Arte

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Arte

Renato Barilli

di Renato Barilli

Arte

sommario: 1. Il significato del Sessantotto. 2. Il minimalismo e le sue articolazioni. 3. La body art. 4. Trasversalità dell'arte povera. 5. Il 'richiamo all'ordine' in Italia. 6. Il 'ritorno all'ordine' in Germania e negli Stati Uniti. 7. Le nuove avanguardie. 8. Il polo della smaterializzazione elettronica. 9. Il successo delle donne artiste e della globalizzazione. □ Bibliografia.

1. Il significato del Sessantotto

Non si può parlare dell'arte degli ultimi anni del secolo scorso senza partire da quel clima particolare creato dal Sessantotto che impose una svolta all'intera ricerca artistica della seconda metà del Novecento. Oggi, forse, data la distanza che ci separa da quegli eventi, siamo in grado di leggerli con maggiore chiarezza di quanto non fosse possibile nel momento in cui venivano vissuti. Fu il momento in cui l'Occidente, allora pienamente dominante, si rese conto che la società fondata sull'industrialismo - e sui connessi corollari del produttivismo e dell'invasione delle merci - era ormai entrata in una crisi profonda. L'umanità si era circondata di troppi oggetti, di troppi utensili, talvolta superflui, che rischiavano di soffocare le ragioni profonde della stessa condizione umana. Troppe automobili, frigoriferi, telefoni, e anche troppa 'informazione', veicolata dalle reti ufficiali della televisione, cui bisognava aggiungere l'indotto della pubblicità. Una pesante sfera iconica di immagini prefabbricate circondava la nostra esistenza, come del resto i due principali movimenti dei primi anni sessanta, la pop art e la op (optical) art, sebbene da posizioni diverse, avevano ben compreso. Ma stava ormai divenendo adulta una tecnologia alternativa, fondata sulle varie applicazioni dell'elettromagnetismo e soprattutto sul suo impiego nell'elettronica (termine di cui ben presto si sarebbe fatto uso continuo, a proposito e a sproposito), la quale, facendo ricorso a correnti elettriche di bassa intensità, consentiva di diffondere velocemente le informazioni e rendeva possibili i vari processi di automazione. Stava insomma per fare il suo esordio l'informatica, e con essa era chiamata a fare un passo indietro l'industria pesante: l'oggetto fatto in serie, pesantemente materiale, veniva sostituito dalla circolazione immateriale di messaggi impalpabili, affidati all'etere o al cavo. L'uomo non contava più per quello che 'aveva', ossia per il possesso di oggetti materiali, in aggiunta alla propria dotazione organica, ma al contrario per un incremento del suo 'essere', in quanto la rivoluzione elettronica sembrava rendere più rapidi e penetranti i suoi sensi, in stretto connubio con i poteri del suo intelletto. Il risultato era più conoscenza, più capacità percettiva o 'estetica' (dal radicale greco aisth, che implica la nozione di un avido percepire a sensi dilatati e strettamente collegati tra loro, in un processo di 'sinestesia'). Stavano per nascere talune etichette in cui il passaggio suddetto avrebbe trovato un'eloquente espressione attraverso una pletora di 'post': la società industriale si mutava in 'postindustriale', i miti della modernità a ogni costo si mutavano nel postmoderno, più conciliante verso le memorie della tradizione e del passato.

Tutto ciò propiziato da due grandi pensatori: il canadese Marshall McLuhan, che con qualche anticipo sul Sessantotto, nel volume La galassia Gutenberg, del 1962, aveva brillantemente additato pregi e difetti dell'introduzione, nel 1450, della tipografia, vista come prototipo delle macchine in grado di produrre oggetti in 'gran numero', con relativo abbattimento dei costi. Nel successivo Understanding media l'autore canadese aveva posto al centro delle esperienze di quegli anni la diffusione dei messaggi che, grazie alle onde elettromagnetiche, viaggiano alla velocità della luce, cioè a 300.000 km al secondo, come avevano teorizzato gli scienziati a cavallo tra Otto e Novecento. L'altro dei due grandi pensatori, Herbert Marcuse (tedesco, ma trasferitosi negli Stati Uniti), affermava in alcuni saggi destinati a divenire altrettanto famosi che un lavoro e una tecnologia affidati non più al pesante intervento delle macchine, bensì ai leggeri processi elettronici avrebbero restituito all'umanità più tempo libero, da dedicare allo sviluppo del piacere estetico.

2. Il minimalismo e le sue articolazioni

L'arte, come in genere tutta l'attività progettuale e di ricerca dell'uomo, gioca sempre d'anticipo. Così avvenne anche per le svolte epocali determinate dal Sessantotto: prima ancora che queste trovassero espressione a livello politico-ideologico, gli artisti ne intuirono l'arrivo e cominciarono a preparare il terreno. Infatti, le tendenze artistiche in genere collegate al 'sessantottismo' si annunciano alcuni anni prima, e il luogo in cui risulta più facile coglierle sono senza dubbio gli Stati Uniti, che costituivano allora l'epicentro delle grandi trasformazioni in atto.

Il primo movimento da cui questa ricognizione può prendere le mosse è il cosiddetto 'minimalismo', già sperimentato nel 1966 da Robert Morris. A dire il vero, questo 'ismo' si mostrò a tutta prima con un volto che poteva apparire contraddittorio, dato che sembrava confermare lo schema di fondo del macchinismo moderno, con il ricorso a forme di geometria solida - il cubo, il parallelepipedo e i derivati -, quelle stesse forme che, sulla scorta di Cézanne, avevano impiegato sistematicamente prima i cubisti e poi i costruttivisti del secondo decennio del Novecento. Tanto è vero che il minimalismo di Morris venne anche indicato con l'etichetta 'strutture primarie', o 'arte dell'ABC'. Ma la regolarità delle forme era accompagnata da dimensioni gigantesche, per cui quegli schemi ideali assumevano una consistenza massiccia e occupavano grandi porzioni di spazio, chiedendo di essere fruiti non tanto con l'occhio e con la mente, ma attraverso attività estetiche più consistenti, per esempio camminandoci attorno e magari allungando le mani per toccarli. Uno dei compagni di avventura di Morris, Carl André, stendeva sul suolo delle grandi lastre metalliche, pretendendo che il visitatore vi camminasse sopra; un altro, Donald Judd, proponeva delle mensole seriali e ripetitive realizzate con metalli industriali, in armonia con la diffusa tendenza a respingere i materiali artistici della tradizione e a preferire quelli di provenienza industriale. Il passo più ardito veniva compiuto da Dan Flavin, che sostituiva alle lamine metalliche i tubi al neon - anch'essi di fattura industriale, cioè in forma di rigide bacchette dritte o circolari - che con la loro consistenza minima sconfiggono la materialità, mentre hanno un grande impatto luminoso diffondendo una luce fredda e lattiginosa.

