesso tempo il confine dell'Agorà a S e a SO. Ed è quello che, mentre doveva essere fittamente abitato nel periodo classico, fu tagliato fuori delle mura temistoclee alla fine del IV sec. a. C. Per questo vi sono poche menzioni di monumenti e i più si conoscono solo da iscrizioni.

La più settentrionale delle colline, quella delle Ninfe, trae il suo nome appunto da un'iscrizione incisa sulla roccia (Inscr. Gr., i, 503), la quale indica che là esisteva un santuario delle Ninfe e del Demo. E una pietra di confine iscritta del sec. VI a. C. (Inscr. Gr., i, 504) dà testimonianza che sulla pendice orientale v'era un santuario di Zeus. Sulla pendice occidentale, invece, v'è quella che si chiama la "piccola Pnice". Da due pareti tagliate nella roccia che S incontrano a leggero angolo ottuso (lungh. complessiva m 23,00), sporge un dado a gradini, cioè la tribuna o berna (lungh. m 3,00) che guarda verso occidente. Manca la traccia sicura della recinzione dello spazio destinato all'adunanza e s'ignora il nome del luogo: forse serviva per l'assemblea di qualche tribù o di qualche demo o anche era il luogo di qualcuno dei minori tribunali ateniesi.

La vasta e pianeggiante collina a S di quella delle Ninfe è chiamata la collina della Pnice, dal nome del luogo dove si teneva l'assemblea ateniese.

Tutto ciò che dalla tradizione antica si sa su questa: che era di fronte al Licabetto (Plat., Crit., 112 a); che era rivolta verso l'Areopago (Luc., Bis accus., 9); che da essa si potevano vedere egualmente l'Agorà e i Propilei (Aristoph., Acharn., 20 ss.; Harpocr., s. v. Προπύλαια ταῦτα); che era alta sulla roccia (Dem., xviii, 169), corrisponde perfettamente a questo luogo: gli occhi contemplano ancora l'immutato paesaggio, per le orecchie invece si è spenta ogni eco della molta eloquenza che fu là dentro creata dalla passione politica.

Ad una prima fase costruttiva, databile all'epoca di Clistene, appartengono pochi avanzi del muro di terrazzamento di un'area trapezoidale chiusa a SO da un kòilon leggermente curvo, con una pendenza minima, ricavato interamente dalla roccia. Dello stesso periodo è un termine con l'iscrizione Η]ΟΡΟ || [S]ΓΥΚ || [Ν]ΟS. Circa un secolo dopo ebbe luogo un restauro piuttosto radicale nel corso del quale ne fu cambiato l'orientamento. Il nuovo muro di sostegno, a leggera scarpata in blocchi squadrati di poros, servì anche da anàlemma per il nuovo kòilon, poco meno che semicircolare, cui si accedeva da due scale. Questo rifacimento è evidentemente quello dovuto ai Trenta, di cui parla Plutarco (Them., 19, 4).

Nel corso di un terzo rifacimento, che può essere datato all'epoca di Licurgo (338-326), la Pnice mutò completamente aspetto. Il kòilon conservò l'orientamento che gli era stato dato alla fine del secolo precedente ma fu ricostruito in forma quasi semicircolare e molto più ampio, con un raggio di circa 60 m. Il bèma, ricavato nella roccia, fu sistemato all'incontro di due tagli verticali, i quali formano un angolo ottuso di 150°. Esso è costituito da un krepìdoma di 3 gradini, di m 9,70 × 6,40, in fondo al quale due scale, ai lati di un elemento rettangolare sporgente, portano sulla terrazza superiore, dov'è l'incasso per una fondazione rettangolare di notevoli dimensioni, forse di un altare, che era preceduto da un'ampia gradinata. Il muro di sostegno del kòilon, conservato nella parte inferiore, in opera pseudopoligonale, è costruito con blocchi colossali di calcare dell'Acropoli, cavati evidentemente sul posto stesso, e accuratamente lavorati. Della gradinata d'accesso, è conservata solo la fondazione della parte inferiore, che sporgeva dal muro. Contemporaneamente a questa sistemazione del luogo di adunanza per l'assemblea popolare, e in evidente rapporto con essa, furono iniziate sul ripiano superiore della collina due stoài a doppia navata lunghe rispettivamente 148 m e 66 m precedute da terrazze, di cui quella occidentale ha il muro di sostegno in blocchi enormi di calcare. Questo complesso superiore, del quale doveva far parte anche un pròpylon nella parte centrale, rimase incompiuto, e il diatèichisma del 307-06 a. C. fu ivi impostato sulle fondazioni delle stoài. Un ultimo restauro ebbe luogo sotto Adriano, allorché, come altre antiche istituzioni ateniesi, anche l'assemblea popolare riebbe una certa importanza. A questa fase risale la colossale testa acrolita di Atena trovata a poca distanza dal muro di sostegno.

Numerosi incassi per stele e fondazioni di monumenti onorarî o votivi sono su ambedue i ripiani. Le nicchie nella parte orientale del taglio nella roccia sono in relazione con il santuario di Zeus Höpsistos, che era appunto da quel lato.

L'angusta strada che passa tra la pendice orientale della collina della Pnice, la pendice occidentale dell'Areopago e il declivio occidentale sotto l'Acropoli, costituiva una delle due vie naturali di accesso dall'Agorà all'Acropoli, mentre l'altra rasentava l'Areopago nella sua pendice settentrionale: si è supposto che questa via sia la "stretta di Koliytòs" (στενωπὸς Κολλυτός).

La strada, chiamata provvisoriamente "via dell'Areopago", è stata messa in luce con tutto il quartiere adiacente e alcuni tratti di altre strade, che in parte la incrociano, nella parte alta dall'Istituto Archeologico Germanico e più in basso, verso l'Agorà, dalla Scuola Americana. La zona doveva essere abitata già nell'Elladico Antico e, più intensamente, a giudicare dalla quantità di materiale rinvenuto, nell'Elladico Medio. Pozzi dei periodi protogeometrico e geometrico e avanzi di un muro anteriore al VII sec. a. C. sono stati trovati nella parte centrale dello scavo americano, intorno all'estremità meridionale di un grande edificio in poros del V sec. a. C., e un pozzo del Geometrico è stato esplorato anche nella zona alta. La "via dell'Areopago", larga in media da 4 a 6 m, usciva dall'Agorà presso la fontana SO e, dopo aver incrociato la cosiddetta "via del Pireo", saliva, sostenuta da muri di terrazzamento lungo il fianco della collina, sul lato orientale della valle, fino sotto la Pnice, dove si univa ad un'altra strada, proveniente dalla sella fra il Kolonòs Agoràios e la collina delle Ninfe (H. Marina), la cosiddetta "via di Melite". Essa raggiungeva poi, per il fondovalle, il valico fra l'Acropoli e il Mousèion e proseguiva, dopo un altro incrocio con la via che dall'ingresso dell'Acropoli andava alla porta presso H. Dimitrios, verso la zona a S della rocca. È probabile che il suo tracciato fosse almeno nella parte alta anteriore al periodo geometrico, ma non ne abbiano prove sicure. Al periodo miceneo può essere datato con una certa sicurezza, in base all'allineamento delle tombe, almeno il braccio S del settore occidentale della "via del Pireo", che saliva lungo le pendici settentrionali dell'Areopago e raggiungeva forse, in origine, l'ingresso dell'Acropoli. Non sappiamo invece se una sua traversa, la cosiddetta "via dei Marmorari", che seguiva nel primo tratto il lato occidentale del fosso, proseguisse in origine nella stessa direzione rasentando una tomba micenea, o s'inerpicasse fin dall'inizio (il battuto più antico nel primo tratto dell'erta risale al periodo geometrico) restringendosi, verso la sella fra la collina delle Ninfe e la Pnice dov'erano, in età classica, le δήμιαι πύλαι.

L'arteria più importante di tutta questa zona era indubbiamente la "via del Pireo" proveniente dalla porta omonima, che, dopo aver attraversato la sella di H. Marina, si bipartiva all'incrocio con la "via dell'Areopago" e continuava, con il suo braccio settentrionale, fino alle pendici settentrionali dell'Acropoli. Essa era larga m 8,50 nel punto dove attraversava, su un ponte con le fiancate in cinque assise di blocchi di poros sporgenti l'una sull'altra a falsa vòlta, il fosso fra la collina delle Ninfe e l'Areopago. Questo ultimo era stato già sistemato nel secondo quarto del V sec., ma del canale di allora è visibile solo un breve tratto tagliato nella roccia all'estremità meridionale dello scavo americano, ove il rio correva più a E del fosso contemporaneo al ponte. I muri di questa seconda fase, databile all'inizio del IV sec. a. C., distanti fra di loro in media m 1,50 e alti altrettanto, sono in parte in opera poligonale non molto curata, in parte in blocchi squadrati. Dopo l'86 a. C. la parte meridionale del canale fu sostituita da una nuova, più stretta, che attraversava l'area di alcune case distrutte.

Un vasto edificio della metà del V sec. a. C., fra la "via dell'Areopago", la "via del Pireo" e il fosso, (circa 20 × 40 m) sembra aver avuto in origine carattere pubblico piuttosto che privato. Esso era costituito da un cortile, che ne occupava tutta la parte meridionale, da un corridoio d'accesso fiancheggiato da vani rettangolari sui due lati e da un corpo angolare a NE. I pochi avanzi più antichi incorporati in parte nelle fondazioni appartenevano forse ad un edificio di pianta simile la cui cronologia non è chiara. Le strutture, mal conservate, salvo a NE, erano in blocchi squadrati di poros in quasi tutto il perimetro esterno, in pietrame nella maggior parte dei muri interni e per il resto in opera poligonale, mentre tutta la parte alta doveva essere in mattoni crudi.

Dopo aver subìto gravi danni verso la fine del V sec. a. C., l'edificio fu usato temporaneamente come officina di marmorari. Nella prima metà del IV sec. a. C. esso fu restaurato, ma non pare che sia stato in seguito adibito di nuovo ad usi pubblici, poiché vi è stata trovata una tomba ad incinerazione della metà circa del IV sec. a. C. e vi funzionò prima della distruzione, avvenuta nell'86 a. C., un'officina metallurgica.

Su ambedue i lati del tratto rettilineo della "via dei Marmorari" sono stati rinvenuti piccoli edifici con uno o due vani, sorti nel secondo quarto o intorno alla metà del V sec. a. C., che servivano evidentemente da officine. Mentre quelle del lato O appartenevano a marmorari, non è chiara la funzione delle tre che erano lungo il canale, una delle quali è quasi interamente occupata da un bacino. Nessuna sembra essere rimasta in uso oltre la fine del IV sec. a. C., e nel periodo successivo le parti alte dei muri in mattoni crudi caddero in rovina. Lo stesso si può dire delle case sorte contemporaneamente alle officine, più in alto, lungo le sponde del canale. Due di esse (C e D, la prima misurava in origine 27 m per lato), sul lato O del tipo a cortile centrale, sono abbastanza ben conservate nella pianta grazie al disfacimento dei mattoni crudi, che ne hanno nascosto le parti in pietra. Gli zoccoli dei muri esterni sono in blocchi di calcare o di poros, talvolta associati a pietrame, mentre quelli interni sono interamente in pietrame. Tutte hanno subìto restauri nel IV sec. a. C., quando fu rifatto il canale e dopo, e due sulla sponda orientale furono anche usate come officine.

Scarsi avanzi di costruzioni dello stesso periodo, che erano divise da quelle descritte da una viuzza, si sono trovati lungo il lato occidentale della "via dell'Areopago", dove seguiva a N, dopo una via trasversale, un recinto sepolcrale a pianta trapezoidale, di m 38 × 15. Esso fu usato dall'VIII sec. a. C. fino al terzo quarto del VI sec. a. e non vi si costruì sopra che nel primo ellenismo, quando sorse una officina anche sul posto della casa più vicina a NO. Di altre costruzioni del medio e tardo ellenismo ci sono pervenuti solo i pozzi e gli scarichi, alcuni dei quali contenevano numerose matrici di statuette fittili.

In età augustea e giulio-claudia sorsero lungo tutto il lato occidentale della "via dell'Areopago" delle abitazioni di cui due vennero ad occupare l'area dell'edificio in poros del V sec. Prevale il tipo a cortile centrale, e i muri erano nella parte bassa in materiale reimpiegato e in quella alta in mattoni crudi. Un'altra casa occupò l'area di un edificio precedente a N della "via del Pireo", sulla sinistra del canale, di fronte ad un edificio termale di m 20 × 24, sorto nel I sec. d. C., ma rifatto prima e dopo il 267 d. C.; alquanto più su, fra quest'ultimo e la "via dei Marmorari" fu costruita, probabilmente nel II sec. d. C. avanzato, un'altra più piccola, mal conservata terma. Ad età severiana possono essere datate tre grandi case molto distrutte più a S, sempre ad O del fosso, che erano ornate di pavimento a mosaico e di pitture. Durante tutta l'età romana dovevano esistere nelle vicinanze, ma non sappiamo dove, delle officine di marmorari, dalle quali provengono numerosi rifiuti di lavorazione. Dopo la distruzione da parte degli Eruli fu restaurata la terma presso il canale e ne fu costruita nelle vicinanze un'altra più piccola.

Nella zona ad E della "via dell'Areopago" sono stati rinvenuti scarichi dell'Elladico Medio, e del periodo tardogeometrico, oltre ad avanzi di case del VI sec. a. C. e a pozzi di età greca più recente. Una casa augustea proprio sotto i dirupi nella parte alta del pendio aveva un peristilio di 8 colonne con una fontana absidata. Altri avanzi di case più a N sono posteriori al 267 d. C.

Nella seconda zona scavata si è voluto riconoscere il quartiere di Dioniso ἐν Λίμναις, cioè "nelle paludi", per quanto la sua estensione sulla pendice rocciosa e l'abbondante numero di cisterne per raccogliere l'acqua piovana, facciano apparire assai poco appropriato questo nome. Inoltre è da osservare che il santuario di Dioniso ἐν Λίμναις, nel quale si celebravano le più antiche feste dionisiache, si trovava, a testimonianza di Tucidide (ii, 15, 4), a S dell'Acropoli.

A ogni modo gli scavi qui compiuti hanno restituito l'immagine di quello che doveva essere un quartiere popolare di A., con le modeste case di abitazione privata, e hanno fatto conoscere monumenti di cui non v'erano notizie nella tradizione letteraria. Una stretta via leggermente serpeggiante percorre il quartiere in direzione N-S. Su di essa si allineano le case e i recinti: molte di queste case, ricostruite o restaurate in tarda età romana, conservano parte delle loro mura più antiche, in blocchi poligonali di calcare dell'Acropoli, del sec. VI-V a. C. Solo uno spazio sotto la pendice della Pnice non presenta tracce di costruzioni così antiche e sembra costituire un vasto spiazzato sulla via principale, cui affluivano strade minori in direzione E-O. Impianti idraulici hanno mostrato che doveva esservi qui una piazza con una fontana di cui ci sono pervenuti scarsissimi avanzi delle fondazioni e alcuni elementi della balaustra e di altre parti dell'elevato databili, per la tecnica e le grappe a ???SIM-09??? all'epoca dei Pisistratidi. L'acqua proveniva da un bacino di raccolta a livello più alto a S, che era alimentato da un acquedotto sotterraneo in parte scavato nella roccia, in parte in blocchi di calcare di Karà, che si è potuto seguire fino al lato S dell'Acropoli. Ad E della conserva d'acqua, sul lato 5 di un edificio absidato di età romana con un pavimento a mosaico del II sec. d. C., è stato rinvenuto un bacino minore di età greca, che apparteneva evidentemente alla stessa fontana.

Dinanzi a questa piazza della fontana, sulla quale in tempi romani (secc. I-II d. C.) era stata costruita una casa con peristilio, è stato trovato sull'altro lato della strada principale un santuario dell'eroe Amynos. Un piccolo propilo (largh. m 2,75, prof. m 0,80), aggiunto in seguito, dà accesso al recinto che ha una irregolare forma di trapezio, i cui due lati maggiori hanno una lunghezza di circa m 17. Il punto centrale del recinto è costituito da un pozzo: si è creduto di poter additare anche la piccola edicola dell'eroe e l'avanzo di una tavola per le offerte. Al culto dell'eroe Amynos furono associati in appresso e successivamente Asklepios e Igea, il che conferma, come del resto indica l'etimologia del nome, che era un nume della salute. Si vuole che il culto di Asklepios vi sia stato introdotto per opera di Sofocle, il quale poi sarebbe stato onorato vicino all'Amynèion con l'epiteto di Dexìon (Etym. Magn., s. v. Δεξίων).

Più a nord dell'Amynèion, sempre sul lato orientale della strada, si è scoperto un altro recinto, nel quale appunto si è voluto riconoscere il santuario di Dioniso ἐν Λίμναις Veramente su questo recinto in tarda età greca o al principio dell'età romana si era venuta a collocare la sede d'una corporazione di Iobàkchoi, cioè di cultori di Dioniso, di cui si è ritrovato il regolamento in una trascrizione del sec. II d. C. Nella più tarda età romana la parte principale di questo Bakchèion era costituita da una sala rettangolare divisa in tre navate da due file di quattro colonne (lungh. m 18,8o, largh. m 11,25) con una specie di altare rettangolare presso il lato orientale (m 3,40 × 1,95) e con un'abside rettangolare al di là di questa parete. Una stanza adiacente a questa abside dalla parte di N era destinata al culto di Artemide, e da un altare iscritto sembra che a quello di Artemide fosse associato il culto d'una divinità κουροτρόϕος.

Quando la sede degli Iobàkchoi fu qui stabilita, il sottostante e più antico recinto doveva essere caduto in abbandono e tutto il luogo doveva aver subìto una trasformazione, perché la sala degli Iobàkchoi era venuta a collocarsi sulla via che fiancheggiava il recinto a oriente.

Il recinto più antico occupava un vasto spazio triangolare tra la via principale, questa via a oriente e un'altra a N. Il muro di recinzione è in blocchi di calcare dell'Acropoli, ma è stato restaurato o rinnovato in più tempi, come indica la diversa forma dei blocchi poligonali e rettangolari.

Il lato più lungo del muro di recinzione, quello sulla strada principale, si estende per circa 45 m; il recinto è diviso in due parti, una minore a S, in cui si conservano gli avanzi di un piccolo tempio con vestibolo (lungh. m 5,20 largh. m 3,96), e una maggiore che ha quasi nel centro il basamento quadrato (m 3,10) di un altare a quattro colonne, a cui doveva essere appoggiata una stele, e che ha nell'angolo di NO un impianto per la fabbricazione del vino, col torchio e la vasca.

La presenza di questo impianto, isolato dal resto da un muro e analogo ad un altro poco più a N, ha fatto pensare che nel recinto in questione si possa identificare il santuario di Dioniso Lenàios, da ληνός = torchio (cosa non impossibile, ma per la quale mancano finora prove decisive: lo stesso sostenitore di tale teoria nega giustamente ogni valore al rinvenimento di un'antefissa di età romana con il bollo Ληναίου, perché quest'ultimo è stato rinvenuto anche altrove ad A.) e che il Lenàion e il Dionösion en Lìmnais siano stati una sola cosa, il che è discutibile. Comunque, anche se solo con un nuovo scavo si potrà chiarire se un altro recinto, oltre la strada, alle falde della Pnice, in cui la pianta di alcuni vani, peraltro troppo incompleta, ha fatto pensare recentemente ad un impianto scenico, sia stato effettivamente il teatro del Lenàion, tutto quel che sappiamo del santuario di Dioniso en Lìmnais farebbe escludere l'ubicazione di quest'ultimo qui.

Più opportunamente esso deve cercarsi presso il tempio di Zeus Olimpio e presso l'Ilisso, come suggeriscono le notizie di Tucidide e il possibile carattere paludoso del luogo, cioè non nel bel mezzo del quartiere più abitato della città, ma quasi alla periferia di essa, vicino alla campagna.

