Arteriosclerosi

Universo del Corpo (1999)

Arteriosclerosi

Rodolfo Paoletti
Alberto Corsini
Andrea Poli
Alberico L. Catapano

L'arteriosclerosi (composto di arteria e sclerosi, indurimento) è un processo alterativo a carico delle arterie, che vanno incontro a modificazioni morfologiche e strutturali di tipo degenerativo (allungamento, perdita di elasticità, ispessimento della parete, sclerosi, calcificazione, degenerazione ialina e mucoide). Nell'ambito dell'arteriosclerosi si distinguono varie forme, tra cui la principale è l'aterosclerosi, malattia cronica a eziopatogenesi multifattoriale, che interessa vasi arteriosi di grosso e medio calibro e le cui complicanze rappresentano la principale causa di morbosità e di mortalità nei paesi industrializzati. Se, da un lato, le indagini epidemiologiche hanno permesso di individuarne i fattori di rischio, rendendo in tal modo possibile il loro controllo nella popolazione, dall'altro, le più recenti acquisizioni relative ai meccanismi cellulari e molecolari che sono alla base del processo aterosclerotico consentiranno probabilmente, in un futuro prossimo, di intervenire direttamente su tali meccanismi, modificando gli eventi che, a livello della parete vascolare, sono responsabili della formazione e progressione della placca aterosclerotica.

Aterosclerosi e arteriosclerosi

L'aterosclerosi è una patologia che interessa arterie muscolari di medio calibro (coronarie, carotidi, femorali, basilare, vertebrale) e grossi vasi (aorta, iliache), mentre colpisce raramente arterie di piccolo calibro. Non deve essere confusa con le forme di arteriosclerosi della tunica media, che solo di rado hanno significato clinico, o con la sclerosi delle piccole arterie, tipica dell'ipertensione e del diabete. La caratteristica che distingue l'aterosclerosi dalle altre forme di arteriosclerosi è la presenza di una componente lipidica che nelle fasi iniziali della malattia si accumula a livello cellulare, mentre nelle placche complicate, caratterizzate da un centro necrotico, si deposita in aree extracellulari, presentandosi spesso sotto forma di cristalli di colesterolo.

Numerosi studi sperimentali, clinici ed epidemiologici hanno dimostrato l'esistenza di una stretta correlazione tra alcune caratteristiche genetiche, comportamentali e biochimiche e l'insorgenza di aterosclerosi e di malattie cardiovascolari. Un notevole contributo alle conoscenze relative all'evoluzione della placca aterosclerotica è stato fornito dagli studi PDAY (Pathological determinants of atherosclerosis in youth, condotto negli Stati Uniti) e PBDAY (Pathobiological determinants of atherosclerosis in youth, dell'Organizzazione mondiale della sanità). Obiettivo principale di questi studi, eseguiti su reperti autoptici di individui di età compresa tra 15 e 34 anni, deceduti per eventi traumatici, è stata la valutazione dell'effetto dei principali fattori di rischio sulla localizzazione anatomica delle lesioni e sulla loro evoluzione nell'aorta e nelle coronarie. L'estensione e la gravità delle lesioni aterosclerotiche risultavano direttamente correlate a livelli elevati di colesterolo associato alle lipoproteine a densità bassa (LDL, Low density lipoproteins) e bassissima (VLDL, Very low density lipoproteins), a livelli bassi di colesterolo associato alle lipoproteine ad alta densità (HDL, High density lipoproteins) e al tabagismo. Queste caratteristiche, soprattutto se presenti in uno stesso individuo, sono apparse in grado di favorire l'insorgenza precoce delle lesioni e la loro rapida progressione. Alle indagini microscopica e immunoistochimica è risultata evidente la presenza, nelle lesioni aterosclerotiche iniziali, di cellule, di derivazione muscolare e macrofagica, ricche in lipidi (cellule schiumose o foam cells). I risultati di studi successivi hanno evidenziato una maggiore velocità di progressione delle lesioni a livello delle coronarie rispetto a quelle dell'aorta, ove, peraltro, le lesioni sembrano comparire più precocemente.

Patogenesi dell'aterosclerosi

Per spiegare l'insorgenza e la progressione della placca aterosclerotica sono state proposte varie teorie, tra cui quella lipidica, quella trombotica e quella virale. Tutte queste ipotesi trovano una adeguata collocazione unificatrice nella teoria del danno endoteliale, originariamente proposta nel 1973 da R. Ross e J.A. Glomset e successivamente rivisitata da Ross stesso (1993). Secondo questa teoria, un insulto chimico (ipercolesterolemia, fumo di sigaretta, omocistinemia, tossine, virus ecc.) o meccanico (elevata pressione sanguigna, interventi chirurgici ecc.) determinerebbe una disfunzione dell'endotelio che riveste le arterie. Una delle prime risposte che fa seguito a un insulto è l'adesione all'endotelio di monociti e linfociti. Una volta adese, queste cellule migrano nello spazio subendoteliale sotto l'influenza di molecole chemiotattiche (citochine, fattori di crescita). Se lo stimolo viene a cessare, il processo 'infiammatorio' regredisce spontaneamente; se, invece, l'insulto persiste, il danno diventa cronico. Nello spazio subendoteliale, i monociti si trasformano in macrofagi e diventano quindi capaci di accumulare lipidi, in particolare esteri del colesterolo, dando origine alle cellule schiumose. Queste ultime, insieme a linfociti T e a cellule muscolari lisce, formano le strie lipidiche. Il continuo afflusso di cellule provenienti sia dal sangue circolante (piastrine, linfociti e monociti) sia dalla tunica media (cellule muscolari lisce) contribuisce in maniera fondamentale all'evoluzione della placca; con l'avanzare del processo aterosclerotico si assiste a un'aumentata produzione, da parte delle cellule muscolari lisce, di matrice extracellulare, e ciò, insieme all'accumulo di lipidi extracellulari e di calcio, porta alla formazione di placche avanzate. Si può dunque ritenere che il bilancio tra i vari fattori che influenzano le risposte cellulari determini l'evoluzione della placca.

Studi sperimentali hanno confermato che i processi coinvolti nella formazione della placca aterosclerotica sono essenzialmente tre:

1) l'accumulo di lipidi, intra- ed extracellulari, soprattutto sotto forma di colesterolo libero ed esterificato;

2) la proliferazione delle cellule muscolari lisce, dei macrofagi e, probabilmente, dei linfociti;

3) la formazione di matrice extracellulare (collagene, elastina e proteoglicani) principalmente a opera di cellule muscolari lisce. Le interazioni nell'aterosclerosi delle componenti cellulari possono essere descritte come segue.

a) Endotelio. L'endotelio è organizzato normalmente in un monostrato, che rende non trombogenica la superficie vasale. Tra le principali funzioni delle cellule endoteliali vanno segnalate:

1) il ruolo di barriera permeabile, attraverso la quale avvengono gli scambi e il trasporto attivo nella parete arteriosa;

2) il mantenimento di un tono vascolare, attraverso il rilascio sia di ossido nitrico (NO) e prostaciclina (PGI₂), sia di endotelina, che modulano rispettivamente la vasodilatazione e la vasocostrizione;

3) la sintesi e il rilascio di fattori di crescita e citochine (TNF, Tumor necrosis factor; PDGF, Platelet derived growth factor; TGFα, Transforming growth factor α; TGFβ, Transforming growth factor β; FGF, Fibroblast growth factor; IL-1, Interleuchina-1);

4) la produzione di molecole antitrombotiche (urokinasi; t-PA, Tissue-plasminogen activator; PGI₂, prostaciclina; proteina S; trombomodulina; TFPI, Tissue factor pathway inhibitor; eparan solfato) e protrombotiche (PAI-1, Plasminogen activator inhibitor-1; fattore von Willebrand).

