ROMANA, Arte

Enciclopedia dell' Arte Antica (1965)

Vedi ROMANA, Arte dell'anno: 1965 - 1997

ROMANA, Arte

R. Bianchi Bandinelli
Red.
H. J. Eggers
F. Coarelli

I. I problemi dell'arte romana. La sua importanza storica. - II. Dalle origini a circa il 100 a. C. Formazione e carattere dell'arte r. - III. Dalla guerra sociale alla battaglia di Azio (91-31 a. C.). - IV. Da Augusto agli imperatori Flavii (27 a. C.-96 d. C.). - V. L'età di Traiano (98-117 d. C.). - VI. L'età di Adriano, dei Primi Antonini e la svolta artistica dell'età di Commodo. - VII. Il III secolo. - VIII. L'arte costantiniana. - IX. Da Teodosio alla fine dell'impero d'Occidente. - X. Le culture periferiche e il dissolvimento della forma ellenistico-romana. - XI. L'esportazione di oggetti artistici e il commercio romano oltre i confini dell'Impero: A. Europa; B. Africa e Asia.

I. - I problemi dell'arte romana. La sua importanza storica. - Una storia dell'arte r. non è ancora stata scritta; almeno nel senso che essa sia esposizione di una linea di sviluppo storico, costituita non dal solo allineamento di dati cronologici, ma anche dalla definizione dei valori e significati della forma artistica e dal riconoscimento del contenuto che quelle espressioni artistiche intesero esprimere nel loro tempo, punti e nodi di uno svolgimento per noi reso intellegibile dalla indagine critica. Pertanto, non esistendo ancora un tale risultato della ricerca (come esiste per l'arte greca), non lo si potrà riassumere in un articolo di informazione enciclopedica. Né, una storia dell'arte r. nel senso suddetto, la si potrà scrivere ancora per qualche tempo, in mancanza ancora oggi (1964) di una sufficiente elaborazione in senso filologico di molte questioni di dettaglio; e in mancanza persino di una diffusa accettazione dei criteri con i quali sia da affrontare il problema relativo a tale storia. Questa singolare situazione è dovuta a fattori diversi: la reiezione dell'arte romana, da parte della critica neoclassica che dette vita agli studi archeologici (v. winckelmann), in una sfera di subordinazione imitativa rispetto all'arte greca; il generico concetto di decadenza con il quale si credette di poter spiegare il dissolversi della tradizione ellenistica negli ultimi secoli dell'Impero; il ritardo con il quale fu accolto da parte degli archeologi lo sforzo fatto, sul volgere del secolo scorso, dalla Scuola di Vienna (v. riegl; wickhoff) per uscire dagli schemi neoclassici e per superare quel concetto di decadenza, seguito poi dal modo acritico con il quale ne furono in seguito ripetute le conclusioni, che oggi sono finalmente apparse non più sostenibili (pur riconoscendone in pieno il merito di rottura degli schemi accademici). Infine, però, dobbiamo riconoscere la intrinseca difficoltà del compito di ridurre a discorso logico, cioè storico, un fenomeno geneticamente assai discontinuo, complesso e differenziato; ma riconoscere anche l'importanza europea, e quindi universale, di questo fenomeno storico nel campo delle civiltà artistiche.

Per procedere con qualche chiarezza, ci sembra che si debbano subito proporre due questioni: - se per storia dell'arte romana dobbiamo intendere nascita e svolgimento di una specifica espressione artistica "romana", legata cioè alla città di Roma e ai suoi abitanti - oppure se dobbiamo intendere l'identificazione e la descrizione della cultura artistica, che di volta in volta si affermò entro il sempre più esteso ambito politico romano, e soddisfece per un millennio il bisogno di produzione artistica della vita pubblica è della vita privata in tutto il corso dell'età romana. Nel primo caso, dovremo esaminare, innanzi a tutto, quando è che nella koinè, nel linguaggio comune dell'arte medio-italica (comprendente cioè l'area Campana, Laziale ed Etrusca) si può cogliere un accento peculiare, da riconoscersi diverso dagli altri e da individuare quale specificamente "romano". Nel secondo caso, per storia dell'arte romana sarà da intendere la storia della cultura artistica nell'età e nell'area politicamente dominata da Roma; cioè, si dovrà tenere conto della produzione artistica non soltanto a Roma, non soltanto in Italia, ma anche di quella, che durante i secoli della dominazione romana su di essi, si svolse nei paesi di antica civiltà artistica che avevano già ricevuto una prima unificazione culturale durante i tre secoli dell'ellenismo (325-30 a. C.), quali la Grecia, l'Asia Minore, il Ponto, la Siria e l'Egitto. E poi, anche dei paesi nei quali l'ellenismo era giunto solo di riflesso o giungeva solo nel contatto con Roma, e che avevano pure avuto una produzione artistica propria, in certo modo "incolta" (barbarica): come la penisola iberica, il settore occidentale della costa nord-africana, la Gallia, la Bretagna, le province attorno al Reno e quelle attorno al Danubio, paesi nei quali si sviluppa in età romana quella che comunemente viene detta "arte provinciale" e che talora raggiunge un certo grado di autonomia, mentre a quei paesi giungevano anche opere, importate, di tradizione romano-ellenistica (v. provinciale, arte). In tal modo, come ognun vede, il campo d'indagine diviene vastissimo; ma è proprio in esso che svolge il suo ruolo storico l'arte dell'età romana, in quanto romana.

L'aver tardato a porre con chiarezza la distinzione fra queste due diverse serie di problemi, cioè "arte romana" e "arte del mondo antico in età romana", ha contribuito al ritardo nel quale si trova oggi la ricerca scientifica in questo campo. Occorre affermare subito la convinzione che in una esatta considerazione storica dell'argomento, non si possa limitare l'indagine all'una questione o all'altra; ma che tutte e due vadano tenute presenti e considerate e che vada cercata risposta tanto all'uno che all'altro dei problemi esposti. Nella realtà storica, poi, queste due serie di problemi non possono assolutamente tenersi distinte, in quanto la civiltà artistica romana si forma dapprima nell'area limitata di una città, Roma, aperta da secoli a contatti varî e in condizioni del tutto particolari (e sarà da vedere come e quando); si estende poi ai gruppi di coloni che Roma stabiliva in Italia; si sviluppa infine in un centro politico ed economico di carattere universale, al quale affluivano esperienze e tradizioni artistiche da tutto il vasto mondo da esso retto ed amministrato; ma da quel centro anche partivano le indicazioni ideologiche e di contenuto che determinavano strutture di fondo o modificavano concetti informatori nella produzione artistica, indicazioni e modificazioni che si manifestavano anche nel mutarsi delle iconografie, solitamente conservatrici come in ogni arte a prevalente carattere artigianale. (Questo, poi, del prevalente carattere artigianale di grandissima parte dell'arte romana è un elemento che non va mai perduto di vista).

Tutta la storia dell'arte romana è intessuta da un continuo e reciproco scambio di impulsi fra il centro e la periferia. Proprio nel carattere inerente alla propulsione da un centro (propulsione tematica, che consente diversità di espressione e quindi non annulla l'autonomia formale dei centri artistici tradizionali divenuti periferici), cioè nell'azione di unificazione, risiede uno dei motivi che conferiscono importanza "europea" all'arte romana. All'unificazione stilistica delle forme dell'arte, conseguita dalla civiltà greca di età ellenistica in direzione di un raffinato e intellettualistico naturalismo, l'età romana sovrappose una nuova e diversa unità, non tanto formale quanto di concetti e di intenti, non più nel senso del riconoscimento di una superiore validità alle ragioni dell'arte, come aveva ammesso la cultura ellenistica; bensì dando validità a una valutazione prettamente tecnica della produzione artistica, scevra di ragioni teoriche e di precetti, ma rivolta, in sostanza, a considerare l'arte figurativa come il modo più elevato di celebrazione, sia dell'individuo in relazione allo Stato, sia dello Stato quale protagonista nel promuovere, attraverso le singole personalità, il benessere collettivo.

È stato riconosciuto (dal Rodenwaldt, 1942, dallo Schweitzer, 1950) che al posto del lògos immanente all'arte greca, i Romani ebbero a porre la res. È una formulazione appropriata, che riguarda il modo di considerare la forma artistica in sé stessa; ma anche la trasposizione della tematica da una concezione astratta rivolta verso il mito, ad una concezione attuale rivolta verso la storia contemporanea. I Greci raffiguravano le loro vittorie sulle altre nazioni (sui Persiani, sui Galati) con rappresentazioni della Centauromachia, dell'Amazzonomachia, della vittoriosa lotta fra Dei e Giganti, simboleggiando ogni volta in questi miti la finale supremazia dell'elemento più valido per civiltà e razionalità. L'Apollo del frontone occidentale di Olimpia agisce e domina col solo gesto; lo Zeus, nel frontone orientale, addirittura con la sola e immobile presenza (v. greca, arte). Questa forza morale, questa "eticità", si era già logorata nei tre secoli dell'ellenismo durante i quali l'arte era divenuta, da espressione della collettività urbana, espressione della potenza del monarca, economica prima ancora che politica, o espressione della raffinatezza del collezionista e anche soltanto della ingegnosità e abilità dell'artista. Su questa via della soggettivizzazione dell'opera d'arte, l'età romana procedette a fondo; ma bisogna riconoscere che in ciò l'avvio era stato dato dalla civiltà di età ellenistica. Comunque, il passo decisivo, dal mito all'attualità concreta dell'avvenimento storico, fu compiuto dalla civiltà romana con la diffusione del rilievo storico, narrativo di un fatto di interesse pubblico, di carattere civile o militare. La narrazione di una impresa guerresca nei suoi varî episodi già era stata praticata dalle civiltà del Vicino Oriente e poi rifiutata dai Greci. La celebrazione di una guerra vittoriosa è argomento abituale dell'arte romana e la sua rappresentazione si cristallizza in alcuni temi fissi (partenza; costruzione di strade, ponti o fortificazioni; offerta di un sacrificio agli dèi; allocuzione; battaglia; assedio; atto di sottomissione dei vinti; ritorno e corteo trionfale; atti di beneficenza). Attraverso questa tematica l'artista riceve una norma, entro la quale inserire volta a volta quelle varianti che richiamavano con particolari caratteristiche i luoghi o gli avvenimenti, puntualizzando e storicizzando la raffigurazione; e questa diveniva, in tal modo, facilmente comprensibile, esplicita a chiunque, a prima vista. Il rilievo storico romano partecipa, inoltre, del carattere narrativo di ogni raffigurazione celebrativa e di ogni arte popolare, e ricorre perciò a talune formule fisse, tipiche per tale genere d'arte in ogni tempo (per esempio: le vedute dall'alto "a volo d'uccello", le formule abbreviate per raffigurare edifici, città murate).

La produzione artistica romana non appare mai disinteressata, cioè rivolta principalmente a fini di godimento estetico, se non nell'ambito dell'artigianato di lusso: vasi di metallo prezioso o di bronzo adorni di figurazioni, o le loro imitazioni in ceramica; statuette e ornamenti del mobilio; gemme e camei, vasi di vetro; sarcofagi; fregi vegetali architettonici. Ma anche qui, c'è quasi sempre congiunto un fine celebrativo: se non d'altro, della potenza economica, e quindi sociale del committente. Nella produzione artistica della scultura ufficiale l'intento celebrativo (e talora francamente propagandistico) supera chiaramente, ci sembra (nonostante le obiezioni che a tale interpretazione possono essere state mosse), il momento di astratto interesse formale. Se, ciononostante, i monumenti di arte romana hanno spesso qualità che soddisfano l'esigenza di un'analisi formale critica, ciò è dovuto a due fattori fondamentali: alla vigorosa vitalità dell'impegno celebrativo e alla sempre presente eredità della forma greca, la quale rimane esteriormente attiva, anche quando subisce il trapasso dalla sua genuina concezione oggettiva-astratta a quella soggettiva concreta dell'età romana.

In tale abbandono dei concetti formativi dell'arte greca avvenuto pur conservando, anzi assumendo nello stesso tempo in proprio, la forma greca e adattandola, fra l'altro, ad una società molto più differenziata, non v'è dubbio che la forma greca sia stata svuotata, sia divenuta spesso soltanto un involucro esteriore, che si logora nella routine delle infinite ripetizioni. Se tale logorio comporta una perdita dell'originario significato estetico di quelle forme, esso ha tuttavia la sua importanza storica. Esso finisce, infatti, per fornire inerti schemi iconografici pronti ad assumere forme e contenuti e significati del tutto nuovi: così il tipo della Nike diverrà Angelo, quello del filosofo sarà usato per gli Apostoli del Cristianesimo, ecc. (v. nike; filosofi). E anche questo fatto, negativo, se si vuole, da un punto di vista puramente artistico, creativo, è pure un elemento che arricchisce il significato dell'arte romana quale cultura di trapasso fra il mondo dell'antichità classica mediterranea e quello del Medio Evo europeo e dei suoi successivi sviluppi.

Tanto differenziata la società per la quale opera la produzione artistica dell'età romana, che non se ne potrà intendere il decorso se non si terrà conto di una dualità, di un "bipolarismo" (Blanckenhagen), la cui importanza storica è stata riconosciuta dagli studiosi solo negli ultimi decennî, e che potremmo indicare didatticamente distinguendo una corrente d'arte "patrizia" (o aulica) da una corrente "plebea" (o popolare). Entrambe queste correnti coesistono sino dal primo affacciarsi di un'arte romana (e sarà da spiegarne il perché e i modi); esse si avvicinano tra loro, in taluni periodi sino quasi a fondersi e quindi annullarsi; ma in realtà restano rintracciabili chiaramente attraverso quattro secoli. Per lungo tempo la corrente patrizia ha il sopravvento; ma a partire dallo scorcio del III-inizî del IV sec. d. C., elementi costitutivi e perenni della corrente plebea entrano stabilmente a far parte del linguaggio figurativo romano contribuendo, quale espressione dei profondi mutamenti sociali e ideologici di quel tempo, alla rottura con la forma del naturalismo ellenistico: quella forma che durante oltre 8oo anni si era andata prima costituendo e poi affermando in modo assolutamente dominante nella cultura artistica dell'antichità mediterranea, irradiandosi anche ben al di là di quella. A questo punto, noi riconosciamo una svolta, l'inizio di una nuova periodizzazione, che va sotto il nome di "Tarda Antichità" (v. spätantike). Questa segna, in senso stretto, la fine dell'ellenismo e l'inizio, nell'ambito romano, di uno svolgimento formale nuovo, che troverà logico sbocco nell'arte dell'alto medioevo, sia bizantino che "romanico". In queste due diverse e nuove civiltà artistiche si perpetua, in certo modo, la dualità di correnti insita nella cultura artistica romana. Infatti, nell'Occidente barbarico europeo trova meglio continuità e sviluppo la corrente "plebea", parte costituente di quell'arte "provinciale" che entra come elemento determinante, con altri, nella formazione dell'arte medievale d'Occidente (anche se di tale fatto gli storici dell'arte medievale si sono a lungo rifiutati di tener conto). Invece, la più remota e genuina tradizione ellenistica conserva più a lungo le forme della corrente "aulica" nell'Oriente romanizzato, sino a che da tali profonde radici ellenistiche, ben vive nei centri microasiatici e siriaci, a stretto contatto con le tendenze lineari esercitatesi nell'arte rappresentativa e religiosa dei centri urbani di lontana ascendenza iranica (v. parthica, arte; sassanide, arte), non si costituì quella nuova forma artistica che chiamiamo bizantina. Ma il fatto saliente, decisivo per questo profondo mutamento sarà l'elemento irrazionale, che pervade la creazione artistica nel corso del III sec. (v. cap. vi, vii, viii).

Bastano questi fatti, nella loro sia pure schematica enunciazione, a indicare l'importanza storica universale dell'arte romana, in sé stessa e in rapporto alla cultura artistica dell'Europa e ben oltre i confini storici e geografici di questa.

Pur non rientrando l'argomento nella tematica di questo articolo, un richiamo va fatto anche alla circostanza che è stato soltanto attraverso l'arte romana che la cultura artistica "gotica" e la civiltà del "rinascimento", che produssero le più grandi creazioni dell'arte europea prima dell'età moderna, conobbero la forma artistica dell'Antichità classica, considerata sempre quasi una seconda e più perfetta Natura dalla quale trarre insegnamento. La vera e propria arte greca, infatti, cioè l'autentica forza creatrice di quella forma assoluta, fondata sopra una visione completamente nuova rispetto a tutto quanto le altre civiltà antiche avevano prodotto, è stata riscoperta in tempi relativamente recenti: il riconoscimento teorico ne risale alla fine del sec. XVIII e l'effettiva conquista documentata ne inizia a partire dalla metà del XIX. Quest'opera di trasmissione della forma antica, "classica", e in realtà del naturalismo ellenistico, senza la quale la civiltà artistica dell'Europa medievale e moderna sarebbe impensabile nei suoi storici aspetti, si è estesa anche assai al di là dei confini dell'Impero Romano per mezzo degli oggetti di artigianato artistico che il commercio disperdeva nel Nord europeo, nell'Est asiatico, nel Nord e Nord-Est africano, ampliando in modo spesso inatteso l'importanza storica della cultura artistica romana. (Alla dettagliata documentazione di tale diffusione è stato dedicato il capitolo xi a e b, di questo articolo).

Considerando a parte l'architettura e soffermandosi alle arti più propriamente plastiche, chè avevano trionfato in Grecia, pittura e scultura, senza dubbio appare che il valore dell'arte di età romana risiede soprattutto nella sua enorme importanza storica. Dal punto di vista della creazione artistica, salvo pocnissimi casi (e il più genuino rimane quello della Colonna Traiana e del suo fregio figurato, v. cap. v), essa non supera il livello del mestiere; ma tale mestiere è esercitato con una straordinaria aderenza alla tematica proposta, con una mirabile capacità tecnica, che riesce a tener sempre desta la freschezza della forma anche negli schemi ripetuti infinite volte, si tratti di scene figurate o di elementi ornamentali dell'architettura. Non vi è quasi mai, nei cinque secoli d'arte che può dirsi romana, la cosciente impostazione di un problema estetico, la sofferta ricerca dell'arte, l'invenzione di una nuova entità tipologica. Ma vi è sempre una eccezionale capacità e rapidità di espressione. La produzione artistica rimane sempre una prassi, non diviene mai convincimento teorico espresso in forma plastica, e solo nei suoi ultimi tempi assorbirà una componente metafisica. Si opera sul grande passato ellenistico, combinando, adattando, trasformando talora anche fino al non riconoscibile; ma sempre inseguendo uno spunto venuto dall'esterno. Si foggia la statua dell'imperator, tipologia nuova per una realtà nuova, assai diversa da quella dello stratega greco; dirà Plinio (Nat. hist., xxxiv, 18): graeca res nihil velare, at contra Romana ac militaris thoraces addere ("è uso greco non coprire il corpo; da romani invece e da soldati [quali sono] aggiungere la corazza). Ma si prende il torso del Doriforo policleteo, si sostituisce alla perfetta astrazione formale della testa un ritratto individuale (cosa da far orripilare un greco di età classica, ma già praticata dai neo-attici della fine del II sec. a. C.), lo si veste di una corazza adorna di simboli e di riferimenti politici, ed ecco l'Augusto di Prima Porta, il "classico" modello della statua imperiale, eretta nella villa stessa della Augusta vedova. L'unica nuova creazione astratta, quasi puro problema di forma, eppure sempre intrisa di riferimenti individualistici, sarà la statua nuda di Antinoo (vol. i, fig. 570), creata nel ristretto ambiente di corte, nel momento di più drammatica nostalgia verso la Grecia immortale (cap. vi). Ma se il piatto della bilancia rimane leggero là dove si pongono i valori di pura invenzione formale, l'altro piatto trabocca, se in esso poniamo l'infinita ricchezza dei motivi ornamentali, funzionali, descrittivi, celebrativi, sparsi a piene mani in tutto il mondo occidentale ed oltre di esso, e le durature invenzioni degli ingegneri e degli architetti.

Decisivo per intendere tutta l'arte di età romana è il periodo di formazione, che si svolge in modi del tutto peculiari. Fu poi nell'ultimo secolo Repubblica, dalla metà del II sec. a. C. (nel 146 ha termine vittoriosamente il rapporto militare e di forza con Atene e con Cartagine), ma specialmente dall'età di Silla al secondo triumvirato, che furono posti i fondamenti dell'arte romana e che riscontriamo veramente un momento creativo, anche se dovuto in massima parte alle ultime maestranze direttamente nutrite, di ellenismo. Il problema fu formulato icasticamente, anche se con un certo semplicismo, nel modo seguente: "nel 200 a. C. non esiste ancora un'arte romana: ma essa esiste nel 100 a. C." (Beyen, 1954).