Del resto al capofila del minimalismo, Bob Morris, non sfuggiva la contraddizione insita nel fatto che le sue proposte stilistiche, che occupavano una vasta porzione di spazio, erano mezzi rigidi e pesanti coi quali intendeva sollecitare la nostra 'estetica', la nostra attività sensoriale: perché non affidare invece una simile stimolazione a forme e a materiali più soffici? Ci sono due termini inglesi, hard (il rigido) e soft (il soffice), che caratterizzano alla perfezione queste opposizioni morfologiche: col primo si connota tutto ciò che viene affidato a materiali duri, per lo più di natura metallica; il secondo designa invece ciò che ha una consistenza più morbida, come per esempio le materie plastiche, le resine sintetiche, fino agli effetti smaterializzati del colore-luce, con molte implicazioni perfino di ordine mentale. E senza dubbio si assistette a un progressivo prevalere del secondo sul primo. Infatti, all'approssimarsi del Sessantotto, Morris invertì il pendolo, comprese cioè che quei suoi processi 'minimali', ridotti all'osso, erano più efficaci se affidati a materiali informi piuttosto che al rigido e inerte formalismo della geometria regolare. Egli adottò allora dei pannelli di feltro, un materiale evidentemente morbido, di origine simil-organica, provvisto perfino di un certo calore, a differenza dei metalli che comunicano una sensazione di freddo. D'altra parte, anche questi strati di feltro erano ricavati dagli usi industriali, e dunque si presentavano con tinte neutre. Continuava insomma la mortificazione delle qualità ottiche a vantaggio di quelle che possono essere colte dal tatto. A questa sua svolta Morris, utilizzando una contrapposizione anch'essa significativa, dette il nome anti-form. In un certo senso, fu anche un recupero dell'informale - il movimento che aveva caratterizzato l'arte dell'immediato secondo dopoguerra, tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta - ma con un'importante differenza: infatti, l'informale storico, con artisti europei come Jean Fautrier e Jean Dubuffet (e in Italia con Lucio Fontana, Alberto Burri, Ennio Morlotti, Leoncillo, ecc.) stimolava soprattutto la vista, collocandosi non molto lontano dalla tradizionale consistenza della tela dipinta o della scultura; l'anti-form di Morris, invece, riduce al minimo le sensazioni ottiche, per esempio il colore, preferendo piuttosto stimolare la nostra corporalità globale. Questa differenza può in qualche modo essere ricondotta alla contrapposizione, proposta da McLuhan, tra un sistema 'caldo', che punta su un solo organo sensoriale, per esempio la vista, e un sistema 'freddo', che invece suscita la piena collaborazione di tutti i sensi, deprimendo le risposte di natura ottico-cromatica a vantaggio di quelle legate al tatto, al movimento, o anche all'acustica. In questa trasformazione si può già individuare il fenomeno che il nostro grande critico e storico Giulio Carlo Argan ebbe a definire "morte dell'arte", un'espressione che è bene intendere in un'accezione molto letterale, come un passo indietro compiuto dai tradizionali canoni artistici (colore, bellezza e sensuosità dei materiali) a vantaggio di quanto può contribuire invece ad animare la nostra 'estetica', le nostre attività corporali sempre collegate a quelle di natura intellettiva.

Il minimalismo è stato importante perché ha costituito la premessa per due sviluppi apparentemente di segno contrario, ma in realtà collegati da una stretta affinità logica, tanto è vero che in genere chi ha seguito l'uno di tali sviluppi non ha mancato di risultare interessato anche all'altro. Si è già detto che ciò che costituisce la nota più specifica del minimalismo non sta certo nell'aspetto formale dei corpi usati, che obbediva a un geometrismo 'moderno' ormai superato dai tempi, bensì nell'intento di occupare una porzione di spazio sempre più ampia. Da qui le premesse per il fenomeno della land art, dove le costruzioni artistiche vanno a occupare vasti tratti di spazio, anzi, di ambiente, inteso non più come spazio neutro, bensì nel suo senso originario di ciò che si pone attorno all'essere vivente, ciò che ci circonda. Alcuni seguaci del minimalismo statunitense, invece di affidare la realizzazione delle 'strutture primarie' ai metalli, preferirono crearle intervenendo direttamente sulla superficie terrestre, agendo, beninteso, in luoghi semideserti dove ciò fosse possibile senza recare danni a colture o a insediamenti. Walter De Maria, per esempio, andò appunto in una steppa desertica a tracciare con della calce una striscia di più di un chilometro di lunghezza che incrociava ad angolo retto un altro braccio di uguale estensione. Michael Heizer scavò una sorta di trincee squadrate su un altipiano i cui confini erano costituiti da calanchi e scoscendimenti. Robert Smithson, servendosi di bulldozer, costruì una specie di diga (Spiral jetty) nelle acque basse del Lago Salato. Da notare che a questo suo manufatto egli ha dato un andamento spiralico, ispirandosi alle curve sinuose proprie degli organismi e introducendo così, anche nell'ambito della land art, la svolta anti-form già compiuta da Morris.

È pure degno di nota che tutti questi land-artisti sapessero bene di compiere un lavoro precario, che non avrebbe retto all'erosione degli agenti atmosferici (vento, piogge, movimenti delle acque) e anzi, essendo tutti convinti ecologisti, in qualche misura si compiacevano del fatto che la natura ristabilisse il suo predominio. Ma i loro interventi, condannati quanto a persistenza materiale, potevano continuare a esistere grazie a una imponente documentazione, ottenibile sia coi normali mezzi di riproduzione fotochimica (foto, film), sia con mappe, piante, schemi grafici.

Tocchiamo così un altro degli sconcertanti capovolgimenti riconducibili a quel clima, oltre al già visto passaggio dallo hard al soft: la pesante, voluminosa materialità di quelle opere si mutava nel suo contrario, in documentazione smaterializzata, affidata a quasi impalpabili tracce 'mentali', secondo un imperativo che trovò espressione nel motto "live in your head" (vivi nella tua mente), il che del resto rappresentava una conferma dell'imperativo sessantottesco "l'immaginazione al potere". In tal modo il minimalismo e la land art, forme d'arte di inusitata grandezza, paragonabile a quella delle piramidi nell'antico Egitto, si riversavano nella cosiddetta 'arte concettuale'. E fu proprio un minimalista, Sol Lewitt, a cercare di realizzare tale equivalenza, tale conversione da un estremo all'altro. Infatti egli continuava a produrre degli scheletri, in metallo o in plastica, di formazioni rigidamente cubiche, che potevano moltiplicarsi in una serialità ripetitiva: ma il loro ritmo di crescita poteva essere affidato al disegno, al puro progetto. Per dimostrare questa possibilità di disancorare l'opera dalla sua consistenza materica, Lewitt giunse ben presto a trasmetterla per via informatica, ovvero prese a partecipare alle mostre inviando semplicemente uno schema grafico e lasciando il compito di tradurlo in pratica a squadre di volontari (per lo più studenti di accademie).