A N del recinto del supposto teatro sono gli avanzi di un terzo santuario di cui si è rinvenuto in situ un termine del VI sec. a. C. Al posto del sacello di questo periodo, fu costruita nel IV sec. a. C. una lèsche, che venne ad occupare anche parte della zona ad O del recinto e di cui sono tuttora in situ due termini verso la strada con l'iscrizione.

Le case che si sono così conservate nel fondovalle tra la Pnice e l'Areopago salivano anche su tutta la pendice occidentale dell'Areopago, a giudicare dai numerosi tagli nella roccia fatti per le loro fondamenta. È probabile che su questa pendice fossero la caserma degli arcieri Sciti, che costituivano il corpo di polizia della città (Sud., s. v. τοξόται), il santuario che indicava il punto in cui, secondo una delle tradizioni, Borea aveva rapito Orizia (Plat., Phaedr., 229 d) e una capanna fatta con argilla che ancora in età romana si additava come esempio di antico sistema di costruzione (Vitr., ii, 1, 5).

Sul punto più alto della collina, che è il più orientale e nello stesso tempo il più scosceso, si deve cercare il Bouleutèrion, nel quale aveva sede il famoso tribunale antico che giudicava dei delitti di sangue: si sa infatti che esso stava in alto (Plut., Sol., xix, 2) e l'espressione che si adoperava per adire a questo tribunale era appunto "salire all'Areopago" (Arist., Ath. pol, 40, 3). In questo punto infatti, che costituisce una specie di terrazza, vi sono i tagli sulla roccia per una piccola costruzione a esedra rettangolare, aperta sul lato S e con tre gradini sugli altri tre lati. A essa si giunge per una ripida scala scavata nella roccia. Più in alto, su una seconda terrazza maggiore, v'è un cubo isolato di roccia nel quale si è voluto riconoscere l'altare di Atena Are'ia (Paus., i, 28, 5). Qui v'erano anche le due pietre bianche, quella dell'oltraggio (ὕβρις) sulla quale sedeva l'accusato, e quella del risentimento (ἀναίδεια), sulla quale sedeva l'accusatore.

Sotto l'angolo di NE dell'Areopago, dove la roccia scoscesa e gli enormi massi caduti per i terremoti costituiscono una specie di orrido ingresso, deve collocarsi il santuario delle Semnài, cioè delle Erinni (Paus., i, 28, 6; cfr. Eurip., Electr., 1270 s.). Delle tre immagini quella di mezzo era opera di Kalamis, le altre due in marmo pario erano opera di Skopas (Clem. Alex., Protr., 47). Là erano inoltre le statue di Plutone, di Hermes e di Ghe, e quivi compivano sacrifici quanti avevano ottenuto l'assoluzione dall'Areopago.

Dentro il recinto, la cui ubicazione è ormai resa sicura dal rinvenimento di una dedica alle ᾿Ερωίνες, si mostrava anche la tomba di Edipo (Valer. Max., v, 3, ext. 3).

Il fianco settentrionale della collina fu usato nei tempi più antichi come luogo di sepoltura. Infatti si sono trovate quattro tombe a camera micenee, e più giù varie tombe protogeometriche e del Geometrico antico. Una casa ovale tardo-geometrica a S della fontana SO dell'Agorà, fra i due bracci della "via del Pireo", era forse un sacello, perché accanto ad essa è stata rinvenuta una stipe votiva con materiale del VII sec. a. C., fra il quale erano un pìnax con la dea dei serpenti e alcuni scudi votivi fittili. Avanzi di abitazioni del VI sec., la cui pianta non può essere però determinata, si sono conservati a S del braccio meridionale della stessa via. Una casa meglio conservata, del IV sec. a. C., è presso l'estremità orientale della zona alta, e muri isolati di età classica e ellenistica si sono trovati soprattutto nella zona centrale.

Sull'Areopago era forse in origine anche il tempio di Ares, che fu trasferito in età augustea nell'Agorà, forse in seguito al progressivo estendersi del franamento del banco di calcare nella zona della vetta. Meno probabile è che esso avesse dovuto cedere il posto alla cosiddetta Agorà romana, costruita appunto sotto Augusto. Era un periptero in marmo pentelico con sei colonne sulle fronti e tredici sui lati lunghi, che misurava, all'altezza dello stilobate, m 15,88 × 34,72. Del rettangolo interno non si conosce la pianta esatta, poiché la platea di fondazione augustea, in conglomerato, è di struttura unitaria in tutte le sue parti e non rimane in posto nessun avanzo dell'elevato. L'architettura del tempio era, a giudicare dagli elementi che ce ne sono pervenuti, strettamente affine a quella dell'Hephaistièion, cui sarà stato contemporaneo. Una Nike acroteriale e alcuni frammenti di rilievi finissimi, pertinenti probabilmente all'altare, ancora molto vicini nello stile al fregio del Partenone, permettono di datare la decorazione plastica verso il 440-30 a. C.

Della basilica di H. Dionysios Areopaghitis, costruita forse già nel IV sec. d. C. avanzato, nella zona a N della vetta dell'Areopago, rimangono scarsissimi avanzi dell'abside e dei muri laterali.

La regione a N dell'Acropoli. - Di questa regione è stato già ricordato qualche monumento, sia descrivendo le pendici settentrionali dell'Acropoli, sia trattando delle immediate vicinanze dell'Agorà. Tuttavia molti altri se ne conoscono dalla tradizione letteraria, ma di essi non rimangono avanzi e difficile è precisarne l'ubicazione. Il maggiore era l'Eleusìnion, cioè il santuario delle divinità di Eleusi, che, appunto per distinguerlo dall'altro, veniva detto l'Eleusìnion "in città". Il rinvenimento di rilievi e iscrizioni votive e di kèrnoi ha permesso di identificarlo con un recinto finora solo parzialmente scavato sul lato orientale della via processionale per le Panatenee, e precisamente dove questa gira verso SO, confermando quanto sapevamo dalle fonti (Clem. Alex., Protr., 13). Nel recinto risultano finora due edifici, di cui almeno il maggiore, a pianta rettangolare, di m 15,60 × 8,70 con fondazione in assise di blocchi poligonali di calcare di Karà ampliato poi, forse con un portico, per m 2,40 verso S e verso E, risale al VI sec. a. C. Sappiamo che vi erano i templi di Demetra, Kore e Trittolemo ma non è sicuro se gli avanzi finora ritrovati appartengano ad almeno uno di essi. Fra le iscrizioni trovate nelle vicinanze è molto notevole quella con l'elenco dei beni confiscati di Alcibiade. Poco più su sono state trovate le fondazioni in opera a sacco di un edificio circolare di m 7,75 del I sec. d. C., in cui erano reimpiegati elementi di uno più grande di pianta simile.

Fuori del Pelasgikòn o, per meglio dire, delle nove porte di esso (Enneapölai), in questa medesima sella a nord-ovest dell'Acropoli, deve cercarsi il Kylonèion (Schol. in Soph., Oed. Col., 489), che fu dedicato per espiare l'uccisione dei compagni di Cilone (verso il 630 a. C.), uccisione compiuta dinnanzi alla porta dell'Acropoli contro il patto della resa con cui era stata loro promessa salva la vita.

Più in basso e un po' più verso N debbono collocarsi alcuni altri santuarî o edifici, per i quali due punti di riferimento sono dati dall'Aglàurion, cioè dal santuario di Aglauro che stava sotto la pendice settentrionale dell'Acropoli, e dal ginnasio già ricordato, il Ptolemàion, non lontano dall'Agorà verso oriente.

Vicino al Ptolernàion v'era il santuario di Teseo (Paus., i, 17, 2), nel quale erano state deposte le ossa di questo eroe, che Cimone (Plut., Cim., 8, 5 s.) aveva trovato in Sciro (475 a. C.). Tuttavia il santuario doveva essere anche vicino a un altro ginnasio, il Diogenèion (Plut., Thes., 36, 1 s.; cfr. Quaest. conv., ix, 1, 1).

L'episodio del modo con cui Pisistrato disarmò i suoi concittadini impadronendosi del governo di A., cioè invitandoli a porre le armi nel Thesèion dov'erano radunati e ad avvicinarsi al pròpylon dell'Acropoli, facendo poi portare via le armi dai suoi seguaci (Aristot., Ath. pol, 15, 4), pone un rapporto di direzione tra i due edifici, ma non ne stabilisce la distanza. Un'altra redazione dell'avvenimento (Polyaen., i, 21, 2) fa radunare i cittadini nell'Anàkeion, cioè nel santuario dei Dioscuri, e portare le armi nell'Aglàurion: cioè colloca la scena sempre sotto la pendice settentrionale dell'Acropoli. Combinando due passi di Demostene di cui l'uno parla del luogo dove teneva scuola colui presso il quale il padre di Eschine era bidello (xviii, 129), cioè presso il Thesè.ion, e l'altro del luogo presso il quale il padre di Eschine tenne scuola per suo conto (xix, 249), cioè presso il santuario dell'Eroe medico, già una fonte antica (Apollon., Vita Aeschin., 10, 13) poneva un rapporto di vicinanza tra i due santuari, ma il ritrovamento di due iscrizioni (Inscr. Gr., ii, 403 s.) del santuario dell'eroe medico fanno collocare questo molto lontano dall'Acropoli, nella regione settentrionale della città presso la chiesa di H. Mavra. Così egualmente non aiutano a una più precisa ubicazione alcune epigrafi che dovevano stare nel Theséion (Inscr. Gr., ii, 444 s.) e che sono state trovate presso la chiesa di H. Demetrios Katifori, perché provengono dal muro degli Acciaiuoli che fu costruito con materiale tratto da ogni parte dell'Agorà.

Se merita fede la redazione dell'episodio di Pisistrato nella tradizione raccolta da Aristotele, il Thesèion doveva già esistere nel sec. VI; per altro esso ricevette la sua bella decorazione al tempo di Cimone. Le mura erano state dipinte da Mikon e i tre soggetti erano l'amazzonomachia di Teseo, la centauromachia, alla quale egualmente aveva partecipato Teseo come amico di Piritoo, e il riconoscimento di Teseo come figlio di Posidone, quando egli riporta dal fondo del mare l'anello gettatovi per sfida da Minosse (Paus., i, 17, 2 s.).

Non lontano dal Thesèion v'era l'Anàkeion. Si sa infatti che esso era sotto l'Acropoli (Lucian., Pisc., 42) e che, più precisamente ancora, si trovava al disotto del santuario di Aglauro (Paus., i, 18, 2). Non doveva per altro essere sul pendio, una volta che poteva servire come luogo di riunione della cavalleria in caso di allarme (Andoc., i, 45). Il santuario era assai antico e in esso vi erano le statue dei Dioscuri a piedi e dei loro figlioli a cavallo (Paus., i, 18, 1). Anche questo santuario era decorato di pitture: Polignoto vi aveva dipinto le nozze delle Leucippidi, Mikon il ritorno degli Argonauti, alla cui impresa i Dioscuri avevano partecipato.

Come il santuario dei Dioscuri era presso quello di Aglauro, così vicino a questo v'era il Pritaneo (Paus., i, 18, 3), ed esso doveva stare non nella pianura sotto l'Acropoli ma sulla sua pendice (1, 18, 4). Tuttavia doveva avere al di dietro uno spiazzato al quale era dato il nome di "pianura della fame" (Λιμοῦ πεδίον; Zenob., iv, 93). Nessun appoggio di fonti antiche ha l'ipotesi moderna che il Pritaneo sia stato qua trasferito in età tarda e che in origine fosse nell'Agorà e ancor prima sull'Acropoli. Il Pritaneo era l'edificio nel quale si trovava il focolare sacro della città e nel quale prendevano i loro pasti gli ospiti dello stato; in periodo più antico aveva avuta ivi la sua sede l'arconte eponimo (Arist., Athen. poi., 3, 5). Inoltre vi teneva le sue adunanze il tribunale dei Phyiobasilèis, cioè dei quattro rappresentanti delle antiche tribù, che sotto la direzione dell'arconte basilèus giudicavano tra l'altro dei delitti commessi dagli animali e dalle cose inanimate (Arist., Athen. pol., 8, 57; cfr. Andoc., i, 78; Plut., Sol., 19; Paus., i, 28, 10; Poll., viii, 120). Solo un errore letterario antico ha creato per i Phylobasilèis una sede speciale, il Basilèion, che si sarebbe trovato presso il Boukoièion (Poll., viii, 111). Presso il Boukoièion, del quale, come è stato già accennato, si sa soltanto che era il luogo in cui avvenivano le nozze di Dioniso e della moglie dell'arconte basiièus, si trovava il Pritaneo, che appunto era la sede di questo tribunale.

Nel Pritaneo si conservava anche una parte delle leggi di Solone (Paus., i, 18, 3), che Efialte aveva trasferito dall'Acropoli dove erano in origine (Poll., viii, 128; Harpocr., s. v. ὁ κάιωϑεν νόμος: vi si conservavano le leggi iscritte sugli àxones, cioè su ambedue le facce di tavolette quadrate e girevoli, ed erano le leggi del diritto civile. Invece l'altro gruppo delle leggi di Solone, ossia quelle del diritto sacro e del diritto costituzionale, che erano scritte sui körbeis, cioè su piramidi a sezione triangolare, erano state trasferite nella Stoà Basìleios sull'Agorà (Harpocr., s. v. ἄξονες; Arist., Ath. pol., 7; Suda, s. v. κύρβεις; cfr. Plut., Soi., 25). Nonostante qualche confusione nella tradizione letteraria antica e qualche tentativo di stabilire l'identità fra i due tipi di leggi (Plut., Sol., 25; Sch. in Apoli., iv, 280), la nomenclatura epigrafica e la buona tradizione letteraria mantengono sempre la differenza tra le leggi civili degli àxones (Inscr. Gr., i, 61; Plut., Sol., 19) e le leggi religiose dei körbeis, che erano anche detti stèlai (Lys., Contra Nicom., 17; Athen., vi, 234; Apollodor. presso Harpocr., s. v. κύρβεις).

Sono ricordate alcune statue nel Pritaneo: una della Pace ed una di Hestia, inoltre una del pancraziaste Autolico, opera di Leochares (Plin,., Nat. hist., xxxiv, 79), cui forse fu innalzata molto tempo dopo la sua vittoria (422 a. C.), perché era considerato un eroe della libertà ateniese essendo stato ucciso dai Trenta Tiranni, e, infine, una di Milziade e una di Temistocle che in età romana erano state trasformate e iscritte a due personaggi ignoti, un romano e un trace.

Un ultimo edificio è da cercare nella pianura a N dell'Acropoli, ed è il tempio di Serapide (Paus., i, 28, 3). Per la sua precisa ubicazione poco vale il ritrovamento di alcune iscrizioni riguardanti questo culto, perché troppo vasta è l'area in cui furono raccolte; tuttavia alcune (Inscr. Gr., iii, 923; ᾿Εϕημ. ἀρχ., 1913, p. 197 seg.) ci portano nella regione della Piccola Metropoli. Ma per collocarlo un po' più a oriente valgono forse le indicazioni antiche: che, non distante da esso, si trovava un luogo nel quale si erano incontrati Teseo e Piritoo prima della spedizione per Sparta, cioè prima del patto di andare a rapire Elena; che vicino a questo luogo si trovava il tempio di Ilizia, cioè della dea del parto (Pausania, i, 18, 4 s.) e che di qua si andava al tempio di Zeus Olimpio (i, 18, 6). Ora il tempio di Ilizia si trovava nella regione di Agrai, che si estendeva sotto le ultime pendici dell'Imetto, e presso il corso superiore dell'Ilisso (Bekker, Anecd. Graec., 326, s. v. ῎Αγραι, dove ἀγοράν va corretto in ῎Αγρας). Non vi sono infatti argomenti convincenti per ammettere un altro tempio di Ilizia in città oltre a quello in Agrai.

Mentre tutti questi santuarî, templi, edifici pubblici di età greca e famosi nella tradizione letteraria, che si trovavano nella regione a N dell'Acropoli, sono andati interamente distrutti, o le loro fondamenta sono ancora sepolte sotto le case della città moderna, si sono invece abbastanza bene conservati in questa regione, ma un poco più a N, cioè sulla stessa linea dell'Agorà, alcuni edifici romani.

Il primo di questi edifici, a SE della Stoà di Attalo, è la cosiddetta Agorà romana, che misura nella direzione E-O 112 m e, nell'altra, circa 96 m. Essa è costituita da un cortile (m 82 × 57) con portici su almeno tre lati. Mentre ad E, e forse anche ad O, erano alcune botteghe, sul lato S esisteva un secondo colonnato, più interno, di ordine dorico interrotto al centro da una fontana fiancheggiata da ambienti. Le colonne esterne, di ordine ionico, avevano il fusto in marmo dell'Imetto, e nello stesso materiale erano lo stilobate, gli ortostati dei muri e gli stipiti delle porte. Sul lato O, più a S del centro, è un pròpylon dorico in marmo pentelico innalzato (12 a. C.-2 d. C.) in onore di Atena Archege'tzs' con i doni fatti alla città da Cesare e Augusto, come dice l'iscrizione sull'architrave (Inscr. Gr., iii, 65). La base sull'apice del frontone sosteneva, come si apprende dall'iscrizione (Inscr. Gr., iii, 445), una statua del nipote di Augusto, L. Cesare.

Il pròpylon è costituito da un portico rettangolare che ha sulla fronte quattro colonne (alt. m 7,87, diam. inf. m 1,22). La parete a porte è a m 7,50 più indietro del prospetto a colonne, e aveva tre aperture di cui la mediana, destinata ai carri, è più larga (m 2,50) in corrispondenza della maggiore larghezza dell'intercolumnio centrale. Dentro il pròpylon, sul lato settentrionale, è ancora in posto un pilastro in marmo che porta una legge di Adriano (Inscr. Gr., iii, 38) riguardante l'olio che doveva essere riservato allo Stato per i bisogni pubblici, tra l'altro per l'uso dei ginnasi.

Un secondo pròpylon di ordine ionico (largh. m 11,25, prof. m 10,70) nella parte meridionale del lato E aveva anch'esso una parete a tre porte, accessibili però solo ai pedoni. L'Agoranòrnion deve invece cercarsi più a occidente, e ad esso doveva appartenere un archetto in marmo dell'Imetto con dedica dell'agoranomo Erode Attico all'imperatore Antonino Pio (᾿Αρχ. δελτ., 1888, p. 188 s.).

A N di questa loggia di Atena Archegèis è ancora in piedi quasi intatto l'orologio costruito nel sec. I a. C. da Andronikos Kyrrhestes (Varr., De re rust., iii, 5; Vitr., 1, 6, 4) che è noto sotto la denominazione popolare di Torre dei Venti.

Esso è un ottagono in marmo pentelico (alt. m 12,80, diam. massimo m 7, misura di ogni lato m 2,80) che si eleva su tre gradini ed è coperto da un tetto circolare a piramide ottagonale abbassata, costituito da 24 lastre trapezoidali. Due piccoli vestiboli a colonne corinzie scanalate, ma senza base, con epistilio ionico e frontone, si trovano dinnanzi a due porte aperte sul lato di NO e sul lato di NE. Esse erano fatte per potere entrare e uscire passando dinanzi all'orologio idraulico (clepsydra) che v'era nell'interno, e che era regolato dall'acqua che affluiva da un deposito cilindrico costruito sul lato meridionale. L'edificio era stato costruito anche come orologio solare o fu a ciò adibito più tardi; su ciascun lato è stata tracciata una meridiana. Infine esso serviva come indicatore dei venti, perché al culmine, su una specie di capitello corinzio, era collocato un tritone in bronzo che teneva nella destra una verga, ed era congegnato in tal modo che roteava al soffiare del vento, e si arrestava dalla parte da cui il vento soffiava, indicandone così con la verga l'immagine a rilievo esistente sulla fascia alta dell'edificio al disotto del tetto. Sugli Otto rilievi sono anche scritti in greco i nomi dei venti: attributi, vesti e forme ne distinguono il carattere.