Bibl.: (Bibliografia generale in fondo all'articolo. Un repertorio completo dei monumenti di età romana si trova ora nel volume di A. Frova, L'Arte di Roma e del Mondo Romano [Storia Universale dell'Arte, II], Torino 1961). - I. Il problema: F. Wickhoff, Die Wiener Genesis, Vienna 1895; 2a ed. della sola introduzione: Römische Kunst, Berlino 1912 (tr. it.: Arte romana, Padova 1947); A. Riegl, Die Spätrömische Kunstindustrie nach d. Funden in Oesterreich-Ungarn, I. Teil, Vienna 1901; 2a ed.: Spätrömische Kunstindustrie, Vienna 1927 (tr. it.: Industria artistica tardoromana, Firenze 1953; Arte tardoromana, Torino 1959); J. Strzygowski, Orient oder Rom? Beiträge zur Geschichte der spätantiken u. frühchristichen Kunst, Lipsia 1901; G. Rodenwaldt, Römisches in d. antiken Kunst, in Arch. Anz., XXXVIII-IX, 1923-4, c. 364 ss.; J. Sieveking, Das röm. Relief, in Festschr. Arndt, Monaco 1925, p. 14 ss.; L. Curtius, Geist der römischen Kunst, in Die Antike, V, 1929, p. 187 ss.; G. A. S. Snijder, Het Probleem der Romeinsche Kunst, in Tijdschrift voor Geschiedenis, XLIX, 1934, p. 1 ss.; R. Hinsk, Carolingian Art, Londra 1935; P. H. Blanckenhagen, Elemente der römischen Kunst am Beispiel des Flavischen Stils, in Das neue Bild der Antike, 2, 1942, p. 310 ss.; D. Levi, L'arte romana, schizzo della sua evoluzione e sua posizione nella storia dell'arte antica, in Ann. Scuola Arch. It. Atene, XXIV-XXVI, 1946-8 (1950), p. 229 ss.; O. Brendel, Prolegomena to a Book on Roman Art, in Mem. Amer. Acad. Rome, XXI, 1953, p. 9 ss.; H. G. Beyen, De Romeinse Kunst, Verval, Vervulling, Belofte (Prolusione, Leida), 1954, p. 25; H. Kähler, Wesenszüge der Römischen Kunst, Saarbrücken 1958; A. W. Byvanck, Le problème de l'art romain, in Bull. Vereenig. Ant. Beschaving, XXXIII, 1958, p. i ss.; G. A. Mansuelli, Problemi di arte romana nell'Italia settentrionale, in Cisalpina, Milano 1959, p. 315 ss.; R. Bianchi Bandinelli, Römische Kunst, Zwei Generationen nach Wickhoff, in Klio, XXXVIII, 1960, p. 267 ss. (L'arte romana, due generazioni dopo Wickhoff, in Archeologia e Cultura, Milano-Napoli 1961, p. 234 ss.); B. Schweitzer, Die Europäische Bedeutung der Römischen Kunst (1950), in Zur Kunst der Antike. Ausgewählte Schriften, II, Tubinga 1963, p. 198 ss.

II. - Dalle origini a circa il 100 a. C. - Formazione e caratteri di una cultura artistica in roma. - La penisola italiana, chiusa dall'arco alpino, sbarrata, nella sua parte protesa nel mare, dagli Appennini e suddivisa da aspre montagne in regioni di limitata estensione, fu occupata, in età protostorica, da genti di sviluppo culturale diverso. Tale diversità non sarà interamente cancellata nemmeno dai successivi contatti reciproci e dai contatti che tutte le culture locali ebbero precocemente e durevolmente con le civiltà sviluppatesi nel bacino orientale del mare Mediterraneo e particolarmente con quella greca. Tuttavia, lo sbarramento appenninico separò culturalmente la pianura padana e le regioni finitime dal resto dell'Italia peninsulare per tutto il periodo della formazione della civiltà artistica romana e anche dopo.

La colonizzazione greca, iniziata con gli stanziamenti nell'isola di Pithecusa (v. ischia), estesasi rapidamente a Cuma e poi in Sicilia (v.) e nell'Italia meridionale, dette vita a una civiltà artistica abbastanza unitaria in tutte queste regioni. Ma sotto allo strato culturale ellenizzato, sopravvissero le tendenze ad una rozza, ma vivace e spontanea, espressione artistica, la quale di volta in volta assume valori di stile soltanto sotto l'impulso del suggerimento greco e, dove questo non giunge, mostra l'incolta espressività dell'arte che si è convenuto di definire "italica" (v.). Questa prevaleva nelle scarse manifestazioni figurative delle popolazioni rimaste, nelle loro aspre contrade, fuori dal diretto contatto greco: Piceni, Sanniti, ecc. Tuttavia, anche all'interno dell'unità a denominatore ellenico, si possono facilmente riconoscere accenti diversi, tanto nell'età arcaica quanto in quella ellenistica. Ma particolarmente in quest'ultima età quando, nei secoli III e II a. C., la forma greca, diventata estremamente mondana e duttile si espanse anche con mezzi mercantilistici in tutto il Mediterraneo e assai oltre. Si produsse, allora, in Italia una cultura artistica sostanzialmente comune, che dall'Apulia, nella quale prevalsero inizialmente i contatti con l'ambiente attico e poi con quello Epirota e Macèdone, si estese alla Campania e all'Etruria, là dove si era sviluppata, sulla base di una particolare fioritura economica, la più vivace ed autonoma di quelle civiltà artistiche dell'occidente che si trovarono sottoposte alle influenze inevitabili della civiltà greca, ovunque presenti e riconoscibili in queste culture periferiche.

Il Lazio (situato fra le regioni dell'Etruria e della Campania strettamente collegate fra loro) e Roma (situata sul Tevere nel punto di passaggio obbligato dall'una all'altra e sulla via del sale, la Salaria, da Ostia, colonia dopo il 425, all'interno) diversamente dagli altri centri italici, non produssero né nell' età arcaica né in quella successiva anteriore all'ellenismo, una cultura artistica propria. Nemmeno nella modesta misura che la produsse la piccola regione dei Falisci (v. falisca, civiltà) situata fra i laghi di Bracciano e di Vico, tra il Cimino e il territorio etrusco di Veio, nel raggio di 50 miglia da Roma. Ma va tenuto anche presente che Roma era una città, non una nazione, Roma non si identifica col popolo Latino e sta a sé di fronte agli altri popoli italici. È una città-stato risultante dall'unione di tribù, composte a loro volta dalla riunione di più clan familiari. (Per lo sviluppo urbanistico della città e per i monumenti ancora esistenti, si veda la voce roma, parti B e C).

I. Arte in Roma dal VI al IV sec. a. C. - Il materiale raccolto dalla ricerca archeologica in Roma e che sia databile fra l'VIII (data tradizionale della fondazione di Roma, secondo Varrone: 753 a. C.) e il IV sec. a. C., dimostra in modo inequivocabile la sua provenienza da officine artistiche dell'Etruria e della Campania e presenta un flusso di importazioni dalla Grecia di gran lunga meno cospicuo, per quantità e per qualità, di quello che si riscontra in Etruria (Scott Ryberg, 1940 e relazioni di scavo dell'area di S. Omobono). Una ben nota fibula d'oro (trovata a Palestrina) decorata a graniglia con l'iscrizione Manios: med: fhe: fhaked: Numasioi mostra che fra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a. C. esistevano, nell'ambito laziale, officine ove oggetti tipici dell'artigianato etrusco venivano eseguiti da genti di lingua latina. La tradizione letteraria ci dà notizia che il tempio di Giove Capitolino, dedicato, secondo la stessa tradizione, nel 509 a. C., era costruito alla maniera etrusca e decorato da statue di terracotta della scuola del veiente Vulca e che l'immagine di legno conservata nel tempio di Diana sull'Aventino era stata portata a Roma dalla colonia focese di Marsiglia. I frammenti di decorazioni in terracotta trovati nel sottosuolo di Roma e pertinenti a lastre di rivestimento o ad antefisse di edifici costruiti in massima parte di legno come quelli trovati in altre località del Lazio (Preneste, Velletri, Civita Castellana, Conca, Segni) non si differenziano in nessun modo da quelli trovati in Etruria (v. roma, sez. B, figg. 899, 900). Anche l'uso, attestato da Vitruvio (iii, 3, 5), che in qualche caso particolarmente lussuoso le decorazioni in terracotta erano sostituite da analoghi ornamenti in bronzo dorato, ci è documentato da frammenti del tempio di Diana a Nerni (Roma, Museo di Villa Giulia). La Lupa (v.) capitolina in bronzo che sarà il riconosciuto simbolo della città, è da tempo stata definita stilisticamente come opera di officina forse etrusca o forse della Magna Grecia, databile alla metà del V sec. a. C. Alla fine del IV sec. (databile dal tipo del fregio di palmette che si inserisce esattamente in uno svolgimento di tale ornamentazione sulla ceramica datata dall'Attica), la ben nota cista Ficoroni (v.), scoperta a Praeneste (Palestrina), porta l'iscrizione che la dice opera di un Novios Plautios (v.), eseguita a Roma (med. Romai fecid). È questa la più antica testimonianza di un'opera d'arte eseguita in questa città. Ma il tipo della cista è prenestino, il nome dell'artista suona osco-campano, la decorazione figurata a bulino ripete motivi della grande pittura greca classica e le parti plastiche rientrano esattamente nella comune produzione medio-italica o campano-etrusca, vale a dire nel linguaggio comune della grecità periferica dell'Italia peninsulare. L'indicazione che l'oggetto fosse stato eseguito a Roma ci dice che artisti campani avevano qui officina (e forse Novios era liberto dei romani Plautii). Lo si può riscontrare, del resto, anche per la produzione dei vasi di tipo "caleno" (v. caleni, vasi) e forse anche per i vasi della categoria dei pocola (v.), stilisticamente campano-àpuli, ma con diciture in latino. Anche in questi casi, dunque, di una civiltà artistica romana con caratteri formali proprî non esiste ancora traccia. Altri resti di opere di artigianato artistico (soprattutto terrecotte architettoniche, arule, teste votive eseguite in serie a stampo) databili tra il III e il II sec. a. C., non ci palesano alcun segno di stile che ne indichi la provenienza: saranno state eseguite a Roma, ma potrebbero ugualmente provenire dall'Etruria, dalla Campania, dall'Apulia. La ben nota testa in bronzo detta di Giunio Bruto al Palazzo dei Conservatori (v. vol. ii, fig. 257) unico esempio rimastoci, in Roma, di una produzione di una qualità superiore all'artigianato nel campo della statuaria, variamente datato (al IV, ma anche al I sec. a. C., v. ritratto) è probabilmente da assegnarsi a non prima della metà del III sec. a. C. La sua attribuzione all'arte etrusca del IV (von Kaschnitz, Bianchi Bandinelli), ebbe più valore polemico che critico: in realtà oggi vediamo che non vi è nulla di specificamente etrusco in essa, come non vi è nulla di specificamente campano o romano; anche se vi è formalmente molto di non-greco, pur nella generica filiazione dal ritratto post-lisippeo. Essa ci appare oggi, un prodotto insigne di una officina, che potrebbe essere stata collocata a Roma come altrove nell'area medio-italica, nella quale le esperienze originali del ritratto ellenistico fossero state accolte e tradotte in un linguaggio espressivo duramente oggettivo, spogliate di ogni compiacimento di eleganza (donde il "cubismo" riconoscibile nella sua struttura, che non è però un elemento specificamente etrusco come fu detto e ripetuto) e rispondente in sostanza a una concezione formale fondamentalmente legata alla eredità italica. Il sostrato per tale espressione formale si può cogliere in terrecotte o sculture laziali in pietra tenera, particolarmente dei centri sanniti (Carsoli, Palestrina, ecc., v. vol. ii, pag. 533; vol. v, fig. 1086), piuttosto che di quelli etruschi. Dobbiamo riconoscere che mancano però ancora sistematiche ricerche in proposito, le quali consentano una più precisa collocazione di tutta una serie di sculture nell'ambito mesoitalico.

Sempre dalle fonti letterarie si ricava memoria, per il sec. IV a. C., di numerose statue esistenti in Roma, per la maggior parte di bronzo, alcune delle quali potrebbero essere state anche più antiche, come quella equestre detta di Clelia (che probabilmente era di una antica divinità simile ad Epona). Il bottino di numerose statue in bronzo, che è riferito per la presa di Volsini datata al 264 a. C., conferma questo dato. Le stesse fonti ci dicono che durante le guerre sannitiche sarebbero state erette in Roma statue a Alcibiade e a Pitagora (v.) oltre a numerose altre come quella di Orazio Coclite, delle Sibille, di Romolo, di Tito Tazio, di Ermodoro e dei consoli vittoriosi contro Veio, contro i Latini e i Sanniti, nonché degli ambasciatori uccisi dai Fidenati, il che ci riporterebbe alla fine del sec. IV. Si aggiungano le statue di culto che dovettero ornare i numerosi templi che andavano sorgendo in Roma (392 a. C. di Giunone Regina sull'Aventino, 388 di Marte fuori Porta Capena, 366 della Concordia, 344 di Giunone Moneta sull'Arce, 293 di Venere al Circo Massimo, 291 di Esculapio all'Isola Tiberina, 258 di Spes, 260 ex voto di C. Duilio; 194 tempio di Giunone Sospite). Di tutto questo non ci resta nessuna traccia, ma possiamo averne un'idea dalla statua in bronzo trovata nei pressi di Todi (v.) raffigurante un guerriero (o forse Marte) con iscrizione graffita in dialetto umbro (Musei Vaticani). Dopo la presa di Siracusa, nel 212 a. C., sulla cui importanza per la cultura artistica romana sarà da ritornare più avanti, alcuni di questi templi avranno ospitato anche statue greche. Ma prima, la statuaria dovette avere quel generico carattere campano-etrusco-laziale, che ci mostrano i pochi relitti superstiti e le terrecotte votive, e che ci è confermato dalle immagini monetali: dapprima i grossi bronzi fusi (aes grave), risalenti a poco prima dell'anno 300 a. C. (v. moneta, figg. 214, 216) costituenti una moneta di tarda apparizione e di limitata circolazione, destinata all'ambiente italico; e poi i primi pezzi d'argento coniati nella zecca di Capua in modi conformi alla tradizione artistica locale, e finalmente il denarius con la testa di Roma espressa in una forma lineare priva di eleganza e poveramente disegnata (v. vol. v, figg. 218-19). Mancano tuttora, anche in questo campo ricerche adeguate: ma tutto questo repertorio artistico fa parte di quell'ellenismo provinciale italico, che è esemplificato in molti rilievi di urne e di sarcofagi rinvenuti nelle necropoli etrusche di Tarquinia, di Chiusi, di Perugia, di Volterra, databili dall'inizio del III alla fine del I sec. a. C. e attestanti, per la massima parte, una recezione di testi (o modelli) ellenistici riconducibili al primo e al secondo ellenismo, trascritti con errori e interpolazioni (v. etrusca, arte). Vediamo, in questi, presentarsi una casistica varia: trascrizione stilisticamente abbastanza disinvolta di modelli ellenistici e anche inserzione di figure del repertorio etrusco adattate alla forma ellenistica; assunzione di composizioni e iconografie ellenistiche travisate e impoverite da una grossolanità artigiana provinciale; composizioni dove, per la scelta del soggetto, mancava un modello ellenistico, tipiche dell'espressione popolaresca di un'arte volta solamente a fini pratici di narrazione commemorativa o di modesta decorazione.

2. Sviluppo politico. - Di fronte all'evidenza che il sorgere e l'affermarsi di Roma nel campo politico non si accompagna al sorgere di una specifica cultura artistica, dobbiamo anche riconoscere che ciò rientra nell'ordine naturale delle cose, trattandosi di una città sola, con esiguo territorio, formata da elementi compositi e diversi, esposta al flusso commerciale di civiltà artistiche già esperte. La sua produzione artistica non poteva non identificarsi con quella della civiltà entro la quale essa sorse. Corinto, è vero, ed Atene, svilupparono precocemente caratteri artistici proprî entro la comune tessitura dell'arte greca; ma sono esse, appunto, l'eccezione nel senso di un interesse e di una capacità per la forma artistica come espressione di libertà dell'uomo, quale nessun'altra civiltà ne produsse di uguale. A Roma, attraverso una secolare lotta con la natura e la povertà, e contro vicini simili ad essi, si formò il carattere e la mentalità di questi Romani della prima età repubblicana, che l'ideologia patrizia dell' età sillana prenderà a modello nell'esprimere una nuova arte del ritratto (v. più avanti). Uomini duri, violenti e tenaci abituati alla fatica e al comando assoluto nella cerchia familiare, con una mentalità e un fisico da contadini, tutti volti al pratico e all'immediato interesse, al vantaggio da raggiungere con lo sforzo personale e la volontà di tutti contro tutte le avversità. Una mentalità dominata da un senso oscuro di incombenza di forze inafferrabili, che li spinge non tanto a una religiosità di rivelazione e di fiducia, quanto a una superstizione diffidente. Tanto diffidente da non voler nemmeno precisare il nome della divinità protettrice della loro città, né se fosse un dio o una dea (Macrob., Saturn., 3, 9). A una società formata da uomini siffatti è logico che tutto dovesse sembrare superfluo e anche un poco incomprensibile, quello che non recasse una utilità immediata e pratica. Le discussioni estetiche erano certo ben lontane dal loro orizzonte; ma essi potevano apprezzare un buon ingegnere e un buon capomastro muratore. Una architettura esiste infatti prima di una pittura e di una scultura romana. Ma ancora nel II sec. a. C. fu fatta demolire, per ordine del Senato, l'iniziata costruzione di un teatro stabile, in pietra, "come cosa inutile e nociva ai costumi" (Liv., Epit., 48), anche se, secondo la tradizione, fin dal 364 era stato introdotto l'uso di divertimenti teatrali, con attori etruschi.

Quando Roma si sarà impossessata dell'Italia intera e poi quando avrà esteso il suo dominio politico su tutto il Mediterraneo e sull'Occidente europeo, ciò che unirà culturalmente quella vastità di territorî sarà l'impronta politica, amministrativa, economica determinata da Roma; non l'impronta formale artistica in quanto tale, anche se enorme fu poi l'importanza culturale della diffusione, operata da Roma, del naturalismo di derivazione ellenistica entro il mondo barbarico e quello orientale. Sino attorno al 150 a. C. dovremo dunque ricercare nella cultura artistica etrusca, greca, e soprattutto italica in genere, la civiltà artistica esistente nella città di Roma. Soprattutto negli aspetti dell'ellenismo italico (anch'esso ancora così poco indagato criticamente) dovremo cercare le premesse dalle quali, raggiunta la stabilità politica ed economica, si potrà sviluppare un carattere specificamente romano. Roma, liberatasi dalla soggezione politica etrusca quando gli Etruschi perdettero i loro possedimenti in Campania (474 a. C. data tradizionale della disfatta degli Etruschi a Curna), era rimasta chiusa in un territorio angusto e poco redditizio, atto soltanto al pascolo; riusciva poi nel giro di un secolo a romper l'isolamento estendendosi sul territorio etrusco e latino, e fu abbastanza forte e abbastanza abile da conquistare, nel giro di un altro secolo, il predominio sulla parte meridionale dell'Italia per giungere infine, nel secolo successivo, a imporsi come potenza decisiva e poi egèmone nel Mediterraneo orientale presentandosi ovunque come sostenitrice dell'ordine sociale esistente e alleandosi, di conseguenza, con le classi dominanti detentrici della cultura tradizionale e urbana dell'ellenismo. Schematizzando il processo storico, si può dire che dal 6oo al 390, per circa duecento anni, Roma non è che una delle città dell'Italia centrale, cui la posizione geografica dava un particolare risalto come città di transito commerciale. Ritiratisi gli Etruschi dalla Campania e dal traffico marittimo, l'importanza commerciale di Roma diminuisce ed essa, per sopravvivere, si trova costretta ad ampliare il suo territorio. Fra il 390 e il 265 seguono 125 anni durante i quali Roma conquista l'Italia subappenninica e al tempo stesso, all'interno, i plebei riescono ad ottenere il diritto di partecipare a tutte le cariche pubbliche. Dal 264 al 202, cioè dall'inizio della prima guerra punica alla battaglia di Zama, nel giro di due generazioni, Roma diviene potenza mediterranea occidentale, e poi, nelle seguenti due generazioni (200-133), respinti dapprima i Galli sul Po e conquistata Cartagine, Corinto, Numanzia e assunta l'eredità di Pergamo, Roma diviene grande potenza anche nel Mediterraneo orientale. È in questo momento che già Polibio (Hist., i, 1, 5) notava l'interesse di sapere come "in meno di 53 anni" i Romani avessero conquistato "quasi tutta la terra abitata". Nei settant'anni seguenti, e poi dalla dittatura di Silla al primo consolato di Cesare (130-59 a. C.), Roma consolida le sue conquiste, ma attraversa un periodo rivoluzionario di durissima, spietata lotta fra plebe e oligarchia, con vittoria di quest'ultima, e finisce per creare un angusto Stato di ricchi, che con Augusto (27 a. C.-14 d. C.) svilupperà una sua organizzazione burocratica e una sua ideologia politica e culturale, che rappresenteranno effettivamente (nonostante i richiami agli Stati ellenistici) un fatto nuovo e una svolta decisiva nella storia economica, sociale e culturale dell'Occidente.