In presenza di fattori di rischio si ha un'alterazione del bilancio di queste proprietà, prima manifestazione della disfunzione endoteliale. In queste condizioni, infatti, l'endotelio produce una serie di proteine di adesione che mediano l'interazione con linfociti e monociti, ponendo le premesse per la loro infiltrazione nello spazio subendoteliale. Uno dei fattori principali che intervengono nell'attivazione delle cellule endoteliali sono le LDL ossidate. Queste lipoproteine, che derivano dalla modificazione ossidativa delle LDL operata anche dall'endotelio, contribuiscono, insieme ad altre molecole rilasciate dall'endotelio stesso, all'attivazione dei monociti e alla loro trasformazione in macrofagi. La captazione di lipoproteine ossidate da parte dei macrofagi porta alla formazione delle cellule schiumose. Queste producono una serie di fattori di crescita (citochine ecc.) in grado a loro volta di modificare le proprietà delle cellule endoteliali. Un classico esempio di questa modulazione è l'alterato bilancio nella produzione di fattori vasocostrittori (trombossano TxA₂; endotelina) e vasodilatatori (NO; PGI₂), con la conseguenza di una ridotta risposta agli stimoli vasodilatatori e di un'aumentata sensibilità a quelli di vasocostrizione. Il perdurare di un insulto in siti specifici può determinare la morte di cellule endoteliali, con perdita di continuità della barriera endoteliale stessa; le cellule adiacenti a queste aree proliferano per ricostituire il monostrato, ma il ripetersi di questi cicli danno-riparazione potrebbe portare a una riduzione, se non all'esaurimento, della capacità delle cellule endoteliali di proliferare per riparare le lesioni. Inoltre, non si deve trascurare l'importante ruolo che l'endotelio svolge nella modulazione dei processi di trombosi e coagulazione. L'endotelio produce una serie di fattori antitrombotici, quali eparan solfato, NO, PGI₂, e può legare sostanze che prevengono la coagulazione. L'endotelio può modulare altresì il bilancio tra coagulazione e fibrinolisi attraverso la sintesi di t-PA, urokinasi e PAI-1. Nelle placche aterosclerotiche sembra esistere uno squilibrio tra questi fattori, a favore di uno stato protrombotico.

b) Monociti-macrofagi. I monociti-macrofagi non costituiscono una componente cellulare delle arterie normali; sono tuttavia un reperto costante nel corso del processo aterosclerotico. Uno dei primi eventi nell'aterosclerosi sperimentale è la comparsa di monociti nell'intima. Oltre a partecipare alla reazione infiammatoria attraverso il rilascio di fattori di crescita e di citochine, i macrofagi hanno il compito di rimuovere e degradare materiale 'estraneo' e potenzialmente dannoso, per mezzo di recettori denominati scavenger. I monociti possono aderire all'endotelio e migrare nell'intima. In questa sede, il monocita subisce una serie di processi di attivazione che portano alla sua conversione fenotipica in macrofago. Questi eventi sono mediati da numerose sostanze di origine proteica prodotte dalle cellule endoteliali e muscolari della parete arteriosa in risposta a stimoli infiammatori. Il macrofago residente, internalizzando mediante il recettore scavenger lipoproteine presenti nella parete (probabilmente LDL ossidate o aggregate), può accumulare una grande quantità di lipidi, in particolare esteri del colesterolo, dando origine alle cellule schiumose. Col progredire della lesione aterosclerotica, i macrofagi vanno incontro a necrosi o a morte programmata (apoptosi), rilasciando il contenuto lipidico cellulare nelle aree necrotiche (core) e contribuendo quindi all'accumulo di lipidi extracellulari, tipico delle lesioni più avanzate, e in particolare di cristalli di colesterolo.

c) Cellule muscolari lisce. La migrazione e la proliferazione delle cellule muscolari lisce sono eventi chiave nella progressione della placca aterosclerotica. Una caratteristica rilevante delle cellule muscolari lisce è la loro non omogeneità dal punto di vista dell'origine embrionale. Durante l'embriogenesi, infatti, le cellule muscolari lisce originano dal parenchima dell'organo di cui saranno parte costituente, a differenza, per es., dell'endotelio, che deriva dalla vascolatura embrionale. Questa diversa origine potrebbe spiegare, almeno in parte, la diversità di risposta di specifiche aree vasali a insulti aterogeni. Le cellule muscolari lisce esprimono due fenotipi principali: il fenotipo contrattile e quello sintetico. Il fenotipo contrattile, caratterizzato da forma allungata e citoplasma ricco di filamenti contrattili (miosina e actina), contribuisce in maniera determinante al tono vasale. Il fenotipo sintetico è caratterizzato invece da una forma rotondeggiante, da un citoplasma ricco in reticolo endoplasmatico rugoso e da un'elevata sintesi proteica e di matrice extracellulare; la caratteristica principale di questo fenotipo è comunque la capacità di migrare e proliferare, in seguito a stimoli adeguati. I meccanismi che modulano il fenotipo delle cellule muscolari lisce non sono noti in dettaglio, e vengono identificati con il termine di 'attivazione' cellulare. Per effetto dell'attivazione, le cellule muscolari lisce perdono la capacità di contrarsi, esprimono recettori scavenger con conseguente accumulo di lipidi, producono proteine di adesione, fattori di crescita, citochine e fattori protrombotici (PAI-1; TF, Tissue factor), interagendo quindi in maniera determinante con altri componenti cellulari della placca. Le cellule muscolari lisce sono individuabili nei vari stadi di formazione della placca aterosclerotica e rappresentano la principale componente cellulare delle placche avanzate.

I lipidi nell'aterogenesi

Come già ricordato in precedenza, una delle caratteristiche peculiari della placca aterosclerotica è l'accumulo di lipidi. I principali componenti lipidici delle arterie e della placca sono fosfolipidi e colesterolo (libero ed esterificato). Durante i primi anni di vita, nelle coronarie e nelle altre arterie si osserva un aumento importante (sino a dieci volte) di esteri del colesterolo che vengono tipicamente depositati a livello cellulare attraverso un processo di de- e riesterificazione del colesterolo veicolato dalle LDL. Con l'avanzare dell'età e della placca, l'accumulo di esteri del colesterolo si associa ad aumento di colesterolo libero extracellulare, che si deposita sotto forma di cristalli. Parallelamente si ha un aumento dei fosfolipidi, in particolare di lisolecitina e sfingomielina. L'accumulo di lipidi nella parete arteriosa è la conseguenza di un alterato bilancio tra influsso ed efflusso di colesterolo. Le lipoproteine plasmatiche sono macromolecole composte da lipidi (colesterolo, trigliceridi, fosfolipidi) e da proteine specifiche (apolipoproteine), classificate in base alla loro densità in quattro classi principali: chilomicroni, VLDL, LDL e HDL (. Le LDL e le HDL sono le principali lipoproteine che trasportano colesterolo. Le LDL, responsabili del rilascio di colesterolo ai tessuti periferici, sono ritenute una classe di lipoproteine aterogene; numerosissimi studi clinici e sperimentali hanno infatti dimostrato l'associazione tra elevati livelli di LDL e aterosclerosi.