Le pareti interne sono decorate a bugnato, nello schema del cosiddetto I stile pompeiano, con cornici a mensole molto aggettanti. Molto originale è l'adattamento alla pianta poligonale della copertura emisferica che poggia negli angoli su otto colonne doriche.

A S dell'orologio sono gli avanzi di una forica del II sec. d. C., che era evidentemente in rapporto con il mercato.

Si è supposto che nella zona occupata da questi edifici fosse stato in origine il tempio di Ares, trasportato sotto Augusto nell'Agorà, ma solo uno scavo sotto il livello romano potrebbe chiarire il problema e almeno per ora sembra più accettabile l'ubicazione sull'Areopago. È per lo meno probabile che questo edificio fosse un mercato, e l'architettura non si oppone ad una datazione in età tardo-repubblicana o augustea, ma questi problemi potranno essere risolti definitivamente solo con lo scavo integrale del complesso. Di fronte al pròpylon orientale è, alla sommità di un'ampia scalinata, la fronte ad arcate con una dedica ad Atena Archegètis e agli dèi Augusti, di un edificio in parte forse preesistente. Si è supposto che questo fosse l'Agoranòmion, ma a torto; comunque la facciata con l'iscrizione dev'essere posteriore alla morte di Tiberio, e, per i caratteri dell'architettura, forse della seconda metà del I sec. d. C.

Perfettamente allineata al grande edificio descritto e solo un po' più avanzata con la fronte occidentale, un po' più arretrata con la fronte orientale, è la Biblioteca di Adriano. Una distanza di non più di 25 m separa i due edifici. Anche la Biblioteca di Adriano è stata solo in parte scavata. E naturalmente è rimasto appena lo scheletro della sontuosa costruzione che aveva cento colonne di marmo frigio; in marmo frigio erano anche i muri dei porticati, le sale avevano soffitti dorati e pareti d'alabastro, ed erano ricche di pitture e statue (Paus., i, 18, 9).

Secondo il carattere dell'architettura romana, e in corrispondenza al Ginnasio, la Biblioteca è una grandiosa costruzione a vasta spazialità interna, formata da un rettangolo chiuso su tre lati. Tutta questa recinzione è in blocchi rettangolari di poros. Sul lato settentrionale il muro presenta tre absidi, una mediana rettangolare e due laterali a semicerchio, ciascuna con due colonne tra le ante. Un'analoga disposizione si deve presupporre per il lato meridionale, non ancora scavato. Il lato occidentale costituiva la fronte: davanti al muro erano collocate quattordici colonne corinzie a tronco liscio (alt. m 8,60, diam. m 0,90), sulle quali continuava con spezzatura angolare la trabeazione del muro. Nel mezzo di questo muro si apre la porta e dinnanzi a essa vi era un pròpylon (largh. m 12, prof. m 7) con quattro colonne corinzie scanalate. Il lato orientale invece era chiuso e soltanto un poco aggettante nella sua parte centrale, ornata esternamente con sei pilastri. A questa parete erano appoggiate le stanze della biblioteca e la costruzione di esse era in mattoni con rivestimento in lastre di marmo. La sala mediana (m 23,12 × 14,24), come indicano nella parete di fondo le nicchie destinate agli armadi a muro, era la stanza dei libri ed essa si apriva sulla corte centrale con una parete a quattro colonne. Le sale laterali dovevano servire alla lettura o ad altri usi e v'erano anche piccoli vani, forse spogliatoi e latrine.

Tutto lo spazio interno dell'edificio era circondato da un colonnato (lungh. m 81,75, largh. m 59,88), che costituiva quindi quattro portici (largh. sui lati lunghi m 7,38, sui lati brevi m 7,54). Le colonne dovevano essere circa 100. Il cortile compreso dentro il colonnato in origine aveva al centro un grande bacino (lungh. m 58, largh. m 13), forse circondato da giardini.

Per la pianta generale e la disposizione della facciata questo grandioso insieme ricorda il Forum Pacis di Vespasiano a Roma.

Per l'incendio causato dagli Eruli andò evidentemente distrutta tutta l'architettura in marmo dell'interno e il muro N fu incorporato non molto dopo nel cosiddetto muro di Valeriano. L'edificio fu restaurato con ogni probabilità all'inizio del V sec. d. C., come si può dedurre da un'iscrizione sulla facciata, presso l'ingresso, in cui è nominato un certo Herculius, che fu consularis nell'Illirico fra il 408 e il 412. Le colonne del portico di questo periodo erano su plinti, e un edificio a tetràkonchos con tre delle absidi aperte verso un deambulatorio e un vestibolo fiancheggiato da ambienti laterali venne ad occupare il posto della vasca. I pavimenti erano ornati di mosaici policromi e l'elevato, di cui rimane in piedi l'angolo NE, è in blocchi di marmo e con un nucleo in opera a sacco. Nel VI sec. al posto dell'edificio absidato sorse, con materiale di risulta di ogni genere, una basilica a tre navate, la Megàli Panaghìa, i cui ruderi furono più tardi incorporati in una chiesa bizantina.

Un edificio fra la Biblioteca e la Stoà di Attalo, di cui si è trovata, oltre a pochi avanzi di muri in opera a sacco, parte del portico d'ingresso, con le basi delle colonne su plinti, può essere datato al II sec. d. C. e aveva certamente carattere pubblico. Vi si è voluto riconoscere il Ginnasio di Adriano, per la cui ubicazione non abbiamo elementi sicuri.

La regione a E e a S dell'Acropoli. - Dal Pritaneo partiva la via dei tripodi (Paus., i, 20, 1) che, girando intorno all'Acropoli, dalla sua pendice settentrionale portava alla sua pendice meridionale. Essa traeva il nome dai monumenti coregici sui quali era collocato il tripode della vittoria ottenuto nella gara drammatica, e costituiva la via d'accesso al santuario di Dioniso. A uno di questi monumenti doveva appartenere il Satiro versante di Prassitele (Paus., i, 20, 1 s.) che è conservato in molte repliche romane. Il tracciato della via dei Tripodi sul lato orientale dell'Acropoli è indicato dagli avanzi dei basamenti di qualcuno di questi monumenti coregici.

Ma uno solo è ancora in piedi, ed è abbastanza ben conservato, il monumento di Lisicrate, che, come dice l'iscrizione dell'epistilio, era stato innalzato dal vincitore Lisicrate durante l'arcontato di Eveneto (335-334 a. C.).

Sopra un basamento quadrato in poros (alt. m 4, largh. circa m 3), coronato da una cornice in marmo dell'Imetto, si innalza un piccolo tempio cilindrico in marmo pentelico (alt. m 6,50, diam. m 2,80) a cui si appoggiano sei mezze colonne corinzie. Sulla cornice superiore del tempietto, tra colonna e colonna, è rappresentata una serie di tripodi. Sopra le colonne poggia l'epistilio ionico, la cui fascia superiore presenta a rilievo la, scena dei pirati tirreni trasformati in delfini da Dioniso. Il tetto è sormontato da un cesto di foglie d'acanto su cui era stato collocato il tripode della vittoria (v. Coregici, Monumenti).

A SE del monumento di Lisicrate si sono trovate due colonne ioniche e parte della trabeazione d'un porticato di tarda età romana, di cui non si conosce il nome dalla tradizione letteraria antica. Più lontano, sempre a SE, s'innalza l'Arco di Adriano e vicino a questo, con esatta orientazione E-O, si stende il grandioso podio del tempio di Zeus Olimpio.

Il tempio di Zeus Olömpios o Olympièion fu iniziato, sul posto di un tempio più antico, all'epoca dei Pisistratidi, sullo schema dei grandi dipteri ionici di Efeso, Samo, Didima, ma la costruzione fu abbandonata evidentemente in segnito alla caduta della tirannide. A quest'epoca appartengono le fondazioni ed elementi del krepìdoma in calcare di Karà (v. Antimachides). Soltanto nel 174 a. C. i lavori furono ripresi per' iniziativa del re di Siria Antioco Epifane, che ne affidò l'esecuzione ad un architetto italico, Cossutius (Vitr., vi, praef., 15, 17). A questa fase risalgono le tre colonne della parte occidentale tuttora in piedi, i cui capitelli corinzî hanno il fogliame più morbido e meno schematico di quelli adrianei.

La morte di Antioco interruppe di nuovo l'opera. E si vuole che Silla nell'86 a. C. ne avesse trasportato a Roma gran numero delle colonne per la sua nuova costruzione del tempio di Giove Capitolino. Finalmente Adriano portò a compimento il tempio, che fu così dedicato poco dopo il 130 d. C.

Esso era il più grande tempio corinzio dell'antichità (lungh. m 107,75, largh. m 41,10) ed era costruito in marmo pentelico. Era un diptero con tre file di otto colonne sulla fronte e due file di venti colonne sui due lati lunghi, cioè era circondato da una selva di 104 colonne (altezza m 17,25, diam. inf. m 1,70). Ne rimangono solo sedici. Manca qualsiasi avanzo della cella, dei cui marmi, come del resto del colonnato, si deve essere fatta calce durante il Medioevo e anche più tardi. Nella cella v'era una statua colossale del dio, in oro e avorio (Paus., i, 18, 6).

Il tempio si eleva nel mezzo di un vasto podio rettangolare (lungh. m 205,60, largh. m 129), costruito con blocchi rettangolari di poros e rinforzato esternamente da pilastri, che ne costituiva il peribolo. A questo peribolo si accedeva sul lato settentrionale da un pròpylon (larghezza m 10,50, prof. m 5,40), di cui si conservano le fondamenta e qualche cosa dell'elevato. Probabilmente è questo il pròpylon principale, perché conduceva dinnanzi alla fronte orientale del tempio. Nelle sue vicinanze dovevano trovarsi quattro statue di Adriano. Presso le colonne del tempio vi erano delle statue di bronzo, personificazioni di colonie. Il peribolo era pieno di statue, di cui moltissime di Adriano innalzate da città greche: tutte le vinceva quella colossale dedicata dagli Ateniesi e che si trovava dietro il tempio (Paus., i, 18, 6). Era collocata qui anche una statua in bronzo di Isocrate, innalzata sopra una colonna (Paus., i, 18, 8; Ps.-Plut., Vita X orat., 839 b). Dentro il peribolo del tempio sono ricordati inoltre il tempio di Crono e di Rea e il recinto di Ghe Olimpia, con lo spacco nel terreno in cui si sarebbe riversata l'acqua dopo il diluvio del tempio di Deucalione (Paus., i, 18,7). Difatti, secondo il mito, Deucalione, per gratitudine, avrebbe qui dedicato, dopo il diluvio, il primo tempio a Zeus Olimpio e si additava la tomba di lui non lontano dal tempio (Paus., i, 18, 8).

Immediatamente vicino al tempio di Zeus Olimpio, e più precisamente a SO e verso l'Ilisso, doveva trovarsi il santuario di Apollo Pöthios (Paus., i, 19, 1), che era uno dei più antichi della città. L'ubicazione è confermata dal ritrovamento in questa contrada di epigrafi attinenti al culto di Apollo, tra le altre quella dell'altare dedicato da Pisistrato il giovane (Inscr. Gr., iv, 1, 1, 41, n. 373 e). Non sembra che vi fosse un tempio, ma solo un recinto sacro con statua di culto. E non è sicuro che l'altro santuario di Apollo detto Delfinio (Paus., 1, 19, 1), a cui era associata nel culto anche Artemide Delfinia, si trovasse presso il santuario di Apollo Pöthios. Con maggiore probabilità si ricerca più ad occidente, nella contrada dietro le porte Diomeia ed Itonia, il santuario delle due divinità infere Neleo e Basile, a cui più tardi fu associato nel culto Codro, l'ultimo re di Atene.

La zona a S dell'Acropoli. - Numerosi avanzi antichi sono stati scoperti, soprattutto in questi ultimi anni, nella zona fra i due teatri ai piedi dell'Acropoli e il lato meridionale della cinta. Dinanzi al settore orientale della cosiddetta Stoà di Eumene, ad O di un complesso termale romano intravisto nel secolo scorso, è stata scavata una casa del IV sec. a. C. del tipo a cortile centrale, sovrapposta a strutture del V sec. a. C. in opera poligonale. Essa fu distrutta nell'86 a. C.; al posto della sua parte meridionale fu iniziata la costruzione di un'aula absidata che rimase incompiuta a causa del disastro del 267 d. C. A questa si sovrappose poi, verso oriente, un grandioso complesso che si estendeva verso S.

Ne sono state messe in luce due sale absidate e una rettangolare con nicchie, con rivestimento di marmo e pavimenti a mosaico. Uno degli ambienti di questo edificio che, anche in base alle strutture in blocchetti di materiale vario, può essere datato al periodo teodosiano, aveva funzione di sacello e vi erano reimpiegati dei rilievi e una dedica ad un demone ctonio di età classica.

A SO dell'Odèìon di Erode Attico sono gli avanzi di una casa a peristilio di età antoniniana, presso la quale è stata rinvenuta la stipe votiva di un santuario delle Ninfe con ceramica del VI e V sec. a. C., soprattutto loutrophòroi, che fu spostata evidentemente nel corso della nuova sistemazione della zona, avvenuta nel II sec. d. C. A S di un muro di terrazzamento di questo periodo, che dista 14 m dall'Odèion, sono stati trovati scarichi di età micenea, tombe geometriche e avanzi di case del IV sec. a. C. molto rimaneggiati nel corso delle successive ricostruzioni.

Alquanto più a 5, a 100 m circa dalle mura, sono avanzi di un edificio, probabilmente pubblico, di età romana, di cui si è potuto esplorare un ambiente a forma di oecus Corinthius con colonne in cipollino e il pavimento in opus sectile, databile, in base anche alla decorazione delle pareti, forse ancora al I sec. d. C. avanzato.

Abbondano i tagli nella roccia nei versanti settentrionale e occidentale del Mousèion (tra questi è interessante, nell'angolo di NO, un sedile a sette posti) che mostrano che il luogo doveva essere fittamente abitato in età anteriore.

A questo antico lavoro nella roccia per impianto di case deve appartenere, anche se in appresso ha subìto trasformazioni ed è stata forse adibita a tomba, la cosiddetta Prigione di Socrate. Sotto la pendice di NE del Mousèion, sulla faccia della roccia tagliata verticalmente per un'altezza di m 8 e una lunghezza di m 15, si aprono tre porte che dànno accesso a due camere (m 3,67 × 2,27) e a una fossa centrale unite da un corridoio: nel fondo v'è un vano circolare a vòlta (diam. m 3,40) che forse in origine era una cisterna, indipendente dalle altre camere.

Un solo monumento domina la desolata nudità rocciosa della collina del Mousèion e domina anche il paesaggio di A., ed è la tomba di C. Giulio Antioco Filopappo di Commagene (Paus., i, 25, 8), discendente dai principi di Siria, cittadino attico e console romano. Il monumento fu innalzato tra il 114 e il 116 d. C.

Se ne conserva la fronte rivolta a NE verso l'Acropoli, mentre della camera funeraria retrostante (m 10 × 9,30) restano solo i blocchi rettangolari di poros della parte infenore. Nella fronte, sopra uno zoccolo in poros (alt. m 3,50), si eleva per circa 10 metri di altezza una mostra in marmo pentelico che ha una sagoma ad abside leggermente arcuata. Nella parte inferiore della mostra è rappresentato, in un fregio ad alto rilievo, Antioco Filopappo come console romano sul carro preceduto dai littori. La parte superiore della mostra era tripartita da due pilastri corinzî: nello spazio centrale si apre una nicchia semicircolare (alt. m 3), che è occupata dalla statua di Antioco Filopappo, mentre in una nicchia rettangolare di sinistra v'è la statua di suo nonno, Antioco IV, ultimo re di Commagene, e nella nicchia rettangolare di destra, che è ora distrutta, v'era la statua di Seleuco I, il capostipite. L'iscrizione sul pilastro esterno di sinistra registra in latino le dignità romane rivestite da Antioco Filopappo, quella sul pilastro esterno di destra, ora sparito, portava in greco la lista dei suoi titoli principeschi.

Su questo monumento, che quasi simboleggia, non solo nell'origine e nelle dignità di Antioco Filopappo, ma anche nelle forme dell'architettura e della scultura, l'unione dei due elementi greco e romano, quale era stato preparato dalla civiltà ellenistica, può chiudersi questa descrizione della topografia della città. Solo il caso lo ha salvato da quella distruzione a cui sono andati soggetti tanti monumenti più insigni di A., e solo il caso ha voluto che esso rimanesse, come testimonianza della più tarda civiltà ateniese, sulle colline che avevano visto sorgere la più antica Atene.

La "città di Adriano". - La zona che costituirà poi la "città di Adriano" era già compresa entro il circuito delle mura del IV sec. a. C., e nel II sec. d. C. non sembra esser stato aggiunto nessun quartiere nuovo; a giudicare da quanto sappiamo finora ci si limitò forse alla sistemazione urbanistica della zona a N e ad E dell'Olympièion, ai due lati della strada attraversata dall'arco di Adriano, dove furono costruiti alcuni nuovi edifici pubblici, e delle adiacenze.

L'arco di Adriano, innalzato fra il 125 e il 138 d. C. (alt. m 18,00, largh. m 13,50) è un esempio un po' disorganico, ma molto interessante, della combinazione di un tipo di porta di città romana con elementi caratteristici degli archi onorari, quali le due colonne isolate dinanzi alla facciata e con elementi architettonici e decorativi caratteristici dell'architettura ateniese del II sec. d. C. Nella fascia sopra l'arco l'iscrizione da un lato dice: "Questa è l'Atene di Teseo, la città di prima", dall'altro: "Questa è di Adriano e non la città di Teseo" (Inscr. Gr., iii, 401 s.).

Subito ad E dell'arco sono gli avanzi di un edificio con un peristilio di 40 × 36 m, circondato da ambienti, e un ninfeo sul lato rettilineo di un secondo cortile porticato a pianta semicircolare a S. Mancano elementi di datazione più precisi, ma questo complesso, nel quale si è giustamente voluto riconoscere una palestra, non sembra essere comunque posteriore alla fine del II sec. d. C. Ad età tardo-adrianea o antoniniana non troppo avanzata può risalire, per lo stile dei mosaici pavimentali, la terma piccola, ma dalla pianta piuttosto complessa, a NO del pròpylon dell'Olympièion. Di un edificio termale più grandioso, demolito durante la costruzione dello Zappion, non conosciamo invece che pochi elementi della pianta, in base alla quale esso non sembrerebbe più antico del II sec. A S dell'angolo SE dell'Olympièion sono gli avanzi del krepìdoma in blocchi di poros di un piccolo periptero (m 9 × 15) di età romana. Poco discosta, era forse la zona chiamata Κήποι, con il santuario di Afrodite nei Giardini, la cui statua di culto era opera di Alkamenes. Fra gli altri avanzi antichi sparsi nella parte orientale della città si possono citare quelli di una casa ad E dell'ex-palazzo reale, con pavimenti a mosaico policromi, di cui quello più antico, a ciottoli, potrebbe essere ancora tardo-ellenistico.

I quartieri settentrionali. - Ben poco si sa di questa zona, che era già nel secolo scorso entro i limiti dell'abitato moderno. All'angolo di Odòs Nìkis e Odòs Apòllonos a SO della Platìa Sintàgmatos, sono stati rinvenuti recentemente avanzi di un edificio absidato, non anteriore al II sec. d. C., con mosaici pavimentali. Alquanto più ad E, sulla strada antica che metteva in comunicazione l'Agorà con la porta di Acarne, è stato scavato un recinto con un altare del IV sec. a. C. dedicato a Zeus Phràtrios e Atena Phratrìa, e avanzi di un portico. Forse altrettanto importante dal punto di vista topografico è la scoperta, ad E della Platìa Eleftherìas, di una statua seduta di Dioniso databile nel terzo quarto del VI sec., che per le dimensioni e la sua alta qualità artistica è forse una statua di culto. Si è voluto localizzare quindi in quella zona, che si trova circa 200 m a NE del Dìpylon e faceva forse parte del Ceramico interno, il santuario di Dioniso Melpòmenos, presso il quale doveva essere anche il bouleutèrion degli artisti dionisiaci.