Un altro modo per smaterializzare, e dunque concettualizzare l'opera, fu quello adottato da Douglas Huebler, il quale suggeriva dei percorsi degni della land art, ma invece di collocare dei segnali tangibili per indicarne i punti cruciali, scattava delle foto che accompagnava con accurate descrizioni linguistiche. Insomma, oltre ai tracciati grafici e ai pigmenti cromatici, propri di secoli di tradizione artistica, venivano ampliati senza limiti gli strumenti per fare riferimento alla realtà: entrava in gara il mezzo in apparenza non artistico della fotografia e, accanto a esso, quello, opposto alle immagini, delle astratte sequenze linguistiche, che i tradizionali criteri assegnavano in retaggio ai letterati. Chi toccò il vertice più alto in questa cancellazione di secolari confini tra arte e arte fu senza dubbio Joseph Kosuth, che in alcune sue tipiche installazioni offriva contemporaneamente tre diverse modalità di rapportarsi agli oggetti, per esempio a una sedia, dandone sia una foto, sia un'accurata definizione lessicale, sia, infine, presentando anche un esemplare di sedia 'tale e quale' (One and three chairs; One and three watches; ecc.), secondo la pratica del ready made già così bene illustrata dal capo dei dadaisti storici, Marcel Duchamp. Altri, come Robert Barry e Lawrence Weiner, puntarono soprattutto sull'uso di descrizioni linguistiche, con cui riferendosi a operazioni fisiche ne davano il corrispettivo 'mentale', così come la musica ha sempre fatto attraverso le note affidate a uno spartito, che poi i suonatori o i cantanti sono chiamati a 'eseguire'. Anche l'arte era chiamata a fornire indicazioni astratte, lasciando alla buona volontà dell'operatore il compito di tradurle in azioni concrete, o in 'comportamenti'.

3. La body art

La body art rappresenta un nuovo e improvviso capovolgimento, questa volta dal mentale, dal concettuale, alle manifestazioni più dirette e scoperte di una corporalità ostentata. L'arte concettuale poteva fornire un varco in direzione di un suo apparente contrario, la body art, in cui gli artisti, o persone da loro incaricate, agivano concretamente col proprio apparato corporeo, respingendo la mediazione degli interventi grafici. E dunque anche per questo verso si assisteva a una mutazione di genere: dall'ambito delle arti visive si passava infatti a quello delle arti della performance, secondo la definizione cara al mondo inglese, che con questo termine designa le attività dello spettacolo - musica, teatro, recitazione - attinenti al tempo piuttosto che allo spazio. Il termine performance era pertanto destinato ad assumere un risalto particolare e a conoscere una insolita fortuna anche presso altre lingue e culture. La sua origine pare risalire a forme arcaiche delle nostre lingue neolatine: esso deriverebbe dal francese antico performer, 'compiere', a sua volta derivato dal latino tardo performare, 'dare forma'. Ma forse è ancor più probabile la derivazione da un vocabolo antico-francese, perfournir. Infatti, la performance si può definire come una prestazione che qualcuno è chiamato a 'fornire' col massimo impegno, cercando cioè di procedere nel modo migliore e cercando di ottenere i migliori risultati, senza che ciò sia necessariamente limitato al mondo dell'arte. Infatti parliamo di performances eccellenti nello sport, o nelle gare gastronomiche, o in campo sessuale. Insomma, anche per questa via si assiste al superamento, alla 'morte dell'arte', a vantaggio di un ventaglio di comportamenti estetici (sensoriali, corporei). Sempre negli Stati Uniti, uno straordinario campione di questa body art è stato il californiano Bruce Nauman, pronto a riprendere l'uso del neon da Flavin, ma rifiutando il rigore anonimo delle bacchette rigide e impiegando anzi dei tubicini attorti e flessi come capillari del nostro sistema circolatorio, con cui egli ha ricalcato, per esempio, i tratti grafici della sua firma. Nauman si è anche compiaciuto di montare degli apparati, delle camere sperimentali capaci di accogliere le sue emissioni foniche e tante altre espressioni del suo corpo. Su questa strada venne seguito anche da Vito Acconci.

Certamente gli Stati Uniti ebbero, nel lancio di questa affascinante mappa di nuove forme, un ruolo primario, ma anche l'Europa vi partecipò attivamente. Nell'ambito della land art, per esempio, il Vecchio Continente può vantare il caso dell'inglese Richard Long, la cui convinzione di buon ecologista lo portava a compiere lunghe passeggiate in un ambiente naturale, segnando il percorso con sassi e altri oggetti tangibili, oppure con una documentazione immateriale. L'olandese Jan Dibbets ha compiuto suggestive operazioni tracciando solchi su una spiaggia e lasciando che l'avanzare della marea andasse a cancellarli progressivamente. Naturalmente in entrambi i casi è sempre pronto a scattare il capovolgimento dall'estrema e provocatoria fisicità dei 'comportamenti' a una loro documentazione per via informatica; anzi, su questa strada è stato proprio un tedesco, Gerry Schum, a compiere un passo avanti importantissimo. Infatti, dopo aver documentato queste operazioni di land art con una comune cinepresa, egli poi procedeva a riversarle su nastro elettromagnetico, applicando così a questo campo i procedimenti della videoregistrazione, che ben presto sarebbe apparsa assai più pratica della ripresa cinematografica, dato che la telecamera dà risultati immediati, mentre il film richiede i tempi lunghi dello sviluppo e della stampa. La videoregistrazione e i suoi frutti, i videonastri, realizzavano così il sogno del nostro grande sceneggiatore Cesare Zavattini: giungere ad avere a disposizione una specie di elettrodomestico per "pedinare il vicino", per indagare sul suo ambiente di vita. Vale la pena di notare che Gerry Schum procedeva a tappe, cioè prima in esterno, riprendendo dei tradizionali spezzoni cinematografici, e poi, in studio, riversandoli su nastro. Ma ci fu una mostra, all'inizio del 1970, intitolata appunto Gennaio 70 e tenutasi al Museo Civico di Bologna, nella quale si applicò direttamente il nuovo mezzo alle performances degli artisti invitati, saltando il passaggio cinematografico.

