ASSE ECCLESIASTICO

Enciclopedia Italiana (1929)

ASSE ECCLESIASTICO

Arturo Carlo Jemolo

ECCLESIASTICO Il termine si trova adoperato nella legge 28 giugno 1866, n. 2987, che all'art. 2 dà facoltà al governo di pubblicare ed eseguire come legge le disposizioni già votate dalla camera elettiva sulle corporazioni religiose e sull'asse ecclesiastico, e questo di Legge sulla soppressione delle corporazioni religiose e sull'asse ecclesiastico è il titolo dato al susseguente decreto legislativo 7 luglio 1866, n. 3036. Legge per la liquidazione dell'asse ecclesiastico s'intitola quella 15 agosto 1867, n. 3848, che costituisce col detto decreto legislativo il caposaldo della legislazione italiana in materia di soppressione di enti ecclesiastici e di norme sul patrimonio ecclesiastico. Giunta liquidatrice dell'asse ecclesiastico di Roma era il nome dell'organo governativo istituito con l'art. 9 della legge 19 giugno 1873, n. 1402. Il termine è del pari costantemente adoperato nei progetti che precedettero le due grandi leggi eversive (Pisanelli, 18 gennaio 1864; Vacca-Sella, 12 novembre 1864; Corsi, relazione sul progetto precednte, 7 febbraio 1865; Cortese-Sella, 13 dicembre 1865; Borgatti-Scialoia, 17 gennaio 1867).

Non è qui il luogo per una elencazione completa di tutte le leggi italiane in materia di asse ecclesiastico (si vedano nel Codice del diritto puoblico ecclesiastico del Saredo, Torino 1887-91, e per il periodo posteriore nel Codice ecclesiastico, curato dalla U.T.E.T., Torino 1919). Basterà ricordare che si possono, secondo il contenuto e i criterî ispiratori, distinguere in tre gruppi:

1. La legge piemontese 29 maggio 1855 (Cavour-Rattazzi), riprodotta, con lievi varianti, nel decreto del commissario generale per l'Umbria, 11 dicembre 1860, in quello del commissario generale per le Marche, 3 gennaio 1861, in quello del luogotenente generale per le Due Sicilie, 17 febbraio 1861. Essa sopprime le corporazioni religiose (salvo quelle che attendono alla predicazione, all'educazione o all'assistenza degl'infermi), i capitoli collegiati (salvo quelli aventi cura d'anime o posti in città con oltre ventimila abitanti) e i benefici semplici. Attribuisce la proprietà dei loro beni a un apposito ente, la cassa ecclesiastica, del tutto distinto dall'amministrazione dello stato. Riconosce ai patroni dei canonicati e benefici soppressi il diritto di proprietà sui beni degli enti stessi, con l'obbligo di pagare alla cassa ecclesiastica un terzo del valore dei beni, e di lasciarle una porzione corrispondente all'ammontare dei pesi dell'ente che passassero a carico della cassa stessa. La legge appare ispirata a mitezza, specie nelle disposizioni relative alle persone dei religiosi di conventi soppressi, ad assoluto rispetto del soddisfacimento dei bisogni religiosi delle popolazioni, e a disinteresse da parte dello stato, che non viene in alcun modo, né diretto né indiretto, ad avvantaggiarsi del patrimonio degli enti ecclesiastici.

2. a) La legge 21 agosto 1862, che apporta una modificazione essenziale al regime delle precedenti leggi, facendo passare in proprietà del demanio dello stato i beni immobili degli enti soppressi, per l'innanzi di spettanza della cassa ecclesiastica, dando come corrispettivo a questa una rendita sul debito pubblico eguale a quella dei beni;

b) la legge 7 luglio 1866, con la quale sono soppresse tutte indistintamente le corporazioni religiose, e sono devoluti i beni al demanio, con l'obbligo per lo stato d'iscrivere a favore del Fondo per il culto (è il nuovo nome che assume la cassa ecclesiastica) una rendita corrispondente a quella accertata per i beni indemaniati, dedotto il 5% per spese di amministrazione: la rendita così costituita al Fondo per il culto non doveva però nelle previsioni del legislatore restare in definitiva a esso, bensì avrebbe dovuto essere corrisposta da questo per un quarto ai comuni, per tre quarti allo stato, allorché fosse venuto a cessare l'onere del pagamento delle pensioni ai religiosi delle corporazioni soppresse, e il Fondo culto avesse soddisfatto al debito eventualmente all'uopo contratto (il quarto destinato ai comuni della Sicilia doveva però essere subito pagato). La legge dispone ancora l'incameramento al demanio di tutti gl'immobili degli enti conservati (eccettuate le parrocchie) che non siano la chiesa o annessi, o l'edificio destinato a casa dell'investito o a sede dell'ufficio ecclesiastico (come episcopio, canonica, palazzo del seminario, archivio capitolare, con orti, giardini e cortili annessi), e l'iscrizione a favore degli enti di una rendita corrispondente alla rendita accertata e sottoposta al pagamento della tassa di manomorta dei beni immobili indemaniati (la cosiddetta conversione dei beni); tali disposizioni avranno vigore anche per gl'immobili che gli enti ecclesiastici acquistassero in avvenire. I beni immobili di enti soppressi o conservati incamerati al demanio sono di regola da questo alienati: salvo che si tratti di edifici monumentali o di stabili che possano direttamente servire allo stato. I fabbricati dei conventi soppressi possono non essere incamerati al demanio, ma direttamente attribuiti ai comuni o alle provincie, per venire adibiti a scuole, asili infantili, ricoveri di mendicità, ospedali o altre opere di beneficenza e di pubblica utilità;