3. Opere d'arte come bottino di guerra. - La guerra contro Taranto, la più fiorente e colta città del mezzogiorno della penisola, portò nel 280 a. C. l'esercito di Pirro dall'Epiro in Italia e in Sicilia. Non fu, questa occasione, solo il primo contatto con un nuovo straordinario mezzo di battaglia, l'elefante guidato da uomini armati chiusi in una piccola torre, che colpì l'immaginazione tanto da lasciarne traccia nell'arte popolare italica (vol. vi, fig. 260); ma fu anche il primo largo contatto diretto con gente del tutto grecizzata. A questo seguì rapidamente, nel giro di un decennio, il trattato con un principe ellenistico, Tolomeo II Filadelfo, erede della porzione africana dell'impero di Alessandro. Vengono poi: la vittoria su Taranto (272 a. C.), la presa di Reggio (270 a. C.), la lega con Siracusa in occasione della prima guerra punica (264-241) e, nel 228, l'ammissione dei Romani ai Giochi Istmici di Corinto, che equivaleva a una ammissione nella società delle nazioni di civiltà greca. Una conseguenza decisiva per la cultura artistica romana, ebbe la presa di Siracusa nel 212 a. C. e il saccheggio della città, dalla quale il vincitore Marcello, come leggiamo nella sua biografia, "portò via la massima parte, e le più belle, tra le opere d'arte per lo spettacolo del suo trionfo e per l'ornamento della città. Roma infatti non possedeva né conosceva prima di allora nessuno di quegli oggetti di lusso e di raffinatezza, né si compiaceva di capolavori di grazia e di eleganza". Ma vi fu chi rimproverava Marcello "di aver riempito d'ozio e di chiacchiere e di aver portato a discutere urbanamente d'arte e di artisti, passando in ciò molta parte del giorno, quel popolo abituato a combattere e a coltivare i campi, schivo di ogni mollezza e di ogni frivolezza come l'Eracle di Euripide schietto rude, buono solo per grandi imprese. Ciononostante (Marcello) si gloriava anche verso i Greci per aver insegnato ai Romani a valutare e ammirare quelle meravigliose opere d'arte greca che non conoscevano". Questo passo di Plutarco (Marcell., 21) riecheggia, certamente, uno schema biografico che era divenuto tradizionale e che troviamo già in Livio (xxv, 40, 1-3) quasi un secolo prima. Anche se, come sempre accade nella tradizione dei fatti storici salienti, questi assumono uno schema più assoluto di quanto non fosse stata la realtà, tuttavia è indubbio che l'arrivo in Roma di numerose opere d'arte come bottino di guerra da Siracusa costituì una svolta nella cultura e nella prassi artistica. Tuttavia, la comprensione del valore artistico o storico-artistico di un'opera dovette rimanere limitato a una élite di intellettuali, se due generazioni dopo, nel 146, il console Mumnio, conquistata Corinto e messe all'asta le opere d'arte frutto del saccheggio, fu tanto sorpreso dell'alta offerta che re Attalo di Pergamo aveva avanzato per un Dianiso di Aristeides (v.), il fondatore della scuola tebano-attica degli inizî del IV sec., che fece ritirare il quadro dall'asta "sospettando nel dipinto qualche virtù nascosta" come dice Plinio (Nat. hist., xxxv, 24, pretium miratus suspicatusque aliquid in ea virtutis quod ipse nesciret). La tavola fu poi posta nel tempio di Cerere a Roma e, secondo Plinio, fu la prima opera di pittura straniera dedicata in luogo pubblico. Il prezzo offerto, di 600.000 denarî (corrispondente circa a 21.000 sterline-oro), era un prezzo da grande collezionista per un caposcuola. Meno di un secolo dopo, anche a Roma vi saranno dei collezionisti altrettanto appassionati e non meno ricchi. Ma essi avranno, come ci mostra l'atteggiamento di Cicerone nelle Verrine (G. Becatti, Arte e gusto, p. 81 ss.), uno strano ritegno a confessare il loro gusto per le opere d'arte: una specie di cattiva coscienza verso l'antica e sofferta austerità dei padri e una specie di disagio verso una superiorità dei Greci in cose che nessun artigiano romano sapeva adeguatamente imitare e tanto meno inventare. Una eco delle polemiche in merito c'è giunta condensata nelle contrastanti posizioni del filleleno circolo degli Scipioni e del conservatorismo di Catone e dei suoi seguaci.

Dopo quella presa di Siracusa, le occasioni per entrare in contatto e in possesso di opere d'arte sembrarono non aver più fine. La guerra contro Filippo V di Macedonia, a seguito della quale Roma proclama la "liberazione" delle città greche, finì con un grande trionfo del console Flaminio nel 194 a. C. e portò a Roma nuovi carichi di statue e di vasi preziosi lavorati a sbalzo e a cesello (Liv., xxxii, 16, 17; xxxiv, 52, 4-5). Quattro anni dopo, la guerra contro Antioco III culminata con la presa di Magnesia al Sipilo, che segnò la conquista dell'Asia Minore ellenizzata fiorente d'arte e di commerci, segnò anche, come ci dicono Livio (xxxvii, 59, 3-5) e Plinio (Nat. hist., xxxiv, 34) "la fine dei simulacri di legno e di terracotta nei templi di Roma, sostituiti da opere d'arte importate". Nell'elenco dello straordinario bottino esibito nel trionfo, figurano 134 statue di divinità, vasi d'argento cesellati per 423 libbre e vasi d'oro per 1023 libbre (la libbra circa gr. 327,2). La lista dei bottini di guerra e delle indennità imposte dall'anno 200 all'anno 157 a. C., che fu messa insieme da T. Frank (Economic Survey, i, p. 127 ss.), dà un'idea impressionante del continuo afflusso di ricchezza che si concentrò in Roma in quel tempo, anno per anno; e molte di queste ricchezze avevano qualità artistiche, poiché mai vi era stata una civiltà così largamente perineata di industria artistica, oltre che creatrice di opere d'arte originali, come quella dell'età ellenistica.

Nel 146, dopo la presa di Corinto, vengono portate statue non solo a Roma, ma ne vengono distribuite anche alle città italiche, e Quinto Metello Macedonico torna accompagnato dall'architetto Hermodoros di Salamina (v.) e da scultori della famiglia di Polykles (v.), mentre poco prima, trionfando sullo pseudo Filippo, aveva trasportato a Roma il gruppo equestre di Lisippo dedicato da Alessandro dopo la battaglia del Granico. I templi di Giove Statore, di Iuno Regina, piccoli edifici in marmo racchiusi da un porticato, furono i primi templi di tipo ellenistico a Roma; di uno di essi sappiamo che fu autore appunto Hermodoros. Il medesimo costruì nel 136 per Bruto Callaico un altro tempio, nel Campo Marzio, entro il quale fu collocata una statua colossale di Marte, attribuita a Skopas (v.) e una di Afrodite. E le statue di culto dei due templi di Hermodoros erano (Plin., Nat. hist., xxxvi, 35) degli artisti Polykles (v. polykles, 2°) e Timarchides (v. timarchides, 1°) che a Delo avevano scolpito (Inscript. de Délos, n. 1688) la statua di un "italico", Ofellio Fero, componendo un corpo imitato da un modello classico del IV sec. a. C con una testa ritratto (purtroppo perduta). Affluiscono dunque in questo tempo innumerevoli opere originali. Poi in un secondo tempo, formatasi una categoria di appassionati collezionisti, la cui richiesta di opere d'arte non poteva essere più soddisfatta, se non eccezionalmente, con opere originali appartenenti ai templi, alle città, ai principi, si avrà l'importazione in massa di copie di statue e di quadri celebri e di opere ispirate all'arte dell'età classica, uscite, soprattutto, dalle officine neo-attiche di Atene. Il carico di una nave naufragata, intorno al 100 a. C., presso Mahdia (v.) sulle coste tunisine, ci fornisce un esempio della vastità e varietà di quel commercio di opere d'arte, che va dalla statua di bronzo, alla statuetta, al cratere ornamentale in marmo, al capitello e alla colonna. Le copie di originali greci popolano ancora oggi i maggiori musei di antichità e prevalgono in numero sugli originali, sia greci che romani.

Dobbiamo renderci conto che in queste eccezionali condizioni, quali non si sono mai più ripetute nella storia in tale intensità e misura, è evidente che non si potesse formare una tradizione artistica coerente e originale. La grande mescolanza di opere di età e di stile diversi non poteva creare altro che un gusto assai eclettico, più aperto, inoltre, al raro, al curioso, e d'altro lato al tradizionale, che non aperto a comprendere realmente significato e valore delle forme artistiche e ad inventarne di nuove. Bisognerà che tutte queste eredità siano state assimilate, che il contatto con l'arte sia divenuto un fatto normale e consueto, prima che sia possibile il formarsi di una nuova civiltà artistica con caratteri proprî.

Leggiamo in Cicerone che Verre, il quale governava la Sicilia depredandone il patrimonio artistico pubblico e privato, faceva distaccare le scene in rilievo da antiche coppe di argento e d'oro e le faceva inserire, variamente combinate, in vasellami eseguiti da una numerosa squadra di toreuti. che lavoravano esclusivamente per lui e sovente sotto la sua personale direzione (Cic., In Verr. Act., ii, iv, 24 ss., 54 ss.). Abbiamo qui una testimonianza diretta di quale fosse lo spirito di eclettismo e il gusto del "montaggio" con il quale veniva appropriata, da parte della classe dirigente romana, la grande tradizione artistica greca.

4. Eclettismo e arte "plebea"; acquisto di copie. - Da questa situazione discendono due fatti che caratterizzano in pieno l'arte romana di questo tempo e anche dei tempi successivi, almeno sino a tutto il primo secolo dell'Impero. Il primo fatto è che l'arte romana nasce con i caratteri dell'eclettismo, il che significa non tanto apertura a varie influenze né coesistenza di tendenze stilistiche diverse, come si potrebbe riscontrare anche altrove; ma convivenza di queste in una stessa opera. In questo senso è eclettica la cosiddetta Ara di Domizio Enobarbo (v. vol. iii, figg. 207, 208) che è, probabilmente, il più antico monumento ufficiale dell'arte romana, adorno di bassorilievi, che ci sia conservato (databile fra il 100 e il 70 a. C. tenendo conto delle varie interpretazioni possibili). E in questo senso sarà eclettica l'Ara Pacis di Augusto (v. più avanti).

L'altro fatto caratteristico, che conserverà una importanza fondamentale, è che l'affluire di opere d'arte importate dalla Grecia, anche se distribuite nei templi, esposte nei portici e, a un certo momento, distribuite anche nei municipî, rimase per sempre un fatto circoscritto alla cultura di élite e alla classe dirigente. Non essendosi formata una problematica artistica propria, che intorno ai singoli aspetti della forma e dell'espressione artistica venisse a dar vita a uno svolgimento autonomo, quella cultura provinciale dell'ellenismo che si era andata affermando nell'àmbito medio-italico, Etruria compresa, con tutti i caratteri tipici delle culture periferiche, continuò a sussistere, dando vita a quella corrente d'arte che può definirsi "popolare" o "plebea", che seguitò a sodisfare i bisogni artistici della piccola e media borghesia romana (per dirlo con termini moderni). I caratteri di tale corrente saranno da prendersi in esame particolare, poiché essa ebbe un ruolo non indifferente nel costituirsi e nel successivo svilupparsi dell'arte romana. Il non aver tenuto conto di questa corrente, considerandola elemento subalterno trascurabile, ha impedito a lungo una chiarificatrice e storicamente esatta visione dello svolgimento dell'arte romana; l'averne posto in evidenza l'esistenza è uno dei meriti durevoli di G. Rodenwaldt (v.).

Collateralmente a questi due fatti di fondamentale lmportanza per la formazione e lo sviluppo dell'arte romana, vi è il fenomeno culturale (e commerciale) delle copie delle opere d'arte greca, che si manifesta in tutta la sua larghezza nella scultura (e vi è stato accennato più sopra), ma che dovette interessare anche la pittura. Se come documenti per la storia dell'arte le copie delle sculture greche di età classica eseguite in età romana interessano l'arte greca (e hanno consentito la ricostruzione, per lo meno tipologica e iconografica, delle maggiori personalità artistiche del V e IV sec. a. C.), quale fenomeno culturale fanno parte integrante della cultura artistica romana, ne determinano un aspetto saliente. Nella tradizione degli scritti retorici sull'arte, che noi troviamo confluita nei capitoli xxxiii, xxxiv, xxxv della Naturalis historia di Plinio il Vecchio (v.) con prevalenza di fonti di indirizzo classicistico, si erano costituiti elenchi di nobilia opera e questi elenchi dovettero determinare le preferenze dei romani nella scelta dei soggetti dei quali avere la copia. Queste copie, in marmo e in bronzo, e in qualche caso anche eseguite col calco, erano dapprima destinate ai collezionisti. Per una cultura ben lontana dal moderno storicismo, le copie dovevano equivalere l'originale (come vediamo accadere, per esempio, in tutta la storia dell'antica arte cinese); nessun accenno troviamo negli scrittori di una differenziazione di apprezzamento tra originale e copia. Ma accanto alla copia sorge facilmente il raffazzonamento, il "pasticcio", che varia e amalgama originali diversi; finalmente le copie, anche approssimative, divennero soltanto elemento ornamentale da inserirsi in complessi architettonici. (Come esempio di questo gusto basterà citare il caso del Pothos di Skopas, del quale esistono copie simmetriche, l'una rivolta a sinistra, come l'originale, l'altra a destra per formare una corrispondente massa ornamentale: v. copie e copisti, vol. ii, figg. 1055, 1056).

5. Pittura trionfale. - Occorre tener presente anche la particolare importanza che ebbe la pittura, diffusa nell'area medioitalica, come ci attestano le pitture delle tombe etrusche (v. pittura), dalla fine del VII sec. a. C. e attestata dalle fonti letterarie anche a Roma almeno alla metà del sec. IV (Damòfilo e Gòrgaso, italioti e sicelioti che decorano il tempio di Cerere, v. damophilos). Anche per queste manifestazioni artistiche, Roma si serviva di artisti di varia provenienza e non ospitò mai una "scuola" pittorica che avesse assunto caratteri peculiari e una problematica artistica propria, come Sicione, Corinto, Atene. Per quanto ci è attestato, anche la pittura venne rivolta soprattutto a fini pratici, ornamentali e, specialmente, celebrativi. Troviamo, tuttavia, un nome di pittore (mentre non abbiamo un nome di scultore) tramandato per la fine del IV sec., come attivo nella decorazione del tempio della Salus sul colle Quirinale, dedicato nel 304 a. C., ed è il nome di Fabius Pictor (v.), appartenente, sembra, dunque, a una famiglia patrizia. È stato supposto che le sue pitture avessero contenuto narrativo, storico. Se la Tomba François di Vulci (Roma, Villa Albani), con scene di combattimenti tra personaggi etruschi e romani, è realmente da datarsi a pochi anni più tardi (Messerschmidt), possiamo farci qualche idea di come potevano presentarsi quelle pitture. Col III sec. ha inizio, per noi, la documentazione, sia pure soltanto letteraria, di pitture "trionfali"; vale a dire di dipinti che venivano portati nei cortei del trionfatore, esibenti la narrazione degli episodî salienti della campagna militare vittoriosa e l'aspetto delle città conquistate. Sulla base della narrazione, la più dettagliata, che delle pitture recate nel trionfo di Vespasiano e Tito ci dà Giuseppe Flavio (Bell. Iud., vii, 143-152) si può avere un'idea di come fossero tali pitture trionfali (e il Mantegna in base a tale narrazione le immaginò per il suo Trionfo di Cesare conservato a Hampton Court). Ma le notizie su tale prassi hanno inizio a proposito di M. Val. Messalla, dopo la battaglia di Messina contro i Cartaginesi, nel 264 a. C. (Plin., Nat. hist., xxxv, 22; Appian., Punic., viii, 66). Proseguono poi con Scipione Africano dopo Zama (203 a. C.), Scipione l'Asiatico (188 a. C.), Sempronio Gracco dopo la conquista della Sardegna (174 a. C.; Plin., loc. cit.; Liv., xli, 33); per Paolo Emilio dopo la conquista della Macedonia (168 a. C.); per il pretore L. Ostilio Mancino, che si vantava di essere stato il primo ad entrare in Cartagine e si valeva delle pitture con le fasi dell'assedio, esposte nel Foro, per la sua propaganda elettorale (146 a. C.; Plin., Nat. hist., xxxv, 23). Ancora Massimino Trace, dopo la vittoria sui Germani, nel 235 d. C., manderà al Senato pitture che mostravano lo svolgimento della campagna, e che furono esposte sulla facciata della Curia, ut facta eius pictura loqueretur (Script. Hist. Aug., Max. duo, 12, 10).

La prassi della pittura trionfale deve avere influito sulla composizione dei rilievi storici (quali poi orneranno la Colonna Traiana o l'Arco di Settimio Severo); ma un documento diretto se ne ha nel frammento pittorico proveniente da una tomba dell'Esquilino (Roma, Museo Nuovo dei Conservatori, v. vol. iii, fig. 683). La datazione di questa pittura è discussa; generalmente si propone la fine del III e l'inizio del II sec. a. C. Da questo frammento possiamo desumere che il carattere di quelle pitture trionfali doveva essere essenzialmente descrittivo e aderente alle formule comuni a ogni manifestazione artistica popolare e celebrativa, che porta con sé la distribuzione degli episodî in registri distinti, la inosservanza delle regole prospettiche e delle proporzioni naturalistiche (perciò la evidenza data ai protagonisti con dimensioni maggiori), la ripetizione dello stesso personaggio in vari episodî successivi senza che sia interrotta la continuità della composizione (cosiddetta "rappresentazione continua", v.). Analoghi caratteri, con una qualità artistica superiore, si trovano anche nel disegno di una cista prenestina del museo di Berlino, con un generale romano in atto di sacrificare, cinto di corona d'alloro e con, nella sinistra, una insegna sormontata da un'aquila.

Bibl.: v. in calce al cap. III.

III. - Dalla guerra sociale alla battaglia di azio (91-31 a. C.). - Con particolare attenzione va considerato il periodo di due generazioni che va dall'inizio della guerra degli alleati italici contro Roma (Guerra Sociale, 91-88 a. C.) alla disfatta di Marco Antonio dinanzi ad Azio sulla costa epirota (primi di settembre del 31 a. C.), che fece di Ottaviano il padrone del mondo romano e dette a Roma il possesso dell'Egitto, ultimo dei regni ellenistici indipendenti. Esso è senza dubbio il periodo decisivo per il costituirsi dello Stato romano e delle basi del suo sviluppo durante l'Impero. Ma è anche il periodo decisivo per il formarsi di una cultura artistica romana chiaramente individuabile. Anche se non potremo riconoscere a tale cultura un carattere interamente nuovo né interamente autonomo e se l'eclettismo rimarrà una sua nota dominante, pure si riscontrano in questo periodo, a Roma e nell'àmbito urbano come nei territorî posti sotto la sua diretta influenza, accenti di un linguaggio artistico riconoscibile tra quelli delle province culturali dell'ellenismo e che non può essere classificato semplicemente come un ulteriore svolgimento dell'arte ellenistica, anche se una tale definizione può essere applicabile ad alcune categorie di opere in questo tempo prodotte. Impossibile dire quanto alla sua formazione e costituzione abbiano concorso artisti locali ed artisti immigrati dall'Italia meridionale, dai centri della Grecia stessa e, particolarmente, dall'Asia Minore dove la penetrazione romana si era già da tempo affermata e dove essa aveva sconvolto l'assetto economico preesistente, spingendo gli artisti a cercare fortuna altrove.

Ciò che può constatarsi è che a Roma, come accade in tutte le culture periferiche, si tenderà a rivestire con forme derivate di fuori, più o meno adattate, contenuti e strutture appartenenti alle tradizioni e alle convenzioni locali. Un tale modo è tipico non tanto del procedere di artisti locali che da una civiltà artistica più ricca si appropriano elementi più aggiornati; ma di artisti in possesso di una civiltà più esperta, che adattano la propria esperienza alle esigenze di una nuova classe di committenti e di un diverso ambiente culturale. A parte il fatto che è difficilmente immaginabile che artisti romani o italici avessero la possibilità di recarsi "all'estero" per arricchire la propria esperienza (diversamente da ciò che potevano fare i giovani delle classi elevate avviati alla carriera oratoria e politica) è, invece, documentata ampiamente la presenza di artisti venuti a Roma da fuori. Sicché è da ritenersi che siano stati, di fatto, artisti non "romani" di nascita, e, probabilmente, nemmeno "italici", a costituire i caratteri salienti dell'arte "romana". Il che non ha nulla di storicamente assurdo, ove si liberi la creazione artistica dal pregiudizio che l'elemento razziale, e non quello culturale e sociale, sia decisivo nella formazione dei caratteri stilistici tipici di un'età determinata. Quell'arte non sarà per questo meno romana. (Del resto, si pensi a quanto appaiano "tipicamente slavi", o "caratteristici del Barocco austriaco", i monumenti architettonici creati da artisti italiani emigrati in Russia o in Austria dal XV al XVIII secolo).