Il Ceramico, diviso dalle fortificazioni in una parte interna e una esterna, è l'unico demo di cui conosciamo alcuni termini, tuttora in situ, databili alla prima metà del IV sec. a. C. Uno è stato rinvenuto sul lato S della via Sacra, ai piedi del Kolonòs Agoràios, due sono dinanzi alle mura, sui due lati del Dìpylon, qualche metro a NE e SO delle sue torri esterne, il quarto e il quinto sono sul lato S del dròmos, dinanzi alla tomba degli Spartani e ad un sepolcro monumentale presso la via di Pireo. Al di fuori dell'Agorà sono finora conosciuti nel Ceramico esterno due edifici di una certa importanza; una Stoà di età imperiale non troppo avanzata, lungo il lato N della via Sacra, di fronte al tempio di Afrodite Urania, e il Pompèion nell'area fra il Dìpylon e la porta Sacra.

La Stoà, di cui non sono note le estremità, è stata esplorata per una lunghezza di 46 m. È del tipo più semplice e misura dalla fronte dello stilobate al muro di fondo m 6,46. L'elevato di quest'ultimo e lo stilobate, in blocchi di poros in parte reimpiegati, hanno le fondazioni in opera a sacco. Le colonne, di cui ci sono pervenuti pochi elementi, in poros, erano di ordine dorico e avevano il fusto liscio.

Il Pompe'ion era una palestra, dalla quale muoveva, fra l'altro, la processione delle grandi Panatenee. Di un primo edificio rimasto forse incompiuto, della seconda metà del V sec. a. C., ci sono pervenuti pochi avanzi delle fondazioni in poros, pertinenti ad un cortile rettangolare con portici su almeno tre lati. Il secondo Pompèion, che, per la coincidenza dei livelli, dev'essere contemporaneo o di poco posteriore alla fase delle mura attribuita a Conone, fu spostato a NO rispetto a quello più antico, di cui conservò la larghezza e l'orientamento. È costituito da un peristilio di m 54 (NO-SE) × m 29, con alcuni ambienti per lo più a pianta quadrata lungo il lato NO e la parte attigua di quello NE e vi si accedeva attraverso un pròpylon nella parte orientale del lato SE. Sulle fondazioni in blocchi squadrati, disposti per testa e per taglio, provenienti in parte dall'edificio precedente e in parte in conglomerato, poggiano l'euthynteria e lo stilobate in poros. Dell'elevato dei muri sono conservati parte degli ortostati in marmo dell'Imetto e di una assisa di copertura in marmo pentelico. Le colonne, delle quali alcune raggiungono ancora l'altezza di m 1,8o, hanno basse basi circolari in marmo pentelico e il fusto liscio in poros rivestito d'intonaco. Il pròpylon, di cui ci è pervenuto solo il krepìdoma in marmo dell'Imetto, e la cui fronte esterna non è stata scavata, aveva una porta principale per i carri, fiancheggiata da due minori. Delle pitture eseguite da Kratinos nel III sec. a. C., fra le quali erano i ritratti di alcuni commediografi e di Isocrate (Plin., Nat. hist., xxxv, 140; Vita orat., 839 c), rimane memoria in un graffito con il nome di Menandro inciso in grandi caratteri sull'assisa in marmo pentelico. Nel Pompèion era anche una statua di bronzo di Socrate, opera di Lisippo (Diog. Laert., 2, 43), e vi è stata trovata un'erma derivante da un tipo del V sec. a. C. avanzato, dedicata nel 94 a. C.

Nel corso dell'assedio da parte di Silla, nell'86 a. C., l'edificio fu distrutto dai proiettili delle macchine, e poi la sua area venne occupata da officine. Il terzo Pompèion, di cui sussistono le fondazioni in opera a sacco e parte dei muri laterali in blocchi di poros è quello menzionato da Pausania (1, 18, 9) e può essere datato, per il bugnato rustico del paramento esterno, che ricorda il peribolo dell'Olympièion e il muro posteriore della Biblioteca di Adriano, in età adrianea. Questo edificio, che aveva la pianta di un'aula basilicale a tre navate, di m 49 × 24, preceduta da un ampio piazzale, fu, a sua volta, distrutto dagli Eruli nel 267 d. C.

A NE del Dìpylon sono stati rinvenuti avanzi di abitazioni di età romana con pitture decorative del II sec. d. C. Ad altre case, la cui pianta è ancora meno chiara, appartengono alcuni muri a S della porta Sacra, i cui dintorni sono quasi inesplorati. Un tratto della via Sacra, lungo m 6,50, con i battuti sovrapposti di epoche diverse, è stato trovato dinanzi alla Stoà.

A circa metà strada fra il Pompèion e la Stoà era il monumento eseguito e dedicato dallo scultore Euboulides e dalla sua famiglia, menzionato da Pausania, di cui sono stati rinvenuti, oltre a parte del lungo basamento in marmo dell'Imetto con la fondazione in poros, frammenti di due sculture che l'adornavano. Mentre l'iscrizione dedicatoria appartiene ancora al IV sec. a. C., i frammenti (una testa di Atena e il torso con la testa di una Nike) sono del II sec. a. C. avanzato, e possono quindi essere attribuite a un Euboulides, ultimo esponente noto di tutta una famiglia di scultori.

Il Ceramico esterno era diviso in due dal dròmos, una strada rettilinea larga circa 40 m e lunga quasi un miglio romano (1480 m), che univa il Dìpylon all'Accademia nel demo di Colono. Il primo tratto della via Sacra, che seguiva la riva sinistra dell'Eridano in direzione NO era quasi parallelo al dròmos, mentre un diverticolo, che si diramava da essa a circa 65 m dalla porta, dov'era un recinto dei Τριτοπάτωρες, andava verso O. L'area antistante alle due porte e fra esse, sotto il Pompèion, servì da luogo di sepoltura dal periodo submiceneo fino almeno ai primi decenni del VI sec. a. C. All'inizio la necropoli si sviluppò soprattutto da N verso 5, ma già nel Protogeometrico avanzato esisteva un altro nucleo di tombe all'estremo limite della zona finora scavata, presso la moderna via del Pireo. Fuori le mura, soprattutto lungo la via Sacra e il diverticolo, le tombe continuarono a sovrapporsi l'una all'altra anche dopo. Particolarmente interessante è questo fenomeno nella zona di H. Triàda. All'inizio del VI sec. a. C., quando fu costruito un monumento rettangolare ad O del Tritopatrèion con i muri in mattoni crudi, la cornice in poros e due vasi per le offerte sulla copertura piana, vennero parzialmente distrutti due tumuli più antichi che erano stati preceduti nella stessa area da tombe tardo-geometriche e del VII sec., una delle quali con lo zoccolo a krepìdoma. A sua volta esso fu coperto insieme alle tombe circostanti verso la metà del VI sec. a. C. da un tumulo di ben 27 m di diametro, che, dopo esser stato utilizzato per varie altre sepolture e spogliato del coronamento architettonico nel 479, fu distrutto in parte verso la fine del V sec. a. C. per creare sul lato orientale di esso un complesso sepolcrale di 12 × 15 m con muri di mattoni crudi su tre lati e in blocchi di poros verso S. Questo ultimo, che era già in rovina nei primi decennî del IV sec. a. C., fu interrato verso il 350 a. C., quando venne innalzato il piano stradale insieme ad altri monumenti del V sec. a. C. avanzato, di uno dei quali faceva parte la bella stele di Ampharete nelle cui vicinanze doveva essere in origine anche la stele di Hegesò. In altre parti della necropoli la situazione doveva essere la stessa, ma, salvo nella zona adiacente ad E sempre a N del diverticolo, non si è ancora scesi in profondità.

Fra le tombe più antiche a S del diverticolo rimaste visibili anche dopo il IV sec. a. C., sono la stele non figurata di Pitagora, prosseno di Atene a Selimbria, con lo zoccolo a forma di krepìdoma, databile verso il 450 a. C., nel recinto delle tombe d'onore dei prosseni ad E di una stradetta laterale; la stele dei Corciresi nello stesso recinto del 375 a. C. circa e il monumento di Dexileos, del 394 a. C., con la stele sul muro di fondo curvo di un recinto a quarto di cerchio con un alto muro di terrazzamento in blocchi squadrati. A partire dal secondo quarto del IV sec. a. C. furono sistemati gli altri recinti attigui, e quelli sul lato opposto della via, tutti con muri di terrazzamento in opera isodoma o poligonale di solito molto curata, coperti in alto da tegole o false tegole in marmo. In essi sono talvolta isolati ma spesso uniti in gruppi familiari, i σήματα. Prevalgono fino al decreto di Demetrio di Falero i naiskoi, fra i quali è piuttosto notevole quello di Dioniso da Kollytòs, che serve da base ad un alto pilastro con un toro, le stele a naìskos, quelle a palmetta e le loutrophòroi. Le sirene, le lékythoi in marmo, spesso ornate di rilievi e varî animali, fra i quali alcuni leoni e i due cani colossali del monumento di Lysimachides, hanno invece la funzione di acroterî agli angoli del muro di sostegno. Contemporaneamente sorsero alcuni recinti analoghi a S della via Sacra, dove però lo stato di conservazione non è altrettanto buono.

Al periodo successivo appartengono numerose tràpezai con kionìskoi, i quali continueranno ad essere, per lo più isolati, il tipo di σήμα più frequente nel periodo ellenistico. Al III sec. a. C. avanzato appartiene il muro di sostegno di un recinto sepolcrale in marmo pentelico, con ante leggermente sporgenti alle estremità, ma è una eccezione, e anche le stèiai non sembrano essere molto frequenti nel medio e tardo ellenismo. In quest'epoca, più che in età romana, pare sia stato sistemato a S del diverticolo un recinto sacro a Ecate.

Dopo le devastazioni e le distruzioni dell'86 a. C. la zona sud-occidentale che abbiamo descritto servì da scarico pubblico, e fu completamente sepolta sotto i detriti. A tale circostanza si deve l'ottimo stato di conservazione di questo settore della necropoli, che ne fa una delle pagine più vive della A. classica e ellenistica.

Una sorte diversa toccò in vari periodi alla zona a NE della via Sacra, di cui è stato messo in luce un esteso settore ad occidente del dròmos. Vi sono state rinvenute finora solo relativamente poche tombe geometriche, e qualcuna isolata di età arcaica. Il dròmos fu creato quasi certamente all'epoca dei Pisistratidi, forse contemporaneamente al ginnasio dell'Accademia. Non molto dopo il 479 a. C. sorse ad O del Dipylon uno stabilimento balneare costituito da un laconicum circolare presso la strada, un praefurnium adiacente a SO e una doppia fila di piccoli ambienti rettangolari, di cui almeno uno era provvisto di un canale di scolo, nella stessa direzione. Il pavimento in ciottoli del laconicurn fu soprelevato in seguito due volte, e contemporaneamente anche il praefurnium subì dei restauri. Mentre tutte le parti basse superstiti di queste strutture sono in pietrame unito da argilla e dovevano sostenere un elevato in mattoni crudi, una seconda ala con due file di ambienti, aggiunta ancora nel V sec. a. C. a SE della prima, dalla quale è separata da un corridoio, ha le fondazioni in blocchi di poros.

La zona più a NO era occupata nel V sec. a. C. da officine varie, cui appartenevano numerosi bacini quadrangolari, alcune fornaci a pianta piriforme, e forse anche da abitazioni. Molto interessante è un bacino circondato da un canale, di funzione non accertata, a S del sepolcro monumentale presso la via del Pireo.

All'epoca di Cimone deve aver avuto luogo una nuova sistemazione del dròmos, lungo il quale incominciarono a sorgere allora, accanto alle tombe di stato dei personaggi illustri, quali Armodio e Aristogitone e Clistene, i polyandrèia dei caduti.

A tribune erette in occasione di celebrazioni funebri ufficiali devono appartenere i numerosi incastri nel battuto stradale, che occupano circa un quarto della larghezza della strada in tutto il settore finora scavato. Solo alla fine estrema del V sec. a. C. incominciarono a sorgere anche lungo questo tratto più vicino alla città delle tombe di caduti, e contemporaneamente almeno il lato SO fu sgomberato da tutte le costruzioni private per la profondità necessaria e fra l'altro anche il laconicum della terma, che venne sostituito da una costruzione circolare molto più vasta con fondazioni in poros sulla riva destra dell'Eridano. Nello stesso tempo fu creato a NO della terma una via di comunicazione fra il dròmos e la via Sacra, e alcuni decennî dopo furono posti, a maggiore garanzia del confine con il Ceramico, i termini sui due lati del dròmos.

Delle tombe di stato si è potuta identificare finora solo quella più vicina al Dìpylon: è un lungo monumento rettangolare in blocchi di poros, di cui si è anche recuperata parte dell'epigrafe incisa sull'assisa più alta in marmo pentelico. L'iscrizione è in alfabeto laconico e sono conservati i nomi dei polemarchi spartani Chairon e Thibrachos, caduti insieme all'olimpionico Lakrates nel corso della lotta per la liberazione di A. dal giogo dei Trenta. Probabilmente pure del 403 sono un monumento quadrato in sei assise di blocchi di poros e un gruppo di tre recinti, uno dei quali era forse un cenotafio, le cui fondazioni in pietrame dovevano sostenere un elevato in materiale leggero. Poco più recenti sono due tombe inserite negli spazî intermedî e un recinto alle spalle del monumento degli Spartani, mentre al IV sec. avanzato può essere datato un sepolcro monumentale nascosto in parte sotto la via del Pireo, erroneamente attribuito a Cabria. Esso era costituito da un muro rettilineo in poros, con ante sporgenti alle estremità, interrotto al centro da una costruzione circolare dal nucleo in conglomerato.

Più a NE, o in parte forse sull'altro lato della via, dovevano essere altri sepolcri, di cui abbiamo notizia dalle fonti letterarie, fra i quali quelli di Pericle, di Efialte, di Formione, di Antemocrito, di Trasibulo, di Cabria, di Conone, di Timoteo, di Licurgo, di Euripide, di Socrate, di Menandro, e i polyandrèia dei caduti contro Egina e delle battaglie dell'Eurimedonte (469), di Tanagra (457), di Coronea (447), di Delio (424), di Anfipoli (422), di Mantinea (418), della spedizione contro Siracusa (415-13), di quella dell'Ellesponto (411-409), della guerra corinzia (394), del quale è stata rinvenuta la stele a rilievo, della guerra di Eubea (350) e della battaglia di Mantinea (338).

Nella prima metà del IV sec. a. C. sorse sul posto della parte demolita della terma, ma con il fronte stradale arretrato rispetto ad essa, una casa con pavimento a ciottoli, e successivamente, nel periodo ellenistico, durante il quale continuarono a prosperare le varie officine, soprattutto di vasai, parte della zona alle spalle delle tombe di stato fu adibita di nuovo a luogo di sepoltura. Nell'86 a. C. anche le adiacenze del Dìpylon subirono gravi danni.

Durante l'età imperiale il Ceramico esterno continuò ad essere usato come necropoli, ma solo sotto Adriano vi sorsero, soprattutto sulla via trasversale fra il dròmos e la ἱερὰ ὁδός alcuni sepolcri monumentali a pianta quadrata, con il nucleo in calcestruzzo o in conglomerato rivestito di blocchi di calcare o di marmo. Contemporaneamente furono impiantate dinanzi alle mura, ai due lati del Dìpylon, grandi cisterne, la cui funzione non è chiara e forse anche allora fu interrato l'Eridano e ampliata la via Sacra. Ma la zona non perse neanche allora il suo carattere prevalentemente industriale, di cui sono testimonianza numerose cisterne e bacini.

8. I sobborghi. - Sembra che A. avesse nel suo interno delle oasi di verde, giardini, campi e ville, che interrompevano l'agglomeramento delle abitazioni, ma la fonte che ne parla (Plin., Nat. hist., xix, 50) dice che ne diede esempio Epicuro, del quale invece si sa che i suoi giardini erano nel sobborgo della città non lontano dall'Accademia (Cicer., De fin., i, 1 ss.). Di un Giardino delle Muse dentro la città rimane una pietra di confine in piazza della Costituzione, ma non è certo che appartenesse in origine a quella contrada. Invece giardini e parchi dovevano costituire una specie di cintura a N, a E e a S della città, e alcuni di essi furono sede di ginnasî e di scuole filosofiche.

Controversa è la questione della Enneakroùnos, che, secondo Pausania, era nell'Agorà, ma o si tratterà di una confusione, forse con la fonte SE di età romana, che può aver avuto nove bocche, e allora nulla si oppone ad una sistemazione monumentale della Kallirrhòe all'epoca di Pisistrato o dei suoi figli, di cui rimane forse testimonianza su qualche vaso attico a figure nere, o il nome era quello di un complesso sistema di acquedotti costruito sotto i Pisistratidi, ed era quindi legato a più fontane.

Col Metròon ἐν ῎Αγραις, nel quale si celebravano i piccoli Misteri (Hesych., s. v. ῎Αγραι; Steph. Byz., s. v. ῎Αγρα; Bekker, Anecd. Graec., 326, 334) si è voluto identificare un tempietto che è noto sotto il nome di tempietto dell'Ilisso. Esso era stato trasformato in una chiesa della Madonna della Pietra, e fu forse abbattuto quando furono fatte le nuove mura turche della città nel 1778. Ne sono state rimesse in luce le fondamenta e qualche avanzo delle sculture decorative. Era un anfiprostilo ionico (m 14,60 × 8,70) in marmo pentelico, con quattro colonne sulle fronti (alt. m 4,50), con cella quadrata (m 4,67). Altri identificano questo tempio, databile verso il 430 a. C., con quello di Artemide Agrotèra (Plat., Phaedr., 229 b, c) che si sa appunto vicino all'Ilisso, oppure col tempio di Artemide Euklèia, che è ricordato più in là del tempio di Demetra e di Kore (Paus., i, 14, 5) (v. Anfiprostilo).

Come ultimo monumento nella regione orientale, e sempre al di là dell'Ilisso, deve essere menzionato lo Stadio. Esso era stato collocato in un incavo sotto l'Ardetto, cioè sotto una collina che appartiene alle ultime propaggini dell'Imetto, e non doveva essere lontano da esso il tempio di Artemide Agrotèra. A Licurgo si deve il primo impianto dello Stadio verso il 330 a. C. (Ps.-Plut., Vita X orat., 841 d), ma Erode Attico lo ricostruì completamente in marmo pentelico intorno al 140 d. C. (Paus., i, 19, 6). La costruzione era durata quattro anni.

Esso misurava nel suo asse maggiore (direzione NNO-SSE) metri 204,07 e nella sua larghezza massima m 33,36. Non è possibile determinare con precisione la lunghezza dello spazio destinato alla corsa. Questo era fissato dalle mete, di cui se ne sono ritrovate quattro a forma di doppia erma (ancora sul posto e nel Museo Naz. di Atene): di esse due dovevano stare all'estremità della parte curva. Lo spazio destinato agli spettatori era costituito da cinquanta file orizzontali di sedili, divise in due ordini da un corridoio intermedio e accessibile per mezzo di undici scalette sui lati lunghi, di sette nel semicerchio. Un largo corridoio girava anche in alto. Inoltre nel semicerchio v'erano avanzi di un porticato dorico (prof. m 10) che era forse un posto d'onore. Si calcola che potessero trovarvi posto 50.000 persone. L'ingresso principale, verso NO, doveva essere chiuso con un portico. Per dare accesso allo stadio era stato costruito un ponte sull'Ilisso, in opera a sacco rivestita di blocchi rettangolari di poros, che fu in gran parte distrutto solo verso il 1778 e di cui i pochi avanzi sono ora incorporati in un ponte moderno. A occidente dello Stadio, cioè sulla cima dell'Ardetto a cui si appoggia, gli avanzi di un grande edificio rettangolare (m 25 × 15) sulla cui fronte orientale è stabilita una terrazza, lunga m 16, dalla quale sembra che una rampa discendesse allo Stadio, si considerano con probabilità quelli del tempio della Tyche, che Erode innalzò su un lato dello Stadio e di cui il simulacro era in oro e avorio (Philostr., Vita soph., ii, 1, 5). Invece gli avanzi di una costruzione rettangolare sulla cima della collina orientale, a cui si appoggia lo Stadio, possono forse appartenere alla tomba di Erode, per quanto l'espressione dell'unica fonte che ne parla (Philostr., loc. cit.) dica soltanto che esso fu sepolto ἐν τῷ Παναϑηναικῷ, cioè nello Stadio.