4. Trasversalità dell'arte povera

La caratteristica prevalente della vecchia Europa fu di praticare a un tempo queste varie modalità, intrecciandole tra loro, piuttosto che limitarsi a coltivarle separatamente. Nel mondo tedesco comparve così il temperamento travolgente di Joseph Beuys, pronto a imporre prima di tutto la sua personalità in una specie di performance illimitata, che lo portava a dichiarare guerra a tutti i meccanismi artificiali e a riscoprire la bontà delle materie organiche, come la cera, il grasso, qualche volta perfino il miele. E atti di declamazione verbale accompagnavano le operazioni con cui l'artista cercava di 'ammorbidire' tutte le componenti del nostro universo, restituendolo alle leggi della vita.

Ma il paese in cui la pratica trasversale e incrociata di tutte queste nuove modalità operative ha raggiunto un momento di pienezza, è stato senza dubbio l'Italia, grazie al movimento detto globalmente 'arte povera', etichetta lanciata sul finire del 1967, in alcune mostre a Genova e a Torino, dal critico, allora giovanissimo, Germano Celant. Il termine 'povero' sta a significare la volontà di ritrovare le fonti 'primarie' della vita e della natura, quali si rivelano, per esempio, negli animali e nelle piante: ma insieme alla convinzione che le nuove frontiere tecnologiche dell'elettronica non sono d'ostacolo a un simile recupero, come invece lo erano le tecnologie legate alla macchina e ai connessi procedimenti industriali.

Il decano dei 'poveristi' è il torinese Mario Merz, che in gioventù (fine anni cinquanta) aveva fatto a tempo a sperimentare l'informale 'caldo' di matrice pittorica. Ma poi egli restò affascinato dalla carica energetica che si sprigiona dai tubi al neon, che usò nella versione organicista introdotta da Nauman, piuttosto che in quella rigida, minimalista, di Flavin. Le sferzate di energia insite nei neon trafiggono l'inerzia degli oggetti. In seguito Merz venne colpito dalle unità abitative di un popolo 'povero' e 'primario' come gli Eschimesi, da cui adottò l'igloo, proprio perché è una dimora la cui morfologia attiene al soft piuttosto che allo hard. Anche in questo caso si riscontra una buona collaborazione tra gli strumenti di una 'povera' antropologia primaria e i sussidi insperati che questi possono ricevere dai nuovi materiali tecnologici (pareti di vetro trasparente, ossature in tubi di leggere leghe metalliche). Infine Merz si affidò a un 'concetto' impalpabile e mentale come quello espresso dal matematico Leonardo Fibonacci nella serie che da lui prende il nome, un concetto che si rivela adattissimo a scandire tanti fenomeni organici, del regno della natura così come della sfera sociale delle nostre attività: una specie di quintessenza delle curve paraboliche o spiraliche così diffuse in natura. Accanto a lui, altri adepti del sodalizio 'poverista' sfruttarono l'accostamento natura-artificio: Gilberto Zorio mise a punto una selva di giavellotti che dardeggiano energia nello spazio; Pier Paolo Calzolari scoprì il fascino della brina che i procedimenti refrigeranti possono deporre su oggetti metallici, o giocò sul contrasto tra la luce delle candele e quella emessa dai tubi al neon; Giuseppe Penone compì attente misurazioni su motivi vegetali, o analizzò i dati antropometrici della sua stessa persona; Giovanni Anselmo condusse paradossali e coraggiose riflessioni su fenomeni fisici al limite dell'invisibile; Alighiero Boetti fu ossessionato dal fattore della casualità, che esplorò in mille modi diversi e sempre sorprendenti, ricavandone anche brillanti effetti pittorici, magari con l'aiuto di artigiani da lui diretti che confezionavano tappeti policromi, ma sempre seguendo le leggi del caso.

Tutti questi 'poveristi' erano torinesi, tranne il bolognese Calzolari, ma a questi si deve aggiungere una diramazione romana, capeggiata dall'artista di origine greca Jannis Kounellis, che emerse fin dal 1967 grazie a un'importante mostra tenuta alla Galleria dell'Attico e dedicata alle quattro materie prime dell'universo - terra, acqua, aria, fuoco - che Kounellis intese maneggiare realmente, per esempio permettendo che un 'vero' fuoco emesso da una bombola a gas animasse la corolla di un fiore metallico, o che del carbone estratto dalle viscere della terra si accumulasse in mucchi informi, o ancora che dei contenitori metallici si trasformassero in aiuole per la crescita di tenere pianticelle. E anche gli animali furono della partita, come un pappagallo in carne e ossa, o dei cavalli anch'essi realmente presenti presso la Galleria dell'Attico. Un altro romano d'adozione, Eliseo Mattiacci, recò un originale contributo all'anti-form, per esempio proponendo un tubo industriale che si attorce come fosse una sorta di materializzazione delle onde elettromagnetiche. Luca Patella e Gino De Dominicis partirono invece da frasi, da materiale verbale, che però scomponevano con ironia, con 'comici' passaggi dal livello materiale-letterale a quello metaforico, e viceversa. A Modena, Franco Vaccari seguì le orme di Huebler scandendo dei percorsi ecologici con l'aiuto della fotografia, mentre il milanese Vincenzo Agnetti, già teorico delle operazioni audaci di Piero Manzoni, sviluppò una geometria umorosa e paradossale.

5. Il 'richiamo all'ordine' in Italia

Presentando la pattuglia dei seguaci torinesi dell'arte povera non si è menzionato il caso di Giulio Paolini, che per un verso aderì, al pari dei suoi colleghi, al cartello delle tecniche extra-artistiche - avvalendosi cioè della fotografia, o di descrizioni linguistiche, o della messa in scena di oggetti, in assenza quasi assoluta del colore; tuttavia, questi vari mezzi 'poveri' o 'concettuali' venivano da lui volti a scandagliare non tanto l'ambiente, i dati naturali e antropologici di una realtà immanente 'qui e ora', quanto le opere del museo. Tipico un suo lavoro consistente nella riproduzione di un ritratto di Lorenzo Lotto, commentato dalla scritta Giovane che guarda Lorenzo Lotto: ovvero, mentre veniva eseguito il dipinto, il pittore veneziano fissava lo sguardo sul soggetto del suo quadro, ma avveniva anche il contrario. Su questa falsariga Paolini esaminò l'intero processo creativo, scomponendolo, ricostruendolo, traendone varianti senza fine.