Il primo ventennio di quest'epoca può essere caratterizzato dalla personalità di Lucio Cornelio Silla: pro-pretore di Cilicia (provincia romana dal 102, in Anatolia) nel 92 (e in questo tempo cade il primo contatto dei Romani col regno parthico); legato consolare nella guerra sociale contro i Sanniti; console nell'88; comandante vittorioso nella guerra contro Mitridate VI dall'87 all'83, cioè dopo i massacri di Romani e Italici nelle città greche d'Oriente e della Grecia; dittatore dall'82 al 79 e promotore di una nuova costituzione reazionaria, che rimase in vigore sino al 70. La costituzione sillana fu l'espressione del terrore che aveva invaso la classe patrizia dopo le riforme agrarie dei Gracchi, il rafforzarsi dell'elemento popolare, la rinnovata sollevazione degli schiavi in Sicilia, la guerra degli Italici associati contro Roma, le rivolte in Oriente favorite dal pesante sfruttamento fiscale romano e dalle ambizioni di Mitridate VI di ricostituire un ultimo regno ellenistico.

Per quanto riguarda la storia dell'arte romana, tre sono i fatti più notevoli che emergono in questo periodo: la costituzione di una tradizione architettonica, la formazione del ritratto di gusto veristico e il costituirsi di un determinato sistema di decorazione parietale pittorica.

1. Il ritratto. - Il ritratto di gusto veristico segue una ispirazione se così può dirsi, catoniana: esaltazione, cioè, della vecchia dura stirpe contadina romana di origine patrizia (v. capitolo precedente). Esso è generalmente noto come "ritratto romano repubblicano"; definizione inesatta, questa, in quanto varie sono le correnti che convivono in questo stesso tempo e che si manifestano nell'arte del ritratto; ma tale classificazione può essere usata per significare che ci si trova di fronte ad un fatto artistico nuovo. Per il particolare problema della formazione di questa corrente di arte del ritratto, di origine tipicamente gentilizia e limitata nella sua espansione, si rimanda alla voce ritratto (n. 7, a) ove essa è stata trattata con sufficiente ampiezza. Basterà ricordare qui le conclusioni alle quali si è giunti e precisare alcuni esempî. Le nostre conclusioni portano a porre l'origine del ritratto romano in stretta dipendenza dal ritratto fisiognomico ellenistico; a rifiutare la dipendenza del ritratto veristico romano da quello etrusco (che, invece, da quello romano viene influenzato e determinato); a riconoscere alla corrente più tipica del ritratto repubblicano, quella di gusto veristico, esistente accanto a una corrente di prevalente plasticismo ellenistico, un presupposto determinante nella ideologia gentilizia del patriziato, già detentore del ius imaginum, che aveva trovato nella costituzione sillana sodisfatte le proprie rivendicazioni e un momento di esaltazione. Silla (patrizio decaduto assunto poi al massimo potere) può ben essere considerato una espressione potenziata del vecchio patriziato, che si esprimeva in lui in tutta la sua talora inumana durezza e inflessibilità al servizio di una assenta ragione di stato (in realtà, di un interesse di classe sorretto da una religiosità superstiziosa, per nulla toccato in profondo dall'umanesimo ellenistico e scatenato ferocemente nel saccheggio e nel macello, nel denunziare, tradire, distruggere). In questo ambiente, trasformando l'incisiva osservazione realistica del ritratto ellenistico in dura maschera epidermica resa con una tecnica di minuta descrizione della superficie, quale era suggerita dalla esperienza della plastica in creta e terracotta, si collocano e si spiegano i più impressionanti ritratti di questo tempo (fra 80-70 a. C.), conservatici in originali e in repliche di poco posteriori, repliche dovute alle necessità di aggiornamento delle gallerie di antenati delle famiglie nobili; il n. 535 del Museo Torlonia (proveniente da Otricoli, figg. 832 e 1047, replica probabilmente di età tiberiana); il Velato del Vaticano, Chiaramonti n. 135 (fig. 841) in replica della prima età augustea; il ritratto del museo di Osimo (vol. v, fig. 944); il busto dell'Albertinum di Dresda n. 329, per citare solo i più noti esempî. Ma accanto a questi, appartengono allo stesso tempo (e più tardi prevalgono), anche molti ritratti nei quali il crudo verismo è attenuato da un plasticismo più ricco e soprattutto più organico e da una concezione meno tetra, dove la rigidezza patrizia si attenua in una espressione più ilare, nella quale sembra riflettersi un certo ottimismo plebeo e un riflesso della umanità ellenistica, espresso tuttavia con forme e tecnica strettamente aderenti alla esperienza plastica medio-italica. Può fornirne esempio tipico la testa del Museo Nuovo dei Conservatori n. 1332, che mostra un buon prodotto dell'arte romana fra il 60 e il 50 a. C. Sono i ritratti del tempo di Pompeo (v.), del quale si conserva una immagine, buona replica del suo ritratto forse eseguito da Pasiteles (v.) scultore della Magna Grecia che egli proteggeva e che formò a Roma una scuola di artisti riecheggianti lo "stile severo" d'attorno al 460 a. C. (v. stephanos).

La linea di sviluppo che sembra possibile tracciare, va da ritratti nei quali è ancora vivo il ricco plasticismo ellenistico e la sua patetica espressività e dove soltanto qualche tocco di incisione superficiale mostra una connessione con la plastica medio-italica, come il ritratto di Postumio Albino (v.), console nel 99 a. C., a ritratti del tipo veristico patrizio descritto più sopra, soprattutto nel decennio 80-70 a. C., a ritratti di tipo sostanzialmente ellenistico, ma nei quali la componente italico-romana si manifesta con una sobrietà di forme prive di ogni retorica di espressione e di ogni sfoggio di ricchezza plastica, dalle superfici appena ravvivate da qualche segno che, anche nella traduzione in marmo, conserva la leggerezza di un colpo di stecca sulla creta fresca. Appartengono a questa corrente e a questo periodo (70-50 a. C.), alcuni dei più tipici ritratti romani pre-augustei (Schweitzer, Bildniskunst, gruppo e). In essi già vi sono le premesse di quell'oggettivismo naturalistico che, insieme al riflesso della corrente neo-attica trapiantata a Roma, formerà il fondamento dello stile dell'età di Augusto.

Il tipico ritratto sillano, proprio perché appartenente alle classi più elevate, trovò riflesso e imitazione per lungo tempo nei monumenti funerarî delle classi più modeste, dove viene imitato ancora in età augustea. Nell'arte provinciale dell'Italia settentrionale troviamo stele funerarie con supposti ritratti, che in realtà non sono più tali, ma soltanto dei "tipi" fissi, che proseguono a lungo (più di quanto generalmente si crede) sia lo stile sillano che le acconciature augustee (v. n. iv, 4).

2. Architettura. - Per quanto riguarda l'architettura, l'età sillana segna la definitiva trasformazione delle vecchie strutture prevalentemente lignee con rivestimenti di terracotta, secondo la tecnica etrusca, o di pietra tufacea rivestita di intonaco, in strutture di travertino o altro calcare con forme e modanature desunte dall'architettura ellenistica, ma adattate a un gusto più modesto e a edifici meno articolati. L'architettura ellenistica aveva ormai diffuso l'impiego degli elementi architettonici fondamentali non più esclusivamente nella loro originaria funzione statica, strutturale e funzionale, ma in senso puramente ornamentale, il che dava ogni possibile libertà all'architetto. Anche nell'architettura, ciò che dell'ellenismo qui viene a perdersi è lo stimolo e lo slancio dell'invenzione elegante, intellettualistica, mondana. E anche in questo campo, forme ellenistiche vengono esteriormente applicate a concezioni che ellenistiche non sono né per funzione, né per tipo, né per tecnica muraria. L'architettura ellenistica in marmo era penetrata in Roma in forma genuina, anche se non certo grandiosa, con l'architetto Hermodoros (v.) al tempo delle vittorie romane in Macedonia. Poi nell'anno 92 a. C. il milionario Licinio Crasso, l'amico di Silla, lo sterminatore dei seguaci di Spartaco, il banchiere creditore di Cesare, aveva ornato per primo con rivestimenti marmorei, secondo il gusto ellenistico, anche la sua casa privata, che era sul Palatino (e Crasso si ebbe per questo il nomignolo di "Venere palatina"). Silla fece ricostruire in pietra il tempio Capitolino andato a fuoco nell'83 a. C. impiegandoci colonne di marmo venute da Atene e forse affidando ad Apollonios di Nestore (lo scultore del Torso del Belvedere) la costruzione del simulacro criselefantino di Giove (Overbeck, n. 2215). Nel 78 fece edificare sul colle Capitolino il Tabularium (v. roma, b, 4 e figg. 909-910) o archivio statale, edificio caratterizzato dall'alto basamento a quadri di tufo e di pietra di Gabii, sul quale si eleva un porticato di semicolonne doriche addossate ai pilastri dai quali partono gli archi, come nel grandioso santuario di Ercole a Tivoli (v.). Mentre altri resti di architetture sillane in Roma, quali il tempio di S. Nicola in Carcere al Foro Olitorio e il tempio B del Largo Argentina (v. roma, figg. 925, 964) sono di apparenza modesta e privi di eleganza, più importanti e evidenti testimonianze dell'architettura di questo tempo si hanno nelle città che subirono minori trasformazioni successive: Pompei, Terracina, Fondi, Cori, Tivoli, Palestrina (v. le singole voci). A Palestrina il grande complesso del santuario dedicato alla Fortuna documenta chiaramente con le sue strutture interne in opus incertum. e le coperture a vòlta gettate in una concrezione di pietrisco e malta di pozzolana, che questa tecnica campano-laziale (v. muraria, arte) è servita a realizzare le grandi masse architettoniche secondo un impianto grandioso e scenografico, mentre poi in facciata esse vengono rivestite da strutture architravate secondo esempî ellenistici, rendendo invisibili dall'esterno le strutture portanti cementizie. Sensibilità e concezioni architettoniche del tutto diverse da quelle ellenistiche vengono dunque mascherate con forme stilistiche desunte dal repertorio ellenistico. Soltanto più tardi avverrà che le nuove tecniche strutturali saranno impiegate anche come forme stilistiche, consentendo uno sviluppo autonomo e grandioso dell'architettura romana.

Più evidente che nelle altre manifestazioni si palesa nell'architettura la concezione prevalentemente utilitaria che i Romani ebbero del fatto artistico. Ed è questa concezione che porta all'infrangersi dell'unità, già tipica dominante dell'architettura dei Greci sia in età classica che ellenistica, nella quale misura e norma fondamentale ad ogni tipo di edificio era rimasto il tempio periptero, creazione massima del loro costruire. Il tempio romano si allinea a quello greco; ma per ogni altra costruzione, si creano edifici strettamente rispondenti allo scopo specifico, usando gli elementi greci come ornamento. Anche la tecnica dei muri in concrezione è, come abbiamo veduto nel caso di Palestrina, per molto tempo soltanto un espediente tecnico più rapido ed economico che non la costruzione isòdoma di conci a filari sovrapposti e collegati da conci posti di testata, peraltro usata anche dai Romani per le mura difensive. Tale costruzione isòdoma, che si perpetuò attraverso tutta l'architettura greca, per ogni sorta di edifici, dava al muro una consistenza solida e massiccia, una funzione eminentemente strutturale. Il muro romano, invece, di mattoni o di piccole pietre tenute insieme dalla malta, più che come struttura è inteso come elemento che separa e racchiude gli spazî, come divisione e come guscio, come il mezzo per ottenere degli ambienti. Infatti, diversamente da quella greca, che era arte dei ritmi scanditi costituenti cornice a elementi figurati concepiti sopra un piano verticale, l'architettura romana è arte degli spazî, sia di quelli interni, sia di quelli esterni creati dai rapporti fra varî edifici. Mentre l'edificio greco di età arcaica e classica vive in sé stesso, senza alcun rapporto con gli altri edifici circostanti, già in età ellenistica l'urbanistica tende a porre in relazione i varî edifici di un complesso; ma piuttosto come rapporto delle singole masse individuali, che come serie di elementi collocati nello spazio. Il Foro di Pompei (v. pompei, figg. 322, 323) il cui impianto risale a circa il 100 a. C., può esser citato già come esempio di disposizione creatrice di una determinata e consapevole spazialità, che corrisponde a un gusto diverso da quello ellenistico, pur valendosi di elementi presi in prestito dall'ellenismo. Fin da questo momento, dunque, possiamo dire che inizia e si stabilisce una tradizione architettonica, alla base della quale stanno concetti che il mediocre teorico Vitruvio, nell'età immediatamente successiva, definirà quale tuscanicorum et graecorum communis ratiocinatio, ma che in realtà ha di comune con l'architettura greca solo alcune norme, ma non il gusto architettonico, che fu diverso e che troverà in età imperiale i mezzi per grandiosi, sviluppi, con soluzioni rimaste poi fondamentali sino all'alto Medioevo.

I tentativi di antidatare la formazione dell'architettura romana a prima di Silla, alla metà del II sec. a. C., e di rivendicare ad essa origini primordiali (indulgendo, come ispirazione metodologica, addirittura a spiritualismi pre-idealistici) appaiono superati da più concreti orizzonti di ricerca. Resta il fatto che il tempio tripartito e su podio (v. etrusca, arte), e la casa ad atrio, sono creazioni che emergono, senza dubbio, dal sostrato culturale medio-italico; ma esse assumono effettiva dignità architettonica in Roma e attraverso la cultura romana. Alla fine di questo periodo, nell'età di Cesare, il classicismo attico entra decisamente in Roma con il tempio di Venere Genitrice nel Foro di Cesare, e con la statua di culto, opera dello scultore Arkesilaos (v. arkesilaos, 2°), forse tarantino. Col restauro del tempio di Apollo da parte di C. Sosio iniziato nel 32 a. C. (v. roma, fig. 924) per la prima volta Roma avrà un edificio di culto all'altezza delle eleganze ellenistiche: tanto elegante che non manca chi, recentemente, vorrebbe datarne i resti a un restauro flavio-adrianeo (Wegner).

3. Pittura. - Cade in questo tempo anche il costituirsi di una tradizione di decorazione pittorica romana (volgarmente nota come "pompeiana" perché a Pompei e nelle città sommerse dall'eruzione del Vesuvio del 79 d. C. se ne sono conservate le più numerose testimonianze, ma il cui centro era Roma). Anche per questo aspetto manca un pieno accordo nelle interpretazioni degli studiosi competenti (né saranno da tener in conto alcuno le divagazioni, frequenti a questo proposito, di amatori incompetenti o anche di studiosi, preparati forse specificamente in altri campi, ma inadeguati improvvisatori in un campo che esige conoscenza filologica e storica della situazione di fatto, a superare l'ignoranza della quale non è certo sufficiente la presunzione). Per una più particolareggiata esposizione dei dati di fatto si rimanda il lettore alle voci pompeiani, stili e pittura, nn. 4, 5). Le conclusioni, riassunte in breve, possono essere le seguenti: il problema della pittura come forma artistica realizzata compiutamente attraverso il colore, con variazioni di tòno, luce e ombra, suggerimento di spazi naturalistici, ricchezza di tecniche (smalti, impasti, velature), fu risolto, nell'ambito mediterraneo, dall'arte greca a partire dalla fine del V sec. a. C. e si sviluppò, in maniera documentabile, durante il IV (v. splendor). Meno documentato è lo svolgimento della pittura greca durante l'ellenismo; ma il poco che ce ne rimane ci conferma che i problemi pittorici affrontati e risolti nel IV sec. furono portati innanzi nei secoli successivi, con uno svolgimento in sostanza non difforme da quello che possiamo seguire nella scultura e che arriva a una piena libertà spaziale in senso naturalistico raggiungendo una libertà di tocco e di pennellata, che ha fatto accreditare, derivandolo dalle esperienze moderne, anche in questo campo il termine di "impressionismo" (v.). Tutte le altre civiltà artistiche dell'antichità, ove non siano venute in contatto con l'arte greca, non hanno inteso la pittura altro che come disegno colorato. Di quel rigoglioso fiorire della pittura greca si ebbero riflessi anche in Italia, prima e dopo la scoperta della pittura chiaroscurale: ne rimangono esempî numerosi e di notevole qualità nelle tombe etrusche, particolarmente di Tarquinia, Chiusi, Orvieto; altri esempî, di qualità più modesta e di carattere più provinciale, nella Magna Grecia, soprattutto a Paestum e a Taranto. Tutte si mantengono essenzialmente ancora fedeli alla tradizione del disegno colorato, o affrontano il chiaroscuro in modo assai meccanico. Si tratta in modo evidente, di una decorazione pittorica artigiana e provinciale rispetto alla pittura dei grandi Maestri greci. Anche se non manca di autonomia per quanto riguarda gli schemi iconografici, è evidente che il problema pittorico (pittura tonale, luminismo, illusionismo spaziale), non è stato scoperto né affrontato in questi ambienti. Nella cultura romana, e durante il periodo che stiamo considerando, giunge, insieme agli altri impulsi artistici, anche la diffusione della pittura greca; numerosi sono i quadri di grandi pittori classici ed ellenistici che sappiamo trovarsi a Roma, esposti nei templi, nei portici, in possesso di privati; numerosi, relativamente alla scarsezza di informazioni, i nomi di pittori venuti a Roma dalla Grecia, dalla Siria, da Alessandria (v. arellius; demetrios, 6°; lykon; metrodoros: timomachos di Bisanzio). Plinio il Vecchio lamenterà, scrivendo dopo la metà del I sec. d. C., la decadenza, anzi la morte della pittura, intendendo esplicitamente che la vera pittura di merito non potesse essere altro che quella su tavola, cioè i quadri da cavalletto; la decorazione parietale non essendo altro che mestiere e anche quello in via di corrompersi (Nat. hist., xxxv, 2-5; 51; 118; 151). Hactenus dictum sit de dignitate artis morientis (ibid., 28): così suona la sua conclusione.

Eppure, quando Plinio scrive era in vigore quello che noi, impropriamente, chiamiamo IV stile pompeiano (impropriamente, giacché non tanto di "stile" si tratta quanto di schemi ornamentali). Di tutto ciò dobbiamo tener conto di fronte alla ricchezza impressionante della decorazione pittorica di questo tempo, che, si può dire, non lascia senza pittura nessun angolo della casa. Occorre essersi appropriata una buona conoscenza dei precedenti greci per non correre alla conclusione che tale ricchezza decorativa rappresenta non solo una espressione del tutto originale e spontanea, ma anche testimonianza di una inaudita ricchezza della pittura nella cultura del tempo, e per giungere invece alla persuasione storicamente esatta, che tutto ciò non rappresenta altro che un riflesso banalizzato della veramente altissima civiltà pittorica greca, e che a Roma non vi era altra pittura che questa.

Quello che è chiamato il I stile della decorazione parietale è universalmente riconosciuto come diffusamente ellenistico. Esso è in uso sino all'inizio del I sec. a. C. Esempî, ben più freschi di qelli pompeiani, se ne sono trovati a Delo e in altre città greche (ultimamente a Panticapeo in edificio databile da monete del III-II sec. a. C., con cornici a chiaroscuro in finto rilievo di estrema esattezza e freschezza, e motivi a mezze colonnine di stucco). Ma nulla di identico al II stile con le sue prospettive architettoniche, è stato trovato con precedenza cronologica fuori di Roma e delle città vesuviane. Il più antico esempio ci è conservato sul Palatino nella Casa dei Grifi che il Rizzo mise in evidenza e datò tra il 120 e 100 e che adesso si ritiene databile tra il 100 e il 90. I più antichi esempî a Pompei scendono all'80 e il più ricco esempio, purtroppo smembrato e disperso, la Villa di Boscoreale (v.), a dopo il 50. (Non persuasivi i tentativi di datazione in tarda età augustea). Dobbiamo, sia pure, tener conto che in nessun altro luogo si sono ripetute le condizioni delle città campane sommerse dal Vesuvio; che altrove i resti di pitture sono sempre scarsi e che in edifici i quali abbiano avuto vita sino alla fine del mondo antico, la decorazione pittorica si dovette più volte rinnovare. Ad ogni modo, dall'assenza di complessi decorativi analoghi, più antichi, e dalla constatata derivazione dal repertorio classico ed ellenistico degli elementi costituenti la decorazione di II stile, si può dedurre la ipotesi che effettivamente questo tipo di decorazione parietale si sia formata e affermata a Roma per opera di maestranze immigrate (se dalla Siria o da Alessandria o da Atene resta a vedersi) e rappresenti uno sviluppo di arte ellenistica in ambiente romano, cui avranno poi contribuito anche elementi locali e che si sarà andato modificando in modo autonomo con gli anni. Questa decorazione parietale (particolarmente nella fase raggiunta dopo il 30 a. C., in età augustea, il cosiddetto II stile fase D) corrisponde infatti assai bene alla aspirazione diffusa nella società romana di appropriarsi i beni, il modo di vita, il lusso, dei prìncipi ellenistici: il vasellame in metallo prezioso, che era stato dapprima appannaggio dei re e dei satrapi persiani, e poi dei sovrani e dei grandi mercanti ellenistici, entra adesso nelle case della media borghesia, dei liberti arricchiti; analogamente si amano veder riprodotte, fingendole in pittura sulle pareti, le sale colonnate, i grandi cortili porticati, i quadri degli antichi celebri autori, che erano stati nelle reggie e nei palazzi dei governatori ellenistici (v. pergamo; tolemaide).