Sulla sinistra dell'Ilisso, poco più a monte dello Stadio, è stato trovato recentemente un santuario di Eracle Pankràtes e di Palaimos, non menzionato dalle fonti. Era un recinto quadrangolare, con numerosi rilievi votivi soprattutto del IV e III sec. a. C.

Il ginnasio del Cinosarge deve cercarsi più a S, nel demo di Diòmeia (Ps.-Plat., Axioch., 364 b; Harpocr., s. v. ἐν Διομείοις ῾Ηράκλειον; Steph. Byz. e Suda, s. v.Κυνόσαργες e forse al di là dell'Ilisso, ma non molto lontano dalla porta della città (Diogenes Laert., vi, 13). Non si sa quando il ginnasio sia stato impiantato per la prima volta, ma già esisteva nel sec. VI e doveva essere sorto intorno a un santuario di Eracle (Sch. in Dem., xxiv, 114). Qui insegnò Antistene, il fondatore della filosofia cinica: questa prese il nome da quello del ginnasio, che tuttavia non è di chiara etimologia. Si è voluto riconoscere il Cinosarge negli avanzi dei due edifici tornati alla luce sulla sponda sinistra dell'Ilisso nella contrada di fronte al punto in cui si pone la porta Itonia. In una collina vicina al Cinosarge v'era la tomba della famiglia di Isocrate (Ps.-Plut., Vita X orat., 838 b).

Il secondo grande ginnasio di A., il Liceo (Paus., i, 19, 3), deve invece cercarsi a oriente della città. Esso stava fuori della porta di Diocare (Strab., ix, 397) e non doveva essere lontano dall'Ilisso (Strab., ix, 400): è probabile quindi che si estendesse sotto la pendice meridionale del Licabetto. Doveva essere infatti un ampio recinto, perché serviva anche come luogo di esercizi militari, specialmente per la cavalleria (Xenoph., Hipparch., iii, 1, 6, ss.). Pericle ne era stato il fondatore (Harpocr., s. v. Λύκειον), Licurgo vi aveva costruito una palestra e lo aveva arricchito di piante (Paus., i, 29, 16), Filippo V e Silla lo avevano devastato. Il nome gli era venuto dal santuario di Apollo Lykeios che certo esisteva qui prima del ginnasio, e il simulacro rappresentava il dio appoggiato a un pilastro e con la destra portata sul capo (Luc., Anachars., 7). Degli alberi del Liceo era celebre un platano, che forse era quello sotto cui aveva insegnato Socrate. Nel Liceo Aristotele stabilì la sua scuola, ed esso rimase la sede dei peripatetici.

Una via esterna lungo le mura (Plat., Lys., 203 a) conduceva dal Liceo al sobborgo di A. più ricco di alberi, all'Accademia, dove era un terzo ginnasio. L'Accademia si trovava a NE del Dìpylon (Luc., Scyth., 2) e la sua distanza da questa porta era di circa un chilometro e mezzo (Liv., xxxi, 24; Cicer., De fin., v, 1, 1). Sulla via che conduceva dal Dìpylon all'Accademia stava il santuario di Artemide Kallìste (Paus., i, 29, 2): si sono ritrovate iscrizioni e avanzi del santuario. Il nome di Accademia era certo esteso a tutto un parco che era venuto formandosi intorno al nucleo originario del giardino di un certo Akademos o Hekademos, oppure intorno al santuario di un eroe di tal nome (Schol. in Dem., xxiv, 114). Nella parte N di questa zona si sono trovati i resti di un abitato dell'Elladico Antico, cui se ne sovrappose uno dell'Elladico Medio. In varî punti si sono trovate tombe del Geometrico, pertinenti probabilmente al demo di Colono, che doveva essere nelle vicinanze immediate. Il peribolo, che includeva una vasta area, risale in parte ancora ad epoca arcaica ed è da identificare con ogni probabilità con il τειχίον ῾Ιππαρχου. Il ginnasio NE, di cui si sono conservate le fondazioni in poros, era un vasto edificio, con il cortile a rettangolo molto allungato circondato da portici a due navate. Più ad O sono stati scoperti altri edifici, fra i quali una terma romana del I sec. d. C. con le strutture originarie in opus reticulatum. Fu Cimone a stabilirvi un parco pubblico e a dare al luogo il carattere che mantenne in seguito (Plut., Cim., 13, 8). E il parco fu sempre rinnovato dopo le sue devastazioni. Dinnanzi all'ingresso dell'Accademia v'era un Altare dell'Amore (Paus., i, 30, 1; Athen., xiii, 609 d) e v'era un'antica base con le figure di Prometeo e di Efesto (Soph., Oed. Col., 57; Paus., i, 30, 2), che costituiva il punto di partenza per le lampadedromie. Dentro l'Accademia avevano altari le Muse, Eracle, Hermes, tutte divinità del ginnasio, ma la dea principale del luogo era Atena (Athen., xiii, 561 d), che aveva un tempio oltre che un altare. Dentro il suo recinto v'era anche un altare di Zeus Kataibàtes o Mòrios (Schol. in Soph., Oed. Col., 704 s.) che deve ricollegarsi alle μπρίαι, cioè agli olivi sacri che là si trovavano e che si dicevano nati da quello dell'Acropoli.

Il giardino nel quale Platone insegnò nell'ultimo periodo della sua vita, e che rimase la sede della sua scuola, era nell'immediata vicinanza del parco e del ginnasio dell'Accademia e da questa vicinanza nacque la fortuna del nome. Platone dedicò in questo luogo un recinto e un altare alle Muse, il Mousèion, e nel recinto fu poi dedicata la statua di Platone, opera di Silanion (Diogenes Laert., iii, 25). Forse nel giardino stesso v'era la tomba di Platone, è ad ogni modo essa era non lontana dall'Accademia (Paus., i, 30, 3). Nella regione dell'Accademia e, si deve supporre, non lontano dal giardino di Platone, v'era il Lakydèion, il giardino che Attalo I aveva fatto preparare per il filosofo Lacide (Diogenes Laert., iv, 60) che diresse la scuola platonica nella seconda metà del sec. III a. C. Per contrasto al tanto affetto umano che v'è al fondo della filosofia platonica si ergeva nei pressi dell'Accademia la torre di Timone, dell'uomo il quale conosceva un solo modo di essere felice, quello di fuggire gli altri uomini (Paus., i, 30, 4).

Tra queste tranquille zone di vita, vita del corpo e vita dello spirito, rappresentate dai parchi dei ginnasî e dai giardini delle scuole filosofiche, si inserivano nelle più immediate vicinanze della città e davanti alle sue porte, le zone della morte, quelle delle necropoli. Ritrovamenti di tombe hanno accertato l'esistenza di un cimitero a S dinnanzi alla porta Itonia, di un cimitero a E dinnanzi alla porta di Diocare, e di uno a N dinnanzi alla porta Acarnese, ma il più vasto era quello che a ventaglio si distendeva dinnanzi al Dìpylon, soprattutto lungo la via Sacra di Eleusi, e che verso NE doveva giungere a toccare il parco dell'Accademia. Del resto era questa la contrada in cui la città aveva sepolto sino dal periodo miceneo.

9. Atene in età tardo-antica. - La distruzione del 267 d. C. fu come una grande cesura nella vita di Atene. Gran parte della popolazione era emigrata ad Egina ed in altre isole e la città, ormai spopolata, risorse molto lentamente. Negli ultimi decenni del III sec. d. C. essa fu munita di nuove fortificazioni che compresero un'area molto ristretta a N dell'Acropoli e si appoggiarono in gran parte a costruzioni rimaste in piedi, fra le quali la Stoà di Attalo e la Biblioteca di Adriano.

Solo a partire dal periodo tetrarchico furono restaurati alla meglio anche degli edifici pubblici rimasti fuori del cosiddetto muro di Valeriano, come il teatro di Dioniso e la Thòlos, se la fodera del muro esterno di questa ultima in opera a sacco è effettivamente posteriore al 267. In altri, per es. nel Pompèion, si istallarono officine, nel caso specifico di figuli, e nell'Agorà alcune fonderie, di cui si sono trovate le tracce soprattutto sul lato S, consumarono quello che era rimasto delle statue in bronzo. Un notevole risveglio si ebbe soltanto negli ultimi decenni del IV sec. d. C. e nella prima metà di quello successivo, epoca nella quale furono rioccupate molte aree rimaste deserte o poco abitate.

Nell'Agorà, dove era stata intanto abbandonata definitivamente la Thòlos, sorse allora un grandioso edificio, ritenuto un ginnasio. Si accedeva da N, attraverso un portico fiancheggiato da fontane, per il quale erano state reimpiegate le sculture del postscenio dell'odèion, collocate su alte basi (portico dei Giganti), ad una vasta corte d'ingresso, da dove, attraverso un vestibolo e un'esedra semicircolare, si perveniva al nucleo del complesso. Questo ultimo, forse di poco più antico, è costituito da un peristilio con ali di fabbrica sugli altri tre lati, di cui quella ad O aveva carattere termale.

Pressappoco nella stessa epoca fu ricostruito il Metròon, di cui il peristilio fu trasformato in un aula a tre navate divise da colonne su punti e con un sedile di marmo lungo la parete dell'abside semicircolare, mentre l'ambiente attiguo a S fu ornato di un mosaico policromo. Più a NE, nella zona dell'altare dei dodici dèi fu costruito allora un edificio a peristilio, e un mulino ad acqua fu installato nell'angolo SE della piazza, sulla via Sacra delle Panatenee, attraverso la quale era stata deviata l'acqua della Klepsydra, che scendeva prima verso il lato S dell'Acropoli.

Le pendici settentrionali dell'Areopago furono di nuovo occupate da case, in parte con peristilio e riccamente ornate di marmi. Due fra le più grandi e lussuose hanno una grande aula absidata senza fontana del tipo che troviamo in varî edifici contemporanei di Atene. La Biblioteca di Adriano fu ricostruita agli inizî del V sec. e vi fu aggiunto il tetràkonchos, di cui si è parlato sopra, di tipo simile al S. Lorenzo di Milano. Contemporaneamente fu eretto a S dell'Acropoli un edificio pure descritto sopra con decorazione molto ricca, forse anch'esso in relazione con l'università, che allora era chiamata Mousèion nelle epigrafi.

Le basiliche cristiane del V sec., delle quali sussiste poco più delle fondazioni, sono a tre navate, divise da pilastri o colonne con abside semicircolare e senza pastofori, salvo la più grandiosa, sulla riva sinistra dell'Ilisso. Questa, a croce latina e regolarmente orientata, era preceduta da un atrio, e aveva i pavimenti ornati da mosaici. Sul lato N, accessibile dalla navata centrale per mezzo di una scala, è una cella sepolcrale più antica, semi-ipogea, con tre arcosolî, la cupola su pennacchi e strutture in buona opera laterizia, in cui si è voluto riconoscere il martörion del vescovo Leonides martirizzato nel 250 d. C. Altri ipogei sepolcrali più tardi e una fontana, usata evidentemente per il fonte battesimale, sono nelle vicinanze. Si è voluto identificare in questa basilica una delle dodici chiese fatte costruire ad A. da Atenaide, la figlia di un sofista ateniese, che divenne nel 423 d. C. moglie di Teodosio II e fu allora battezzata con il nome di Eudossia.

Nel VI sec. d. C., e soprattutto da Giustiniano in poi, l'abitato incominciò ad espandersi anche nelle aree considerate fino ad allora pubbliche e rimaste pertanto libere da edifici privati. Solo tutta la zona collinosa a NO non fu mai più abitata ma servì in compenso da cava di materiali edilizi. Proprio di quel periodo sono inoltre alcune calcare nella zona dell'Agorà.

10. Le Necropoli. - Fino all'epoca di Temistocle le tombe sono sparse un po' dappertutto nella città, ma già dal periodo submiceneo e dal Protogeometrico le necropoli più importanti dovevano essere quelle fuori dell'abitato, nel Ceramico esterno, dove si continuò a seppellire senza soluzione di continuità fino ad età romana, a NE del Dìpylòn e a S e SO dell'Olympièion. Dalla fine dell'VIII sec. a. C. le tombe nella città vera e propria sono, salvo alcune sepolture di bambini nelle case, generalmente chiuse entro recinti, forse familiari, di cui i meglio conosciuti sono quelli a S della Thòlos e uno sulle pendici occidentali dell'Areopago, usati ambedue ancora nel VI sec. a. C. avanzato.

L'unica tomba tardo-neolitica finora trovata, del tipo a pozzo, con il cadavere rannicchiato, conteneva poca suppellettile, e così anche quella dell'Elladico Medio al Ceramico. Le tombe a camera micenee sono per lo più di forma irregolare e a deposizione collettiva. La più ricca rinvenuta finora, sulle pendici settentrionali dell'Areopago, è a pianta trapezoidale, con un banco per la suppellettile. Questa era tutta dell'Elladico Recente II e III A; l'oggetto più notevole è una pisside eburnea, con sfingi. Probabilmente le tombe in questa zona appartenevano all'abitato sull'Acropoli, ma evidentemente non erano tombe principesche. È infatti difficile che proprio ad A. mancassero in questo periodo grandi thòloi, come ne sono state invece trovate in centri minori dell'Attica, quali Maratona, Acarne, Thorikos.

Le tombe submicenee ad inumazione sono per lo più a fossa rettangolare, orientata da N a S e rivestita e coperta da lastre d'ardesia; solo in piccola parte a fossa semplice. L'unico segno visibile all'esterno era una collinetta delle stesse dimensioni. Quelle ad incinerazione, ancora poche e pertinenti già alla fine di quel periodo, sono costituite da un pozzetto circolare che contiene l'anfora-cinerario, coperta normalmente da un sasso o da una ciotola.

Nel Protogeometrico il rito dell'incinerazione è di gran lunga il più frequente. Le tombe ad inumazione sono dello stesso tipo di quelle del periodo precedente, mentre nelle altre la pianta del pozzetto, che contiene anche la suppellettile, è rettangolare. In alcune quest'ultimo non è riempito di terreno fino al piano di campagna, e vi poggia, accanto ad una rozza stele di calcare, un grande cratere per le offerte. Questo tipo continua ad essere in uso durante tutto il periodo geometrico, nel quale sono però molto frequenti anche le inumazioni in fosse con banchi laterali destinati a ricevere la copertura. Fino all'inizio del VI sec. a. C. è tuttavia più frequente l'incinerazione e, dopo, nessuno dei due riti sembra prevalere molto sull'altro, a giudicare almeno da quelle che conosciamo finora.

Nel VII sec. a. C. il cadavere veniva cremato, almeno in molti casi nella stessa fossa sepolcrale, provvista di sfiatatoi, e la suppellettile e le offerte ponevansi sui canali doppi in mattoni crudi che servivano prima ad aerare il rogo, e poi a raccogliere i resti. In questo periodo appare in Attica anche il tumulo conico, con cerchio di pietre alla base, spesso sormontato da un grande vaso in funzione di σήμα o da un pilastro. La collina, ormai per lo più intonacata, e con pareti piuttosto ripide, trova all'inizio del VI sec. a. C. la sua espressione più monumentale in grandi monumenti rettangolari con le pareti in mattoni rivestite di stucco e coronate da una cornice in pietra. Fin dalla fine del VII sec. a. C. vengono anche erette stèlai in poros e poi in marmo, e koùroi funerarî, di cui i resti di quello più antico finora noto, proveniente dalla zona del Dìpylon, sono una delle più grandiose espressioni dell'arte attica del periodo dello "stile colossale". Purtroppo, salvo un leone in funzione di σήμα su un tumulo del primo quarto del VI sec. a. C., una stele molto rozza del VII sec. incastrata in un plinto e la parte bassa di una stele dell'inizio del VI sec., tutti questi elementi sono stati trovati fuori posto, soprattutto reimpiegati nelle mura di Temistocle. Le stele più antiche sono del tipo a pilastro, spesso con capitelli a gola semplice, e sormontate per lo più da una sfinge. Alla decorazione dapprima incisa, con motivi subgeometrici, si sostituiscono poi rilievi con la figura del defunto, e spesso anche qualche altra figura alla base. Quelle a palmetta appaiono nell'ultimo terzo del VI sec., ma diventano presto il tipo più comune. Anche al VI sec. appartiene un grandioso tumulo nella necropoli del Ceramico, che in origine era a sepoltura singola, ma nel quale ebbero luogo poi anche altre deposizioni. Dal periodo della riforma di Clistene fino verso la metà del V sec. a. C. circa, non conosciamo invece finora tombe monumentali. La più antica delle tombe di stato era forse il polyandrèion per i caduti della battaglia dell'Eurimedonte, di cui non conosciamo la forma, ma che occupava una vasta area sul dròmos. Le altre finora conosciute sono recinti della fine del V sec. o dell'inizio di quello successivo, di cui il solo finora identificato è quello degli Spartani che caddero per liberare A. dai Trenta nel 404 a. C., mentre di quello dei caduti di Corinto del 394 ci è pervenuta la stele. Contemporaneo è il monumento di Dexileos, con il muro di terrazzamento ad angolo sporgente e quello di fondo, coronato dalla stele, a quarto di cerchio. Nell'ultimo quarto del V sec. appaiono infatti di nuovo le stele, per lo più larghe e basse, e nel corso del IV sec. diventano di nuovo frequenti quelle a palmetta, riunite per lo più con altre, e con lèkythoi e naìskoi in recinti dai muri di terrazzamento in opera pseudopoligonale o isodoma molto curata. Il monumento funerario più grandioso di questo periodo, sul dròmos, attribuito erroneamente a Cabria, è costituito da un tumulo centrale sporgente da un muro che aveva alle estremità due profonde ante con leoni funerarî.

Dopo la legislazione di Demetrio di Falero contro il lusso nelle tombe erano consentite solo le tombe a tràpeza con un κιονίσκος, di un tipo che esisteva già precedentemente. Ma già nella seconda metà del III sec. a. C. sorse fra l'altro un recinto con il muro di sostegno in marmo.

Le tombe singole continuano intanto ad essere molto profonde. Gli inumati vengono deposti, nel V e IV sec. a. C. in làrnakes fittili, e talvolta in sarcofagi di marmo con copertura a tetto ad acroterî angolari, dei quali solo il più antico, del VI sec., sembra importato. La suppellettile è ricca in età arcaica, e nel VII sec. a. C. non mancano vasi di importazione corinzia. Nel V sec. a. C. prevalgono le lékythoi a fondo bianco, e dalla fine del IV sec. non troviamo più vasi, salvo qualche alàbastron.

Dei monumenti funerari di età imperiale non conosciamo, salvo quello più grandioso di Filopappo, che le fondazioni di alcuni a pianta quadrata del Il sec. dell'Impero, che furono usati come cava di pietra durante i rifacimenti delle mura in età tardo-romana. Probabilmente non mancavano però anche nelle necropoli della città le tombe a camera semiipogee con sarcofagi, di cui ci sono pervenuti due cospicui esempî a Kefissià e a Chalandri. Forse ancora al III sec. d. C. può essere datata quella della basilica sull'Ilisso, con vòlta a cupola e arcosolî. Più frequenti sono in questo periodo i monumenti in pietrame o mattoni rivestiti di stucco, qualche volta con pitture decorative.

