Associazionismo

Enciclopedia del Cinema (2003)

Associazionismo

Callisto Cosulich

Nel campo dello spettacolo, pur se la pratica dell'associazione nel teatro e nella danza risale al Medioevo, il termine associazionismo è entrato in uso soprattutto in riferimento al cinema e molto tardi: in Italia, per es., a partire dal 1966, da quando cioè è divenuta operativa la legge nr. 1213 del 4 novembre 1965 in cui, per la prima volta nella legislazione italiana, venivano ufficialmente riconosciuti i circoli affiliati alle associazioni nazionali di cultura cinematografica.

Eppure, questa parola assume in ambito cinematografico un significato del tutto peculiare. Va ricordato che esistono moltissime associazioni a carattere nazionale operanti nel campo del cinema, quasi in ogni categoria: dagli autori ai produttori, dai distributori agli esercenti, dagli attori ai direttori delle luci e ad altre varie professioni tecniche. Ma per questo tipo di associazioni la cultura rappresenta un'attività facoltativa o, se si vuole, strumentale. Il loro compito primario dovrebbe essere quello, per alcune, di supplire all'azione sindacale, là dove questa non arriva, per altre di operare in sintonia con le strategie messe in campo dalle organizzazioni degli industriali e dei commercianti. L'a. invece riguarda le associazioni a carattere nazionale che la legge definisce per l'appunto "di cultura cinematografica", cioè quelle associazioni che, attraverso i loro circoli, intendono attivare un colloquio tra l'opera e chi la fruisce: un colloquio che vada oltre il consumo passivo che si attua nella tradizionale sala cinematografica, o dinanzi al televisore entro le mura domestiche. Tale forma di colloquio, che chiameremo attiva, si è diffusa solo nel campo del cinema.

Di iniziative similari nell'ambito teatrale, almeno in Italia ‒ ma non risulta che in altri paesi la situazione sia diversa ‒ ce n'è stata una sola: quella del Teatro-Club di Anne Guerrieri, fondato a Roma nel 1953 e resosi benemerito per avere importato parecchi spettacoli stranieri di alto livello. Va notato però che il tipo di associazione richiesto dal Teatro-Club era molto elastico, dato che gli spettacoli non erano riservati ai soli soci ma vi accedeva anche il pubblico pagante. Sotto questo profilo l'iniziativa di Anne Guerrieri appare simile a quella dei 'club-cinema', cioè di quel tipo di club, a metà fra il circolo del cinema e il cinema d'essai, che prese l'avvio nel 1967 con l'inaugurazione a Roma del Filmstudio '70 e successivamente si estese alle altre maggiori città italiane. Anche nei club-cinema la tessera sociale rappresentava solo una parte delle entrate, mentre il resto proveniva dai biglietti d'ingresso che i soci erano tenuti comunque a pagare per accedere allo spettacolo. Inoltre, i club-cinema non hanno mai dato vita a un'associazione a carattere nazionale che li rappresentasse; essi sono rimasti sempre gelosi della propria individualità e di un'indipendenza che, rispetto alle norme stabilite dalla legge del 1965, sfiorava spesso l'illegalità. Anche per questo erano guardati con diffidenza dai comuni esercenti cinematografici rappresentati dall'AGIS (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo), che li ritenevano dei potenziali concorrenti, per di più operanti in condizioni di privilegio. A sua volta l'AGIS ha dato vita a un'attività culturale al servizio degli esercenti d'essai costituendo nel 1970 un Comitato nazionale per la diffusione del film d'arte e di cultura, siglato brevemente FAC.