Anticipando sui tempi, diciamo anche subito, che la decorazione parietale rinnova i suoi modi e i suoi repertori sin verso la metà del I sec. d. C.; praticamente sino a che perdura l'ondata neoattica e l'apporto diretto di artisti dal mondo greco; col IV "stile" che inizia a Pompei, in modo documentabile, subito dopo il 60 d. C., si ha ancora una ricca decorazione pittorica; ma nessun nuovo motivo entra ormai nel repertorio figurativo, che ripete e varia elementi preesistenti. E, più avanti, non farà che impoverirsi sempre più, riducendo la decorazione a elementi sempre più scarni e più consunti, per lo più sciattamente eseguiti. Il che è una riprova che non si trattava, nella pittura romana del I sec. a. C., dell'inizio di una nuova civiltà pittorica (come si è anche voluto dire), ma della fine e degli ultimi palpiti di una civiltà artistica non più alimentata da nuovi impulsi animatori, da nuove problematiche.

Così si spiega anche il divario tra il repertorio ornamentale, che si presenta fresco, eseguito di getto con piena aderenza fra invenzione e intuizione, e le grandi composizioni, i quadri, dove sempre a un'analisi attenta si palesa un mortificante distacco fra invenzione ed esecuzione, fra intuizione e capacità di realizzazione. Osservazione questa, che insieme alle numerose varianti e ripetizioni, assegna la pittura decorativa parietale romana ad una categoria artigiana, di grandi tradizioni tecniche, ma assai povera di invenzioni e incapace di affrontare in modo autonomo i grandi temi e i grandi problemi della pittura. Nessun nome di Maestro ci è trasmesso dalle fonti letterarie per questo tempo; ed è inutile gioco il volerne creare con nomi di comodo ed elevare a Maestri questi bravi pictores parietarii.

Fra il 50 e il 40 a. C. cade anche la datazione più attendibile del ciclo di pitture di paesaggio con motivi tratti dall'Odissea provenienti da una casa romana dell'Esquilino (Biblioteca Vaticana; v. vol. v, fig. 997 e tav. a colori). Queste pitture trovano esatta collocazione in uno scorcio di storia dei motivi della decorazione parietale contenuto in un passo di Vitruvio (vii, 5), sicché si possono affermare copie di originali, con probabilità alessandrini, d'attorno al 150 a. C., eseguite da un pittore, forse non greco, ma di educazione ellenistica (v. paesaggio).

Meno intrisa di elementi culturali, ma più spontanea, e in gran parte originale, è invece la pittura celebrativa. Ne rimangono pochissimi esempî, che si possono ricollegare alla "pittura trionfale" della quale si è fatto cenno nel capitolo precedente (ii, 5). Il documento più notevole è costituito dalle pitture con fregio storico che ornavano un colombario dell'Esquilino (Roma, Museo Naz. Romano). Il complesso funerario è databile probabilmente già all'età augustea, ma le pitture riecheggiano forse una composizione di età cesariana e di origine non funeraria. Vi sono scene raffiguranti l'edificazione di una città, la pacificazione fra Romani e Latini (?), scene pastorali forse riferibili alla leggenda romulea. La disinvoltura del disegno è di derivazione medio-ellenistica; ma il realismo scarno e oggettivo è ben romano. Confermano queste pitture, che i temi delle raffigurazioni celebrative si erano già costituiti in questo tempo e che la più genuina arte romana va appunto cercata in questa categoria artistica e nell'ambiente dell'arte "plebea", a servizio della classe media, piuttosto che nelle sontuose eleganze che soddisfacevano le categorie più elevate dei cittadini: vale a dire in quella corrente artistica che si ricollega direttamente a quell'ellenismo provinciale che si era affermato e diffuso nell'ambiente italico del III e del II sec. a. C.

Bibl.: II. - G. Kaschnitz-Weinberg, Ritratti fittili etruschi e romani dal III sec. al I sec. a. C., in Rend. Pontificia Acc. Rom. Arch., III, 1925, p. 325 ss.; id., Studien zur Etruskischen und frührömischen Porträtkunst, in Röm. Mitt., XLI, 1926, p. 133 ss.; R. Bianchi Bandinelli, La posizione dell'Etruria nell'arte dell'Italia antica, in Nuova Antologia, n. 216, 1928, p. 106 ss.; C. C. van Essen, Chronologie van de Romeinsche Sculptur tijdens de Republik, in Mededeel. Nederl. hist. Inst. Rome, VIII, 1928, p. 29 ss.; C. Anti, Il problema dell'arte italica, in Studi Etruschi, IV, 1930, p. 151 ss.; F. Meserschmidt, Nekropolen von Vulci, (Jahrbuch, XII. Ergänzugsh.), Berlino 1930 (per la Tomba François); F. W. Goethert, Zur Kunst d. Röm. Republik, Berlino 1931; C. C. van Essen, Het ontstaan van de continuirende Vertelwijse in de Antieke Kunst van Italie, in Mededeel. Nederl. Hist. Inst. Rome, N. S., II, 1932, p. 25 ss.; G. Kaschnitz-Weinberg, Bemerkungen zur Struktur der altitalischen Plastik, in Studi Etruschi, VII, 1933, p. 135 ss.; C. C. van Essen, Literary evidence for the beginnings of Roman Art, in Journ. Roman Studies, XXIV, 1934, p. 154 ss.; G. Pasquali, La grande Roma dei Tarquini, in Nuova Antologia, 1936, p. 405 ss.; F. Poulsen, Die Römer Republikanische Zeit u. ihre Stellung zur Kunst, in Die Antike, XIII, 1937, p. 125 ss.; J. Scott Ryberg, An Archaeological Record of Rome from the VIIth to the IInd cent. B. C. (Studies a. Documents, XIII, 1 e 2), Londra 1940 (e recensione di K. Lehmann Hartleben in Amer. Journal of Philology, LXIV, 1943, p. 485 ss.); O. Vessberg, Studien zur Kunstgeschichte der Röm. Republik, in Acta Inst. Regni Sueciae, VIII, 1941, dove sono raccolti anche gran parte dei passi d'autori antichi citati; G. Kaschnitz-Weinberg, Ueber die Grundformen der Italisch-Römischen Struktur, I, in Röm. Mitt., LIX, 1944, p. 89 ss.; II, in Mitt. Arch. Inst., III, 1950, p. 148 ss.; G. Becatti, Arte e gusto negli scrittori latini, Firenze 1950; H. Jucker, Vom Verhältnis der Römer zur bildenden Kunst der Griechen, Bamberga 1950; K. Schefold, Vom Ursprung und Sinn "Römischer-- Reliefkunst, in Charites, Bonn 1957, p. 185 ss.; L. Crema, Significato dell'architettura romana, in Boll. Centro Studi St. Architettura, n. 15, Supl. al 1959; G. Zinserling, Studien z. d. Historiendarstellungen d. röm. Republik, in Wissenschaftl. Ztschr. d. Fr. Schiller Universität Jena, IX, 1959-60, p. 403 ss.; R. Bianchi Bandinelli, Sulla formazione del ritratto romano, 1957, in Archeologia e cultura, Milano-Napoli 1961, p. 172 ss.; G. Becatti, L'arte romana, Milano 1962, pp. 5-28. Per l'arte popolare: G. Rodenwaldt, Römische Relief Vorstufen zur Spätantike, in Jahrbuch, LV, 1940, p. 12 ss. Per le copie: G. Becatti, Attikà. Saggio sulla scultura attica dell'ellenismo, in Riv. Ist. Arch. St. Arte, VII, 1940, p. 7 ss.; id., Lo stile arcaistico, in La critica d'arte, XXVII, 1941, p. 9 ss. Per i dati economici: T. Frank, An Economic Survey of Ancient Rome, vol. I, New York 1933 (nuova ediz. New Jersey 1959).

III. - Per la parte riguardante la ritrattistica (n. 1) e la pittura (n. 3), si rimanda alla bibliografia delle voci ritratto, par. 7; pompeiani, stili e pittura, par. 4 e 5. Per la parte riguardante l'architettura (n. 2), oltre alle singoli voci topografiche a cui si rinvia nel testo, si veda: L. Crema, Architettura romana, Torino 1959; M. Wegner, Kapitelle u. Friese von Bogen d. Sergier in Pola, in Bonner Jahrbb., 161, 1961, p. 266 ss.; v. anche soffitto. Si veda inoltre: A. v. Gerkan, Griechische u. Römische Architektur, in Bonner Jahrbb., 152, 1952, p. 21 ss. Alla bibliogr. indicata per il cap. II si aggiunga: O. Waldhauer, Bsondere Strömungen i. d. frührömischen Plastik, in Jahrbuch, XLV, 1930,p. 195 ss.; S. L. Cesano, I Fasti della repubblica romana sulla moneta di Roma, in Studi di Numismatica, I, Roma 1942, p. 105 ss.; G. M. A. Richter, Was Roman Art of the first centuries B. C. and A. D. classicizing?, in Journ. Roman Studies, XLVIII, 1958, p. 10 ss.; A. Boëthius, Problemi connessi con l'architettura della Roma repubblicana, in Palladio, 1958, p. 7 ss.; G. Zinserling, Das sogen. Esquilinische Wandgemälde, in Eirene, I, 1960, p. 156 ss.

IV. - Da augusto (27 a. c.-14 d. c.) agli imperatori flavî (69-96 d. c.). - L'arte dell'età di Augusto ha, specialmente nell'ornamentazione architettonica e nella scultura, una impronta particolare di raffinatezza e di eleganza, un po' gelida, ma del tutto adeguata a un gusto di corte e alla sobrietà e misura che Augusto aveva imposto a sé stesso e al suo ambiente, una volta lasciatasi dietro le spalle la veemenza di quando era Ottaviano, vindice della morte di Cesare e, senza esclusioni di colpi, lottava per la supremazia politica. Il mutamento della sua personalità è ben rappresentato dalla diversa temperie stilistica del ritratto Capitolino databile attorno al 30 (qui fig. 1052), l'ultimo ritratto si potrebbe dire, di sovrano ellenistico, tutto nervosa energia volitiva (appena un po' più sobrio del ritratto di Mitridate VI: v. vol. v, fig. 159), e quello, per contro, delle statue di via Labicana o di Prima Porta (vol. i, figg. 1159-1158) dal volto sempre meglio soffuso di ufficioso ed orgoglioso riserbo, quello stesso che traspare dal testo delle sue Res Gestae. Ma convien ricordare che oltre alle consuete statue in bronzo o in marmo, circa 80 furono le statue d'argento, a piedi e a cavallo o su quadrighe, che gli erano state erette in città (Res Gest., ii, 24).

1. Lo stile augusteo. - Purtroppo, un giudizio esatto sul gusto ornamentale e architettonico augusteo non sarà possibile darlo sino a che i monumenti del Foro e del tempio di Marte Ultore eretti da Augusto, ma largamente restaurati da Adriano, rimangano praticamente inediti da un punto di vista scientifico, sicché non è possibile ancora distinguere ciò che è augusteo e ciò che è adrianeo. Nonostante l'attività edilizia del tempo di Silla e di Cesare, Augusto si vantava di aver trovato una Roma di terracotta e di aver lasciato una Roma di marmo. Solo adesso, effettivamente, Roma diviene una città di aspetto simile alle più importanti città ellenistiche. Sull'arte augustea è stata fatta molta retorica quando, in occasione del bimillenario, in Augusto si celebrò il "fondatore dell'impero" ed essa fu proposta alla incondizionata ammirazione, come il meglio dell'arte romana. Innegabilmente, l'arte augustea costituisce uno stile, che permane, con lievi inflessioni di accento, per tutta la durata della dinastia giulio-claudia, raffinato, aristocratico e impersonale e ad esso si tornerà a guardare nell'età di Gallieno e di Costantino. Solo al tempo di Claudio cede un po' del suo riserbo e acquista un po' di calore e di colore. Nello stile augusteo si ricerca e consegue una accurata perfezione tecnica e formale; ma si assiste anche allo svuotamento della ricchezza plastica che vigeva alla metà del secolo, quando per un momento sembrò che la residua genialità creativa ellenistica potesse congiungersi con l'oggettivo realismo campano-italico e dar vita a una vitale corrente d'arte. Sopraggiunge invece questo raggelarsi aulico di ogni impulso nelle eleganze frigide del neoatticismo, rappresentato in prima persona a Roma da scultori come la dinastia dei Kleomènes (v.), copisti e creatori di statue onorarie. Il neoatticismo, anche se non esclude del tutto la convivenza con i riflessi di altre correnti artistiche, frena tuttavia l'avviata formazione di una nuova corrente d'arte. Prevale, in tutte le correnti artistiche confluenti nel clima neoclassico della cultura augustea, un gusto retrospettivo e un compiacimento per l'eclettismo. Tipica l'Ara Pacis (v.) votata nel 13, consacrata il 30 gennaio del 9 a. C., nella quale una concezione generale di carattere italico-romano (ara dentro un angusto recinto posticcio) è rivestita di elementi figurativi e ornamentali privi di connessione tettonica tra loro, ed esprimenti varie tendenze artistiche dell'ellenismo: dal neo-attico dei rilievi principali al pittoricismo del rilievo paesaggistico, alla ripresa di modi pergameni del II sec. a. C. negli ornamenti vegetali; il tutto composto con una assenza di coordinazione e di funzionalità del tutto diversa e contraria alla mentalità greca. Lo stile locale, romano dell'arte augustea si manifesta con maggiore autonomia nei piccoli rilievi della processione sulle fiancate dell'ara centrale (v. vol. i, fig. 706). Questo stile si trova in via di sviluppo nei rilievi di un'altra ara, di dimensioni analoghe a quelle dell'altare dell'Ara Pacis, generalmente nota come Ara dei Vicomagistri (Musei Vaticani, dalla Cancelleria). I magistrati dei Vici vi sono raffigurati, ma non in posizione di protagonisti e l'ara dovette essere dedicata a qualche culto imperiale, che allora sviluppava il proprio simbolismo e le proprie personificazioni (v.). In questi rilievi vi è ancora il gusto per le forme secche e metalliche, oggettive e prive di fantasia, caratteristicamente "romane"; ma vi è anche una maggiore e in parte nuova libertà spaziale, entro la quale si muovono le figure, come dimostra il fatto che alcune di esse sono viste di dorso e si muovono verso il fondo. Più aulica di questa dei Vicomagistri, ma anche più unitaria che l'Ara Pacis, dovette essere l'Ara Pietatis (v.) di età claudia, della quale rimangono alcuni bei frammenti (v. vol. i, fig. 712).

Il gusto quasi metallico dei rilievi citati li ricollega con altri anche assai più tardi, lavorati a sbalzo in lamina d'argento (per esempio quelli del Tesoro di Marengo, museo di Torino, [v. vol. iv, fig. 1008]). È proprio nei lavori di toreutica, che lo stile augusteo si palesa nel modo più piacevole e più adatto alle sue tendenze (v. vol. iv, fig. 45, s. v. hildesheim). Ma a proposito del fregio con processione sacrificale sul fianco dell'altare centrale dell'Ara Pacis bisogna anche dire che esso rappresenta il primo anello di una serie di fregi analoghi, di piccolo formato, inseriti in monumenti di vario tempo e di vario stile, come l'Arco di Tito, l'Arco di Traiano a Benevento, l'Arco di Settimio Severo al Foro e, in diverse condizioni, l'Arco di Costantino a Roma, nei quali fregi sempre si manifesta una forma artistica diversa da quella degli altri rilievi del monumento ufficiale (v. pompa). Questi rilievi con scene sacrificali si ricollegano, evidentemente, alla tradizione genuinamente romano-italica, perpetuando quel divario, che possiamo riscontrare, per esempio, nei sarcofagi tardi etruschi, tra lo stile usato per le rappresentazioni che avevano precedenti ellenistici (battaglie, miti) e quelle per i quali tali precedenti mancavano (processioni funerarie): nuova conferma, se ne occorressero, che l'artigianato artistico lavorava per generi (giacché questi non erano stati ancora aboliti, come fu richiesto ai giorni nostri dall'estetica postromantica). Accanto alla toreutica (v.), il gusto dell'età augustea si manifesta con una ripresa in tono, anche qui, più freddo, ma con grande finezza tecnica, della glittica di grande formato, oltre che di gemme per sigilli (v.), che era stata in auge alle corti ellenistiche (v. cammeo; glittica). Si ha così la Gemma Augustea (v. vol. ii, fig. 431), il cammeo con Augusto e Roma (v. vol. iii, fig. 1215), la cui esecuzione è segnata a dopo il 29 a. C., data dell'editto che regolava il culto in parola nelle comunità asiatiche, e poi, sotto Tiberio, il grande Cammeo di Francia (v. vol. iii, p. 295 ss., figg. 432, 433) per il quale è stata anche affacciata una datazione adrianea, poco persuasiva. Ancora sotto Claudio avremo gemme di grande formato (come quella a Vienna, Inv. ix a 23). Sulla stessa linea di gusto delle gemme si pone anche l'esempio più insigne che ci sia rimasto della tecnica del cammeo in vetro, il Vaso di Portland (v. portland) nel quale una recente esegesi (Simon) vuol riconoscere allusioni al mito stesso della concezione di Augusto.

2. Pittura. - Il quadro generale della pittura romana è stato tracciato nel capitolo precedente. Con l'età augustea, fra il 30 e il 25 a. C., si ha il pieno sviluppo del cosiddetto II stile nella sua fase più matura (fase D); ed esempî di particolare qualità si trovano a Roma stessa, oltre che nelle città vesuviane. Proprio all'inizio di questo periodo sono da porre le decorazioni della Casa della Farnesina (Museo Nazionale Romano) scoperta presso la Farnesina Chigiana, in occasione della sistemazione del Lungotevere (1878). Manca tuttora, dopo tanti anni, una edizione adeguata di queste pitture; ma in esse noi possiamo notare modi diversi: finte architetture prospettiche e di fantasia dai colori stridenti, entro le quali sono qui inseriti quadretti di chiara ispirazione classica, vere imitazioni di pìnakes delineate su fondo bianco (v. vol. vi, s. v. pinakes, fig. 188); pareti a fondo nero con serti di foglie e un fregio freschissimo che si svolge narrando episodî novellistici riferibili ad ambiente egiziano, senza dubbio di schietta tradizione ellenistica; altri quadretti di soggetto idillico-amoroso derivano probabilmente da modelli ben noti (v. seleukos, 3°). Questi possono essere posti sullo stesso piano dei quadretti nel grande ambulacro della Casa del Criptoportico a Pompei (v.) databili anch'essi attorno al 30 a. C. Ma nella Casa della Farnesina vi è anche una serie di piccoli dipinti a chiaroscuro, formanti fregio in pareti su fondo bianco, con battaglie fra navi, con scene pastorali, scene di vita popolare in un porto, ecc., di una così viva freschezza e immediatezza di tratto e di invenzione da garantirci la piena autonomia artistica del loro esecutore. Queste scene (v. tavv. a colori vol. v, pp. 164, 820; vi, pp. 214-215) corrispondono, in parte, ai soggetti che le fonti ci dicono particolari al pittore Ludius (opppure Studius: v. ludius) uno dei pochissimi che vengono ritenuti degni di menzione per questo tempo. Gli elementi, tuttavia, rimangono troppo scarsi per poter proporre una identificazione e attribuzione (v. anche paesaggio). In età tarda augustea (se non forse claudia) operò in Roma anche un altro non volgare decoratore, del quale rimane la grande sala della Villa di Livia a Prima Porta (Museo Naz. Romano) dipinta con la veduta di un giardino folto di piante varie animate da uccelli. La medesima maestranza dovette decorare gli sfondi delle finte finestre nel cosiddetto Auditorio di Mecenate (Roma, via Merulana), un piccolo edificio per recitazioni o per musica (pitture lasciate purtroppo ormai distruggere senza adeguata pubblicazione fotografica). Questo tipo di raffigurazioni di un giardino concluso, vero paràdeisos orientale (v. giardino), non è certamente di invenzione romana; ma queste pitture ci documentano che a Roma operavano artisti pienamente consapevoli della ispirazione e dei mezzi occorrenti a perpetuarne il gusto. All'età augustea appartiene anche la grande sala della Villa dei Misteri a Pompei (v. tav. a colori, pp. 350-351) nella cui decorazione si mescolano copie di pitture greche e inserzioni romane con abilissimo mestiere. A Roma, anche la cosiddetta Casa di Livia sul Palatino, esempio tipico del II stile in nobile redazione, conserva nel suo "fregio giallo" (v. vol. ii, tav. a colori a p. 548), sottile fascia che corre in alto al disopra dello zoccolo di un ambiente decorato a folti festoni appesi tra esili colonne, elemento dunque secondario della decorazione, un esempio vivacissimo di pittura a macchia eseguita in chiaroscuro, nel quale gli spunti paesistici e la fauna raffigurata indicano esplicitamente derivazione alessandrina. Siamo ancora, come si è detto (v. sopra, cap. iii, 3) nella fase degli apporti di motivi iconografici e nella continuità stilistica dell'ellenismo, accanto e in paragone dei quali le pitture di soggetto locale e di invenzione locale si palesano chiaramente come appartenenti a una cultura artistica periferica e a un filone modestamente popolare (v. tav. a colori a p. 320-321).