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Von Salis, Die Giganten am Schilde der Athena Parthenos, in Jahrbuch, LV, 1940, p. 90 ss.; P. G. Stevens, The Sills of the Grills of the Pronaos and Opisthomodus of the Parthenon, in Hesperia, XI, 1942, p. 354 ss.; P. G. Stevens, The Curve of the North Stylobate of the Parthenon, in Hesperia, XII, 1943, p. 135 ss.; D. B. Thompson, The Golden Nikai Reconsidered, in Hesperia, XIII, 1944, p. 173 ss.; G. Rodenwaldt, Köopfe von den Südmetopen des Parthenon, in Abhandl. Akad. Berlin, 1945-46, VII; A. Orlandos, Notes on the Roof Tiles of the Parthenon, in Hesperia, Suppl. VIII, 1949, p. 259 ss.; R. Carpenter, The Ostia Altar and the East Pediment of the Parthenon, in Hesperia, Suppl. VIII, 1949, p. 71 ss.; W. H. Schuchhardt, Zur Entstehung des Parthenonfrieses, in Studies Presented to D. M. Robinson, I, S. Louis 1951, p. 541 ss.; C. Praschniker, Neue Parthenonstudien, in Oesterr. Jahresh., 1954, p. 5 ss.; F. Brommer, Studien zu den Parthenongiebeln, in Ath. Mitt., LXIX-LXX, 1954-55, p. 49 ss.; F. Brommer - E. Harrison, A New Parthenon Fragment from the Athenian Agora, in Hesperia, XXIV, 1955, p. 85 ss.; G. P. Stevens, Remarks upon the Colossal Chryselephantine Statue of Athena in the Parthenon, in Hesperia, XXIV, 1955, p. 240 ss. - Tempio di Atena Poliàs: W. Doerpfeld, Der alte Athenatempel auf der Akropolis zu Athen, in Ath. Mitt., X, 1885, p. 275 ss.; XII, 1887, p. 337 ss.; XIV, 1889, pp. 25, 190, 276; XV, 1890, p. 420 ss.; XXII, 1897, p. 159 ss.; B. H. Hill, The "Metopon" in the Erechtheum, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XII, 1908, p. 184 ss.; B. H. Hill, Structural Notes on the Erechtheum, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XIV, 1910, p. 291 ss.; L. Pallat, The Frieze of the Erechtheum, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XVI, 1912, 175 ss.; L. B. Holland, Erechtheum Papers, I: The Remains, of the Pre-Erechtheum, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XXVIII, 1924, p. 1 ss.; G. P. Stevens - L. D. Caskey - H. N. Fowler - J. M. Paton, The Erechtheum, Cambridge (Massachussets) 1927; W. B. Dinsmoor, The Burning of the Opisthodomus at Athens, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XXXVI, 1932, pp. 143 ss., 249 ss.; W. Doerpfeld, Der Brand des alten Athenatempels und seines Opisthodoms, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XXXVIII, 1934, p. 249 ss.; L. Pallat, Der Fries der Nordhalle des Erechtheion, in Jahrbbuch, L, 1935, p. 79 ss.; A. Rumpf, ᾿Αϑηνᾶ ᾿Αϑηνῶν μεδεοῦσα, in Jahrbuch, LI, 1936, p. 65 ss.; W. Doerpfeld, Zum Tempel der Athena, der Schutzherrin von Athen, in Jahrbuch, LII, 1937, p. 220 ss.; L. Pallat, Zum Friese der Vorhalle des Erechtheion, in Jahrbuch, LII, 1937, p. 220 ss.; W. Doerpfeld - H. Schleif, Erechtheion, Berlino 1942; N. Kondolèon, Τὸ ᾿Ερεχϑείον, Atene 1949. - Propilei: W. Doerpfeld, Die Propylaeen der Akropolis von Athen, in Ath. Mitt., X, 1885, p. 38 ss., p. 131 ss.; C. H. Weller, The-Pre-Periclean Propylon of the Acropolis of Athens, in Am. Journ. Arch., nuova serie, VIII, 1904, p. 35 ss.; W. B. Dinsmoor, The Gables of the Propylaea in Athens, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XIV, 1910, p. 143 ss.; F. Franco, Le asimmetrie dei Propilei sull'Acropoli d'Atene, in Annuario Atene, XIII-XIV, 1930-1931, p. 9 ss. - Santuario di Atena Nike: A. Orlandos, Zum Tempel der Athena Nike, in Ath. Mitt., XL, 1915, p. 27 ss.; W. B. Dinsmoor, The Sculptured Parapet of Athena Nike, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XXX, 1926, p. 1 ss.; R. Carpenter, The Sculpture of the Nike Temple Parapet, Cambridge (Massachussets) 1929; W. B. Dinsmoor, The Nike Parapet Once More, in Am. Journ. Arch., nuov serie XXXIV, 1930, p. 281 ss.; W. Wrede, Mnesikles und der Nikepyrgos, in Ath. Mitt., LVII, 1932, p. 74 ss.; H. Schleif, Nikepyrgos und Mnesikles, in Jahrbuch, XLVIII, 1933, p. 177 ss.; N. Balànos, ῾Η νέα ἀναστήλωσις τοῦ ναοῦ τῆς ᾿Αϑηνᾶς Νίκης, in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1937, III, p. 776 ss.; G. P. Oikonòmos, ῾Η ἐπὶ τῆς ᾿Ακροπόλεως λατρεία τῆς ᾿Αϑηνᾶς Νίκης, in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1939-42, p. 97 ss.; G. Welter, Vom Nikepyrgos, in Arch. Anz., 1939, c. 1 ss.; A. Orlandos, Nouvelles observations sur la construction du temple d'Athéna Niké, in Bull. Corr. Hell., LXXI-LXXII, 1947-48, p. 1 ss.; C. Blümel, Der Fries des Tempels der Athena Nike in der attischen Kunst des fünften Jahrhunderts vor Christus, in Jahrbuch, LXV-LXVI, 1950-51, p. 135 ss. - Monumenti minori e doni votivi: G. A. Snijder, Sur le temple de Rome et d'Auguste et l'Erechthéion, in Rev. Arch., V serie, XIX, 1924, p. 223 ss.; E. Pfuhl, Die grosse eherne Athena des Phidias, in Ath. Mitt., LVII, 1932, p. 151 ss.; H. Payne, Archaic Marble Sculpture from Acropolis, Londra 1936; H. Schrader, Die achaischen Marmorbildwerke der Akropolis, Francoforte 1939; W. H. Schuhchhardt - E. Langlotz, Archaische Plastik, auf der Akropolis, Francoforte 1941; A. Raubitschek - G. P. Stevens, The Pedestal of the Athena Promachos, in Hesperia, XV, 1946, p. 107 ss.; A. Raubitschek, Dedications from the Athenian Acropolis, Princeton 1949; G. P. Stevens, The Poros Tripods of the Acropolis, in Studies Presented to D. M. Robinson, I, S. Louis 1951, p. 331 ss.; E. B. Harrison, A New Fragment of Acropolis 683, in Hesperia, XXIV, 1955, p. 169.

Pendici meridionali. - F. Versàkis, Μνημεῖα τῶν νοτίων προπόδων τῆς ᾿Ακροπόλεως, in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1912, p. 161 ss.; A. D. Keramòpullos, Τὸ Πελαργιχόν, τὸ ᾿Ασκληπιεῖον, αἱ ῾Οδοὶ, αἱ ἀνάγουσαι πρὸς τὰ Προπύλαια, in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1939-41, p. 35 ss. - Teatro di Dioniso: W. Doerpfeld, Das griechische Theater, Atena 1896; W. Doerpfeld, Zum Dionysostheater in Athen, in Jahrbuch, XXIV, 1909, p. 224 ss.; E. Fiechter, Das Dionysostheater in Athen, I-IV, Stoccarda 1935-1950; A. Von Gerkan, Die neronische scenae frons des Dionysostheaters in Athen, in Jahrbuch, LVI, 1941, p. 163 ss.; A. W. Pickard Cambridge, the Theatre of Dionysus in Athens, Oxford 1946; W. B. Dinsmoor, The Athenian Theatre of the Fifth Century, in Studies Presented to D. M. Robinson, I, S. Louis 1951, p. 309 ss.; I. Travlòs, ᾿Ανασκαϕαὶ ἐν τῷ Διονυσιακῷ Θεάτρῳ, in Πρακτικὰ τῆς ᾿Αρχαιολογικῆς ῾Εταιρίας, 1951, p. 41 ss. - Asklepièion: F. Versàkis, ᾿Αρχιτεκτονικὰ μνημεῖα τοῦ ἐν ᾿Αϑήναις ᾿Ασκληπιείου, in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1908, p. 255 ss.; G. Allen - L. D. Caskey, The East Stoa in the Asclepieum of Athens, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XV, 1911, p. 32 ss.; F. Versàkis, Τοῦ ᾿Αϑήνσιν ᾿Ασκληπιείου οἰκήματα, in ᾿Εϕημερὶς Αρχαιολογική, 1913, p. 52 ss.; R. Martin, Chapiteaux ioniques de l'Asclepieion d'Athènes, in Bull. Corr. Hell., LXXVIII-LXXIX, 1944-45, p. 340 ss.; R. Martin - H. Metrger, Recherches d'architecture et de topographie à l'Asclépicion d'Athènes, in Bull. Corr. Hell., LXXIII, 1949, p. 316 ss. - Cosiddetto portico di Eumene: V. Viale, Il portico detto di Eumene, in Annuario Atene, IV-V, 1921-22, p. 13 ss.; L. Polacco, Cronologia del portico presso l'Odeo di Erode Attico e le "Porticus Eumenicae", in Memorie dell'Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti di Venezia, classe di scienze morali e lettere, XXXI, 2. - Odèion di Pericle: P. Gastriòtis, rapporti di scavo; sono iportanti soprattutto quelli in: ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1915, p. 145 ss.; 1917, p. 229 ss.; 1922, p. 25 ss.; e Πρακτικὰ τῆς ᾿Αρχαιολογικῆς ῾Εταιρίας, 1922-24, p. 82 ss.; 1929, p. 52 ss.; A. Orlandos, ᾿Ανασκαϕὴ τοῦ ῼδείου τοῦ Περικλέους, in Πρακτικα τῆς ᾿Αρχαολογικῆς ῾Εταιρίας, 1931, p. 25 ss. - Monumenti coregici presso il teatro di Dioniso: W. Doerpfeld, Das choregische Monument des Nikias, in Ath. Mitt., X, 1885, p. 219 ss.; W. B. Dinsmoor, The Choragic Monument of Nicias, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XIV, 1910, p. 459 ss.; F. Versàkis, Νικίου ναός, in ᾿Εταιρὶς ᾿Αρχαιολογική, 1913, p. 75 ss.; G. Welter, Das Thrasyllos-Monument, in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1937, II, p. 419 ss.; G. Welter, Das choregische Denkmal des Thrasyllos, in Arch. Anz., 1938, c. 33 ss.

Pendici settentrionali e orientali. - O. Broneer, Eros and Aphrodite on the North Slope of the Acropolis, in Hesperia, I, 1932, p. 31 ss.; O. Broneer, Excavation on the North Sloge of the Acropolis in Athens, in Hesperia, II, 1033, p. 329 ss.; IV, 1935, p. 109 ss.; VII, 1938, p. 161 ss.; P. Bronner - M. Z. Pease, The Cave on the East Slope of the Acropolis, in Hesperia, V, 1936, p. 247 ss.; H. D. Hausen, The Prehistoric Pottery on the North Slope of the Acropolis, in Hesperia, VI, 1937, p. 539 ss.; A. W. Parsons, Klepsydra and the Paved Court of the Pythion, in Hesperia, XII, 1943, p. 191 ss.

Agorà. - Regolari rapporti di scavo sono stati pubblicati su Hesperia a partire dal 1933, a cura soprattutto di L. T. Shear e poi di H. A. Thompson: The Athenian Agorà, I-II, Princeton 1953-1954, I; E. B. Harrison, Portrait Sculpture, II; M. B. Thompson, Coins from the Roman through the Venetian Period: H. A. Thompson, The Athenian Agorà; a Guide to the Excavations, Atene 1954; S. von Sybel, Zwölfgötteraltar aus Athen, in Ath. Mitt., IV, 1879, p. 337 ss.; C. Treu, Standtbilder der Ilias und der Odyssee zu Athen, in Ath. Mitt., XIV, 1889, p. 160 ss.; P. Kavvadìas, Νίκη ἐξ ᾿Αϑηνῶν καὶ τὸ βάϑρον τοῦ Βρυάξιδος, in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1893, p. 39 ss.; A. von Salis, Die Göttermutter des Agorakritos, in Jahrbuch, XVIII, 1913, p. 1 ss.; R. Stillwell, Architectural Studies, in Hesperia, II, 1933, p. 110 ss.; E. Vanderpool, Tholos and Prytanikòn, in Hsperia, IV, 1935, p. 470 ss.; A. W. Parsons, A Roman Water-Mill in the Athenian Agora, in Hesperia, V, 1936, p. 70 ss.; H. A. Thompson, Buildings on the West Side of the Agora, in Hesperia, VI, 1937, p. 1 ss.; L. T. Shear, A Spartan Shield from Pylos, in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1937, I, p. 140 ss.: W. Doerpfeld, Alt Athen und seine Agorà, I-II, Berlino 1937-39; A. Rumpf, Der Westrand der Agorà in Athen, in Jahrbuch, LIII, 1938, p. 115 ss.; W. Judeich, Zur Agorà von Athen, in Arch Anz., 1938, p. 382 ss.; H. A. Thompson, The Tholos of Athens and Its Predecessors, in Hesperia, Suppl. IV, 1940; W. B. Dinsmoor, The Temple of Ares at Athens, in Hesperia, IX, 1940, p. 1 ss.; R. Martin, Les édifices de la bordure occidentale de l'Agorà d'Athènes, in Bull. Corr. Hell., LXXVI-LXXVII, 1942-43, p. 348 ss.; R. Martin, La Stoa Basileios, Portiques à ailes et lieux d'assemblèe, in Bull. Corr. Hell., LXXVI-LXXVII, 1942-43, p. 274 ss.; Y. Béquignon, La "stoa de Zeus" et la stoa Royale à l'agorà d'Athènes, in Rev. Arch., serie VI, XIX-XX, 1942-43, p. 44 ss.; U. Kahstedt, Zeus-Stoà und Königs-Stoà, in Arch. Anz., 1941, c. 92 ss.; E. Vanderpool, The Route of Pausanias in the Athenian Agora, in Hesperia, Xviii, 1949, p. 128 ss.; I. Travlòs, The West Side of the Athenian Agora Restored, in Hesperia, Suppl. VIII, 1949, p. 382 ss.; M. Crosby, The Altar of the Twelve Gods in Athens, in Hesperia, Suppl. Viii, 1949, p. 82 ss.; G. P. Stevens, A Tile Standard in the Agora of Athens, in Hesperia, XIX, 1950, p. 174 ss.; H. A. Thompson, The Odeion in the Athenian Agora, in Hesperia, XiX, 1950, p. 31 ss.; R. Martin, Recherches sur l'agorà grecque, Parigi 1951; H. A. Thompson, The Altar of Tity in the Athenian Agora, in Hesperia, XXI, 1952, p. 47 ss.; P. N. Boulter, An Akroterion from the Temple of Ares in the Athenian Agora, in Hesperia, XXII, 1953, p. 141 ss.; A. Raubitschek, The Gates in the Agora, in Am. Journ. Arch., nuova serie, LX, 1956, p. 279 ss.; S. Parnicki - Pudelko, Agora, genera i rozwój, Polskie Towarzystwo Archeologiczne, Bibl. Archeol., 8, Varsavia 1957, con riassunto in francese.

Mura. - I. G., II, I2, 463 (307-06 a. C.); B. D. Meritt, Hesperia, IX, 1940, p. 66 ss.; F. Noack, Die Mauern Athens, in Ath. Mitt., XXXII, 1907, p. 123 ss., p. 474 ss.; W. Doerpfeld, Die ältesten Stadtmauern Athens, in Festschrift W. Judeich, Weimar 1929, p. 1 ss.; R. L. Scranton, The Fortifications of Athens at the Opening of the Peloponnesian War, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XLII, p. 525 ss.; R. L. Scranton, Greek Walls, Cambridge (Massachussets) 1941; A. Wilhelm, Zu der Urkunde der im Jahr 307-6 beantragten Wiederherstellung der Mauern Athens, in Abhandl. Akad. Berlin, 1941, IV; H. A. Thompson - R.L. Scranton, Stoas and City Walls on the Pnyx, in Hesperia, XII, 1943, p. 269 ss.; L. B. Holland, The Katastegasmene of the Walls of Athens, in Am. Journ. Arch., nuova serie, LIV, 1950, p. 337.