Le HDL sono invece responsabili del trasporto inverso del colesterolo dai tessuti periferici al fegato, ove ha luogo il suo catabolismo, essenzialmente ad acidi biliari; svolgono, pertanto, un ruolo antiaterogeno. Negli ultimi anni, la teoria dell'ossidazione lipoproteica è andata acquistando sempre maggior credito, soprattutto perché fornisce una spiegazione di come cellule arricchite in colesterolo possano continuare ad accumularne dall'esterno. Di norma, le cellule ottengono il colesterolo necessario per le loro esigenze funzionali attraverso l'interazione delle LDL con uno specifico recettore che permette l'internalizzazione del complesso lipoproteina-recettore, la sua degradazione, e quindi il rilascio del colesterolo alla cellula. Tuttavia, un eccesso di colesterolo intracellulare riduce l'espressione di recettori per le LDL, impedendo in tal modo un eccessivo accumulo di colesterolo. Esistono però, a livello di membrana, recettori non sensibili alla regolazione da parte del colesterolo e che interagiscono con forme modificate delle LDL (i già ricordati recettori scavenger). Una serie di evidenze sperimentali e cliniche indica infatti che le LDL subiscono delle modificazioni (ossidazione, glicazione, aggregazione) che le rendono ligandi specifici per questo tipo di recettore, presente soprattutto nei macrofagi, nelle cellule muscolari lisce e in quelle endoteliali. Questi elementi cellulari continuano pertanto ad accumulare lipidi (esteri del colesterolo) e si trasformano in cellule schiumose.

Queste modificazioni in vivo sembrano avvenire a opera delle cellule della parete nello spazio subendoteliale, ove le difese antiossidanti sono nettamente minori che nel plasma. Inoltre, le lipoproteine ossidate partecipano all'evoluzione della placca mediante una serie di meccanismi legati a componenti specifici, in genere lipidi, che si formano durante l'ossidazione, e in particolare attraverso: la produzione di fattori di crescita e citochine, lo stimolo alla migrazione e proliferazione delle cellule muscolari lisce, il diminuito rilascio di NO, la citotossicità, l'induzione di geni caratteristici della lesione aterosclerotica.

Componenti non lipidiche della placca aterosclerotica

La matrice extracellulare ha un ruolo importante nella patogenesi dell'aterosclerosi. Componenti principali della matrice sono: collagene, elastina e proteoglicani. Nelle fasi iniziali dell'aterogenesi, la massa di queste componenti è tendenzialmente costante, ma con il progredire delle lesioni può arrivare a costituire il 50% e più della massa delle placche complicate. Le cellule della parete vasale sono responsabili della produzione di queste molecole: l'endotelio, infatti, sintetizza essenzialmente proteoglicani, mentre le cellule muscolari lisce sono in grado di produrre tutti e tre i componenti della matrice. La sintesi della componente extracellulare fibrotica è regolata dall'interazione di vari fattori di crescita (TGF-β, PDGF-A e -B, FGF) con le cellule muscolari lisce. Inoltre, componenti derivati da processi trombotici possono contribuire in modo rilevante alla formazione della placca aterosclerotica avanzata. Anche stress emodinamici (tipici, per es., dell'ipertensione) stimolano la sintesi di tessuto connettivo. Nella placca avanzata è presente soprattutto collagene di tipo I che viene sintetizzato da cellule muscolari lisce sotto lo stimolo di vari fattori; la concentrazione di elastina tende invece a diminuire nel corso dell'aterogenesi. L'elastina presente nella placca sembra avere una composizione anormale. Le fibre elastiche possono contribuire alla formazione della placca interagendo con le LDL e prendendo parte al processo di calcificazione. I glicosaminoglicani sono una componente minore del tessuto connettivale.

Il principale glicosaminoglicano presente nelle placche è il dermatan solfato, mentre l'acido ialuronico tende a diminuire con il progredire della placca. Questi glicosaminoglicani sono importanti nell'aterogenesi, per la loro capacità di interagire, mediante legami di tipo ionico, con le LDL, favorendone la permanenza nello spazio subendoteliale e, quindi, i processi di ossidazione. Con il progredire della lesione aterosclerotica, diventa sempre più frequente osservare depositi di calcio sotto forma di cristalli di idrossiapatite. Secondo i risultati di alcuni studi in vitro, confermati anche in vivo, in determinate condizioni le cellule muscolari lisce sarebbero in grado di esprimere alcuni dei geni tipici dell'osteosintesi (osteopontina, osteocalcina ecc.). Va inoltre ricordato che il calcio contenuto nelle lesioni avanzate può arrivare a rappresentare il 7-10% del peso secco della placca. Inoltre, nell'arteriosclerosi (per es. nella sclerosi di Mönckeberg) il contenuto in calcio contribuisce in maniera preponderante alla composizione della placca, sicché spesso questa forma di lesione viene definita calcinosi.

Placca ateromasica e complicanze cardiovascolari

L'accumulo di lipidi, la proliferazione cellulare e la sintesi di matrice extracellulare progrediscono nel tempo in modo lineare; tuttavia, studi angiografici hanno dimostrato che l'evoluzione delle lesioni coronariche non è lineare, né tanto meno prevedibile. Lesioni importanti possono svilupparsi nel giro di pochi mesi e la rapida progressione è verosimilmente correlata alla fissurazione della placca, seguita da una complicanza trombotica che porta alla crescita della placca stessa. A questo fenomeno si trovano associate occlusioni acute e complicanze cardiovascolari. Si ritiene che la fissurazione della placca sia responsabile delle sindromi di ischemia acuta (angina instabile, infarto del miocardio, morte improvvisa). Varie sono le cause che portano alla fissurazione o all'ulcerazione della placca ateromasica; secondo alcuni studi, le placche più sensibili alla fissurazione sarebbero costituite da un core lipidico e da un cappuccio fibroso, e sarebbero relativamente ricche in colesterolo. Un assottigliamento del cappuccio fibroso precede la fissurazione della placca stessa, e queste zone di assottigliamento si associano frequentemente a una distribuzione eccentrica del core lipidico, costituito essenzialmente da macrofagi infarciti di lipidi. Come già detto, i macrofagi partecipano alla captazione e al metabolismo dei lipidi nelle fasi iniziali del processo aterosclerotico; essi contribuiscono all'evoluzione della placca aterosclerotica anche con altri meccanismi, quali la secrezione di fattori mitogeni che stimolano la proliferazione cellulare e l'angiogenesi, il rilascio di proteasi (elastasi, collagenasi, gelatinasi ecc.) e la produzione di prodotti tossici, facilitando in tal modo il danno vasale e la fissurazione della placca. Dati autoptici confermano la presenza di macrofagi e di linfociti T nell'area di fissurazione.

Un altro fattore che può contribuire alla fissurazione della placca è la distribuzione di forze esterne che provocano tensione all'interno della placca (stress). Utilizzando un modello computerizzato, è stato infatti possibile osservare una tensione elevata in corrispondenza del margine della placca, cioè della zona di fissurazione ricca in macrofagi. La lesione della placca instabile con variazione della sua geometria è spesso causa, inoltre, di complicanze trombotiche, in quanto i macrofagi presenti nelle placche ricche di lipidi esprimono elevati livelli di TF, che incrementano la trombogenicità della placca stessa. Queste rapide variazioni della placca aterosclerotica possono determinare un aumento del grado di stenosi, con conseguenti complicanze cardiovascolari. In una minoranza dei casi la fissurazione è il risultato della rottura dei vasa vasorum, con conseguente emorragia interna della placca. Le complicanze trombotiche possono partecipare in vario modo al divenire della placca.