Insomma, l'area in cui opera l'a. riguarda solo i circoli che allestiscono manifestazioni (proiezioni, dibattiti, conferenze) unicamente per i propri soci tesserati e che non perseguono fini di lucro. In definitiva, esso rappresenta solo una tappa della storia di quelle organizzazioni di pubblico che in Francia presero il nome di ciné-clubs, in Gran Bretagna e negli altri Paesi anglosassoni si sono chiamate Film Societies, in Italia circoli del cinema o cineforum. Ed è attraverso la storia di queste organizzazioni che traspare il motivo per cui solo nel caso del cinema si è sentita a un certo punto l'esigenza di dar vita a questo tipo di associazione: non nel teatro di prosa, non nell'opera lirica, non nella danza. Ciné-clubs, Film Societies e, quindi, i circoli del cinema nacquero tutti negli anni Venti, per affermare il valore artistico del film di fronte a un mondo che non era disposto ancora a riconoscerglielo, a cominciare dalla stragrande maggioranza degli intellettuali, che lo consideravano uno spettacolo da baraccone, un "piacere da iloti", come lo definì Georges Duhamel.

Nessuno dubita ormai che La passion de Jeanne d'Arc (1927; La passione di Giovanna d'Arco) di Carl Theodor Dreyer sia stata l'epitome e anche il momento più alto raggiunto da tutte le avanguardie, cinematografiche e non, del decennio. Lo stesso dicasi, in riferimento all'espressionismo, di Der letzte Mann (1924; L'ultima risata) del tedesco Friedrich Wilhelm Murnau. Ed è anche un fatto incontrovertibile che i film muti di Aleksandr P. Dovženko, di Sergej M. Ejzenštejn e di Vsevolod I. Pudovkin aprirono nuovi orizzonti espressivi, trascendendo le contingenti finalità pedagogiche, celebrative, propagandistiche dell'Unione Sovietica, lo Stato committente. Ma è altrettanto vero che questi film, e pochi altri ancora, costituivano l'eccezione, non la regola: rappresentavano un'anomalia di tipo elitario in una produzione solitamente votata a soddisfare il consumo popolare e che nel consumo popolare stava rapidamente sostituendo il romanzo d'appendice, la farsa, il teatro di varietà, il melodramma. Il quadro complessivo era dunque quello di un facile intrattenimento, che seguiva le strategie avventurose di una classe di imprenditori, più industriosi che industriali.Circoli del cinema, ciné-clubs, Film Societies nacquero appunto per reagire a questo stato di cose. Il compito che ovunque in primo luogo si prefissarono era quello di far conoscere ai propri soci le 'eccezioni' di cui si diceva, ossia film in definitiva soggetti a censura. Da parte del mercato, per carenza di valore commerciale.

Da parte delle istituzioni statuali preposte, per motivi ideologici o morali o di opportunità politica. Alcuni film d'avanguardia, come Cinq minutes de cinéma pur (1926) di Henri Chomette, Rien que les heures (1926) di Alberto Cavalcanti, La marche des machines (1928) di Eugène Deslaw, gli Opus (1921-1925) di Walter Ruttmann, per la prima ragione; oppure, per l'altra ragione, film come Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin) di Ejzenštejn e Mat′ (1926; La madre) di Pudovkin, dovettero a queste forme di associazione la loro, sia pur limitata, diffusione, così come, più tardi, alcuni registi quali Joris Ivens, Henri Storck, Jean Grémillon, Claude Autant-Lara, a esse dovettero l'inizio della propria carriera.L'altro aspetto che sottolinea la singolarità del cinema, la sua sottomissione alle tradizioni e alle leggi dell'industria, è l'incapacità di creare un repertorio di film da rappresentare a distanza di anni per le nuove generazioni di spettatori. Il lessico contemporaneo li definisce, se non film classici, film di culto. Ma si tratta di un culto che riguarda pochi appassionati, chiamati cinéphiles anche fuori dai confini francesi.