La distruzione di Pompei (79 d. C.) e delle città vesuviane avviene in piena età flavia. Il cataclisma ha preservato per noi la più grande documentazione della pittura antica, anche se soltanto al livello artigiano. Decorazioni come quella delle Case dei Vettii, di Loreio Tiburtino (o Quartione), di Giulia Felice, di Pinario Ceriale a Pompei o pitture come i quadri delle Case dei Dioscuri, del Poeta Tragico (neroniane), del Citarista (età flavia) o della Basilica di Ercolano, appartengono a questo tempo e contengono il meglio della pittura di età romana. La precisa osservazione delle strutture murarie di Pompei (v.) ha permesso di constatare come le ricostruzioni fatte dopo il violento terremoto del 62-63 d. C. (5 febbraio 62?) segni praticamente l'inizio del cosiddetto IV stile. Ma non è accettabile la interpretazione di esso come di una creazione delle maestranze pompeiane o comunque campane. Il centro artistico era Roma. La chiave, forse, degli sviluppi del IV stile è da ricercarsi nelle decorazioni della Domus Transitoria sul Palatino e della Domus Aurea collegate con il nome del pittore Fabullus (v.) e dell'imperatore Nerone (v. anche tavv. a colori a p. 854 e p. 944, 956 e 960). Anche a Stabiae (v.), centro di ville e di edifici più eleganti che non Pompei e la stessa Ercolano, si può osservare l'attività di maestranze di qualità superiore e di più ricca invenzione.

3. Architettura. - Nel campo dell'architettura il periodo da Augusto ai Flavî segna l'irrobustirsi dei fondamenti gettati nell'età di Silla e di Cesare, soprattutto per quei tipi di edifici che si sottraevano alla suggestione dell'architettura templare greca: gli archi onorari, le terme, gli anfiteatri, lo stesso mausoleo di Augusto (v. augusto). Un arco a solennizzare la vittoria di Azio era stato eretto nel Foro Romano, ma esso fu sostituito da un altro attorno al 20 a. C., i cui avanzi permettono una ipotesi ricostruttiva. Ed è importante il vedere affermarsi una concezione di arco a tre fornici (anche se la suddivisione corrisponde alla via fra due marciapiedi, e se i fornici laterali hanno aspetto di edicole fiancheggianti l'arco vero e proprio) che congiunge chiaramente elementi locali (l'arco centrale) ed elementi ellenistici (le edicole). Il teatro dedicato da Augusto alla memoria di Marcello, nipote, genero e designato successore, fu ultimato l'11 a. C. (v. roma, fig. 972). Tra l'età di Augusto e quella dei Flavî si collocano i più grandi edifici per spettacoli: l'anfiteatro di Pola (v.), è databile tra Claudio e Tito; quello di Verona (v.) a poco prima; il Colosseo, inaugurato da Tito nel giugno dell'anno 80 fu poi ultimato da Domiziano. Anche il teatro di Orange (v.) uno dei più grandiosi di cui ci sia rimasto abbastanza per comprenderne bene il valore architettonico, è di età augustea.

In generale si può dire che l'intento scenografico del tutto estraneo al gusto architettonico e urbanistico di età classica in Grecia, ma affermatosi nelle città ellenistiche di nuova costruzione, viene assunto in pieno e in certo modo codificato in età augustea e sviluppato nei tempi successivi. Tipico in questo senso il fatto che, mentre tanta parte della cultura figurativa augustea è tributaria di Atene, ad Atene stessa la dominazione augustea lasciò la sua impronta nella scalinata di accesso all'Acropoli e nell'assetto monumentale e rievocativo dell'Agorà, che si sovrappone al suo originario carattere economico e amministrativo e introduce una ordinata e simmetrica sistemazione planimetrica (v. atene).

4. Arte plebea e provinciale. - Non è da passare sotto silenzio lo sviluppo che in età augustea ebbero le province, perché è in questo momento che si costituiscono e si stabiliscono taluni caratteri fondamentali dell'arte provinciale; e anche perché questi caratteri non sempre sono stati rettamente intesi e interpretati nella loro situazione storica. Effettivamente, un impulso notevole viene dato alla vita delle province dell'Italia settentrionale e a quelle transalpine dal riordinamento di Augusto e dalla sistemazione dei veterani. In questo tempo si costituisce un'arte provinciale sulla base della tradizione artistica "plebea" che già serviva (come mostrano rilievi di Roma, del Lazio, dell'Abruzzo) il ceto medio italico che era chiamato a formare il nucleo della colonia e con l'assunzione di alcune formule grafiche e iconografiche dell'arte ufficiale augustea. Nei piccoli monumenti della provincia, in Italia, per lo più edicole funerarie adorne di rilievi, si pone soprattutto in risalto il grado sociale raggiunto dal committente e la liberalità delle sue prestazioni pubbliche (edicole di Storax, museo di Chieti; ivi e nei musei dell'Aquila e di Isernia, altri monumenti analoghi: v. gladiatore). Sono generalmente liberti, giunti al benessere economico e a qualche magistratura locale; la loro ambizione trova esatto riscontro nella descrizione che il liberto arricchito Trimalcione fa, durante il banchetto, del monumento funebre che intenderebbe farsi costruire (Petron., Satyr., lxxi). Questo spiega il particolare carattere dell'arte provinciale in tutto l'Occidente, nella quale soltanto isolatamente agiranno fermenti figurativi locali preesistenti (ad eccezione della Narbonense per la quale v. più avanti). Ma spiega anche perché sia infido, in questo caso, il criterio di datazione solitamente applicato a molte di queste sculture funerarie, attraverso le acconciature e il taglio dei capelli. Nella enorme maggioranza dei casi sulle stele provinciali non si hanno veri ritratti fisionomici, ma ritratti tipologici (per questa terminologia v. ritratto); l'immagine generica cioè, del vecchio, del giovane, della matrona, della giovinetta, come provano le frequenti ripetizioni; e queste immagini tipiche, penetrate nell'uso corrente in età augustea, sono state ripetute, con le stesse caratteristiche esteriori, (per esempio le acconciature alla Livia o alla Agrippina), per lungo tempo, oltre l'età giulioclaudia. Allo stesso modo e per i motivi già accennati nel paragrafo precedente, i ritratti virili provinciali conservano a lungo una imitazione di quello che era stato lo stile aristocratico del ritratto sillano. Ma questa produzione provinciale non ha soltanto caratteri secondarî. Si manifestano in essa infatti due tendenze generali, che sono estranee all'arte ufficiale e che solo in parte possono essere riferite alla tradizione italica precedente: il motivo costruttivo impresso alla scultura, per cui le figure sono concepite in blocco, con accentuazione delle masse e degli spigoli con i quali si incontrano i singoli settori che formano il blocco e che coincidono con le direttrici di spinta rilevabili nella anatomia della figura. Si potrebbe tornare a parlare di concezione "cubistica"; ma senza implicazione di derivazione dalla tradizione etrusca, che si era del tutto dissolta dopo le eversioni e gli spietati macelli cui la nazione etrusca era stata sottoposta da Silla e poi da Ottaviano. L'altro carattere tipico è la ricerca di una particolare soavità e gentilezza di espressione (del tutto estranea all'accademismo ufficiale), di cui sono soffuse molte di queste immagini e che fiorisce al di sopra della sommarietà dell'esecuzione. Si manifestano qui, in nuce, tendenze di forme e di contenuti che saranno un giorno il residuo valido e vitale, anche se apparentemente modesto, della immensamente ricca tradizione ellenistico-romana, quello che sarà trasmesso all'arte medievale dell'occidente europeo. Occorre riconoscere nell'arte provinciale un aspetto di quella corrente d'arte "plebea", arte del medio ceto al quale appartenevano i militari e i funzionarî provinciali. Quest'arte si colora anche, qua e là, di elementi locali, specialmente nelle province più lontane dal centro, mentre nei pressi di Roma e a Roma stessa assume più facilmente elementi aulici.

Tra le province occidentali, la Narbonense presenta un aspetto artistico particolare. In essa si conservano ancora monumenti, la cui interpretazione stilistica e la cui datazione è stata a lungo discussa: A Glanum (St. Remy de Provence), a Carpentras, a Orange (v. singole voci) si trovano rilievi, archi, monumenti funerari, di uno stile ricco, pittorico, con soluzioni di una libertà spaziale assai superiore a quella dei coevi monumenti di Roma. Si è cercato di darne spiegazione sia riferendoli a età più tarda (fine II-III sec. d. C.), sia ipotizzando larga partecipazione di maestranze italiche (sottintendendole portatrici di una tradizione formale, che si riscontra in certi rilievi delle urne etrusche), sia riconoscendo l'elemento formale decisivo in una più diretta discendenza ellenistica, pittorica e scultorea. Di queste spiegazioni, la prima è confutata oggi da precise datazioni archeologiche; la seconda si vanifica di fronte alla constatazione, che le forme alle quali si riteneva di potere far riferimento erano quelle della produzione etrusca influenzata dall'ellenismo e risalente, come adesso è stato accertato, al III e II sec. a. C., ma non più esistente nella seconda metà del I a. C. e del I d. C., quando quei monumenti vennero eretti. La terza ipotesi, invece (Bianchi Bandinelli, 1939), ha ora ricevuto conferma dal ritrovamento (per esempio a Glanum) di uno strato nettamente ellenistico, con sculture di carattere pergameno, conforme del resto alla remota ascendenza greca di quegli stanziamenti, e dalla datazione del "monumento dei Giuli" fra il 30 e 25 a. C., alla conferma della titolatura di Tiberio (nel 280 tribunato, 26-27 d. C.) nell'Arco di Orange. Allo stesso filone d'arte è da attribuire la nota figura funeraria di Medea e i figli del museo di Arles (vol. iii, fig. 950).

5. L'arte flavia. - Il retore Quintiliano deve aver composto le sue Institutiones entro un arco di tempo (secondo le varie ipotesi) che va dall'89 al 95 d. C., vale a dire sotto Domiziano. In quest'opera il paradigma culturale, per quanto riguarda le arti figurative, sta ancora del tutto sotto le insegne del classicismo neoattico. La scultura, invece, già ai tempi di Claudio e Nerone, mostra di essersi mossa a superare quella specie di tutela che il grande prestigio della tradizione di Atene aveva posto sulla cultura romana augustea. Nell'età degli imperatori Flavî se ne libererà quasi completamente. Resta a vedere se ciò avvenne per il formarsi di una tradizione artistica autonoma, nuova o se, alla ispirazione neoattica si sostituì l'ispirazione di altre correnti artistiche sopravviventi nella cerchia dell'antico mondo ellenistico. Non siamo in grado di dare una risposta a questo problema, perché lo studio dell'attività delle scuole artistiche delle città greche in età imperiale romana è appena agl'inizî. Riteniamo però di poter ormai respingere la interpretazione (ai suoi tempi genialmente ardita, anche se oggi appare erronea) del Wickhoff, che considerava carattere originale del gusto romano quelle tendenze al rendimento sfumato del chiaroscuro nel bassorilievo e quella tendenza a collocare le figure in uno spazio aperto, infinito. Tale giudizio del Wickhoff derivava dal presupposto che l'arte greca fosse rimasta sempre sulla linea da essa raggiunta nel V-IV sec. a. C., cioè nella sua piena classicità, poi ripresa nel classicismo neoattico, ignorando del tutto la problematica artistica dell'età ellenistica. Le tendenze alla ricerca spaziale, invece, fondamentalmente ellenistiche e risultato estremo di intuizioni e aspirazioni che, nell'ambito delle civiltà antiche, solo nell'arte greca si manifestarono, e questo già in età arcaica, venivano perciò attribuite all'arte romana e i loro precedenti ricercati nell'ambito italico. Ma proprio l'arte italica ha mostrato, quando si è cominciato a studiarla più da presso, che la ricerca spaziale le era del tutto estranea come problema di forma artistica, anche se essa aveva saputo riprendere abilmente, e talora liberamente accentuare, gli aspetti prospettici del naturalismo ellenistico, ogni volta che un modello ellenistico da seguire fosse stato raggiungibile. Conseguentemente, la ripresa tendenza al rendimento spaziale e allo sfumato, alla circolazione dell'atmosfera attorno alle immagini, che si manifesta in età flavia è, a nostro parere, da interpretarsi come la ripresa di tendenze artistiche tipicamente ellenistiche, al di fuori della parentesi neo-attica. Puramente in via di ipotesi si potrebbe, forse, valutare in questo senso un documento ancora assai discusso, come il fregio della Basilica Emilia, del quale circa 16 m sono stati ricomposti da innumerevoli frammenti, ma che dovette originariamente svolgersi per una lunghezza di almeno 90 in (altezza 0,60). A noi sembra che esso indichi da un lato una connessione con la pittura storico-trionfale di tradizione romana, ma dall'altro una precisa e consapevole ispirazione all'ellenismo asiano del II sec. a. C. e in particolare al fregio dell'Artemision di Hermogenes (v.) a Magnesia (v.), che presenta le forme plastiche più analoghe. Se la sua datazione dovesse effettivamente collegarsi (Kähler) con i lavori di abbellimento dell'anno 22 d. C. sotto il consolato di M. Emilio Lepido, ciò spiegherebbe il fatto che le lastre recano il segno di un complicato lavoro di adattamento all'architrave, avvenuto senza dubbio indipendentemente dalla messa in opera di questo. L'architrave dovrebbe essere quello della ricostruzione successiva all'incendio del 14 a. C., e l'ipotesi (Carettoni) che in questa si sia voluto reimpiegare un fregio dell'edificio danneggiato appare meno ben sostenibile. Per il suo carattere di plastica morbida e sommaria, da completarsi con il colore, il fregio è stato generalmente supposto di età repubblicana; ma i richiami a immagini su denari del 72 a. C. non indicano se non derivazione iconografica da qualche più antico monumento pittorico. Se la datazione al 22 d. C. fosse accertabile, il fregio della Basilica Emilia si porrebbe, ancora in età tiberiana, come il primo segno di superamento del neoatticismo e la ripresa di tendenze più schiettamente ellenistiche. Tendenze di stile, diciamo; non copie e imitazioni. Perciò, nuove creazioni sotto esponente diverso dall'atticismo, da inserirsi in quello stesso movimento di gusto che porta all'affermazione degli ultimi sprazzi di vita della decorazione parietale, anch'essa più impressionistica che mai, come mostrano le decorazioni della Domus Aurea di Nerone (v. tav. a colori a p. 854; 944; 956; 960) siano o no attribuibili al pittore Fabullus (v.), giacché le mani che decorarono quelle pareti furono evidentemente più d'una.

Ci sembra significativo che proprio quei pilastri con le rose che dettero lo spunto al Wickhoff per la sua ipotesi critica, si trovassero a far parte di un monumento sepolcrale (quello degli Haterii) del quale facevano parte anche rilievi nettamente partecipanti alla corrente romana "plebea", in quanto alla concezione tematica, e alla tendenza a celebrare principalmente il defunto nelle sue opere, anche se gli schemi consueti sono qui riveduti da una pratica marmoraria al corrente delle forme auliche non meno che della complessa simbologia funeraria (v. haterii).

Discorso diverso è da fare per l'altro monumento tipico per l'arte di questo tempo, i rilievi delle pareti interne del fornice nell'Arco di Tito (la discussione in atto sulla datazione di quest'opera, se eseguita subito dopo l'81 o dopo il 90 d. C. non sposta le linee generali che qui interessano). Già l'architettura dell'arco, se confrontato con un arco di età augustea (per esempio l'Arco di Susa, v.), mostra un'articolazione più compatta, più pesante, nettamente diversa dalle eleganze ellenistiche (nell'attico trova posto una spaziosa camera, che poté anche essere interpretata come camera sepolcrale dell'imperatore Tito, la cui apoteosi è sintetizzata al centro della vòlta sottostante: v. vol. iv, fig. 529). E per la prima volta si trova usato il capitello composito ionico-corinzio, di gusto che potrebbe dirsi barocco e che resterà tipico dell'arte romana. Ma particolarmente notevoli e nuovi sono i rilievi interni dell'unico fornice, che mostrano due momenti del corteo trionfale svoltosi a Roma nell'anno 71, dopo la presa di Gerusalemme; da un lato il corteo colto nel momento giuridicamente più saliente, quello del suo ingresso nell'area urbana attraverso la Porta Triumphalis (v. urbiche, porte), ed esibente i trofei più significativi, gli arredi sacri del tempio giudaico distrutto nell'anno 70, che poi saranno conservati nel templum Pacis; dall'altro lato la quadriga stessa con l'imperatore Tito, immediatamente susseguente, nel corteo, alla scena del lato opposto. A parte gli elementi allegorici introdotti nella scena della quadriga e l'inesattezza storica del presentare Tito da solo, mentre sappiamo che al trionfo partecipò anche Vespasiano, imperatore in carica, noi abbiamo qui ormai definito in tutti i suoi aspetti il tipico rilievo storico romano. Esso, rispetto allo stile precedente, ha un addensarsi di figure e un'altezza di rilievo del tutto nuovi e coerenti ad un inserimento delle figure nello spazio, che è diverso dalla spazialità ellenistica non solo per intensità, ma anche per qualità. Non soltanto, infatti, le singole figure si muovono in uno spazio libero e la diversa altezza del rilievo, che degrada dalle teste dei cavalli, quasi a tutto tondo, alle teste e alle lance del fondo, provocando l'illusione di uno spazio atmosferico reale; ma la massa stessa delle figure non si muove sopra una linea retta, sibbene sopra una linea curva e convessa, ben riconoscibile nel rilievo processionale, le cui prime figure a sinistra sono viste di tre quarti e di faccia, quelle centrali di profilo e le estreme a destra di dorso mentre procedono sotto il fornice della Porta Triumphalis. Lo spettatore viene sfiorato e quasi investito dal corteo che si rappresenta; e questo modo di collocare le immagini nello spazio verrà ripreso e accentuato nel "barocco" dell'età degli Antonini e prelude a quella ulteriore captazione dello spettatore nell'ambiente stesso della scena rappresentata, che avverrà nell'arte dal III secolo in poi. Innegabilmente, nel caso dei rilievi dell'Arco di Tito, non siamo più nell'àmbito di un repertorio, ma siamo in presenza di una personalità artistica che imprime alla cultura diffusa nell'ambiente entro il quale opera, una sua impronta del tutto nuova e durevole.

Che tale impronta fosse nuova e personale lo dimostrano i due grandi rilievi rinvenuti a Roma sotto il Palazzo della Cancelleria, smontati già in antico da un monumento da ritenersi riferibile a Domiziano (all'83 d. C. secondo Magi, ad altro momento, secondo Curtius, Fuhrmann, Toynbee, Hamberg, ecc., mentre Schefold li ritiene dell'età di Nerva). Fossero di poco antecedenti all'Arco di Tito, se si accetta la datazione a dopo il 90, o di poco posteriori, se si accetta la datazione dell'arco al decennio precedente, essi rimangono ancorati ad uno stile appena un poco più caldo di quello dell'età di Claudio, con ancora molti elementi di classicismo; ma anche, va notato, con un tenue accenno a una disposizione delle figure sopra una linea convessa (rilievo A), timida anticipazione o tenue riflesso della novità più notevole dei rilievi dell'Arco di Tito.