Un evento trombotico, anche se clinicamente silente, può essere causa di ripetuti insulti trombotici per differenti motivi:

1) aumento dell'occlusione vasale e delle forze di taglio opposte al verso di scorrimento del sangue;

2) aumentata trombogenicità, legata alla produzione di trombina. Sebbene la maggioranza degli eventi cardiovascolari acuti sia provocata dalla fissurazione della placca e dalle complicanze trombotiche, un ruolo non trascurabile è svolto anche da altri meccanismi che riducono la quantità di ossigeno a disposizione dei tessuti. Così, in pazienti coronaropatici con coronarie angiograficamente normali, è possibile evidenziare vasospasmi. Si ritiene che questo fenomeno sia dovuto a una disfunzione dell'endotelio, legata alla presenza di lesioni non documentabili strumentalmente. È infatti noto che l'endotelio è in grado di produrre al tempo stesso sia peptidi e proteine dotati di potente effetto vasocostrittore, come le endoteline, sia fattori vasodilatanti quali NO e PGI₂. In soggetti portatori di elevati livelli di fattori di rischio cardiovascolare (ipertensione, ipercolesterolemia, diabete, fumo di sigaretta), questo delicato bilancio risulta alterato, con conseguente aumento del tono vascolare, in gran parte associato a una ridotta produzione di NO. A questa condizione di 'disfunzione endoteliale' possono seguire vasospasmo e adesione piastrinica, con rilascio di fattori proaggreganti e protrombotici che contribuiscono significativamente all'evento cardiovascolare.

Epidemiologia della malattia aterosclerotica: i fattori di rischio

L'incidenza delle complicanze cliniche della malattia aterosclerotica, e soprattutto degli eventi coronarici quali l'infarto miocardico o l'angina pectoris, tende a distribuirsi in maniera disomogenea nella popolazione, colpendo la popolazione maschile più di quella femminile e aumentando con il crescere dell'età in entrambi i sessi. L'incidenza di eventi riflette anche la presenza di condizioni, note come 'fattori di rischio', che ne aumentano più o meno grandemente la probabilità di comparsa. I fattori di rischio più noti e studiati sono la presenza di elevati livelli di colesterolo plasmatico, l'ipertensione arteriosa e il fumo di sigaretta; importanza minore, ma non trascurabile, hanno il diabete, il sovrappeso corporeo o l'obesità, l'inattività fisica e molti altri. In particolare, l'ipercolesterolemia aumenta il rischio di eventi coronarici, mentre l'ipertensione rappresenta soprattutto un potente fattore di rischio per l'ictus cerebrale. Il fumo di sigaretta aumenta in maniera considerevole l'incidenza di entrambe queste patologie, e rappresenta inoltre un importante fattore di rischio per la comparsa delle arteriopatie obliteranti degli arti inferiori.

a) Ipercolesterolemia. La correlazione tra ipercolesterolemia e aumento del rischio di eventi coronarici di natura aterosclerotica emerge da una ampia serie di studi osservazionali, condotti sia raffrontando differenti popolazioni, sia osservando nel tempo gruppi di individui con differenti valori di colesterolo plasmatico. In particolare, gli studi condotti a livello di popolazione hanno consentito di definire in modo quantitativo il rischio associato all'ipercolesterolemia e di costituire una sorta di curva 'dose-risposta' che lega i vari livelli di colesterolemia con l'incidenza, nel tempo, di episodi ischemici coronarici; indagini successive hanno mostrato come il controllo della colesterolemia, ottenuto con modificazioni dietetiche o mediante l'uso di farmaci, consenta di ridurre il rischio di eventi coronarici, documentando quantitativamente il beneficio che può derivare da un intervento terapeutico che riporti verso la norma il valore di questo parametro. Alcune di queste indagini epidemiologiche meritano di essere ricordate, sia pure sommariamente, nei loro contenuti e nei risultati che hanno prodotto. I primi studi osservazionali identificarono una relazione tra i livelli medi di alcuni parametri lipidici in differenti popolazioni e l'incidenza della cardiopatia ischemica nelle stesse popolazioni. Il Seven countries study, per es., mostrò come in paesi caratterizzati da basse colesterolemie medie, quali il Giappone (circa 150 mg/dl), l'incidenza di eventi coronarici fosse molto inferiore rispetto ad altri con elevati livelli medi di colesterolo, quali per es. la Finlandia (circa 260 mg/dl, nello stesso periodo).

Ricerche ulteriori permisero di accertare che gli individui che si spostano da aree geografiche a bassa colesterolemia e bassa incidenza di infarto ad aree geografiche caratterizzate da colesterolemia più elevata e maggiore incidenza di eventi coronarici, ne assumono, nel giro di circa due generazioni, i livelli di rischio e i tassi di morbosità e mortalità per cardiopatia ischemica. Se l'analisi viene spostata all'interno delle singole popolazioni, si vede che i soggetti con colesterolemia più elevata hanno un rischio maggiore di andare incontro nel tempo a un evento ischemico coronarico, fatale o non fatale. Tale relazione è continua, nel senso che non esiste un 'livello soglia' al disotto del quale la colesterolemia perde completamente l'incidenza causale nei riguardi degli eventi coronarici; essa tende ad assumere ‒ come mostra un vastissimo studio condotto su oltre 360.000 soggetti seguiti per 10 anni, il Multiple risk factor intervention trial (MRFIT) ‒ un andamento esponenziale, a mano a mano che ci si allontana dai valori oggi considerati accettabili (200 mg/dl) per salire verso valori più elevati. Lo studio citato indica che, a parità di altri fattori, il rischio di infarto miocardico per soggetti di sesso maschile e di età media è 4 volte superiore, per una colesterolemia di 300 mg/dl, rispetto a una di 200 mg/dl, e circa 6 volte più elevato rispetto a quello associato a una colesterolemia di 150 mg/dl. I dati del MRFIT consentono di affermare che nei paesi occidentali la maggior parte della popolazione presenta valori di colesterolo ai quali si associa un rischio da moderato a elevato di andare incontro a un evento coronarico.

Più recentemente, il Lipid research clinics prevalence study ha confermato l'importanza della relazione tra colesterolemia e cardiopatia ischemica in soggetti già portatori di cardiopatia ischemica. In questi ultimi, con il crescere della colesterolemia il rischio di ulteriori eventi coronarici aumenta molto rapidamente. Altri studi osservazionali, condotti in aree caratterizzate da colesterolemie medie tradizionalmente molto basse (per es. l'area continentale della Cina), hanno invece sottolineato come anche per bassi livelli di colesterolemia totale continui a essere valida una relazione continua (cioè senza 'effetto soglia') che lega la colesterolemia stessa all'incidenza di eventi coronarici. È importante sottolineare come evidenze di un interessamento ateromasico in soggetti ipercolesterolemici siano presenti già in età pediatrica o adolescenziale: uno studio autoptico già ricordato, il PDAY, condotto su soggetti giovani deceduti per cause varie, mostra che al crescere della colesterolemia, specialmente se il soggetto in vita fumava, l'area percentuale dell'intima arteriosa interessata da lesioni ateromasiche aumenta significativamente. Per giustificare un intervento finalizzato alla riduzione della colesterolemia nella popolazione, e con particolare intensità negli individui più ipercolesterolemici, non è d'altra parte sufficiente considerare gli studi di tipo osservazionale: è necessario, infatti, dimostrare che la riduzione della colesterolemia è seguita da un calo misurabile degli eventi ischemici coronarici nella popolazione o negli individui esposti all'intervento ipocolesterolemizzante.