c) la legge 15 agosto 1867, che sopprime una serie di enti del clero secolare ritenuti dal legislatore superflui (capitoli delle collegiate, chiese ricettizie, comunie, cappellanie corali, canonicati e benefizî dei capitoli cattedrali di patronato regio o laicale, istituzioni con carattere di perpetuità qualificate come fondazioni o legati pii per oggetto di culto) e ne attribuisce i beni al demanio: questo, allorché si tratti d'immobili, iscriverà a favore del Fondo culto una rendita uguale a quella di tali beni, fatta deduzione del 5% per spese di amministrazione, e, allorché si tratti di canoni, censi, livelli e decime, li assegnerà al Fondo culto, ritenendone l'amministrazione per conto di esso, e facendo la stessa assegnazione anche per i canoni, censi, livelli e decime già di spettanza di enti soppressi con la legge del '66. La legge ammette i patroni laicali dei benefizî soppressi a rivendicare entro un breve termine i beni, pagando secondo i casi il 30 o il 24% del loro valore allo stato; entro un termine più lungo, tali diritti dei patroni, e in genere ogni diritto di devoluzione e di riversibilità, può essere fatto valere non più direttamente sui beni, ma sulla rendita corrispondente inscritta. La legge impone inoltre una tassa straordinaria del 30% (cioè incamera a favore dello stato i tre decimi del patrimonio) sopra il patrimonio del Fondo culto procedente da questa e dalle precedenti leggi di soppressione, e sopra quello degli enti conservati, eccettuate le parrocchie (e, a termini della legge 11 agosto 1870, i benefizî aventi natura parrocchiale, i patrimonî parrocchiali amministrati da fabbricerie, gli edifici monumentali, a cui, imponendosi la tassa del 30%, le rendite non potessero più bastare per il loro mantenimento; per la legge 19 giugno 1873 la tassa non si applicò neppure ai canonicati di cattedrali con rendita non superiore alle lire 1.600 per le prime ottocento lire di annuo reddito, e ai benefizî minori dei capitoli cattedrali con rendita non superiore alle lire 800 per le prime cinquecento lire di annuo reddito).

3. La legge 19 giugno 1873, che estende alla provincia di Roma le leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867 (e dà alcune norme d'indole generale per tutto il regno), stabilendo però un regime speciale per gli enti della città di Roma e per le sedi suburbicarie; qui gli enti del clero secolare, soppressi nel resto del regno dalla legge 15 agosto 1867, vengono aboliti solo allorché siano di patronato laicale; i rappresentanti degli enti conservati possono effettuare essi medesimi la conversione dei loro beni immobili; non si applica la tassa straordinaria del 30% sui beni degli enti conservati e sulla rendita derivata dai beni delle corporazioni soppresse. Considerando che gli enti ecclesiastici romani si sono arricchiti con i proventi della pietà dei fedeli di tutto il mondo, il legislatore reputa opportuno che la rendita corrispondente al patrimonio degli enti soppressi non sia devoluta al Fondo culto, avvantaggiando così indirettamente tutto il clero italiano, bensì rimanga a profitto del clero e delle chiese di Roma; e dispone che i beni dei conventi cui sono unite chiese parrocchiali vadano a profitto delle chiese stesse e delle altre parrocchie, quelli dei conventi di ordini ospedalieri, agli ospedali di Roma, quelli dei conventi che attendono all'istruzione siano devoluti a profitto di scuole romane, tutti i beni di altri enti soppressi a un fondo di beneficenza e religione per la città di Roma, che tiene luogo del Fondo culto.

Con questa legge si ritorna ai principî di mitezza e di disinteressamento statale proprî della prima legge piemontese 29 maggio 1855.