Un altro protagonista dell'esperienza torinese, Michelangelo Pistoletto, già emerso al momento della pop art, si divertì a montare un pittoresco cumulo di abiti usati ponendolo accanto a una statua mitologica (Venere degli stracci). A Milano un altro artista che di solito viene collegato al gruppo 'poverista', Luciano Fabro, sembrò in partenza accettare soluzioni 'povere', come proporre un letto con le lenzuola contorte e disfatte, solo che questa situazione dimessa e quotidiana venne riversata nel nobilissimo materiale del marmo, creando uno stridente contrasto tra la pochezza del motivo e la ricchezza del trattamento. Lo stesso contrasto si ripresenta esasperato nella riproduzione di enormi zampe di gallina fatte in prezioso vetro di Murano, per giunta rivestite di gambali di pura seta.

Il numero uno del poverismo romano, Kounellis, oltre a proporre in modo ardito e provocatorio animali vivi, montò delle installazioni in cui la presenza animale consisteva in un corvo impagliato, degno della celebre lirica di Edgar Allan Poe, mentre su un tavolo si vedono una statua greca sezionata in blocchi e un performer in austero abito nero che suona uno strumento a fiato. Insomma, dopo tanta quotidianità rientrava in scena l''aura'. I vari strumenti di una ricerca che fino a quel momento sembrava 'esplodere' nello spazio, uscendo fuori dai vecchi limiti deputati, venivano ora usati per meditare sull'intero patrimonio artistico dell'umanità. Il che, del resto, appare ancora una volta rispondente alla vocazione sessantottesca per l'elettronica, visto che questa tecnologia stava costituendo le grandi banche dati, memorizzate nei video-dischi e ben presto nei CD. È vero che, per poter essere conservate, queste immagini dovevano farsi pallide, evanescenti, cioè subire anch'esse un processo di smaterializzazione; ma proprio questo facilitava la possibilità di riproporle e di operare su di esse.

Del resto, volgendo lo sguardo indietro nella storia delle avanguardie, si scopre che un fenomeno simile era già accaduto qualche decennio prima, nel bel mezzo della nostra avanguardia più ruggente, quando, dopo il 1916, i futuristi, con Carrà alla testa (non Boccioni, deceduto proprio in quell'anno), si erano sentiti attratti da un remoto passato e avevano ritrovato le forme solenni dell'età romanica. Accanto a loro c'era chi, come De Chirico, aveva sempre stigmatizzato la pretesa di ricercare il nuovo a ogni costo, ovvero di essere 'originali', sostenendo al contrario la necessità di essere 'originari', di rintracciare i motivi delle origini. In tutta la sua attività posteriore agli anni dieci De Chirico non si era mai spogliato di questa ansia di ritrovare il passato 'originario' e di procedere a una sistematica rivisitazione delle stanze del museo. Fortunatamente, nella stagione d'oro della metafisica, aveva rivolto i suoi sguardi alle soluzioni 'antiche' della classicità greco-romana o del Quattrocento più monumentale; e in seguito non aveva trascurato di frequentare le stanze che esibivano un naturalismo rutilante e sfacciato, come il Seicento barocco e l'Ottocento naturalista, rilanciando soluzioni decisamente antimoderne e palesemente di 'cattivo gusto'. Ed è noto che il 'cattivo gusto', quando viene sollecitato con gli strumenti dell'industria culturale, evocato con l'aiuto della carta patinata e dei rotocalchi, prende il nome di Kitsch. Evidentemente 'questo' De Chirico, che impudicamente adottava un pittoricismo sfacciato, intendeva proprio citare soluzioni d'altri tempi, ben sapendo che lo si poteva fare solo ponendosi con ironia a una certa distanza.

Ma allora, se il punto di riferimento era divenuto un De Chirico che non si peritava di rilanciare un cromatismo intriso di 'cattivo gusto', di colori degni di un cartone animato di Walt Disney, perché fermarsi alla soglia del bianco e nero caro a Paolini e Kounellis? Un ragionamento del genere venne fatto da un giovane artista, anch'egli appartenente al gruppo 'poverista' torinese benché di origine siciliana, che si fa conoscere col solo nome di battesimo, Salvo. Anche lui aveva cominciato con delle foto in bianco e nero, nelle quali però sostituiva il suo volto a quello di personaggi impegnati in azioni sempre nobilissime, ma finì per riprendere anche i colori dei 'primitivi', per esempio di Raffaello quando segue ancora le orme del Perugino. Era come se l'arte ricominciasse daccapo, riportandosi a un'alba incantata, a una tavolozza magica, tale appunto da sfidare i colori saturi e brillanti delle immagini elettroniche.

Su questa strada gli fu subito accanto Luigi Ontani, che operava a Bologna, accanto a un 'poverista' riconosciuto come il già ricordato Calzolari. Più che intervenire sulle immagini, Ontani preferì lavorare sul proprio corpo e sull'abbigliamento, ma inducendolo a portarsi 'altrove', a praticare programmaticamente un'estetica dell'alibi: il corpo dell'artista si insinua in situazioni di altri tempi e di altri spazi, assume le pose di personaggi celebri del museo o della leggenda o del folclore, e quando la sostituzione è compiuta, questa può essere immortalata da uno scatto fotografico, purché, beninteso, la foto sia carica di colori per ricreare le nobili aure dell''altrove'. Tutto questo può essere rivissuto dall'artista col suo corpo, attraverso la pratica del tableau vivant, oppure può essere immortalato nei materiali della scultura, purché anch'essi non rifiutino il bagno in un colorismo sfacciato e di cattivo gusto (cartapesta, ceramica).

Un altro artista attivo a Roma, Carlo Maria Mariani, prese molto sul serio l'esigenza, avvertita in quegli anni, di richiamare in vita il museo partecipandovi nel modo più tradizionale, come fanno i pittori umili e devoti che nelle sale delle pinacoteche più celebri si danno a modeste copie dagli originali. Sennonché nel suo caso l'originale non esisteva, la copia ne faceva nascere uno creato dall'artista, anche se secondo parametri ligi a certe stagioni del passato, procurando che si trattasse delle soluzioni stilistiche più fuori moda, più out. Per esempio, visto che il neoclassicismo di David e Canova godeva ormai da tempo di una pessima reputazione, perché non rifarsi a esso, perché non buttarlo polemicamente in faccia al pubblico abituato ad altri valori? Si trattava insomma di invertire il senso di marcia del tempo, di sviluppare un sistematico ana-cronismo. E infatti il movimento di cui Mariani si può considerare l'iniziatore, subito seguito da altri come Stefano Di Stasio e Omar Galliani, venne chiamato 'anacronismo' da Maurizio Calvesi e da altri critici militanti dell'epoca.