Studi di questo tipo sono stati condotti con successo e pubblicati fin dalla metà degli anni Ottanta. Uno studio condotto negli USA con la colestiramina, farmaco ipocolesterolemizzante, su soggetti sani all'atto dell'arruolamento ha mostrato una riduzione del rischio di eventi coronarici di circa il 20% nei soggetti trattati, rispetto a quelli del gruppo di controllo; uno studio analogo, condotto in Finlandia alcuni anni dopo utilizzando una molecola del tutto differente, il gemfibrozil, ha ottenuto risultati sostanzialmente analoghi. Verso la fine del 1994, uno studio di durata quinquennale condotto su 4444 soggetti portatori di malattia coronarica, lo Scandinavian simvastatin survival study (4S), ha documentato che la riduzione della colesterolemia mediante un potente farmaco ipocolesterolemizzante, la simvastatina, è in grado di abbassare di circa il 30% la probabilità che soggetti trattati vadano incontro a un ulteriore infarto miocardico. Alla luce di questo articolato insieme di informazioni, l'atteggiamento largamente prevalente nella comunità scientifica internazionale è quello di considerare l'ipercolesterolemia uno dei principali fattori di rischio della malattia coronarica, e di favorire nell'intera popolazione la sua riduzione mediante l'adozione di un adeguato stile di vita e di una alimentazione a basso contenuto di grassi di origine animale; vanno considerati come candidati per interventi più mirati, e specificamente per la somministrazione di farmaci ipocolesterolemizzanti, i soggetti che presentano elevato rischio coronarico o che siano già portatori di segni clinici di coronaropatia.

b) Fumo di sigaretta. Il fumo di sigaretta rappresenta uno dei principali fattori di rischio di malattia aterosclerotica; in studi osservazionali condotti su un grande numero di individui, si è visto che esso aumenta in maniera significativa, e con una chiara relazione dose-risposta, il rischio di andare incontro a un evento ischemico coronarico o a un ictus cerebrale, o di sviluppare un'arteriopatia obliterante clinicamente sintomatica. La relazione è operativa a tutte le età. Contrariamente a quanto il pubblico abitualmente ritiene, la perdita di vite umane indotta dal fumo è attribuibile per la maggior parte (circa 2/3) alla malattia aterosclerotica, e per 1/3 circa alle neoplasie che il fumo induce in vari distretti dell'organismo. È importante sottolineare che l'uso di sigarette a basso contenuto di nicotina non sembra ridurre il rischio di infarto. Secondo i dati del Pooling project, uno studio statunitense su oltre 8000 individui seguiti per circa 10 anni, nei soggetti di sesso maschile l'abitudine al fumo di sigaretta implica un notevole aumento del rischio coronarico, che nei fumatori di mezzo pacchetto al giorno è doppio rispetto a quello di chi non ha mai fumato, per diventare quattro volte più elevato nei forti fumatori (oltre un pacchetto); l'aumento del rischio è invece relativamente meno importante in chi fumi solo il sigaro o la pipa.

Per quanto riguarda gli eventi cerebrovascolari, il rischio di infarto cerebrale è circa doppio nei fumatori rispetto ai non fumatori; al disotto dei 55 anni di età, tuttavia, esso è tre volte più alto. Il fumo di sigaretta sta assumendo un'importanza sempre maggiore come fattore di rischio coronarico nel sesso femminile, anche alla luce della crescente proporzione di donne fumatrici. L'aumento del rischio, come è stato recentemente dimostrato in una vastissimo gruppo di infermiere statunitensi, è infatti evidente anche nelle donne: il rischio relativo di infarto di una donna di mezza età che fumi 2 pacchetti di sigarette al giorno è circa 10 volte più elevato di quello di una non fumatrice; il rischio di una donna fumatrice è poi ulteriormente aumentato in caso di assunzione della pillola estroprogestinica a scopo contraccettivo. Secondo i risultati di alcuni studi, anche il fumo passivo, cioè l'inalazione del fumo in ambienti chiusi o insufficientemente ventilati, aumenta il rischio di aterosclerosi, soprattutto coronarica. Sulla base dei differenti studi disponibili, si stima che il rischio di malattia coronarica per un non fumatore esposto al fumo altrui sia superiore del 30% circa rispetto a quello di un non fumatore che non inali fumo passivo. Il meccanismo mediante il quale il fumo di sigaretta induce danno arterioso non è ben noto, anche per l'estrema complessità del fumo stesso, nel quale sono state identificate oltre 4000 sostanze differenti, molte delle quali dotate di significativa attività biologica (v. fumo). È comunque accertato che il bilancio delle sostanze di natura prostaglandinica che influenzano la reattività e l'aggregazione delle piastrine e delle cellule nucleate del sangue è modificato in maniera sfavorevole dal fumo di sigaretta, che induce una riduzione della sintesi di PGI₂, antiaggregante e vasodilatatrice, e un aumento di quella di TxA₂, al contrario proaggregante e dotato di attività vasocostrittrice; anche il profilo delle lipoproteine risulta negativamente influenzato dal fumo, che induce una riduzione dei livelli del colesterolo-HDL, e altera la capacità delle lipoproteine HDL stesse di attuare il cosiddetto 'trasporto inverso' del colesterolo, cioè il suo trasferimento al fegato e la sua successiva catabolizzazione ed escrezione per via biliare. Il fumo di sigaretta tende anche ad aumentare, in particolar modo nei soggetti maschi, la concentrazione plasmatica del fibrinogeno, che a sua volta determina l'aumento del rischio di malattia coronarica. È opportuno sottolineare che la sospensione del fumo induce una rapida riduzione del rischio di infarto, che nel giro di circa due anni potrebbe ritornare a un livello simile a quello del soggetto che non ha mai fumato. In uno studio prospettico condotto negli anni Ottanta, l'Oslo Study, la riduzione della colesterolemia ottenuta per mezzo di una dieta adeguata e della sospensione del fumo, ha determinato, durante un periodo di 8 anni, un abbattimento di circa il 40% della mortalità e della morbosità per aterosclerosi coronarica, rispetto alla popolazione di controllo.

c) Ipertensione. La maggior parte degli studi epidemiologici osservazionali hanno dimostrato l'esistenza di un'associazione tra valori crescenti di pressione arteriosa (sia diastolica sia sistolica) e rischio di malattia coronarica. Nel ricordato MRFIT, il rischio di morte per malattie coronariche aumentava di circa 3 volte passando da valori di diastolica di circa 70 mmHg a valori intorno a 100 mmHg; per lo stesso intervallo di valori, la mortalità per tutte le cause raddoppiava. La relazione con il rischio di ictus cerebrale era altrettanto netta. In questo studio, la pressione diastolica risultava avere lo stesso potere di influenza della colesterolemia riguardo alla mortalità sia coronarica sia totale. Tradizionalmente si ritiene che la pressione arteriosa diastolica sia in grado di predire il rischio coronarico in maniera più affidabile rispetto alla sistolica; tuttavia, i dati di uno studio molto noto, il Framingham heart study, confermati anche in altri studi, mostrano che ciò vale soprattutto nei giovani, mentre negli individui di età più elevata, al contrario, è la pressione sistolica che assume crescente importanza. Quando si passi a considerare i risultati del trattamento anti-ipertensivo, ci si imbatte in un paradosso non ancora del tutto spiegato. Sebbene, infatti, il rischio di eventi cerebrovascolari e coronarici aumenti, con analogo andamento, con il crescere della pressione arteriosa, gli effetti del trattamento anti-ipertensivo in termini di incidenza differiscono sensibilmente in questi due gruppi di eventi clinici.