6. Architettura. - L'architettura di età flavia, a parte quanto è già stato detto a proposito dell'Arco di Tito, più che per le forme decorative ha grande importanza per lo sviluppo di tecniche nuove, che consentono un nuovo sviluppo delle articolazioni spaziali. Non possiamo valutare esattamente l'importanza degli architetti di Nerone, Celer (v.) e Severus (v.), ai quali Tacito ascrive ingenium et audacia (Annal., 15, 42); ma si può dire che la grande e tipica architettura romana viene creata in questo tempo, e si svilupperà sino al IV sec. (si veda anche roma, b, 6, 7). È in questo tempo infatti che si sviluppa l'uso della cupola emisferica (Domus Transitoria, Domus Aurea, Ninfeo di Domiziano ad Albano, oggi chiesa di S. Maria); si sviluppa l'uso delle crociere (Colosseo) e si introduce, insieme all'impiego di materiale leggero per le vòlte, l'impiego di nervature costituite da archi laterizi posti in serie e collegati da mattoni bipedali, che vengono a formare un sistema di cassette riempite a gettata (ma, a differenza delle altre innovazioni, questa rimane elemento puramente tecnico che non si traduce in motivo decorativo). Le vòlte a botte, già sviluppate in età repubblicana, raggiungono adesso ampiezza maggiore (sino a m 33 di diametro nel vestibolo domizianeo del Foro Romano). Nella Domus Aurea (v. roma, d 6) compare la struttura ad ottagono, il cui precedente più prossimo era la Torre dei Venti, eretta ad Atene tra il 64 e 37 a. C. da Andronikos, influenzata dalla tradizione di edifici poligonali (mausolei) tipici della Siria, sua patria. Ma nella Domus Aurea non è questo il solo accenno a spunti tratti dall'Oriente asiatico. Particolarmente significative, per le loro implicazioni simboliche e ideologiche, non tanto le notizie sulle coperture a cassettoni mobili che lasciavano cadere petali di rose e spruzzavano profumi sui sottostanti (Suet., Nero, xxxi, 2), quanto quelle relative alla coenatio rotunda, sala circolare, la cui vòlta roteava simboleggiando il cosmo che nel sovrano si accentrava (quae perpetuo diebus ac noctibus vice mundi circumageretur, ibid.). Non v'è dubbio che ci troviamo dinanzi a un ideale collegamento, sia pure espresso in forme barocche, con il trono del cosmocratore persiano, sul quale si era assiso Alessandro Magno "presso la vòlta dorata del cielo" come dice Plutarco (Alex., 37). Forse, (ma è stato posto in dubbio: Boëthius, 1946) un medaglione di Nerone ci conserva un documento riferibile a questa cupola orientale in piena Roma.

Bibl.: v. in calce a cap. VI.

V. - La nuova arte romana dell'età di traiano (98-117 d. c.). - Quando il Senato aveva voluto onorare Ottaviano con un titolo inconsueto, era stato dapprima proposto di chiamarlo "Romolo", quasi nuovo fondatore di Roma; prevalse poi la proposta di nominarlo "Augusto", nome augurale e circonfuso di alone religioso (Suet., Div. Aug., vii, 2), quasi equivalente al titolo di Sebastòs già usato per i sovrani ellenistici. L'appellativo, invece, di optimus princeps che fu dato a Traiano, non ha nulla di trascendente; esso corrisponde perfettamente al modo oggettivo, severo, ma umano, col quale lo Stato romano fu organizzato e retto, con disciplina e rigida onestà, ma anche con aperta intelligenza, fu difeso e ampliato sino alla sua massima espansione, da questo imperatore ricco di esperienza in cose militari non meno che in cose amministrative, che operò considerando se stesso niente altro che il primo funzionario dello Stato. Il governo dell'Impero, che nella ambiguità della sua formula di "repubblica presidenziale" (ma priva di termini di scadenza), aveva dovuto cercare una giustificazione trascendente all'esercizio del potere, riposa con Traiano tutto sull'osservanza delle leggi e sul consenso; e nello stesso tempo raggiunge una non più fittizia sicurezza finanziaria e un ampio sviluppo commerciale, nell'agricoltura e negli scambi di mercato.

Da questo concetto nuovo dello stato discende anche la creazione di un nuovo tipo di ritratto imperiale, formulato esplicitamente in occasione del decennale dell'avvento al potere (v. ritratto, fig. 838). Diverso dal ritratto del sovrano ellenistico che è sempre ricco di pàthos nella sua plastica elegante, e articolata (e un poco teatrale), questo è un ritratto, invece privo di ogni elemento metafisico, ma anche liberato dalla soggezione puntualmente veristica al modello, che nella semplicità delle forme, nella obiettività dei tratti fermi e pacati sa esprimere suprema dignità e autorità di comando. Può veramente definirsi un ritratto programmatico, politico. Nella ritrattistica di Traiano non si trovano più le due serie, quella del ritratto privato gentilizio e funerario e quella del ritratto onorario e ufficiale, come si possono distinguere per i suoi predecessori (e in modi estremi per Vespasiano, v.) ma tra i molti ritratti che ci rimangono (v. traiano) la più esplicita testimonianza, forse, del particolare clima morale creato dalla personalità dell'imperatore e della nuova concezione ed espressione artistica che in questo tempo fu creata a Roma, è un ritratto disperso, fra tanti altri, come un piccolo particolare nel lungo fregio della Colonna Traiana. In esso si vede Traiano a colloquio con uno dei suoi comandanti, probabilmente L. Licinio Sura (v. vol. iv, p. 621), durante la seconda guerra dacica; e forse mai, nell'arte di tutti i tempi, è stato espresso con tanta intensità e con tanta semplicità formale il rapporto di fiducia e di rispetto che si tende nel colloquio fra un intelligente e libero subordinato e il suo capo, mentre questi con intenso raccoglimento e parco gesto gli espone il proprio progetto di azione.

Basta un tale dettaglio per farci comprendere che con la Colonna Traiana, si tocca un vertice dell'arte dell'antichità e di ogni tempo. Ma bisogna anche dire che con questo monumento, la cui invenzione nuovissima è stata variamente interpretata, ci troviamo per la prima volta dinanzi ad una espressione artistica autonoma in ogni suo aspetto (anche se culturalmente ancorata a un lungo e ricco passato) che si pone, nella storia della cultura artistica antica, in piena legittimltà quale espressione di arte romana, accanto all'arte classica greca, accanto all'arte ellenistica e alle altre culture artistiche del mondo antico.

Superata la fase di dipendenza dal neoatticismo, si era andata formando in tarda età flavia (Arco di Tito) una arte romana abbastanza autonoma che traeva alimento da un rinnovato contatto con l'ellenismo asiano (e probabilmente anche con quello alessandrino la cui definizione ci sfugge ogni volta che si crede di poterla afferrare), ma anche dalla tradizione che si era formata localmente, e che noi abbiamo riconosciuto nei rilievi dell'altare dell'Ara Pacis e nell'Ara detta dei Vicomagistri. Mancava, però, sinora a quest'arte l'aver saputo fondere insieme i varî componenti culturali e formali e amalgamarli al fuoco di una potente capacità di invenzione e di espressione artistica, per opera di una personalità d'artista che fosse superiore alla media della pur abilissima routine artigiana. Questa personalità si è felicemente costretti a riconoscere presente nei rilievi della Colonna Traiana, dedicata nel 113 d. C. (v. colonna, n. 1, figg. 1095 ss.). Il fatto che il suo rilievo, che narra le quattro campagne delle due guerre daciche (del 101-102 e del 105-107 d. C.) si volge, denso di figure, per circa duecento metri di lunghezza, e che non vi si nota mai un momento di stanchezza inventiva, una ripetizione, insomma un "vuoto", nel contesto narrativo (un vuoto, s'intende, che non sia voluto consapevolmente) è già di per sè cosa eccezionale. Ma vi è anche l'invenzione di un nuovo modo di esprimersi, con un rilievo molto basso (tale da non alterare la linea architettonica della colonna, talora addirittura negativo, vale a dire abbassato rispetto al piano di fondo) accompagnato sovente da un netto solco di contorno e ricco di innumerevoli variazioni della superficie per esprimere le più varie materie (stoffe, pelli, corazze, alberi, fronde, rocce). Il rilievo, ravvivato dal colore e dall'inhserzione di elementi metallici (armi impugnate), doveva essere leggibile dai loggiati delle due biblioteche, la greca e la latina, che fiancheggiavano la colonna. Ma se ci chiediamo come fu materialmente eseguito sopra i grandi rocchi di marmo della colonna già posti in opera, non possiamo immaginare altro che un modello disegnato, un cartone, eseguito tutto di mano del Maestro della Colonna Traiana, come siamo obbligati a chiamare questo per noi anonimo artista. L'analisi condotta molti anni or sono (Bianchi Bandinelli, 1939) che indicava come unico confronto possibile i rilievi del Mausoleo dei Giuli a S. Remy (Glanum) interpretando questi come traduzione in pietra di pitture ellenistiche, ha trovato ora conferma nella più alta datazione dei rilievi stessi (v. sopra, iv, 4) e nella scoperta dello strato ellenistico con influenze pergamene, della città di Glanum. Ma questo confronto e richiamo non può avere altro significato che di sottolineare come la personalità del Maestro della Colonna fosse in pieno possesso della forma ellenistica compresa e assimilata, ma anche superata, nella nuova esperienza artistica, che è sua e di nessun altro. Rimane tuttavia significativo che proprio in ambiente pergameno si trovino gli unici riscontri di quelle figure di caduti, abbandonati in pose che per la prima volta, in un'opera della scultura antica, sembrano astrarre dalla organica connessione anatomica delle varie parti di un corpo e trattare anche il corpo umano come un elemento compositivo ornamentale e inorganico (v. fig. 1335 del vol. iii).

Come per tutti i grandi artisti anche per il Maestro della Colonna Traiana il problema della espressione non si limita all'aspetto formale, ma investe profondamente anche il contenuto. Ed è in questo senso che l'arte traianea segna un impulso durevole. Le raffigurazioni di carattere storico o celebrativo della corrente più tipicamente romana, dalle pitture dell'Esquilino all'Ara Pacis, ai rilievi della Cancelleria, erano corrette e dignitose, più o meno eleganti formalmente, ma sempre sostanzialmente fredde; questa freddezza interiore non viene superata nemmeno dal più vivo plasticismo dei rilievi dell'Arco di Tito. Qui invece (e l'esempio del ritratto di Traiano già menzionato sarebbe di per sé già sufficiente) le scene del rito ufficiale (sacrifici, allocuzioni, ecc.) ricevono una più calda espressione; le scene militari una veemenza nuova, e vi è una capacità insolita di rappresentare l'impeto compatto degli attaccanti, i singoli episodî di una guerra che spesso si tramuta, da parte dei Daci, in guerriglia. E vi è, in particolare, una intensa partecipazione umana alla pietà per i vinti, una comprensione per la nobiltà della loro lotta disperata contro un invasore così superiore per mezzi e per organizzazione. Suicidi in massa e deportazioni di intere famiglie sono rappresentati con drammatica e pietosa partecipazione e con accenti e dettagli tali da supporre una testimonianza diretta degli avvenimenti. Questo senso di rispetto umano per il nemico è un estremo frutto della cultura greca; lo ritroveremo ancora nei Ricordi di Marco Aurelio, l'imperatore filosofo (x, 10); dopo non più, con l'affievolirsi e il dissolversi della paidèia ellenica.

Monete traianee ci mostrano che la basilica eretta nel nuovo Foro e l'Arco (v. vol. i, fig. 647; vol. ii, fig. 13) che ne segnava l'ingresso erano ricchissimi di rilievi. Un lungo fregio, incompleto, denso e vibrante di figure, si può ricomporre accostando le lastre inserite nell'Arco di Costantino (fornice centrale e corpi laterali dell'attico), ed esso è, senza dubbio possibile, non solo di età traianea, ma strettamente connesso con l'arte della Colonna: proviene dal Foro (basilica?). Troppi documenti, in opere d'arte e in testimonianze letterarie, ci mancano per poter arrivare a chiarire storicamente la formazione dell'arte traianea più da presso di quanto non arrivino gli accenni qui riassunti. Ma riteniamo che anche in altre opere, tra le quali la maggiore conservataci è l'Arco di Benevento (v.), si possa rintracciare il riflesso dello stesso Maestro nell'attività di una maestranza che doveva in parte aver già fatto le sue prove nei rilievi del trionfo di Tito; specialmente nel rilievo interno con la institutio alimentaria (v. vol. ii, p. 88). L'arco di Benevento, che segna l'apertura della nuova via per il porto di Brindisi, è del 114; l'altro arco, non adorno di rilievi, che conclude i lavori del porto di Ancona (v.), è del 115; la colonna era stata inaugurata nel 113 e quando essa accolse le ceneri dell'imperatore nel 117, per completare i grandiosi lavori del Foro (v. roma, c iv, d) restava ancora da ultimare il tempio al centro della grande piazza semicircolare dietro la colonna, che fu poi dedicato al divo Traiano. Il Foro deve dunque aver impiegato maestranze numerosissime; ma soltanto un nome ci è conservato, quello di un Orestes, che doveva essere un liberto e che firma un rilievo, oggi al Louvre (v. orestes, m. ulpius) che proviene dal Foro. Ma esso non è certamente il Maestro della Colonna e dovette operare già in età adrianea (v. paragrafo seguente).

Il Foro Traiano completò il vasto complesso urbanistico che con le aggiunte dei Fori di Cesare, di Augusto e di Domiziano e Nerva era stato congiunto con il vecchio Foro Romano, oramai ingombro di monumenti e insufficiente, nelle sue attrezzature edilizie, alla vita pubblica e commerciale della capitale dell'Impero. Il Foro Traiano dette non solo larghi spazi liberi e una grande basilica (Ulpia), ma attorno ad esso e sulle pendici del Colle Quirinale, tagliato per la sistemazione del Foro, si elevò un ampio e articolato sistema di botteghe su due piani, culminanti nell'aula del grande mercato, vero emporio, di un tipo che sopravvisse sino a noi nei bazar dell'Oriente mussulmano (v. roma, figg. 958-962). Quando tutto questo complesso mercantile venisse compiuto non sappiamo; ma è certo che esso fu progettato insieme al Foro e che rimase attivo e sufficiente sino ai tempi più tardi dell'Impero (Ammian. Marcell., xvi, 10, 15). Architetto del Foro e architetto militare di Traiano sappiamo che fu Apollodoros di Damasco (v.). L'ipotesi che egli possa identificarsi con lo sconosciuto Maestro scultore che operò nello stesso tempo, è attraente, perché nessun altro nome di artista tramandano le fonti e perché le architetture del Foro sono singolarmente ricche di sculture. Ma rimane del tutto gratuita ed indimostrabile.

Anche nel caso del Foro Traiano mancano finora quasi completamente gli studî sistematici. Dal poco che è stato fatto, tuttavia, si ricava già qualche dato importante: la ornamentazione architettonica del Foro Traiano, databile tra il 112 e 119 d. C., presenta un netto divario dalla decorazione architettonica dell'età flavia e precisamente nel senso di un sobrio, ordinato e stilizzato classicismo. Se esso sia una ripresa del classicismo augusteo, o non piuttosto, come sembra più probabile, una ripresa di contatto diretto con l'architettura greca, non si può dire allo stato attuale delle ricerche. Certo è che le forme vegetali o quelle puramente ornamentali appaiono, in tutta la loro scandita limpidità, meno metalliche, meno frigide di quelle augustee.

Il benessere dell'età traianea, la felicitas temporum, ci è attestata anche dal sorgere di un nuovo tipo di casa da abitazione, a più alloggi, a Ostia (v. vol. v, fig. 949) e a Roma, dove sono documentate (e certamente anche altrove), adatte a sodisfare le necessità di una classe media in crescente sviluppo, che tende a far scomparire il divario fra le abitazioni finora usate da essa e quelle dei ricchi e dei patrizi. E non a caso appartengono a questa età i migliori resti di decorazioni pittoriche che si trovano nelle province europee dell'Impero: a Vienne in Gallia, e specialmente nei centri lungo la via di importanza militare e commerciale verso l'area balcanica, da Aquileia a Carnuntum e Aquincum (v. sotto questi esponenti e, inoltre, savaria e scarabantia).

Negli ultimi anni di Traiano fu eretto ad Atene il monumento sepolcrale di G. Giulio Antioco Filopappo (114-116 d. C.), discendente della stirpe regale dei Seleucidi, che aveva ricoperto varie cariche ad Atene. Il mausoleo ancora sovrasta la collina di fronte all'Acropoli (v. vol. i, fig. 1074). Il monumento riprende spunti architettonici siriaci, della Licia e della Commagene, ma le sue modanature hanno gusto attico, mentre il fregio che lo adorna dipende dai rilievi storici in uso a Roma; sicché esso rappresenta bene la relativa unità, anche artistica, che l'Impero aveva raggiunto, almeno nelle sue province più progredite, con un reciproco scambio continuo di elementi tra Roma e la periferia.

Negli ultimi anni di Traiano, per una larga ripresa dell'uso della inumazione in luogo della incinerazione (mutamento al quale non si è trovata ancora una valida spiegazione), ha inizio quella fabbricazione dei sarcofagi in marmo ornati di rilievi mitologici, che nei tempi successivi costituirà una delle più notevoli produzioni di artigianato artistico dell'età romana. Fin dall'inizio si hanno sarcofagi di produzione romana, caratterizzati dalla decorazione su tre lati, perché destinati a camere funerarie disposte a triclinio come nell'antico uso italico, e sarcofagi di produzione attica, decorati su tutti i quattro lati, perché derivati dal sarcofago posto al centro di una camera funeraria del tipo a heròon, come nell'antico uso microasiatico (v. sarcofago).

Un monumento di grande interesse fu elevato in Dacia per commemorare i caduti delle guerre di Traiano e celebrare la finale vittoria: è il Tropaeum Traiani presso la località rumena di Adamklissi. Un grande monumento circolare, di tipo funerario italico-romano, era sormontato da un trofeo; ma un interesse tutto particolare presentano le metope del fregio e i merli del coronamento adorni di rilievi di uno stile "provinciale" tutto particolare, che implica l'attiva partecipazione di maestranze locali (v. tropaeum traiani). Non è senza significato il fatto che per lungo tempo gli studiosi ritennero di dover assegnare questi rilievi all'età costantiniana, se non addirittura all'arte medievale.

Bibl.: V. in calce al cap. VI.

VI. - L'età di adriano, dei primi antonini e la svolta artistica nell'età di commodo. - 1. Adriano (117-138 d. C.). - Sino a quando lo studio dell'arte romana fu dominato dai pregiudizi accademici e non affrontò il tema con adeguati mezzi di critica storica, l'età di Adriano, insieme all'età di Augusto, era uno dei pochi momenti nei quali sembrava che potesse esser conveniente prestare attenzione all'arte antica posteriore al periodo classico. Ma in tal modo non si valutò esattamente nemmeno l'arte adrianea. Intanto va detto subito che se l'arte traianea fu l'espressione di una nuova condizione della società romana, tanto a Roma che nelle province, ed ebbe perciò un largo raggio d'azione, l'arte adrianea fu un fenomeno legato strettamente alla cultura, ai gusti e alle pretese del principe, Adriano, uomo colto, raffinato, filelleno, artista, pittore di nature morte (questa interpretazione del testo riteniamo che vada mantenuta) e dilettante architetto egli stesso. Sappiamo (Cass. Dio, 4, 1-5) che ben presto Apollodoros, il geniale architetto di Traiano, cadde in disgrazia per non essersi trovato d'accordo sui progetti architettonici del tempio di Venere e Roma presso il Foro Romano, promossi dal nuovo imperatore. Pertanto lo stile adrianeo, nella scultura, non va al di là dei monumenti ufficiali o di quelli sorti nella immediata influenza della corte imperiale. Altro punto, da chiarire è che essa non fu semplicemente una ripresa di modi neoattici o un episodio che si esaurisse nell'accademia. Né poteva esserlo, giacché ormai la società romana aveva una sua struttura ben definita e articolata, una sua cultura, una sua tradizione e costituiva un mondo ben affermato; non si era più al momento di muovere i primi passi come al tempo di Augusto. Vi è senza dubbio, nell'arte del ventennio adrianeo, un grande amore per la Grecia classica; ma è un amore consapevolmente nostalgico e perciò venato di morbida malinconia, quasi romantico, potremmo dire. L'arte di Adriano non è un arido, programmatico ripetere le forme classiche, un fatto come era stato il neo-atticismo, dapprima del tutto intellettualistico e poi commerciale; ma non è nemmeno una rinascenza, perché non si accompagna a una profonda problematica artistica; nasce dallo spleen di un uomo colto, sensibile alla bellezza, freddo contro sua volontà, molto potente e infelice. Con la sua scomparsa svanirà senza conseguenze, lasciando dietro a sé opere delicate e tecnicamente ineccepibili; piacevoli, ma aristocraticamente esangui.