Monumenti e scavi nei varî quartieri della città. - Hephaistèion: B. Sauer, Das sogenannte Theseion und sein plastischer Schmuck, Lipsia 1899; D. B. Thompson, The Garden of Hephaistos, in Hesperia, VI, 1937, p. 396 ss.; W. B. Dinsmoor,Observations on the Hephaisteion, in Hesperia, Suppl. V, 1941; W. B. Dinsmoor, Notes on the Interior of the Hephaisteion, in Hesperia, XIV, 1945, p. 364 ss.; G. Gullini, L'Hephasteion di Atene, in Arch. Class., I, 1949, pagina 11 ss.; H.A. Thompson, The Pedimental Sculpture of the Hephaisteion, in Hesperia, XVIII, 1949, p. 230 ss.; B. H. Hill, The Interior Colonnade of the Hephaisteion, in Hesperia, Suppl. VIII, 1949, p. 190 ss.; W. H. Plommer, Three Attic Temples, in Annual of the British School at Athens, XLV, 1950, p. 78 ss.; G. P. Stevens, Grilles of the Hephaisteion, in Hesperia, XIX, 1950, p. 165 ss.; G.P. Stevens, Some Remarks upon the Interior of the Hephaisteion, in Hesperia, XIX, 1950, p. 143 ss.; S. Papaspyridi-Karuzu, Alkamenes und das Hephaisteion, in Ath. Mitt., LXIX-LXX, 1954-55, p. 67 ss.; H. Koch, Studien zum Theseustempel in Athen, Berlino 1955. - Zona ad occidente dell'Acropoli: W. Doerpfeld, Die Ausgrabungen an der Enneakrunos, in Ath. Mitt., XVII, 1892, p. 439 ss.; XIX, 1894, p. 143 ss.; A. Koerte, in Ath. Mitt., XXI, 1896, p. 207 ss.; H. Schraeder, in Ath. Mitt., XXI, 1896, p. 265 ss.; C. Watzinger, in Ath. Mitt., XXVI, 1901, p. 305 ss.; W. Doerpfeld, Antike Denkmäler, II, 1901, p. 4; A. Frickenhaus, Das Herakleion von Melite, in Ath. Mitt., XXXVI, 1911, p. 113 ss.; A. Frickenhaus, Das athenische Lenaion, in Jahrbuch, XXVII, 1912, p. 80 ss.; D. Burr, A Geometric House and a Proto-attic Votive Deposit, in Hesperia, II, 1933, p. 542 ss.; O. Walter, Der Säulenbau des Herakles, in Ath. Mitt., LXII, 1937, p. 41 ss.; O. Broneer, The Thesmophorion in Athens, in Hesperia, XI, 1942, p. 128 ss.; R. S. Young, An Industrial District of Ancient Athens, in Hesperia, XX, 1951, p. 135 ss.; B. D. Meritt, The Entrance to the Aeropagus, in Hesperia, XXII, p. 129 ss. - Pnice: B. D. Theofanidis, ῾Η ᾿Αϑηνᾶ τῆς Πνυκός, in ᾿Αρχαιολογικὸν Δελτίον, XIII, 1930-31, p. 171 ss.; K. Kuruniotis - H. A. Thompson, The Pnyx in Athens, in Hesperia, I, 1932, p. 290 ss.; H. A. Thompson, Pnyx and Thesmophorion, in Hesperia, V, 1936, p. 151 ss.; E. Meyer, Pnyx, in Pauly-Wissowa, XXI, 1951, c. 1106 ss. - Zona a N dell'Agorà: N. Kyparissis, ῾Ο καϑημένος ἀρχαϊκὸς Διόνυος, in ᾿Αρχαιολογικὸν Δελτίον, XIII, 1930-31, p. 119 ss.; N. Kyparìssis - H. A. Thompson, A Sanctuary of Zeus and Athena Phratrios newly Found in Athens, in Hesperia, VII, 1938, p. 612 ss. - Zona ad E dell'Agorà: G. Guidi, Il muro valeriano a S. Demetrio Katiphori e la questione del Diogeneion, in Annuario atene, IV-V, 1921-22, p. 33 ss.; P. F. D. Stravropùlos, ᾿Ανασκαϕαὶ ῾Ρωμαϊκῆς ᾿Αγορᾶς, in ᾿Αρχαιολογικὸν Δελτίον, XIII, 1930-31, Παράρτημα, p. 1 ss.; H. S. Robinson, The Tower of the Winds and the Roman Market-Place, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XLVII, 1943, p. 291 ss.; M. Sisson, The Stoa of Hadrian at Athens, in Papers of the British Shchool at Rome, XI, 1929, p. 50 ss.; I. Travlòs, ᾿Ανα-σκαϕαὶ ἐν τῇ βιβλιοϑήκῃ τοῦ ῾Αδριανοῦ, in Πρακτικὰ τῆς ᾿Αρχαιολογικῆς ῾Εταιρίας, 1950, p. 41 ss. - Zona a S dell'Acropoli: I. Threpsiàdis, ᾿Ανασκαϕαὶ νοτίως τῆς ᾿Ακροπόλεως, in Πρακτικὰ τῆς ᾿Αρχαιολογικῆς ῾Εταιρίας, 1950, p. 64 ss. - Zona dell'Olympièion: G. Welter, Das Olympieion in Athen, in Ath. Mitt., XLVII, 1922, p. 61 ss.; LXVIII, 1923, p. 182 ss.; I. Travlòs, ᾿Ανασκαϕικαὶ ἔρευναι παρὰ τὸ ᾿Ολυμπιεῖον, in Πρακτικὰ τῆς ᾿Αρχαιολογικῆς ῾Εταιρίας, 1949, p. 25 ss. - Zona a NE dell'Acropoli: A. Philadelpheus, ᾿Ανασκαϕὴ παρὰ τὸ Λυσικράτειον μνημεῖον, in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1921, p. 83 ss.; G. Welter, Die Tripodenstrasse in Athen, in Ath. Mitt., XLVII, 1922, p. 72 ss.; H. Riemann, Lysikratesmonument, in Pauly-Wissowa, Suppl. VIII, 1956, c. 266 ss.; H. Riemann, Tripodes, in Pauly-Wissowa, Suppl. VIII, 1956, c. 861 ss. - Mousèion: M. Santangelo, Il Monumento di C. Iulius Antiochus Philopappus, in Annuario Atene, nuova serie, III-V, 1941-43, p. 153 ss. - Ceramico: K. O. Mylonàs, Αἱ παρὰ τὸ Δίπυλον ἀνασκαϕαί, in Πρακτικὰ τῆς ᾿Αρχαιολογικ ς ῾Εταιρίας, 1890, p. 19 ss.; A. Brueckner, Der Friedhof am Eridanos bei der Hagia Triada zu Athen, Berlino 1909; A. Brueckner, Kerameikosstudien, in Ath. Mitt., xxxv, 1910, p. 183 ss.; G. P. Oikonòmos, Aus dem Dipylon, in Ath. Mitt., XXXVII, 1912, p. 226 ss.; K. Karuniòtis, Κεραμεικοῦ ἀνα-σκαϕαί, in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1913, p. 183 ss.; A. Brueckner, Mittheilungen aus dem Kerameikos, in Ath. Mitt., XL, 1915, p. 1 ss.; A. Brueckner - E. Buschor, Mittheilungen aus dem Kerameikos, in Ath. Mitt., LI, 1926, p. 128 ss., p. 142 ss.; E. Buschor, Mittheilungen aus dem Kerameikos, in Ath. Mitt., LII, 1927, p. 205 ss.; K. Kübler, Mittheilungen aus dem Kerameikos, in Ath. Mitt., LIII, 1928, p. 169 ss.; A. Brueckner - F. Wirth - B. Pick - K. Kübler - F. Muthmann - W. Zschietzschmann, Mittheilungen aus dem Kerameikos, in Ath. Mitt., LVI, 1931, p. 1 ss., p. 33 ss., p. 59 ss., p. 75 ss., p. 87 ss., p. 90 ss. Altre relazioni di scavo dettagliate a cura soprattutto di K. Gebauer e K. Kübler sono in Arch. Anz., 1932-1940; 1942-1943; Kerameikos. Ergebnisse der Ausgrabungen, I-V, Berlino 1939-1954; I, W. Kraiker - K. Kübler, Die Nekropolen des 12. bis 10. Jahrhunderts; II, H. Riemann, Die Skulpture von 5. Jahrhundert bis in römische Zeit; III, W. Peek, Inschriften, Ostraka, Fluchtafeln, IV, K. Kübler, Neufunde aus der Nekropole des 11. und 10. Jahrhunderts; V, K. Kübler, Die Nekropolen des 10. bis 8. Jahrhunderts.

Zone extraurbane, sobborghi. - Zona dell'Ilisso: A. Suiàs, Περὶ τῆς ἐν τῇ κοίτῃ τοῦ ᾿Ιλισοῦ ἀνασκαϕῆς, in Πρακτικά τῆς ᾿Αρχαιολογικῆς ῾Εταιρίας, 1893, p. 111 ss.; A. Suiàs, ᾿Ανασκαϕαὶ παρὰ τὸν ᾿Ιλισόν, in Πρακτικὰ τῆς ᾿Αρχαιολογικῆς ῾Εταιρίας, 1897, p. 73; F. Studniczka, Zu den Friesplatten vom ionischen Tempel am Ilissos, in Jahrbuich, XXXI, 1916, p. 169 ss.; Ch. Karùzos, ᾿Απὸ τὸ ῾Ηράκλειον τοῦ Κυνοσάργους, in ᾿Αρχαιολογικὸν Δελτίον, VIII, 1923, p. 85 ss.; I.K. Konstantìnos, ῾Ο κοῦρος τοῦ ᾿Ιλισσοῦ, in ᾿Αρ-χαιολογικὸν Δελτίον, XIV, 1931-32, p. 41 ss.; H. Moebius, Das Metroon in Agrai, in Ath. Mitt., LX-LXI, 1935-36, p. 234 ss.; I. Miliàdis, ᾿Ανα-σκαϕὴ παρὰ τὴν κοίτην τοῦ ᾿Ιλισοῦ, in Πρακτικὰ τῆς ᾿Αρχαιολογικῆς ῾Εταιρίας, 1953, p. 47 ss. - Accademia di Colonos: P. Aristòfron, Αἱ ᾿Ανασκαϕαι κατὰ τὴν ᾿Ακαδήμειαν τοῦ Πλάτωνος, in Πρακτικὰ ᾿Ακαδημείας ᾿Αϑηνῶν, VIII, 1933, p. 74 ss.

Le Necropoli. - A. Brueckner - E. Pernice, Ein attischer Friedhof, in Ath. Mitt., XVIII, 1893, p. 73 ss.; A. Brueckner, Ein athenischer Grabfund aus der geometrischen Periode, in Ath. Mitt., XVIII, 1893, p. 414 ss.; A. Conze, Die attischen Grabreliefs, I-IV, Berlino 1893-1922; A. Philadelpheus, Βάσεις μετ᾿ ἀναγλύϕων ἀρτίως ἀνευρεϑεῖσαι, in ᾿Αρχαιο-λογικὸν Δελτίον, VI, 1920-21, p. 1 ss.; J. Kirchner, Attische Grabstelen des dritten und zweiten Jahrhunderts v. Chr., in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1937, I, p. 338 ss.; R. S. Young, Late Geometric Graves and a Seventh Century Well in the Agora, in Hesperia, Suppl. II, 1939; G. M. A. Richter, Peisistratos' Law Regarding Tombs, in Am. Journ. Arch., nuova serie, XLIX, 1945, p. 152 ss.; R. S. Young, Burials within the Walls of Athens, in Am. Journ. Arch., nuova serie, LII, 1948, p. 377 ss.; A. Tschira, Eine römische Grabkammer in Kephissia, in Arch. Anz., 1948-49, c. 83 ss.; R. S. Young, An Early Geometric Grave near the Athenian Agora, in Hesperia, XVIII, 1949, p. 275 ss.; K. Kübler, Der attische Grabbau, in Athenische Mitteilungen, IV, 1949, p. 7 ss.; R. S. Young, Sepulturae intra urbem, in Hesperia, XX, 1951, p. 67 ss.; C. W. Blegen, Two Athenian Grave Groups of about 900 b. C., in Hesperia, XXI, p. 279 ss.; E. D. Townsend, A Mycenaean Chamber Tomb under the Temple of Ares, in Hesperia, XXIV, 1955, p. 187 ss. - Atene in età tardoromana; G. Sotirìos, Παλαιὰ χριστιανικὴ βασιλικὴ ᾿Ιλισῶ, in ᾿Εϕημερὶς Αρχαιολογική, 1919, p. 1 ss.; F. W. Deichmann, Die Basilika im Parthenon, in Ath. Mitt., LIII-LIV, 1938-39, p. 127 ss.; I. Travlòs, ῾Η παλαιοχριστιανικὴ βασιλικὴ τοῦ ᾿Ασκλη πιεῖου τῶν᾿ Αϑηνῶν, in ᾿Εϕημερὶς ᾿Αρχαιολογική, 1939-42; M. Chatzidàkis, ᾿Ανα-σκαϕαὶ ἐν ᾿Αϑήναις κατὰ τὴν βασιλικὴν τοῦ ᾿Ιλισσοῦ, in Πρακτικὰ τῆς ᾿Αρχαιολογικῆς ῾Εταιρίας, 1945-48, p. 69 ss.

(W. Johannowski)

Museo dell'Acropoli. - Costruito nel 1866-73 in una depressione sul margine SE dell'Acropoli, il museo raccolse gli oggetti scoperti negli scavi iniziati sull'acropoli di A. fin dal tempo della liberazione dalla guarnigione turca (1833), e già conservati in depositi improvvisati (nella Pinacoteca dei Propilei, nella moschea del Partenone, in costruzioni moderne presso l'Eretteo ecc.), e quelli che ad essi si aggiunsero dopo gli scavi del Kavvadias, del Dörpfeld, del Kawerau, che portarono alla luce il prezioso materiale anteriore alla distruzione persiana dell'Acropoli (480 a. C.). Ordinato dal Kavvadias, coadiuvato dallo Studniczka, dal Winter, dal Léchat e dal Brückner, secondo una sistemazione che rimase pressoché inalterata dal 1912 agli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, il museo si presentava come un complesso formato da due basse costruzioni: la maggiore, il vero e proprio museo, articolata in dieci sale più un vestibolo, e la minore, detta "piccolo museo", adibita a magazzino per oggetti di minore importanza o non ancora classificati. Nel 1956 è stata intrapresa una nuova sistemazione che contempla l'eliminazione del "piccolo museo" e la costruzione di un solo edificio ingrandito sul sito del vecchio museo, con annesso un deposito. Nelle sale di questo museo, illuminato con luce solare rafforzata da un'illuminazione artificiale con lampade a giorno, si trovano disposte, secondo nuovi criteri, le sculture che le vicende belliche avevano segregato nei rifugi ed alcune delle quali avevano avuto temporanea esposizione nel Museo Nazionale di Atene. In occasione di questo nuovo ordinamento è stato provveduto alla rimozione ed alla sostituzione dei perni metallici ottocenteschi posti nelle sculture in marmo.

L'insieme degli oggetti conservati nel museo consente di tracciare il quadro più completo della scultura attica dal VII al IV sec. a. C. Il gruppo più antico è rappresentato dal complesso dei resti dei frontoni arcaici in poros, un calcare tenero, di provenienza locale, usato precedentemente al marmo. Essi appartengono a due edifici monumentali ed a piccoli edifici (templi o tesori?) non identificati, databili entro la fine del VII e la prima metà del VI sec. a. C. I due edifici monumentali sono stati identificati, anche se con talune riserve: il primo con un tempio absidato, predecessore del Partenone (Urparthenon) cui apparterrebbe un unico frontone decorato da due leoni affrontati divoranti ciascuno un toro (fine VII, inizio VI sec. a. C.); il secondo con un primo Hekatòmpedon in poros, periptero, con i due frontoni sormontati da una Gorgone come acroterio centrale. I cospicui resti della decorazione frontonale di quest'ultimo hanno consentito di identificare nel frontone occidentale due leoni affrontati divoranti un'unica preda e, ai lati, Eracle lottante con Tritone ed un vecchio tricefalo (Proteo?); e nel frontone orientale due leoni araldicamente affrontati ai cui lati sono due grossi serpenti (580-570 a. C.). La vivacità del colore, il potente vigore delle masse monumentali e talune precise individuazioni stilistiche pongono queste sculture fra i più preziosi incunaboli dell'arte arcaica greca in genere, e di quella attica in particolare. Le sculture dei piccoli frontoni illustrano miti locali espressi con rigidità paratattica delle figure e vivido senso del colore, di cui anche qui restano sensibili tracce: abbiamo così il frontone dell'Idra, ove Eracle assistito da Iolao lotta contro l'idra di Lerna, il frontone dell'olivo, che riproduce probabilmente l'episodio dell'agguato di Achille a Troilo, il frontone rosso, il frontone dell'apoteosi di Eracle.

A questo nutrito gruppo di sculture frontonali segue la serie preziosissima delle statue a tutto tondo: prime fra tutte le Kòrai, simulacri di fanciulle, probabilmente offerte votive alla divinità femminile dell'Acropoli. Suddivise in tre gruppi, secondo una precisa partizione cronologica fissata dal Payne, esse si distribuiscono dal 550 al 480 a. C. lungo un arco che, dall'arcaismo maturo, attraverso le raffinatezze auliche e manieristiche dell'età dei Pisistratidi, si piega alla stringatezza dello stile severo. Alcune di esse serbano ancora visibilissime tracce di colore di cui si è debitori alla cosiddetta colmata persiana, entro cui furono rinvenute, e che le preservò dalla ingiuria del tempo. Menzioneremo ad esempio e rispettivamente per ciascuno dei tre gruppi: la Kore col peplo (n. 679, datata 540-530), singolare per la sensibilissima trattazione delle superfici unite del volto e del corpo e di altissima qualità artistica; la Kore 682 (datata 530-525), vicina stilisticamente alle Cariatidi del Tesoro dei Sifni, estremamente elaborata e preziosa e che trae dal nuovo vestiario, il chitone, una ulteriore ragione per dispiegare un minuto decorativismo; la Kore detta di Antenor (n. 681), prossima alla precedente ma su un indirizzo di maggiore semplicità e che una supposta pertinenza con una base firmata da Antenor aveva fatto attribuire allo scultore del tempio degli Alcmeonidi a Delfi, e, infine, la più recente delle Kòrai, quella detta di Eutidikos, che porta già nel volto pieno e fermo l'impronta della grande scultura attica dello stile severo.

Alle Kòrai si affiancano una serie di immagini virili, a partire dal Moscoforo di Rhombos, (o Kombos), la più antica statua in marmo dell'Acropoli (570-560), il primo gruppo a tutto tondo dell'arte attica, il Cavaliere Rampin, genialmente ricomposto dal Payne da una testa del Louvre e un torso di cavaliere dell'Acropoli (560-550), l'Efebo detto di Kritios (490 a. C.) e l'Efebo biondo (restano tracce di color oro nei capelli), che chiude cronologicamente i ritrovamenti della colmata persiana (480-479). Aggiungeremo fra le opere del VI sec., che esulano da tali partizioni tipologiche, l'Atena seduta di Endoios, il rilievo del Maestro vasaio e quello della Dea montante sul cocchio, opere preziosamente arcaizzanti dell'ultimo quarto del VI sec., il frontone dell'Hekatòmpedon pisistratico con la lotta di Atena e dei giganti (520-510). Gli studî del Payne e dello Schrader hanno intessuto una fitta rete di rapporti fra le varie opere, ricostruendo scuole, ascendenze, attribuzioni e sfatando soprattutto erronee interpretazioni stilistiche. Al Payne si devono poi talune geniali ricostruzioni, come quella già menzionata del Cavaliere Rampin e l'altra della Kore di Lione, o Afrodite con la colomba, di cui la parte superiore della figura era conservata a Lione e ritenuta opera ionica e quella inferiore si trovava al Museo della Acropoli.

Per importanza storica e valore artistico al gruppo prepersiano del Museo dell'Acropoli si contrappone quello classico, pericleo, che raccoglie quelle parti della decorazione scultorea del Partenone che non emigrarono all'estero, come il fregio della balaustra di Atena Nike e il fregio dell'Eretteo. Del Partenone restano alcuni frammenti appartenenti alle sculture frontonali e alle metope della centauromachia (lato meridionale) e della Iliupersis (lato settentrionale), buona parte del fregio del lato N (processione dei cavalieri, dei cocchî, dei vecchi, dei portatori di anfore), alcune delle divinità sedute del lato E e dei cavalieri del lato S. Dei rilievi del lato O, tuttora in situ, sono al museo due soli frammenti. Il fregio della balaustra di Atena Nike non ha soggiaciuto alla triste diaspora che tra Parigi, Londra e Atene ha smembrato l'opera di Fidia, ed appare quindi in un complesso omogeneo di ventotto lastre intere, più alcuni frammenti (originariamente le lastre dovevano essere circa trentacinque). Intorno a due figure sedute di Atena sono rappresentate una serie di Nikai alate che si legano il sandalo, reggono trofei marittimi e terrestri, compiono sacrifici, ecc. Vi si riconoscono le mani di più artisti, ma la concezione è unitaria e rispecchia uno stile immediatamente post-partenonico, secondo un gusto disegnativo e raffinato che impronterà la maggiore corrente attica della fine del V e dell'inizio del IV sec. e che è stato ricondotto al nome di Kallimachos. Il fregio dell'Eretteo si presenta così lacunoso, per guasti subiti fin dall'antichità, che il suo stesso soggetto rimane, se non del tutto oscuro, comunque piuttosto incerto (scene di vita domestica? leggenda di Erittonio e antichi cicli attici?). Queste sculture, tutte in pentelico, erano fissate su lastre di marmo bluastro di Eleusi; per le loro diverse dimensioni esse sono state divise in due gruppi (il fregio N richiedeva figure di proporzioni maggiori). Le caratteristiche stilistiche le pongono in un clima molto prossimo all'arte del Partenone (si datano 421-408). Al complesso di opere di ambiente fidiaco va aggiunto un gruppo marmoreo ove si è riconosciuto, con una certa attendibilità, il gruppo di Procne e Ithys di Alkamenes, menzionato da Pausania sull'Acropoli; purtroppo le condizioni di quest'opera non consentono di raggiungere attraverso essa validi chiarimenti sulla figura di questo scultore, compagno ed insieme allievo di Fidia.

Il Museo dell'Acropoli è ricco altresì di una serie di terrecotte votive che risalgono fino all'epoca micenea, di varî rilievi votivi e funerarî che scendono fino in epoca romana e di molte altre opere.

Bibl.: S. Reinach, La formation des Musées d'Athènes, 1898, in Amalthée, T. II, Parigi 1930, XXVII, 467-483; G. Dickins, Catal. of the Acrop. Museum, I, Cambridge 1912; G. Sotiriadis, The Acropolis and Its Museum, Atene 1912; G. Bendinelli, Studi intorno ai frontoni arcaici ateniesi, in Ausonia, X, 1921, 109-149; St. Casson, Catal. of the Acrop. Museum, II, Cambridge 1921; O. Walter, Beschreibung der Reliefse im kleinen Akropolismuseum in Athen, Vienna 1923; H. Schrader, Die archaischen Marmorbildwerke der Akropolis, Francoforte s. M. 1939; E. Lapalus, Le fronton sculpté en Grèce, Parigi 1947; H. Payne, Archaic Marbre Sculpt. Acropolis2, Londra 1950.