Combinando, mediante tecniche di tipo meta-analitico, i risultati di numerosi studi su questo stesso argomento, è possibile documentare che la riduzione adeguata dei valori pressori ottenibile mediante farmaci diuretici o beta-bloccanti riduce in maniera molto netta (più del 40%) il rischio di ictus; il vantaggio è osservabile, e di entità pressoché analoga, tanto nei soggetti con valori di pressione diastolica inferiori a 110 mmHg, quanto in quelli con valori superiori a 115 mmHg. Risultati analoghi si ottengono peraltro con il trattamento dell'ipertensione sistolica isolata: in uno studio mirato condotto in una popolazione anziana, il cosiddetto Systolic hypertension in the elderly program (SHEP), la riduzione della pressione sistolica ha migliorato significativamente il rischio di ictus nei soggetti trattati. Differente è lo scenario se si considera l'effetto del trattamento sulla morbosità e sulla mortalità coronarica. In nessuno studio con anti-ipertensivi, infatti, la riduzione della pressione ha determinato una diminuzione significativa del numero di eventi coronarici; se si combinano, come descritto precedentemente, i risultati degli studi disponibili, si può documentare una riduzione del 15% circa degli eventi totali, riduzione che non compensa affatto il numero di quelli 'aggiuntivi' attribuibili all'ipertensione stessa. In altri termini, abbassare la pressione, per lo meno con i farmaci utilizzati in questi studi, non riporta il rischio di infarto a livello di quello che è associato al valore di pressione ottenuto con il trattamento. È auspicabile e prevedibile che altre tipologie di farmaci anti-ipertensivi, sprovvisti di alcuni degli effetti negativi sui parametri lipidici posseduti dai composti più vecchi, e capaci anzi di esercitare direttamente un'attività protettiva sulla parete arteriosa, possano modificare in senso ancora più favorevole lo scenario dei vantaggi del trattamento dell'ipertensione arteriosa.

d) Altri fattori di rischio coronarico. Nei diabetici, il rischio di eventi coronarici è doppio rispetto alla popolazione generale; nella donna, risulta di fatto annullata completamente la riduzione del rischio coronarico derivante dall'appartenenza al sesso femminile. Un adeguato controllo della glicemia sembra determinare una diminuzione del rischio coronarico, rispetto a quello dei pazienti diabetici con cattivo compenso metabolico. Anche l'ipertrigliceridemia tende ad aumentare il rischio coronarico, specie se si associa, come usualmente avviene, a ridotti livelli di colesterolo-HDL; manca però la dimostrazione certa che il suo controllo, nutrizionale o farmacologico, possa ridurre il rischio. Analoga è la situazione per quanto concerne il fibrinogeno, proteina coinvolta nei processi di formazione del trombo; mentre elevati livelli di fibrinogeno aumentano il rischio coronarico, non è invece dimostrato che la loro riduzione migliori la prognosi del paziente iperfibrinogenemico. Il sovrappeso aumenta sensibilmente il rischio coronarico nel sesso femminile. Per un indice di massa corporea (calcolato come rapporto tra il peso in kg e il quadrato dell'altezza in metri) compreso tra 25 e 29 (un indice di massa corporea di 25 si riscontra in un soggetto con peso di 72 kg e altezza di 1,70 m; uno di 29 in un soggetto di altezza 1,70 e peso di 84 kg), il rischio coronarico è raddoppiato, e per uno oltre 29 quasi quadruplicato.Una storia familiare di malattia coronarica precoce rappresenta anch'essa un fattore di rischio importante, seppure non modificabile, di malattia aterosclerotica. L'aggregazione familiare di eventi clinici a carattere aterosclerotico può riflettere talora semplicemente l'esistenza di una aggregazione di fattori di rischio coronarico noti (come per es. nell'ipercolesterolemia familiare eterozigote); in altri casi, tuttavia, è probabilmente da attribuire alla presenza di anomalie metaboliche non ancora chiarite.

Strategie per la prevenzione del rischio coronarico

Un approccio globale alla prevenzione del rischio coronarico prevede tre strategie:

1) di popolazione (modificazione dello stile di vita, di fattori ambientali e socioeconomici);

2) di azione sui pazienti ad alto rischio (identificazione e riduzione dei fattori di rischio);

3) di prevenzione secondaria in pazienti con coronaropatia conclamata.

Queste strategie sono tra loro complementari. La ragione principale per enfatizzare una strategia di popolazione nella prevenzione delle coronaropatie è la presenza, nei paesi industrializzati, di livelli elevati di fattori di rischio e, conseguentemente, di un'alta incidenza di coronaropatia precoce. Utilizzando quale esempio la distribuzione dei valori di pressione sistolica, si può osservare che la maggior parte degli eventi coronarici e degli ictus si verifica nella fascia di popolazione che presenta un aumento moderato dei valori pressori. Questo dato sottolinea l'importanza di una strategia di intervento che tenda a modificare lo stile di vita della popolazione. Le rimanenti due strategie sono ristrette alla pratica clinica, richiedendo una particolare attenzione del medico nel valutare la presenza di situazioni di rischio. Un recente documento congiunto delle Società europee di cardiologia, dell'aterosclerosi e dell'ipertensione ha proposto, in accordo con i concetti su esposti, alcune linee guida per la prevenzione delle coronaropatie. Per una determinazione attendibile del rischio coronarico è quindi necessario stimare una serie di parametri: mentre alcuni (età, sesso, storia familiare e personale di coronaropatia e di altre malattie cardiovascolari) non sono modificabili, altri (fumo, cattive abitudini alimentari, inattività fisica, sovrappeso, iperlipidemie ecc.) possono esserlo con appropriati interventi comportamentali, dietetici e farmacologici.

Controllo dei fattori di rischio

a) Fumo. Nei pazienti coronaropatici, il fumo di sigaretta, sigari o pipa dovrebbe essere vietato. Ma esso costituisce un fattore di rischio anche per il resto della popolazione. Attualmente sono disponibili cerotti e gomme da masticare, che rilasciano nicotina quale sostitutivo del consumo di sigarette. Questa modalità di intervento sembra in grado di aumentare in misura significativa il numero di soggetti che smettono di fumare.

b) Abitudini alimentari. L'obiettivo di una consulenza dietetica è quello di definire, su base individuale, quelle modificazioni alla dieta abituale che rendano possibile il controllo del peso corporeo, della pressione arteriosa e del profilo metabolico (lipidi, glicemia). Una raccomandazione generale può comunque riguardare la riduzione dell'assunzione di grassi a non più del 30% dell'apporto calorico, un aumento del rapporto acidi grassi insaturi/saturi il più possibile vicino al valore di 2:1, una riduzione a meno di 300 mg/die dell'apporto di colesterolo con la dieta. La scelta dei cibi dovrebbe favorire il consumo di vegetali e frutta fresca, comunque degli alimenti ricchi di fibre. Un moderato consumo di alcol (30 g/die, equivalenti a 1/3 di litro di vino rosso) è tollerato, ma deve essere sconsigliato agli ipertesi e agli obesi. Nell'iperteso, il consumo di NaCl (cloruro di sodio) deve essere ridotto a meno di 5 g/die.

c) Sovrappeso corporeo e obesità. La riduzione del peso non è facile, ma se raggiunta e mantenuta ha conseguenze favorevoli. Una dieta con ridotto contenuto calorico e ipolipemizzante è una componente fondamentale per raggiungere una riduzione di peso, meglio se accompagnata da attività fisica. Una riduzione del peso corporeo di circa 0,5-1 kg per settimana è consigliabile sino al raggiungimento del peso ideale.