Attorno agli esempi di Salvo e di Ontani si raggrupparono altre presenze: a Milano Aldo Spoldi, Antonio Faggiano, Giuseppe Maraniello, in Piemonte Luigi Mainolfi ed Enrico Barbera, a Roma Felice Levini, Giorgio Pagano e Giuseppe Salvatori, a Bologna Bruno Benuzzi e Marcello Jori. Li seguirono altri protagonisti che cercavano gli stessi effetti di ricchezza, di ritrovata opulenza del segno, ma a un livello di motivi decorativi astratti, 'aniconici', prescindendo cioè dalla presenza delle immagini; tra questi si devono ricordare Luciano Bartolini, Enzo Esposito, Giorgio Zucchini, per i quali venne trovata l'etichetta di 'nuovi-nuovi', alquanto provvisoria, ma da vedersi, in definitiva, come un aspetto dell'ideologia del postmoderno: la modernità, avanzando, flette il suo percorso e va a ritrovare le soluzioni del passato e delle origini, purché questo 'grande ritorno' sia improntato alla leggerezza propria delle regole dell'elettronica.

E tuttavia, quando questi vari movimenti si consolidarono uscendo allo scoperto, alla fine del decennio preparatorio degli anni settanta, la linea di avanzata che colse il maggior successo fu il raggruppamento che il critico Achille Bonito Oliva denominò 'transavanguardia', costituito da cinque artisti che, procedendo lungo la strada, già vista, dell'uso di strumenti 'poveri' e 'concettuali', come la foto in bianco e nero e il disegno, via via si 'scaldano', catturano effetti estrosi e si arricchiscono infine di note di colore che a loro volta tendono a farsi sempre più clamorose e aggressive. Questo il percorso comune a Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Mimmo Paladino, cui si aggiunge anche Nicola De Maria, ma in posizione più defilata, dato che egli, come taluni dei 'nuovi-nuovi', non si impegna sull'immagine, bensì su motivi astratto-decorativi, è cioè un aniconico.

6. Il 'ritorno all'ordine' in Germania e negli Stati Uniti

Alle soglie degli anni ottanta i transavanguardisti colsero un grande successo, anche perché entrarono in sintonia con quanto stava accadendo in Germania, dove un gruppo di artisti un po' più anziani di loro stava procedendo nell'inversione del pendolo in modi ancor più accentuati e parossistici di quanto non avvenisse nel nostro paese. Da noi non si amano le soluzioni estreme, brutali: non per nulla i padrini di questo fronte postmoderno - si tratti dei 'nuovi-nuovi' o degli 'anacronisti' - sono stati ravvisati nei metafisici De Chirico e Carrà, cui si potrebbero aggiungere campioni del novecentismo come Mario Sironi, Ubaldo Oppi, Achille Funi. La Germania, invece, per rinverdire il clima inaridito dalle speculazioni di Beuys rilancia l'espressionismo storico, quale fu coltivato dal gruppo Die Brücke, Emil Nolde, Ludwig Kirchner, Max Pechstein, ecc. E quasi per meglio attestare il grande zelo degli ultimi arrivati rispetto ai predecessori, ci fu chi, come Georg Baselitz, pensò di presentare le sue immagini violente a testa in giù, come un san Pietro che per distinguersi da Cristo si fa crocifiggere capovolto. Accanto a Baselitz, condusse questo tumultuoso arrembaggio al galeone del passato espressionista Anselm Kiefer, che si avvaleva di una preparazione di base anche a carattere fotografico, ma vi immetteva le scorie, i fanghi, i veleni dei luoghi più negletti e abbandonati delle periferie urbane. Trovava così espressione anche la protesta di una Germania dell'Est, che si sentiva esclusa dal benessere e dal consumismo occidentali, ivi compresi i troppo repentini mutamenti di gusto sul fronte estetico. Infatti vengono dall'Est alcuni dei neo-espressionisti più violenti di quegli anni, come Markus Lüpertz e Jörg Immendorff, e anche tra loro compare un aniconico, A. R. Penck. Questa pattuglia di grandi sovvertitori del corso del tempo, giustamente designata con l'epiteto di 'nuovi selvaggi' (Neuen Wilden), fu presto seguita da un'ondata di protagonisti più giovani, tra cui emersero Rainer Fetting, Walter Dahn, Jiri Dokoupil, Helmut Middendorf, Martin Kippenberger, alcuni dei quali, del resto, pronti ad alleggerire la brutalità di partenza con buone dosi di ironia e di effetti ludici.

Non a caso, in questa presentazione dei protagonisti della fase implosiva avutasi tra il 1975 e il 1985, abbiamo sovvertito l'ordine seguito per illustrare la situazione del Sessantotto e dintorni: là era stato doveroso partire dai fatti stringenti e decisivi accaduti principalmente negli Stati Uniti, anche se certo non privi di pronti corrispettivi anche presso di noi; passando però all'effetto di rinculo, di ritorno al passato, è il Vecchio Continente europeo, e in particolare il nostro paese, a pronunciare la parola decisiva. In fondo, ciò era avvenuto anche ai tempi della metafisica o in genere del 'richiamo all'ordine'. Ma, seppure con parti rovesciate, anche gli Stati Uniti non si sottrassero al copione comune di quegli anni, almeno all'interno del fronte occidentale; e dunque anche là, nel corso degli anni settanta, troviamo episodi di nuovo e voluto imbarbarimento. Un protagonista come David Salle, che sembra ligio, in prevalenza, alle immagini di riporto fotografico, le intercala però con pezzi di buona pittura, creando così un contrastato mosaico di forme redatte secondo codici diversi. Julian Schnabel dipinge con furore, usando il colore denso e corposo anche come un collante per fissare sulla tela dei pittoreschi cocci di piatti, simili alle tessere di un mosaico; Robert Longo rende omaggio al monumentalismo dei nostri scultori 'impegnati' tra le due guerre, e così via. Non manca di svilupparsi, sempre negli Stati Uniti, una robusta situazione corrispondente alle ricerche aniconiche che da noi costellano le operazioni dei 'nuovi-nuovi' e della transavanguardia, a proposito della quale la lingua inglese dispone di una espressione precisa e calzante: pattern painting, pittura fondata su un pattern, su un motivo grafico-ornamentale ripetuto ossessivamente fino a riempire l'intero spazio del dipinto. Vi si distinguono Bob Kushner, Kim McConnel, Ned Smyth e altri.