Se il teatro vive prevalentemente sui suoi classici e la drammaturgia contemporanea ha una vita quanto mai effimera, il cinema vive tutto sul presente, mentre il passato ‒ salvo poche eccezioni ‒ viene presto dimenticato. Negli anni Trenta, con l'avvento del cinema sonoro e con il conseguente e fondato timore che tutti i tesori accumulati dall'arte del cinema muto sarebbero usciti dal mercato, anzi sarebbero stati mandati al macero per rispettare la logica industriale, l'azione dei circoli, dei ciné-clubs e delle Film Societies si orientò prevalentemente verso la riproposizione dei capolavori del muto nel tentativo, risultato ‒ come s'è detto ‒ vano, di creare anche nel cinema un repertorio. Ma il decennio precedente l'inizio della Seconda guerra mondiale e i successivi anni di guerra non furono certo favorevoli al movimento, che dovette attendere la fine del conflitto per registrare ovunque una forte ripresa.In Italia la rinascita dei circoli del cinema coincise con il risveglio culturale e politico che trovò la sua radice nella Resistenza e il suo alimento nel cosiddetto Neorealismo. E non fu un fenomeno meramente metropolitano, limitato alle maggiori città. Al contrario, fiorì soprattutto in provincia. È significativo che il primo circolo del cinema del dopoguerra sia stato fondato il 14 luglio del 1945 a Treviso. Nel 1947 i circoli del cinema erano già in numero tale da rendere necessario un organismo nazionale atto a rappresentarli nei confronti delle autorità, dell'industria cinematografica, delle cineteche e della Società italiana degli autori ed editori (SIAE). L'organismo assunse il nome di Federazione italiana circoli del cinema (FICC). Successivamente alcuni circoli si scissero, dando vita all'Unione italiana circoli del cinema (UICC). Con l'andar del tempo l'esigenza dei circoli del cinema si fece viva in tutti gli strati di pubblico, presso tutte le correnti ideologiche, nelle università e nelle scuole. Nacquero così gli Amici del cinema, legati soprattutto al ceto operaio e a quello contadino, i Cineforum, di tendenza cattolica, i Centri universitari cinematografici (CUC), i circoli del cinema scolastici e così via. Parallelamente si riorganizzarono i club di cineamatori che diedero vita alla Federazione italiana dei cineclub (FEDIC).

Ma il Paese dove il movimento nel dopoguerra ebbe il maggiore sviluppo fu la Francia. In breve oltre 200 associazioni si raggrupparono nella Fédération française des ciné-clubs (FFCC), che venne subito riconosciuta dalle istituzioni dello Stato per "diffondere la cultura attraverso il mezzo cinematografico". Dal 1947 la FFCC iniziò a pubblicare la rivista "Ciné-Club" che, dal novembre del 1954 cambiò testata, chiamandosi "Cinéma 54", e variando ogni anno la cifra finale sino agli anni Ottanta, durante i quali cessò definitivamente di apparire. Specie nei primi decenni, grazie al sostegno dei soci dei ciné-clubs, divenne il mensile cinematografico di Francia più diffuso e venduto.Altrettanto numerose furono nel dopoguerra le Film Societies britanniche, che facevano capo al British Film Institute, il quale attraverso la sua cineteca ‒ la Film Library ‒ provvedeva a rifornire anche i circoli dell'Impero e dei Dominions. L'elenco potrebbe continuare; ma preme piuttosto segnalare che le varie organizzazioni nazionali e, in assenza di queste, i singoli circoli si affiliarono alla Fédération internationale des ciné-clubs, costituitasi a Cannes nel settembre del 1947 e con sede a Parigi. Sebbene contasse oltre 300.000 aderenti in tutto il mondo, questo organismo non ha avuto modo di darsi un assetto operante, né di creare una vasta rete internazionale di scambio di esperienze e di pellicole.

Il caso italiano

Per quanto riguarda l'Italia, il movimento, come già anticipato, trovò nel dopoguerra il terreno favorevole per un grande sviluppo. Ciò fu dovuto soprattutto allo stato d'ignoranza in cui lo spettatore era stato tenuto durante il ventennio fascista, a causa dell'autarchia culturale imposta in modo sempre più rigido dal regime. C'era quindi da soddisfare una fame di conoscenza che altrove nel mondo era meno sentita. Ma questa situazione, obiettivamente favorevole, era controbilanciata dall'atteggiamento ostile che le autorità assunsero nei confronti sia dei singoli circoli sia della Federazione che li rappresentava. I circoli dovettero fare i conti da un lato con la sordità della burocrazia ministeriale che la Repubblica italiana ereditò quasi per intero dal fascismo, dall'altro con la guerra fredda, che spaccò il Paese in due e in parte divise anche il cinema.