(L. Vlad Borrelli)

Museo dell'Agorà. - Il Museo dell'Agorà di A. raccoglie il materiale proveniente dallo scavo dell'antica piazza del mercato e dei suoi dintorni e comprende circa 65 mila oggetti catalogati. Il museo è installato nella Stoà di Attalo, una delle maggiori costruzioni dell'Agorà eretta da Attalo II di Pergamo (159-138 a. C.) e riedificata a tale scopo negli anni 1953-57. L'esposizione pubblica è limitata al piano terreno, mentre il materiale di interesse per gli studiosi è collocato nel piano superiore e nelle stanze di deposito del piano interrato. Di eccezionale importanza per l'antica storia di A. sono le suppellettili di una serie ricca e continua di tombe, che va dal XVI al VI secolo a. C.: notevoli gli avorî, gli ornamenti in oro ed i vasi provenienti da una tomba a camera reale, del periodo miceneo (circa 1350 a. C.), i vasi ed i gioielli di un cimitero di famiglia comprendente 22 tombe, in massima parte riccamente arredate, del tardo periodo geometrico (VIII-VII sec. a. C.). La storia delle ceramiche ateniesi può essere ricostruita nei suoi particolari, dal periodo neolitico al periodo turco, soprattutto dal materiale ricuperato da pozzi e cisterne. La raccolta contiene una varietà di pezzi di alto valore artistico (l'anfora del Pittore di Nesso, il cratere in forma di calice di Exekias, la tazza a figure rosse di Gorgos), ma la sua maggiore particolarità è di documentare con completezza il vettovagliamento ordinario e l'arredamento culinario di una famiglia ateniese. Il V sec. è ben rappresentato nella scultura in marmo: figure provenienti dal frontone del Tempio di Efesto (il cosiddetto Thesèion), dal Tempio di Ares e dalla Stoà di Zeus, una Nereide stante ed una testa in bronzo, un tempo dorata, di Nike. Una serie di circa 6o ritratti in marmo, databili principalmente entro i primi tre secoli della nostra èra. Eccellente, fra le terrecotte, la figura di un fanciullo inginocchiato (circa 535 a. C.).

Di singolare interesse sono i pezzi relativi alle antichità pubbliche: pesi e misure regolamentari provenienti dalla Thòlos; palline in bronzo e urne per votazioni, in marmo (klerotèria); un orologio ad acqua in terracotta, per i tribunali; e più di 1200 òstraka (frammenti di coccio sui quali si scrivevano i nomi nelle votazioni di condanna a misura di polizia di carattere politico), con i nomi di Aristide, Temistocle, Pericle, e di tutti gli altri che furono notoriamente sottoposti all'ostracismo. Fra le iscrizioni, in numero di circa 7000, vi sono quelle della base dei Tirannicidi e di un monumento commemorativo di Maratona, e, inoltre, una legge riguardante la tirannia, approvata nel 336 a. C.

Bibl.: The Athenian Agora: A Guide to the Excavations, Atene 1954; Hesperia, I, 1932, e anni seguenti (con i rapporti preliminari degli scavi e dei ritrovamenti); Results of the Excavations in the Athenian Agora, I, 1953 e seguenti (studî definitivi per categorie di materiali).

(H. A. Thompson)

Museo del Ceramico. - Prende il nome dalla regione che gli antichi Ateniesi chiamavano Ceramico o quartiere del vasaio, ove il museo fu costruito nel 1937, a spese di un mecenate americano, Gustav Oberlaender, per accogliere i materiali provenienti dagli scavi tedeschi nella zona del Cimitero del Ceramico, presso la porta del Dipylon.

È particolarmente importante per la storia della ceramica attica arcaica, che qui possiamo seguire grado a grado, dal suo sorgere nella tarda Età del Bronzo (tombe submicenee del principio del sec. XI a. C.), attraverso le fasi proto-geometrica (fine del sec. XI e X), geometrica (sec. IX e VIII) e proto-attica (sec. VII), fino allo stile a figure nere del sec. VI a. C. I vasi provengono da tombe che si sovrappongono e si intersecano in un'area relativamente piccola, in cui è stata attentamente osservata la stratigrafia (W. Kraiker-K. Kubler) e da cui si sono ricavati quindi elementi cronologici abbastanza sicuri per la datazione dei materiali rinvenuti. Unica per ricchezza di esemplari è la serie dei vasi proto-geometrici. Notevolissima è pure quella proto-attica: essa accoglie fra l'altro vasi decorati con figurine in terracotta, che si considerano fra i primi esempi di plastica attica. Alcuni vasi dipinti a figure rosse e alcune lékythoi a fondo bianco del V sec. a. C., nonché ceramiche di età ellenistica completano la collezione vascolare. Vi sono inoltre alcune sculture arcaiche provenienti dalle vicine mura di Temistocle; stele funerarie di età classica, fra cui famosa quella per il cenotafio di Dexileos, cavaliere ateniese morto nella guerra di Corinto (394 a. C.), e numerose epigrafi (decreti, iscrizioni funerarie e òstraka).

Gli oggetti sono disposti in sei sale, di cui una per la scultura e le iscrizioni, le altre per la ceramica.

Bibl.: Arch. Anz., 1932, c. 183 ss.; 1933, c. 262 ss.; 1934, c. 196 ss.; 1935, c. 260 ss.; 1936, c. 181 ss.; 1938, c. 586 ss.; 1940, c. 308 ss.; 1943, c. 339 ss.; Kerameikos, Ergebnisse der Ausgrabungen, I-V, I, Berlino 1939-54; W. Schwabacher, Hellenistische Reliefkeramik im Kerameikos, in Am. Journ. Arch., XLV, 1941, p. 182 ss.; tavv. I-X; G. Karo, An Attic Cemetery, Filadelfia 1943; R. Lullies, Attisch-schwarzfigurige Keramik aus dem Kerameikos, in Jahrbuch, 61-62, 1946-47, pp. 55-75, tav. 1-23; G. Hopper, in Annual of the British School of Athens, XLIV, 1949, pp. 254-257; K. Kübler, Altattische Malerei, Tubinga 1950; V. R. Desborough, Protogeometric Pottery, Oxford 1952, pp. 1-126, 204; Bull. Corr. Hell., LXXVIII, 1954, p. 106, figg. 9-11.

(P. Pelagatti)

Museo Nazionale. - È uno dei più importanti del mondo per quanto riguarda l'arte della Grecia antica, in continua via di arricchimento per opera degli scavi compiuti sul suolo nazionale dallo Stato, dalla Società Archeologica Greca e dalle Scuole straniere. Fu costituito tra il 1866 e il 1889 con un primo nucleo di oggetti provenienti dal museo di Egina - che aveva funzionato come museo centrale della Grecia dal 1829 al 1834 - e dalle collezioni provvisorie del Theseion, del Varvakeion, della Torre dei Venti e della Biblioteca di Adriano. I lavori di ampliamento e di riordinamento, iniziati dopo la seconda guerra mondiale e tuttora in corso, doteranno il museo di 50 sale di esposizione, di cui tre destinate alle collezioni preistoriche, le altre alle antichità greche e romane, nonché alla piccola collezione egiziana, dono di privati. Due sezioni separate, dedicate alle iscrizioni e alle monete, costituiscono rispettivamente il Museo Epigrafico e il Museo Numismatico.

Le collezioni di antichità greche e romane sono suddivise in due sezioni: la scultura e i bronzi al piano inferiore; i vasi, le terrecotte e i piccoli oggetti al piano superiore. La suddivisione non è tuttavia rigida: al piano inferiore infatti continueranno ad essere esposti alcuni dei vasi più significativi che serviranno ad inquadrare le sculture e a dare una visione più completa dell'arte di ogni epoca. La presentazione segue l'ordine cronologico. All'interno di ciascun grande periodo i materiali sono raggruppati per stile, le opere di un medesimo artista o di una medesima officina sono poste le une accanto alle altre. Ove è stato possibile, si è cercato di non disperdere i complessi provenienti da un medesimo luogo (ad es. santuario, necropoli, corredo tombale), la cui unità poteva essere particolarmente significativa. Nell'esposizione dei vasi si è adottato, per alcuni tipi - quali ad es. anfore e crateri - il criterio di lasciarli all'aria libera, criterio che ravviva l'oggetto e interrompe la monotonia delle vetrine.

La sezione preistorica accoglie i rinvenimenti neolitici della Tessaglia (vasi dipinti e figurine in terracotta e in marmo delle stazioni di Sesklo e Dimini), e in generale i rinvenimenti premicenei della Grecia centrale: sono esposti, fra l'altro, i ritrovamenti di Halai (Locride), così come le belle ceramiche di Raphina che ci mostrano i tipi della produzione attica protoelladica (2500-2000 a. C.). Vi è inoltre una piccola serie di ceramiche dell'Età del Bronzo provenienti da Troia (dono S. Schliemann), con forme caratteristiche quali l'elegante bicchiere a due anse nel quale si è voluto riconoscere il "dèpas amphiköpellon" menzionato da Omero ("coppa di Nestore"). Altre ceramiche simili sono quelle provenienti dalla città preistorica di Poliochini, nell'isola di Lemno, esposte insieme ad un notevole complesso di gioielli in oro, rinvenuto nel 1956, di cui alcuni identici a quelli del famoso "Tesoro di Priamo", scoperto nella II città di Troia e già nei Musei di Berlino (v.).

Un'intera galleria è dedicata ai prodotti dell'Età del Bronzo delle Cicladi (Paros, Syros, Naxos, Amorgos, Siphnos): famosa è la serie degli idoli in marmo insulare, da quelli a forma di violino agli altri in figura umana; particolarmente importante è il complesso dei rinvenimenti di Phylacopi nell'isola di Melos (Milo), con la caratteristica ceramica dipinta influenzata dalla contemporanea produzione cretese; vi sono inoltre i vasi in argilla bruna a forma di padella, con decorazione a motivi lineari incisi, dell'isola di Syros, e i materiali di Naxos (scavi K. Stephanos), provenienti da tombe i cui corredi sono stati ricostituiti e esposti nella loro completezza.

Eccezionale per lo splendore degli ori è la grande sala micenea: essa contiene, fra l'altro, tutti gli oggetti provenienti dai due "Circoli delle tombe" di Micene (il primo scoperto nel 1877 da H. Schliemann sull'acropoli, e il secondo nel 1951 da J. Papadimitriou presso la tomba a cupola di Clitennestra). Oltre alle famose maschere funerarie in lamina d'oro e di elettro, vi è una ricchissima serie di gioielli e di ornamenti di vario tipo decorati a sbalzo, vasellame - fra cui alcuni rhytà in forma di testa di animali -, spade con lamina ageminata e armi di ogni genere; oggetti in avorio, in alabastro, in cristallo di rocca. Provengono inoltre da Micene alcune stele funerarie dipinte o decorate a basso rilievo; resti della decorazione marmorea della facciata della tomba a cupola detta il Tesoro di Atreo; numerose ceramiche, fra cui il famoso "vaso dei guerrieri" rinvenuto in una delle case entro la cittadella; il gruppo di due donne sedute e bambino, finissimo avorio scolpito che occupa un posto particolare nell'arte dell'Età del Bronzo della Grecia, nonché una testa femminile in calcare, forse appartenente a una figura di sfinge, uno dei rari esempi di plastica micenea.

Una ricca esemplificazione di prodotti in metalli preziosi, in pietre dure e in argilla, della tarda Età del Bronzo, è offerta pure dagli altri centri dell'Argolide quali Prosymna, Midea e Tirinto: da quest'ultima provengono inoltre numerosi frammenti di affreschi, decorati con scene figurate, che ornavano le sale del palazzo. Altro importante complesso è quello proveniente dalle tombe a cupola scoperte nel 1956 in Messenia, a poca distanza dal palazzo di Epano Englianos che si è identificato con Pylos, la reggia di Nestore descritta da Omero. Si tratta di oggetti databili alla tarda Età del Bronzo: armi riccamente decorate, gioielli ed ornamenti d'oro, numerosissimi sigilli, vasi dipinti. Dagli archivi del palazzo di Pylos - come pure da quelli del palazzo di Micene - provengono preziose serie di tavolette iscritte in "lineare B", la scrittura usata nell'età micenea, propria di una lingua in cui recenti studî (M. Ventris - J. Chadwick) hanno riconosciuto un'arcaica forma di greco. Vanno menzionati inoltre i materiali delle tombe di Menidi e Spata in Attica, nonché i rinvenimenti delle due tombe a cupola di Vaphiò presso Sparta, che annoverano, fra l'altro, due famose coppe in lamina d'oro decorata a sbalzo, con rappresentazioni di caccia al toro, di un vivace effetto naturalistico.

La sezione delle sculture greche e romane e dei bronzi è fra le più ricche del mondo per quanto riguarda gli originali di età arcaica e classica. Essa accoglie - oltre ad alcuni incunabuli della scultura greca, risalenti al sec. VII a. C., quali la statua di Nikandre da Delo, il gruppo di Dermis e Kitylos da Tanagra, i frammenti delle metope dal tempio dorico di Micene - una splendida serie di koùroi, figure maschili nude, stanti, di carattere funerario o votivo, provenienti dall'Attica (Sunio, Velanideza, Atene, Anavysos, Keratea, Kalyvia), dalla Beozia (Ptoion, Orchomenos), dalle Cicladi (Thera, Melos, Kea), e databili fra gli inizi del sec. VI e gli inizi del V a. C.

Vi sono inoltre - per non citare che i pezzi più famosi - due basi rinvenute entro le mura di Temistocle, decorate con bassorilievi raffiguranti scene di giuochi e di palestra (510-480 a. C.); il grande rilievo con Demetra, Kore e Trittolemo dà Eleusi, di, arte fidiaca; frammenti della base della grande statua di Nemesi a Ramnunte; frammenti delle sculture che decoravano il tempio di Hera ad Argo, della fine del sec. V a. C.; il complesso delle sculture frontonali del tempio di Asklepios ad Epidauro, opera di Timotheos (375 a. C.), così come alcuni frammenti delle sculture dei frontoni del tempio di Atena Alea a Tegea, le uniche opere originali conservateci di Skopas; le tre lastre con Apollo, Marsia e le Muse, da Mantinea, di arte di derivazione prassitelica; il rilievo rinvenuto nel 1949 presso la stazione di Larissa ad Atene, raffigurante un cavallo e uno scudiero negro, interessante esemplare di arte ellenistica; la grande statua della dea Themis di Ramnunte. Ricchissima è inoltre la serie delle stele funerarie che testimoniano l'alto livello artistico raggiunto dall'artigianato greco nei secoli fra la fine del VI e la fine del IV a. C.: fra queste ricordiamo le stele di Alxenor e di Aristion (inizî V a. C.), la stele di Hegesò (fine V a. C.), la stele di Aristonaute e quella dell'Ilisso (fine IV a. C.)

La collezione di scultura di epoca romana annovera, fra l'altro, copie di importanti opere di età classica, quali l'Apollo detto dell'Omphalos, replica di un originale della metà del V sec., le due statue di Atena "Lenormant" e "del Varvakeion", che ci restituiscono il tipo dell'Atena Parthènos di Fidia, la statua di atleta da Delo, replica del Diadumeno di Policleto. Appartengono inoltre all'epoca romana numerosissimi ritratti, sarcofagi e rilievi.

La collezione dei bronzi - una delle più ricche del mondo - è costituita dal complesso della Collezione Carapanos (il cui nucleo principale è formato dai rinvenimenti di Dodona), dal gruppo dei bronzetti dell'acropoli di Atene, e da bronzetti provenienti da varie località, quali ad esempio Olimpia e Samo. Fra i grandi bronzi ricordiamo il Posidone di Livadostro, lo Zeus o Posidone dal Capo Artemision (460 a. C.), l'Efebo di Maratona, e l'Efebo di Anticitera, opere del IV sec. a. C.; il Fanciullo a cavallo dal Capo Artemision e il magnifico ritratto da Delo, di arte ellenistica. In bronzo è anche una ricca serie di specchi con coperchi decorati con scene figurate, elmi e vasi.

Vi è inoltre una bella serie di gioielli, fra cui quelli della Collezione Hélène Stathatos, donata nel 1957 al museo, comprendente oggetti di tutte le epoche, dalla micenea alla bizantina.

Nella sezione dei vasi - al primo piano - la ceramica attica è rappresentata con una ricchezza straordinaria: dai vasi protogeometrici a quelli del Geometrico recente (sec. X-VIII a. C.), con alcuni dei monumentali vasi decorati nello stile del Dipylon, dai vasi orientalizzanti del sec. VII (protoattici) fino al cospicuo gruppo proveniente dalle tombe di Vari, che ci documenta in modo minuzioso sul trasformarsi del gusto alla fine del secolo e sul nascere dello stile a figure nere del sec. VI; dalle opere del Pittore di Nesso e del Pittore della Chimera (620-600 a. C.) a quelle firmate da Sophilos, Lydos, Nearchos e Amasis, la bella schiera dei ceramografi operanti in Atene ai tempi di Solone e di Pisistrato. Ugualmente ben rappresentate sono le produzioni degli altri centri greci, fra i sec. IX e VI a. C.: gli stili geometrico e orientalizzante della Beozia, Focide, Argolide, Laconia, così come quelli delle Cicladi, con alcune fra le più belle anfore di Mèlos; un gruppo di vasi ciprioti, una bella serie di anfore di Eretria; ceramiche di Rodi, di Samos, di Efestia nell'isola di Lemno, nonché prodotti delle colonie greche dell'Asia Minore, come ceramiche e sarcofagi in terracotta di Clazomene. Completano il quadro della produzione greca arcaica i complessi provenienti dai santuarî di Hera presso Argo e di Perachora, ricchi di terrecotte e di ceramiche soprattutto protocorinzie e corinzie, nonché quello del tempio di Artemide Orthia a Sparta, con la numerosa serie di figurine in avorio e in piombo di gusto orientalizzante. Di notevole importanza sono inoltre le metope dipinte dal santuario di Apollo a Thermòs in Etolia (640-620 a. C.); le tavolette (ancora inedite) di Pitsà, rarissimo esempio di pittura su legno di arte corinzia della fine del VI a. C.; la ricca serie di tavolette fittili funerarie, decorate con scene di esposizione e compianto del defunto, alcune delle quali attribuite alla mano di grandi pittori come, ad esempio, Exekias.

La collezione dei vasi di età classica, se pur non è così importante come quella dei vasi arcaici e non può competere con le collezioni dei grandi musei d'Europa, accoglie tuttavia pezzi d'eccezione, quali due kölikes firmate rispettivamente da Phintias e da Douris, e vasi attribuiti alla mano del Pittore di Pan e del Pittore di Pentesilea, nonché il famoso epinetron da Eretria decorato con scene di gineceo. Ma soprattutto va menzionata la magnifica serie di lèkythoi di destinazione unicamente funeraria, a fondo bianco e decorazione policroma, che risentono, ancor più dei vasi a figure rosse, dell'influenza della grande pittura: gemme di questa collezione sono le opere del Pittore di Achille, un contemporaneo di Fidia, e del Pittore del Canneto contemporaneo di Parrasio (420-400 a. C.), fra le più belle creazioni della pittura vascolare antica.

Assai ricca è la collezione delle figurine in terracotta: da quelle arcaiche - di destinazione funeraria o votiva - piatte e schiacciate, a quelle deliziose creazioni dell'arte ellenistica che vanno sotto il nome di "tanagre". I nuclei principali provengono appunto da Tanagra in Beozia, da Tegea in Arcadia, dal Ceramico di Atene, da Myrina (Lemnos) e dalle colonie greche d'Asia Minore.

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(P. Pelagatti)

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