A cavallo tra gli anni settanta e ottanta la scena newyorkese vede lo sviluppo di un movimento molto importante che non si sa se far rientrare in questo clima di recupero dei valori tradizionali, o se invece porlo all'inizio di una nuova fase 'esplosiva', di esuberante aggressione nei confronti dell'ambiente. Si tratta della graffiti art, che ha anche un legame col già visto pattern painting. Ma se i patterns proposti dai cultori di questo movimento sono eleganti, e non mancano di fare i conti con le stagioni storiche del decorativismo occidentale, i loro più giovani seguaci si ispirano a un fenomeno di assoluta ed esasperata attualità, cioè al graffitismo selvaggio che gli strati diseredati della popolazione newyorkese - i giovani immigrati da paesi del Terzo Mondo e non inseriti nell'American way of life - tracciano, in modi disordinati ma liberi e aggressivi, per riconquistare alla propria sensibilità gli spazi (muri di edifici, pareti di vagoni della metropolitana) altrimenti troppo sterilizzati in cui la civiltà tecnologica li obbliga a vivere. È un violento impatto che viene da culture extra-occidentali, caratterizzate dal rifiuto delle immagini a favore di un decorativismo lussureggiante, volto a sconfiggere il vuoto, secondo quell'atteggiamento noto come horror vacui. È anche un modo per cancellare la funesta separazione, tipicamente occidentale e anzi frutto tra i più cospicui della 'galassia Gutenberg', tra parole e immagini. Infatti, questi graffitisti della strada prima di tutto 'scrivono', tracciano lettere dell'alfabeto, ma con grafia fastosa, inventiva, personalizzata. Alcuni loro coetanei, che pure provengono da strati sociali elevati e sono passati attraverso buoni studi, comprendono però che questa lezione è salutare e vitale, vi si ricollegano, riportandola a più controllate soluzioni stilistiche. Tra loro emergono due 'fari', Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, che muoiono in giovane età, 'bruciati verdi' dalla droga e dall'AIDS, ma non senza aver conquistato, ancora in vita, un rapido e travolgente successo; a loro si affiancano altri brillanti comprimari, per loro fortuna ancora attivi: Kenny Scharf, Futura Duemila, Donald Baecheler, James Brown, Rammellzee.

7. Le nuove avanguardie

Se un movimento come il graffitismo era ambiguo e trasversale, non ci sono dubbi che quando si giunge alla metà degli anni ottanta la situazione è pronta per un radicale mutamento di segno: si è ormai stanchi del culto nostalgico del passato, la ricerca vuole puntare di nuovo baldanzosamente in avanti, accreditando di colpo la grande ondata sperimentale del Sessantotto e dintorni. Ciò potrebbe far nascere l'impressione di un troppo statico e prevedibile movimento altalenante negli stili. In realtà, non si rilancia mai tale e quale una situazione già attraversata; in fondo, la metafora giusta è quella delle acque del fiume in cui non ci si bagna mai due volte. Forse si potrebbe, in proposito, utilizzare il classico schema hegeliano e considerare l'ondata innovativa delle forme sessantottesche come una tesi, cui si oppone l'antitesi del ritorno all'ordine, da cui scaturisce il terzo momento, quello della sintesi, in cui entrambe le posizioni si contemperano tra loro. Una mostra tenutasi a New York nell'autunno del 1986 presso la prestigiosa galleria di Ileana Sonnabend fornì la migliore tribuna per saggiare questa 'sintesi'. Vi si distinsero infatti tre artisti, due dei quali rilanciavano il clima pop o in genere il culto dell'oggetto, il terzo il minimalismo, ma ciascuno di essi introducendo un pizzico di sensibilismo, uno spessore estetico più denso, più emotivo rispetto agli illustri precedenti. Jeff Koons fu allora, e forse è rimasto anche in seguito, l'artista più rappresentativo di questo nuovo corso. In apparenza egli si riallaccia a Oldenburg nell'elevare dei monumenti agli oggetti più banali e comuni, ma mentre quelli del capofila della pop appartenevano alla famiglia degli utensili (tostapane, spazzolino da denti, macchina da scrivere), rientrando così in un paniere di consumi obbligatori per tutti, Koons va a scegliere i suoi oggetti nelle riserve dell'inutilità, del capriccio, o - ripetiamo pure l'espressione fatidica - del 'cattivo gusto': ninnoli, soprammobili appartenenti al Kitsch, che egli sottopone a un processo di ingrandimento facendone dei monumenti assurdi, sfacciati, provocatori. Ma tutti noi per vivere abbiamo bisogno di qualche amuleto appartenente alla categoria del superfluo: poiché non si vive di solo pane, nel paniere dei consumi deve entrare l'inutile, che pure tante volte risulta così gratificante. Se la strategia di Koons sta nello scegliere un singolo amuleto portandolo a dimensioni gigantesche, Haim Steinbach ne seleziona diversi, a grandezza naturale, come si possono trovare rovistando in qualche supermercato, ma li pone in calcolata successione su uno scaffale, determinando in tal modo accostamenti strampalati e assurdi, sempre nel segno del trionfo del 'cattivo gusto'. Invece il terzo protagonista, Peter Halley, si richiama alle forme 'minimali' di un astrattismo geometrico, che però, anche nel suo caso, si ispirano alla vita attuale, in quanto appaiono come gli ingrandimenti dei microcircuiti su cui si regge l'intero sistema elettronico; e c'è inoltre, soprattutto, un accostamento cromatico di colori acidi e freddi e di altri svenevoli, leziosi, apparentemente stonati, volto anch'esso a sfruttare stesure e accostamenti di 'cattivo gusto'.

Poiché l'attenzione era tornata a tecniche dure e aggressive, risultò quasi inevitabile anche il risorgere di un primato degli ambienti artistici statunitensi; peraltro l'Europa non si chiamò fuori, e anzi contribuì a questo rilancio del 'freddo'. Così, Halley non stentò certo a trovare dei perfetti corrispondenti, per esempio, nello svizzero John Armleder o nel tedesco Günther Förg, anch'essi rivolti a impaginare rigorose composizioni alternando le stesure di colore all'inserimento di oggetti. Si ebbe insomma un neo-minimalismo, d'altronde non così austero come quello di vent'anni prima, ma che anzi cercava di conciliarsi con tracce di colore, purché anch'esso sapesse farsi freddo. Esempi notevoli in tal senso vengono dall'Inghilterra e dalla sua tradizione così efficace nel campo della scultura; infatti, in quegli anni si imposero all'attenzione i rotoli o, in alternativa, gli scavi dell'anglo-indiano Anish Kapoor, le lamiere enigmatiche di Richard Deacon, gli aggregati, che gareggiano con fossili e minerali, di Tony Cragg.