Se a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta i circoli del cinema, la FICC e l'organizzazione scissionista UICC guadagnarono varie volte le prime pagine dei quotidiani e la copertina delle riviste, se essi furono oggetto di frequenti interrogazioni parlamentari, ciò non dipese dalla loro attività culturale, bensì dalle polemiche che, volenti o nolenti, finivano per suscitare. Intanto però la Storia andava avanti, il paesaggio politico e i relativi schieramenti mutavano sia sul piano internazionale sia su quello interno; la stessa figura dello spettatore era in evoluzione e con essa si trasformava il cinema, che finiva per perdere la sua centralità nella galassia audiovisiva, soppiantato nelle preferenze popolari dalla televisione. A metà degli anni Cinquanta si poteva considerare conclusa quella che gli storici dei circoli hanno chiamato la fase dell'alfabetizzazione. Si aprì perciò una seconda fase, quella che fu chiamata la fase del dibattito, durante la quale il momento più importante dell'attività non era tanto proiettare il film, quanto discuterlo a proiezione avvenuta: un'attività più compenetrata nei circoli d'ispirazione cattolica che in quelli laici aderenti alla FICC o alla UICC.

Dal canto loro le autorità costituite cambiarono progressivamente atteggiamento nei confronti del movimento, sino a invitare a una trattativa le organizzazioni nazionali che lo rappresentavano per addivenire al loro riconoscimento ufficiale. Il termine associazionismo nacque perciò in concomitanza con questo riconoscimento e venne usato per dare visibilità e parola al movimento nelle varie commissioni previste dalla legge e nello statuto della Biennale di Venezia, là dove si prende in considerazione il cinema di qualità, l'eccezione alla regola.

Ma la sistemazione giuridica non fu sufficiente a garantire lo sviluppo dei circoli che, anzi, proprio negli anni Sessanta persero la loro centralità, cedendola a nuove iniziative, quali i già citati cinema d'essai e club-cinema. Passata la bufera del Sessantotto, che investì anche l'a., il movimento entrò nella terza fase, in cui dovette misurarsi soprattutto con le strutture. "Da un lato con gli enti locali, le ramificazioni territoriali dello Stato, la scuola, gli organismi rappresentativi", scrive in proposito Sandro Zambetti (in L'altro schermo, 1978, p. 60), dirigente della Federazione italiana cineforum (FIC), "dall'altro con l'industria cinematografica, privata e di Stato nelle sue tre articolazioni della produzione, della distribuzione e dell'esercizio". Va anche notato che negli anni Settanta la gestione del cinema di qualità e la riproposizione del miglior cinema del passato divennero quasi un punto d'onore per la televisione pubblica, che alcuni hanno equiparato a un 'cineclub di massa'. Ma la concessione ai privati dell'autorizzazione a gestire reti non solo locali, bensì nazionali e, l'assenza di limiti alla trasmissione di film hanno provocato un mutamento epocale nel consumo che ha aggravato la crisi dell'a., il quale invece era rimasto legato alla legge del 1965 che lo riconosceva, ma gli imponeva dei vincoli divenuti incompatibili con la nuova situazione creatasi. La nuova legge del cinema (l. 1° marzo 1994 nr. 153) ha tolto gran parte di questi vincoli, con l'intento di ridare respiro al migliaio di circoli riuniti nelle nove associazioni riconosciute, circoli che hanno ancora una parola da dire e una missione da svolgere specie nei piccoli centri, dove il cinema in sala è scomparso ormai da decenni; e la televisione non può surrogarlo sul piano della qualità, visto che da tempo ha smesso di funzionare come un cineclub di massa.

Bibliografia

L'altro schermo, a cura di G. Grassi, Venezia 1978.

R. Siboni, L'altro sguardo, Roma 1999.

V. Tosi, Quando il cinema era un circolo, Roma 1999.

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