d) Esercizio fisico. Un esercizio aerobico regolare ha effetti favorevoli sul peso corporeo, sui lipidi plasmatici, sulla pressione arteriosa, sulla tolleranza al glucosio e sulla sensibilità dei tessuti all'insulina, e può esercitare anche un'azione protettiva diretta nei riguardi della comparsa di eventi cardiovascolari acuti. Inoltre, un'attività fisica regolare ha un effetto psicologico favorevole. Ci sono tuttavia alcune raccomandazioni da tenere presenti: l'intensità, la durata e la frequenza dell'attività fisica devono essere personalizzate. L'intensità dovrebbe essere tale da determinare un aumento della frequenza cardiaca pari al 60-70% di quella massima per l'età, che tra i 20 e i 69 anni varia da 145 a 115 battiti/min; la durata di ogni sessione dovrebbe essere di 30-40 min, inclusi 5-10 min di riscaldamento prima di una fase aerobica di 20-30 min, e un periodo di defatigamento di 5-10 min; la frequenza dovrebbe essere di 4-5 volte la settimana. In pazienti con coronaropatia conclamata, l'opportunità e l'eventuale entità della attività fisica devono essere sempre stabilite sulla base di un giudizio clinico complessivo. Anche pazienti con angina stabile possono spesso trarre giovamento da un programma di esercizio fisico.

e) Pressione arteriosa. Secondo le più recenti linee guida, la pressione arteriosa viene stratificata in una serie di livelli (normale, e ipertensione borderline, lieve, moderata o grave). Questa stratificazione trova ragione di esistere nella presenza di una relazione tra aumentati livelli pressori e rischio cardiovascolare. La decisione di iniziare un trattamento farmacologico dipende dal rischio totale, che a sua volta è in funzione dei livelli pressori, della coesistenza di altri fattori di rischio, della presenza e gravità di danni d'organo, nonché di una eventuale malattia cardiovascolare conclamata. L'ipertrofia ventricolare sinistra costituisce un importante segno di danno d'organo dovuto a elevati livelli di pressione arteriosa (sia essa diastolica o sistolica). L'approccio medico alla riduzione della pressione sanguigna si può basare sia su un trattamento non farmacologico sia sull'impiego di farmaci.

Nel primo caso, è noto che una modificazione delle abitudini di vita può ridurre i livelli pressori. In particolare, sono consigliati i seguenti approcci:

1) riduzione del peso corporeo nei soggetti in sovrappeso;

2) riduzione del consumo di NaCl a meno di 5 g/die;

3) riduzione del consumo di alcol (10-30 g/die);

4) pratica regolare dell'attività fisica;

5) cessazione del fumo.

Se queste misure non riescono a riportare entro limiti accettabili i livelli di pressione arteriosa, si rende necessario un intervento farmacologico. Una serie di studi clinici ha dimostrato che varie classi di farmaci sono in grado di ridurre efficacemente i valori pressori e la morbosità e la mortalità cardiovascolare e totale. Le principali classi di farmaci impiegate sono: i diuretici, i beta-bloccanti, i calcioantagonisti, gli ACE-inibitori, gli antagonisti del recettore per l'angiotensina II. Una terapia combinata permette spesso di ottenere un controllo soddisfacente dei livelli pressori. L'intervento deve essere continuativo, pena un rapido ritorno ai valori precedenti al trattamento.

f) Lipidi plasmatici. Il rischio può essere calcolato prendendo in considerazione i livelli plasmatici di colesterolo totale, colesterolo-LDL, colesterolo-HDL e trigliceridi. Linee guida raccomandano di condizionare un eventuale intervento farmacologico alla individuazione di livelli elevati di colesterolo totale e -LDL. Tuttavia, il tenere conto anche dei livelli di colesterolo-HDL ( 35 mg/dl nell'uomo e  45 mg/dl nella donna) e del rapporto colesterolo totale/colesterolo-HDL (> 5) migliora sicuramente la valutazione del rischio. Esiste inoltre una correlazione inversa tra i livelli di colesterolo-HDL e di trigliceridi plasmatici. Nel considerare i livelli di lipidi plasmatici è importante valutare, come del resto anche per gli altri fattori di rischio considerati singolarmente, il rischio globale. In generale, il quadro lipidico deve essere determinato almeno tre volte nell'arco di sei mesi, prima di prendere la decisione di intervenire; bisogna escludere altresì forme secondarie di dislipidemia (conseguenti, per es., a nefropatie, diabete, ipotiroidismo, elevato consumo di alcol, sovrappeso corporeo, epatopatie ecc). L'approccio iniziale deve comunque consistere nella modificazione delle abitudini alimentari.

La composizione della dieta da suggerire in questi casi è stata discussa in precedenza. L'approccio dietetico può portare a riduzioni della colesterolemia nell'ordine del 15%. Se, malgrado questo tipo di approccio, i livelli plasmatici si mantengono al disopra di quelli desiderabili (specie nei soggetti portatori di più fattori di rischio), il trattamento dietetico dovrebbe essere intensificato, riducendo ulteriormente l'apporto di grassi (in particolare saturi) e di colesterolo. Se, al termine di 6 mesi, questi provvedimenti non sortiscono gli effetti desiderati, sarà opportuno prendere in considerazione l'intervento farmacologico, a integrazione di quello nutrizionale. I principali farmaci ipolipemizzanti sono: le resine a scambio ionico e gli inibitori dell'assorbimento intestinale del colesterolo, l'acido nicotinico e i suoi derivati, i fibrati, gli inibitori dell'HMG-CoA reduttasi. Questi farmaci hanno caratteristiche peculiari, che li rendono più o meno indicati nelle varie forme di iperlipemia. Per es., nelle ipertrigliceridemie si ricorre ai fibrati e all'acido nicotinico e derivati, mentre nelle ipercolesterolemie i farmaci di prima scelta sono gli inibitori dell'HMG-CoA reduttasi e le resine a scambio ionico. Nelle forme miste, la scelta del farmaco dipenderà dal prevalere della ipertrigliceridemia o della ipercolesterolemia.

Qualora la monoterapia non fosse in grado di normalizzare i livelli lipemici, è opportuno considerare l'associazione di molecole dotate di differente meccanismo d'azione. Per es., l'associazione tra statine e resine a scambio ionico è in grado di controllare ipercolesterolemie gravi, con l'eccezione della ipercolesterolemia familiare omozigote. g) Iperglicemia e intolleranza al glucosio. Numerosi dati sperimentali e clinici hanno documentato una stretta correlazione tra diabete (insulinodipendente e non) e malattie cardiovascolari. Spesso un'alterazione del metabolismo glucidico è associata a dislipidemia o anche a ipertensione, e non sempre un controllo adeguato della glicemia (dieta, riduzione ponderale, farmaci ipoglicemizzanti orali) ha come risultato la normalizzazione del profilo lipidico o della pressione arteriosa. In questi casi, visto anche l'importante incremento del rischio cardiovascolare in questi pazienti, è opportuno prendere in considerazione l'approccio diretto nel trattamento di questi fattori. I principali farmaci disponibili per questa terapia sono l'insulina e gli ipoglicemizzanti orali (sulfaniluree e biguanidi).

Diagnostica della malattia aterosclerotica

La diagnostica della malattia aterosclerotica ha l'obiettivo principale di studiare specifici segmenti arteriosi, per valutarne innanzitutto la pervietà, e quindi l'eventuale presenza di placche che restringono il lume e limitano di conseguenza il transito del sangue all'interno del vaso. Indagini più raffinate consentono anche di misurare l'elasticità della parete e di definirne lo spessore, che nelle fasi iniziali della malattia aterosclerotica può essere aumentato anche in assenza delle lesioni caratteristiche della malattia più avanzata. Per misurare il grado di interessamento di un'arteria da parte della malattia aterosclerotica esistono differenti tecniche: esse si basano sulla valutazione del flusso sanguigno all'interno del vaso o sulla visualizzazione del lume e della parete. La valutazione del flusso può essere semplicemente manuale: la palpazione dei vasi arteriosi in punti specifici, in genere dove essi poggiano su piani ossei, permette di percepire l'ampiezza e l'intensità della pulsazione vasale trasmessa dal cuore. L'auscultazione di un'arteria mediante fonendoscopio consente di apprezzare l'eventuale presenza di soffi; questo reperto può indicare l'esistenza, all'interno del vaso, di un flusso turbolento, che a sua volta rappresenta spesso la conseguenza di una stenosi del lume vasale. Una valutazione più obiettiva delle caratteristiche quantitative del flusso ematico può essere effettuata mediante la cosiddetta sonometria o velocimetria doppler. I sonometri doppler studiano la riflessione di un fascio di ultrasuoni, indirizzati sul vaso arterioso, da parte dei globuli rossi ematici. La riflessione è regolata dalla velocità del sangue, secondo le leggi dell'effetto doppler.