Anche l'Italia partecipa a questo riaffacciarsi del minimalismo, seppur avvolto da un palpito di affettività. A Milano emerge Stefano Arienti, le cui proposte minimali sono affidate a un leggero e domestico cartone - pronto del resto a venir dentellato, ad aprirsi in profili sforbiciati - oppure a morbide lastre di polistirolo. Accanto a lui, Umberto Cavenago concepisce balocchi giganteschi in lamiera metallica. A Roma si incontrano le forme austere di Nunzio e di Andrea Fogli, che tuttavia non tardano a subire un processo di sensibilizzazione: Nunzio, per esempio, le cosparge di grafite, mentre Fogli le indora, caricandole di atmosfera emotiva. Al nord troviamo un gruppo di artisti che costeggiano il neo-pop di Koons, assumendo la bandiera di un neo-futurismo che, come già quel nostro movimento storico in versione tarda, si compiace soprattutto di giocherellare con le marche pubblicitarie, con i simboli del consumismo, rifacendoli in materiale plastico, adottando anche in questo caso colorismi sfacciati e aggressivi (Gianantonio Abate, Marco Lodola, il terzetto dei Plumcake).

8. Il polo della smaterializzazione elettronica

La ripetizione di schemi storicamente collaudati rilancia anche il progressivo spostamento da un polo del duro e del freddo verso soluzioni più soffici e disponibili. Si ripropone, cioè, il passaggio da un clima di formalismo a uno di anti-form, e così la presenza dura e massiccia di oggetti 'minimali' non regge a lungo, presto sostituita dal ricorso alle possibilità più elastiche della triade foto-video-espressioni linguistiche: ma purché si confermi l'effetto di sintesi, cioè l'intervento di un coefficiente di creatività personalizzata.

Tornando negli Stati Uniti, vi domina l'opera fotografica di Cindy Sherman, con foto splendide nella loro veste in cybachrome, che non si limitano a registrare l'esistente, ma anzi mescolano, condensano spezzoni di momenti psichici e sociali tra loro disparati. Il riquadro fotografico diviene così un puzzle altamente enigmatico e intrigante. Del resto, vi è stato uno sviluppo tecnologico che aiuta grandemente l'approccio fotografico a farsi produttore di nuove realtà, piuttosto che registratore dell'esistente, vale a dire il passaggio dall'impressione fotochimica alle procedure digitali, che è anche, in sostanza, un passaggio dall'analisi alla sintesi. La staticità della registrazione fotografico-elettronica, poi, si dinamicizza grazie al ricorso ai video-nastri, chiamati anch'essi a cercare effetti personali, al limite con l'autobiografia più spinta. Emerge in questo ambito lo statunitense Tony Oursler, che sa piazzare in modo sorprendente dei piccoli proiettori capaci di stampare su parti marginali del nostro arredo (gambe di tavoli, di divani, vasi di fiori) minute immagini parlanti, come una folla di gnomi intenti a pronunciare qualche apostrofe, qualche giaculatoria, qualche formula beneaugurante o minacciosa. Si potrebbe quasi parlare di una rinascita della formula wagneriana di un teatro totale, Worttondrama, purché si precisi che alla grandiosità delle trilogie del compositore tedesco gli artisti in questione oppongono drammi più privati e intimi, pronti a nutrirsi di tanti piccoli fatti marginali e di scarto, di cui cercano di recuperare la sommessa poeticità intrinseca. In fondo, si tratta di un Wagner passato attraverso una sorta di democratizzazione imposta dalla cultura anglosassone, nello stile, per esempio, delle epifanie delineate da James Joyce. La terribile capacità di mescolare l'insulso, il privato più marginale e casuale con riferimenti a grandi miti sociali si affaccia nei lungometraggi prodotti instancabilmente (se ne contano cinque, raccolti sotto il titolo globale di Cremaster) da un altro statunitense, Matthew Barney.

9. Il successo delle donne artiste e della globalizzazione

E tuttavia, se è stato doveroso ricordare questi due acclamati protagonisti al maschile delle ultime sperimentazioni, non si può tacere il fenomeno dell'irresistibile avanzata delle donne, che sul fronte della ricerca diventano sempre più numerose e sono ormai sul punto di controbilanciare le presenze maschili. Se continuiamo a dipanare il filo della continuità rispetto al Sessantotto, non si può tacere che sono proprio due donne a raccogliere e sviluppare in pieno la linea, nata allora, della body art e della performance: la francese Orlan (che ha volutamente cancellato il suo nome di battesimo), la quale effettua sul proprio corpo, attraverso operazioni di chirurgia plastica, quelle alterazioni cui la Sherman ricorre, più cautamente, a livello di missaggio fotografico-digitale; e la croata Marina Abramovic, la quale da sempre ha predicato come inevitabile il fatto che la body art imponga forti dosi di rischio, anche fisico, che il performer è tenuto ad accettare. A queste vedettes internazionali rispondono prontamente altre protagoniste nel nostro paese: Grazia Toderi, autrice di video in cui l'immagine di uno stadio diviene simile a un mandala, a un'icona aggressiva; Alessandra Tesi che, sempre con le proiezioni emanate dal tubo catodico, accarezza le pareti di una galleria stampandovi una sorta di tatuaggio immateriale; Luisa Lambri che, munita di una telecamera, si aggira per le stanze di un appartamento cogliendo la poesia delle tende al vento; Eva Marisaldi, la quale stende pagine di diario con un ventaglio imprevedibile di mezzi. Ma il protagonismo al maschile non scompare, come dimostrano le azioni provocatorie che sa concepire Maurizio Cattelan, facendo nascere gli eventi più sconvolgenti entro lo spazio riservato all'arte, o più spesso fuori di esso.

Tuttavia, la presenza ormai consolidata delle donne artiste trova forte conferma nel successo che arride a due di loro, oltretutto di estrazione extra-occidentale, col che risulta pure confermato un fatto ormai epocale: l'esercizio dell'arte non è più confinato prevalentemente al mondo occidentale, americano e/o europeo, come invece, in termini percentuali nettissimi, era stato in passato. Il Sessantotto, teorizzando la 'morte dell'arte' e l'adozione massiccia di strumenti non legati in modo particolare alle nostre tradizioni, come la foto, l'oggetto, l'enunciato verbale, ha indubbiamente facilitato il fenomeno di globalizzazione planetaria di cui oggi tanto si parla, in ogni ambito di attività culturale. Non per nulla i casi artistici che oggi, se si conducesse un referendum tra i competenti, otterrebbero il maggior numero di suffragi sono rappresentati da una iraniana, anche se di educazione californiana, Shirin Neshat, che in mirabili filmati trova le radici dei riti e delle tradizioni orali della sua terra, e da una giapponese, Mariko Mori, che congiunge sapientemente foto, video, prelievi oggettuali, perfino abiti e divise, in una ricostruzione di scene ancestrali legate al suo popolo, entrambe pronte peraltro a lanciarsi in avanti e a catturare un futuro fantascientifico.

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