Se si guardi ora nel complesso la legislazione in materia patrimoniale ecclesiastica, formatasi durante il Risorgimento e rimasta in vigore sino al concordato dell'11 febbraio 1929, legislazione ispirata a varie ragioni e preoccupazioni, politiche (avversione agli enti ecclesiastici, in particolare agli ordini religiosi, ritenuti ostili al movimento liberale e unificatore), economiche (avversione alla manomorta), fiscali (si ricordino le gravissime difficoltà della finanza italiana dopo il 1866), essa si può riassumere in questi principî:

1. Lo stato indica con le sue leggi quali enti ecclesiastici abbiano diritto di esistere come persone giuridiche e quindi capacità di possedere, e quali debbano essere privi di tale diritto, e pertanto non possano essere costituiti per l'avvenire, o, se già esistano, vengano meno in virtù delle nuove norme statali, e il loro patrimonio venga devoluto a favore degli enti indicati dallo stesso legislatore. Le norme delle leggi del '66 e del '67 non furono modificate sino al concordato dell'11 febbraio 1929: però dopo la guerra vennero interpretate in modo assai benevolo, e fu concessa la personalità giuridica a parecchi enti, per i quali si può dubitare che rientrassero in categorie colpite dalle leggi eversive.

2. Lo stato nega in massima agli enti ecclesiastici il diritto di possedere immobili, che non siano quelli indispensabili per il loro funzionamento, e crede che nell'interesse generale essi debbano avere il loro patrimonio costituito da beni mobili, preferibilmente da titoli del debito pubblico. Anche qui le norme sulla conversione obbligatoria dei beni rimasero in vigore sino al concordato, ma subirono nell'applicazione attenuazioni a profitto degli enti ecclesiastici (concessione ai vescovi di avere una casa di villeggiatura: articolo 22 r. decr. 2 luglio 1922; permesso accordato largamente in pratica a vescovi e parroci di locare episcopî e canoniche, il che era certamente contro lo spirito della legge, che parla di beni "inservienti ad abitazione degl'investiti degli enti morali"; talvolta vere tenute considerate come orti o giardini).

3. Lo stato crede però che possa accordarsi alle parrocchie una proprietà immobiliare, tenuto conto della circostanza che i parroci tra i funzionarî ecclesiastici sono in più diretto contatto col popolo, e sono quelli pertanto ch'esso stato deve considerare con particolare attenzione e benevolenza, che i patrimonî delle parrocchie non sono mai ragguardevoli, e che i parroci hanno la possibilità di attendere direttamente alla coltura delle dette proprietà immobiliari.

4. Lo stato, dopo il prelevamento compiuto sui beni d'origine ecclesiastica con la cosiddetta tassa straordinaria del 30%, non ne ha compiuti altri, e ha in fatto rinunciato (sebbene la rinuncia non si trovi scritta in alcuna legge) a prelevare i tre quarti della rendita iscritta a favore del Fondo culto e proveniente dal patrimonio delle soppresse corporazioni religiose (i comuni hanno invece ricevuto il loro quarto). Inoltre lo stato ha abbandonato il principio ch'era stato il punto di partenza per la formazione della prima legge piemontese 29 maggio 1855, che sul suo bilancio non debba essere sussidiato alcun culto, e assicura con le sue leggi ai titolari di uffici ecclesiastici un minimo reddito, mediante corresponsione di assegni pagati dal Fondo culto, ma grazie a stanziamenti fatti a favore di questo sul bilancio dello stato.

Il concordato dell'11 febbraio 1929, all'art. 29, promette una revisione dell'intera legislazione ecclesiastica; e intanto accorda la personalità giuridica alle chiese che non la possedessero, assegnando a quelle di esse che sono oggi officiate a spese del Fondo culto le rendite destinate a tale scopo, e all'art. 30 afferma la capacità degli enti ecclesiastici di possedere beni, salve le disposizioni della legge civile sugli acquisti degli enti morali: inoltre all'art. 29 lo Stato s'impegna a non stabilire per l'avvenire alcun tributo speciale a carico dei beni della Chiesa.

Bibl.: G. D. Tiepolo, Leggi ecclesiastiche annotate, Torino 1881; C. Olmo, Il diritto ecclesiastico vigente in Italia, Milano 1903; D. Schiappoli, Manuale di diritto ecclesiastico, 4ª ed., Napoli 1924; F. Scaduto, Diritto ecclesiastico vigente in Italia, 4ª ed., Cortona 1923 seg.; M. Falco, Il riordinamento della proprietà ecclesiastica, Torino 1910; A. Bertozzi, Notizie storiche e statistiche sul riordinamento dell'asse ecclesiastico in Italia, in Annali di statistica, s. 2ª, IV, Roma 1879.

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