La sonometria doppler consente di stimare con una buona approssimazione se nella sede arteriosa indagata esista o meno una stenosi significativa (oltre il 50% del calibro vasale); in presenza di una stenosi che ecceda tale limite, infatti, il flusso ematico risulta significativamente accelerato, per poi rallentare nel segmento poststenotico. La visualizzazione diretta del lume vasale può essere invece ottenuta mediante tecniche di tipo radiografico (angiografia), dopo avere opacizzato il sangue (di per sé del tutto radiotrasparente) mediante l'iniezione, intrarteriosa o venosa, di sostanze radiopache. La visualizzazione angiografica del vaso arterioso non permette di valutare direttamente la morfologia parietale, in quanto le pareti arteriose sono radiotrasparenti, a meno che su di esse non vi sia depositata, come succede nell'aterosclerosi avanzata, una notevole quantità di calcio; essa valuta però la situazione parietale indirettamente, in base alle deformazioni che le eventuali irregolarità nella parete stessa inducono sulla regolarità del cilindro ematico che fluisce nell'arteria studiata. Una valutazione diretta della parete vasale è invece possibile mediante le tecniche di ecografia vascolare, realizzate mediante apparecchiature che impiegano sonde a elevata frequenza, e quindi ad alta definizione.

L'ecografia vascolare è facilmente eseguibile per le arterie superficiali (le carotidi extracraniche, gli assi iliacofemorali), mentre non è realizzabile in maniera incruenta per le arterie coronariche, sia per le loro ridotte dimensioni, sia per l'interposizione, tra l'arteria stessa e la sonda, di uno strato aereo (i polmoni) che disturba la corretta propagazione e riflessione del fascio ultrasonoro. Laddove sia possibile eseguirla, l'ecografia vascolare è una tecnica raffinata: la risoluzione assiale è dell'ordine di poche centinaia di micrometri. È pertanto possibile effettuare una misurazione diretta di parametri morfologici raffinati dell'arteria, quali lo spessore della parete o, addirittura, delle tuniche che la costituiscono; questo aumenta fin dalle primissime fasi del processo aterosclerotico o in presenza di fattori di rischio della malattia, quali l'ipercolesterolemia, l'ipertensione e il diabete. La combinazione di un'ecografia con un velocimetro doppler permette di studiare la morfologia del vaso e, al tempo stesso, di valutare il flusso che lo attraversa: gli strumenti in grado di combinare queste due funzioni vengono definiti eco-doppler vascolari. L'elaborazione del segnale doppler mediante computer ha permesso di produrre immagini nelle quali il flusso sanguigno appare sul monitor dello strumento con differenti coloriture a seconda della sua direzione. Questi strumenti, i cosiddetti color-doppler, rappresentano al giorno d'oggi la frontiera più evoluta dello studio non-invasivo delle arterie umane, sia a scopo clinico sia a fini di ricerca.

Attualmente si ritiene opportuno iniziare lo studio dell'arteria con una tecnica di tipo ultrasonoro, eseguendo lo studio angiografico quando le informazioni raccolte non siano considerate sufficienti.

Va peraltro sottolineato che le informazioni ottenibili con l'angiografia e con le tecniche di tipo ecografico sono per certi versi complementari, per cui è non di rado necessario, nello studio clinico di un paziente con problemi di aterosclerosi, eseguire entrambe le indagini. Infatti, come già ricordato, l'angiografia non permette alcuna visualizzazione della parete del vaso, e inoltre richiede un atto di tipo invasivo (in genere la puntura di un'arteria), la somministrazione di una sostanza radiopaca, e l'impiego di radiazioni ionizzanti. Le tecniche basate su ultrasuoni, d'altra parte, sono ostacolate, talora in maniera significativa, dalla presenza di un'infiltrazione calcica della parete arteriosa, un fenomeno che spesso si accompagna alle manifestazioni avanzate della malattia aterosclerotica. Quando sia essenziale ottenere informazioni complete circa la geometria delle placche aterosclerotiche presenti in un distretto arterioso (per es. perché il chirurgo sta considerando l'opportunità di un intervento di tipo disostruttivo), può essere necessario eseguire entrambi i tipi di studio descritti.

I0. Il trattamento chirurgico della malattia aterosclerotica

La chirurgia vascolare ha compiuto negli ultimi decenni notevoli progressi, e numerose patologie aterosclerotiche possono oggi beneficiare di un trattamento, palliativo o risolutivo, di tipo chirurgico. A livello carotideo, l'intervento più frequente è l'endoarteriectomia del bulbo, che consiste nell'apertura della biforcazione carotidea, nella dissezione del materiale ateromatoso che si è depositato in tale sede (interessando di solito l'imbocco della carotide interna), e nella sutura della parete vasale. A volte, qualora il chirurgo lo ritenga opportuno, la sutura può essere praticata con l'inserzione di un patch di tessuto sintetico. L'operazione, se eseguita da chirurghi esperti, presenta una bassa morbosità e mortalità; la maggior parte degli esperti ritiene tuttavia opportuno eseguire l'intervento solo in pazienti che abbiano già manifestato segni clinici di ischemia cerebrale (soprattutto attacchi ischemici transitori).

A livello iliaco femorale è possibile praticare interventi di endoarteriectomia analoghi a quelli eseguibili al bulbo carotideo, oppure sostituire completamente un segmento del vaso arterioso, come nel caso in cui la parete sia eccessivamente interessata dal processo ateromasico o presenti una dilatazione aneurismatica. Comune è l'impianto di una protesi in materiale sintetico, a forma di Y rovesciata, alla biforcazione dell'aorta addominale, sede frequente di alterazioni ateromasiche avanzate.

A livello coronarico, le possibilità sono molteplici. Localizzate una o più stenosi isolate, con un vaso a valle in buone condizioni, il chirurgo può 'sorpassarle' mediante uno o più ponti, i cosiddetti by-pass, costituiti da segmenti di una vena o di un'arteria (usualmente la mammaria interna). Negli ultimi tempi si è andata diffondendo, sempre nel caso di stenosi localizzate, la cosiddetta angioplastica, una tecnica che prevede l'inserimento di un catetere nella zona stenotica, il posizionamento dell'apice del catetere in corrispondenza della placca, e la dilatazione del vaso ristretto attraverso il rigonfiamento dell'apice del caterere. è oggetto di studio la rimozione fisica del materiale ateromatoso attraverso cateteri a lama direzionale, o la sua vaporizzazione che si attua mediante impulsi laser focalizzati. La tecnica più diffusa, e cioè l'applicazione di uno o più by-pass aortocoronarici, garantisce, se la selezione dei pazienti viene eseguita utilizzando al meglio le informazioni disponibili, risultati a distanza nettamente migliori, in termini sia di mortalità sia di qualità di vita, di quelli che si possono ottenere con la sola terapia medica.

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