Nella scultura, la creazione più rappresentativa di quest'arte fu il tipo di Antinoo, riecheggiato in variazioni molteplici da un modello, certamente creato da un artista greco (la replica migliore è quella Farnese a Napoli) il quale, per l'ultima volta nell'antichità, fu posto davanti al tema del corpo virile nudo stante che, senza essere impegnato in azione, mostra di potersi muovere a volontà: quello che era stato il tema centrale della scultura greca dagli inizî del VI alla metà del V sec. a. C. Il tema fu risolto con una ripresa di modi fidiaci, ma trasformati e rivissuti nel particolare clima della corte adrianea, tuttavia con abbastanza di validità estetica (v. antinoo). Merita di essere notato che tra gli scultori che celebrarono Antinoo si trova anche un artista della scuola di Afrodisiade, Antonianos (v.), non certo eccellente, genericamente eclettico ed operante a Roma. Altri, tecnicamente più esperti scultori afrodisiensi, eseguirono e firmarono due ben noti centauri in durissimo marmo, ad imitazione del bronzo, per la villa di Adriano, oggi conservati al Museo Capitolino (v. aristhas, 2°), con ogni probabilità varianti di creazioni ellenistiche. Ma di particolare interesse è l'indicazione che queste opere danno verso officine microasiatiche, che cominciano a prevalere nei rapporti con Roma su ogni altra officina (v. cap. seguente). Numerose, naturalmente, le copie di opere celebri della Grecia classica, eseguite in età adrianea. Particolarmente belli per la eleganza del rilievo, i sarcofagi (v. sarcofago).

La scultura di argomento celebrativo e storico risentì meno del particolare gusto della corte imperiale. Anche se l'impeto e la ricchezza di contenuto della scultura storica traianea sono andati perduti, rimane una plasticità corposa, mossa e pittorica. Ancora molto prossimi alla scultura traianea sono i rilievi di due lunghe transenne, i cosiddetti anaglifi di Traiano (Foro Romano, nella Curia), celebranti atti di governo di Traiano, ma forse eseguiti nei primi anni di Adriano (da uno dei quali mosse forse la leggenda di Traiano e la vedovella, giunta, attraverso la interpretazione cristiana, sino a Dante, Paradiso, xx, 45). Già meno vibrante e non privo di richiami classici, il rilievo con la nuncupatio votorum per una impresa di Adriano (verisimilmente riferentesi al tempo del suo governatorato in Pannonia, vivente Traiano) conservato, diviso in due frammenti, al Louvre, firmato da un Orestes (v. cap. preced.). Assai più freddo e compassato nella composizione e nella esecuzione (ma nuocciono al suo apprezzamento la rilavorazione della superficie e i restauri) il frammento di un'opera celebrante i Vota vicennalia (meglio che decennalia) per Adriano, agli Uffizî (Catal., n. 149, inv. 321; datazione 137 d. C.). Meglio di ogni altra opera connessa con avvenimenti politici, ci documentano la scultura adrianea gli otto grandi tondi con rilievi riferentisi, a due a due, a imprese di caccia dell'imperatore e alle relative offerte all'una o all'altra divinità, che furono inseriti nell'Arco di Costantino, provenienti da un monumento del quale ci è sconosciuto l'aspetto, la motivazione e la topografia. Sono composizioni ben equilibrate, eleganti, non molto vigorose, ma con una plastica disinvolta. Ben più ricca e viva la modellatura del rilievo di Efeso (museo di Vienna; v. vol. iii, fig. 605), con l'adozione di Antonino da parte di Adriano, avvenuta nel 137, che già indica in quale direzione si sarebbe mossa una nuova corrente artistica.

Tra le molte costruzioni di Adriano basta ricordare il Pantheon, il grandioso tempio di Venere e Roma presso il Foro Romano (v. roma, fig. 929, n. 51, fig. 948) e la Villa Adriana presso Tivoli, per caratterizzarne il tempo. Il Pantheon di M. Agrippa era stato distrutto nell'8o d. C. da un incendio, ricostruito da Domiziano e di nuovo distrutto nel 110, e fu poi ricostruito da Adriano. I bolli dei mattoni danno gli anni dal 115 al 127 e assicurano che tutto l'edificio circolare ancora esistente è di età adrianea. Gli studî condotti sul monumento (v. roma, d, 10, pp. 988 ss.) hanno constatato che la cupola augusteo-flavia era conica. Il Pantheon, nella sua forma adrianea, è forse l'edificio che meglio rappresenta la sostanziale diversità tra la concezione architettonica romana, come architettura degli spazi interni e l'architettura greca, che si rivolge essenzialmente all'esterno. I più lontani precedenti si possono riscontrare in Campania, a Baiae (v. Boll. d'Arte, 10, 1933, p. 241). L'accostamento dei due elementi come li troviamo nel Pantheon, cioè dell'edificio circolare e del pronao colonnato, che non si inseriscono organicamente uno nell'altro, appare una innovazione già in uso in età repubblicana (roma, Area dell'Argentina). La Villa Adriana (v.) dove certamente la passione architettonica di Adriano potè avere libero campo di azione, voleva essere un ricordo dei più celebrati monumenti delle province greche e orientali dell'Impero. Lo studio del suo enorme complesso e delle opere d'arte in esso scoperte è ben lungi dall'essere esaurito; ma sono state rilevate le nuove e complesse forme di alcune parti degli edifici, che sviluppano in modo arditissimo talune premesse dell'architettura di età flavia e ne anticipano altre dei due secoli successivi: troveranno poi il loro vero continuatore soltanto nel Borromini (m. nel 1667 a Roma), mentre l'architettura dei Mercati Traianei (proporzioni, motivi dei timpani spezzati, ecc.) e quella del Pantheon saranno con grande interesse studiate nel Rinascimento. Soluzioni architettoniche come, per esempio, la sala a cupola della "Piazza d'oro" di Villa Adriana (vol. i, fig. 116), restano del tutto isolate nell'architettura antica, almeno per quanto ne sappiamo. Anche se gli elementi di tale invenzione hanno precedenti nella Domus Aurea e nella sala sottostante al Tempio di Venere e Roma, e sono, quindi, radicate nello sviluppo dell'architettura romana, si ha quasi l'impressione che soltanto nella villa tiburtina, in condizioni specialissime di gratuità e di illimitato potere, esse abbiano trovato espressioni estreme, nate probabilmente dalle intuizioni di un committente sovrano e dilettante, realizzate da ottimi tecnici delle costruzioni.

Contemporaneamente ai lavori della villa, ove si era ritirato, solitario e inquieto malato, Adriano faceva costruire il proprio mausoleo sulla sponda del Tevere opposto, ma idealmente congiunto, a quello di Augusto e reso più monumentale dal ponte di accesso: l'attuale Castel S. Angelo (v. roma, d, 7, fig. 985).

Il biografo di Adriano ci conserva ricordi della sua inquieta smania di viaggiare e del fatto che quasi in ognuna delle città visitate aveva fatto costruire qualche edificio (Vita, 19, 2). Il più ambizioso complesso, naturalmente nella diletta Atene dove Adriano portò a compimento il grandioso Olympieion, è costituito da una magnifica biblioteca con 100 colonne di marmo pavonazzetto e pareti incrostate di marmi preziosi (Paus., i, 18, 9), un tempio di Hera e di Zeus Panellènios, un Pantheon e altri edifici. All'ingresso di questa "città di Adriano e non più di Teseo" fece elevare un arco, ancora conservato, di singolare fattura mistilinea e di ispirazione ellenistica (v. vol. i, p. 850, figg. 1068-1073).

La pittura, nei pochi documenti superstiti, mostra per l'età di Adriano la sostanziale ripetizione di elementi ormai tradizionali nella decorazione parietale romana, specialmente piccoli paesaggi entro ampie campiture di colore, mentre quasi scompare l'elemento architettonico dipinto. Il sepolcro degli Anicii e Valeri sulla Via Latina (v. roma, g, ii, 3 c, fig. 1009) conserva un esempio della elegante e piacevole decorazione, già di età antonina, nella quale stucchi bianchi si uniscono a fregi e a quadretti policromi (v. soffitto). Nell'età di Adriano e dei primi Antonini, accanto ai mosaici policromi imitanti la pittura e di carattere ellenistico, si affermano mosaici figurati o puramente ornamentali a bianco e nero che si diffondono nelle abitazioni meno lussuose, nelle terme, negli ambienti di uso pubblico, costituendo un genere nuovo e di grande efficacia nella sua semplicità ricca di variazioni (v. mosaico; ostia).

2. I primi Antonini. - Adriano aveva adottato Elio Cesare non avendo figli proprî; ma Elio morì nel 138 (l'anno stesso nel quale poi morirà Adriano) e allora fu adottato Tito Aurelio Antonino, al quale poi il Senato conferirà il titolo di Pio, che era stato proconsole in Asia. Egli resse il potere sino al 161, e prima della sua morte raccomandò come suo successore Marco Aurelio Antonino, suo genero (n. nel 121), la cui adozione era già stata predisposta da Adriano. Marco Aurelio chiamò subito come collega il suo genero Lucio Vero (n. nel 130), e già adottato anch'esso da Antonino Pio, col quale divise il potere affidandogli il comando militare nelle campagne in Parthia e in Armenia, (dove il suo comportamento provocò le ironie di alcuni scritti di Luciano). Morto Lucio Vero nel 169, ad Altino, Marco rimase solo a reggere l'Impero sino alla sua stessa fine, avvenuta nel 180 per l'epidemia di peste scoppiata nel campo militare di Carnuntum, poco ad E di Vienna (Vindobona). Al melanconico filosofo, con alto senso del dovere sobbarcatosi al comando dell'Impero, successe il degenere figlio Commodo, che fu poi tolto di mezzo da una congiura di palazzo nel 192 e lasciò lo Stato nell'anarchia e nel disordine economico. Il periodo dei primi Antonini, sino a Marco Aurelio compreso, passò nel ricordo delle generazioni come un aureo periodo di benessere e di giustizia, a confronto di quanto avvenne dopo; ma gravi difficoltà politiche ed economiche si erano già profilate. Anche dal punto di vista della cultura, se Marco Aurelio stesso ben rappresenta il profondo sentimento etico degli ultimi stoici e il loro amaro pessimismo che li porta a idealizzare il distacco dalla vita, il suo maestro di retorica, Frontone, rivela tutta la vacuità di una cultura ridotta alla mera forma esteriore, che si balocca sorridendo in dissertazioni in lode delle mosche o del fumo. L'uno e l'altro atteggiamento, sfuggendo alla realtà della vita e del mondo, preparano quello spostamento dall'umanesimo classico all'irrazionalismo, che si delineerà nei decennî successivi.

L'arte, specialmente la scultura, si presenta dapprima sostanzialmente come un classicismo appena un poco più vivace di quello del tempo di Adriano, in quanto le modellature si fanno più ricche di chiaroscuro e i rilievi hanno talora i contorni sottolineati da un solco che ne accresce l'effetto plastico (immagini delle Province sul basamento del tempio del divo Adriano, del 145, ora nel cortile del Palazzo dei Conservatori). Classicistici, nella compostezza delle figure, nella loro plastica equilibrata e fredda e nel loro isolamento, sono i due rilievi raffiguranti una apoteosi, quella di Sabina, provenienti da un arco sulla via Flaminia (Roma, Conservatori) e quella di Antonino Pio e di Faustina, dalla base della Colonna onoraria di Antonino (Vaticano, Cortile della Pigna). Questa sorgeva in Campo Marzio ed era una colonna liscia di granito sormontata dalla statua dell'imperatore con gli attributi di Giove. Costruiti entrambi in modo analogo, con figure sedute e distese in basso, il centro della scena occupato dalla figura alata che si alza con volo obliquo, recando in alto verso il cielo i personaggi imperiali da deificare, il primo dei due rilievi è tuttavia più arioso, più ellenistico. Il secondo, invece (v. vol. i, fig. 667) pur con la minore effettiva spazialità, con la fissità che degrada le figure simboliche sedute in basso (Roma e il Campus Martius) a meri oggetti, riesce a suggerire il moto del genio alato che sale (probabilmente inteso come Aion, v.), e quasi se ne avverte il grande impeto delle ali tra lo stormire delle aquile al disopra. Il moto della figura che ascende è sottolineato da piccoli accorgimenti, come il fatto che l'ala sinistra supera lo spigolo del plinto, e così pure lo scudo della personificazione di Roma, mentre i lembi del panneggio della figura recumbente sporgono dall'orlo della base. Ci sono dunque elementi di un nuovo fermento, di un nuovo modo di vedere la realtà, che si inseriscono nel classicismo ereditato dal tempo di Adriano, tendenti ad una nuova soluzione del rapporto spaziale. E questi fermenti esplodono, appena possono liberarsi dalla ufficialità degli schemi iconografici consueti, nella stessa faccia posteriore della base della Colonna di Antonino Pio, colla raffigurazione della decursio. La galoppata circolare è resa con figure ad alto rilievo, talune viste di scorcio, che per la prima volta introducono in un monumento ufficiale una concezione figurativa del tutto nuova nel corso dell'arte dell'antichità classica. Se figure che solcano l'aria erano già apparse in opere di diretta eredità ellenistica (come nel Cammeo di Francia, la cui proposta attribuzione ad età adrianea è assai problematica), le figure della decursio sono del tutto insolite: si ha l'impressione che talune soluzioni offerte nei rilievi nella Colonna Traiana abbiano fornito lo spunto e che siano state qui trasferite dal bassorilievo al tutto tondo con in più il gusto, già adrianeo (si veda il ritratto di Ostia Cat. n. 74), del contrasto tra superfici levigate (le carni) e superfici mosse e pittoriche (i capelli, la barba), qui accentuato ed esteso all'insieme della composizione.

Abbiamo elencato all'inizio di questo paragrafo la serie degli Antonini nelle loro complesse relazioni familiari, perché notevole importanza documentaria assumono i ritratti della dinastia (v. singole voci), e i ritratti in genere della corrente patrizia del tempo, nei quali si scorgono, prima ancora che nei rilievi ufficiali, quei nuovi fermenti formali, quelle tendenze a un pittoricismo che si è voluto anche definire (non del tutto propriamente) barocco: dai ritratti di Lucio Vero a quel busto di Commodo nell'aspetto di Ercole (v. ritratto, fig. 839) nel quale l'abilità tecnica e il gareggiare in marmo col metallo prezioso costituisce il precipuo vanto dello scultore. Per quanto inserita nella tradizione, non possiamo non ricordare la statua equestre di Marco Aurelio collocata da Michelangelo nella piazza del Campidoglio, che diverrà modello alle statue equestri del Rinascimento (v. marco aurelio, fig. 1002).

Come e dove nasce questa nuova tendenza, che poi, accentuandosi, giungerà a produrre, a partire dagli ultimi anni di Commodo, una delle svolte più incisive nel corso dello svolgimento dell'arte di età romana? Riteniamo che non si tratti, in questo caso, della decisiva apparizione di un nuovo artista di personalità superiore, perché la tendenza appare diffusa a largo raggio, dapprima timidamente, poi sempre più decisa sino a produrre la svolta, e questo senza dubbio con l'intervento di una personalità artistica che però non "inventa" un nuovo linguaggio, ma porta avanti e alle estreme conseguenze un movimento di scuola che da lungo tempo dovette essere attivo in larghe e abilissime maestranze artigiane. Anche in questo caso ci mancano tuttora le raccolte sistematiche dei materiali e le ricerche analitiche, ma crediamo di poter indicare il luogo di origine di questa tendenza nei centri dell'Asia Minore. Si potrà discutere in quale di questi centri, a preferenza, quando il materiale ne sarà stato ordinato. Ma possiamo fin da ora indicare almeno Efeso. Fin dalla prima età adrianea vi si trovano edifici i cui ornamenti plastici già contengono tutti i caratteri tecnici (uso del trapano corrente, intaglio profondo delle decorazioni architettoniche) e alcuni dei salienti elementi stilistici, che a Roma emergeranno nell'età di Commodo: l'armoniosissima biblioteca in memoria di Celso, senatore di Traiano, edificio di utilità pubblica e al tempo stesso heròon, dei primi tempi di Adriano; il piccolo tempio dedicato ad Adriano stesso, ne dànno testimonianza. Nei rilievi del monumento alle vittorie di Marco e di Lucio Vero (museo di Vienna) tra i quali si trova la già citata scena dell'adozione di Antonino Pio, si ha forse un primo germe ancora trattenuto, di quel movimento artistico e la testimonianza del lontano ascendente pergameno di essa. Qui, inoltre, nelle scene dell'imperatore che sale sulla quadriga del Sole, di Selene che scende dal carro nel mare, si hanno anche paralleli alle concezioni nuove delle scene di apoteosi nei monumenti di Roma (v. efeso)

3. La svolta artistica dell'età di Commodo. - La svolta artistica nel senso indicato si può datare, a Roma, approssimativamente nel decennio tra il 180 e il 190. Tale datazione riposa sulle osservazioni che si possono fare da un lato a proposito di undici rilievi di carattere storico, otto dei quali si trovano inseriti nell'attico dell'Arco di Costantino (v. vol. i, fig. 781), tutti riferentisi a fatti del regno di Marco Aurelio, e d'altro lato alla colonna onoraria ancora in situ (Roma, Piazza Colonna), dove son raffigurate le guerre contro Sarmati (v. colonna, n. 2) e contro Germani. E stato anche ipotizzato un "Maestro delle imprese di Marco Aurelio". Riteniamo che occorra fare una distinzione. Degli undici rilievi menzionati, tre (Roma, Palazzo dei Conservatori) si inseriscono senza difficoltà nello stile della prima età antonina. Gli altri otto presentano uno stile nuovo, lo stile, appunto, della svolta di cui si è detto. Si è discusso e si discute se tutti gli undici rilievi, che hanno identiche dimensioni tra loro, facessero parte di un unico monumento riassuntivo dei fatti di Marco Aurelio, oppure se i primi tre provengano da un arco eretto ai piedi del Colle Capitolino per il trionfo del dicembre 176, del quale è memoria, e gli otto da un arco o altro monumento ipotetico inserito nel complesso di monumenti onorari dedicati alla memoria di Marco a partire dal 180 e dei quali avrebbe fatto parte anche la colonna. Comunque si ritenga di risolvere tale questione, è indubbio che si tratta di due serie di opere, appartenenti a due artisti assai diversi; ma solamente quello al quale sono da assegnare gli otto rilievi è veramente un "Maestro" di livello notevole, che esprime con originalità i temi consueti del rilievo storico celebrativo, e introduce in Roma una visione formale sino ad allora non usata, procedendo con spregiudicatezza sulla via della ricerca di uno spazio ottico e pittorico più ampio e più mosso. Il nome di "Maestro delle imprese di Marco Aurelio" può a buon diritto essere attribuito a questo ignoto artista. Ma non ci sembra lecito attribuire ad esso anche i cartoni della colonna onoraria di Marco, dove gli stessi problemi sono presenti in modo molto più avanzato, ma l'invenzione è quasi sempre povera, con frequenti ripetizioni, con soluzioni di ripiego, e se vi si trovano figure che ripetono gli stessi schemi già visti nei rilievi, si tratta, appunto, di ripetizioni meccaniche, proprie di un imitatore e non certo proprie dello stesso artista (per esempio, si cfr. la figura del soldato visto di dietro, che guarda in alto presso il podio dell'imperatore nel rilievo n. iii con adlocutio da destra, e la identica figura nella adlocutio che segue immediatamente il passaggio del Danubio sulla colonna, scena iv, che si palesa come una rozza ripetizione di seconda mano). Negli otto rilievi si tende quasi sempre (specialmente nei nn. i, ii, iii, iv) a creare al centro della composizione un affollamento di figure poste obliquamente verso il fondo, sia che si allontanino dallo spettatore o che vengano verso di esso (n. iv, sacrificio); oppure si dispongono le figure frontalmente, su due registri (rilievo vii, Liberalitas). Ma in ogni caso lo spettatore si viene a trovare incluso nello stesso spazio nel quale si muovono le figure, il che accresce notevolmente l'efficacia drammatica ed espressiva della composizione entro la quale circola liberamente quell'aria che fa muovere i vessilli di contro alle architetture nel fondo. La nuova concezione spaziale, che porta avanti quanto nel trionfo di Tito era stato appena iniziato, qui è affrontata e svolta in piena coerenza, raggiungendo uno dei momenti più efficaci dell'arte romana. Questo artista partecipa ancora della struttura di fondo ellenistica, ma l'aggredisce in un modo che sino allora era insolito a Roma, e la piega a valori formali insoliti. Egli partecipa ancora della umana pietà per i vinti, e lo dimostra nella delicatezza con la quale compone ed esprime il gruppo del Capo barbaro supplice ed infermo, sorretto da un giovinetto nel rilievo viii. Di tale pietà non ci sarà più traccia nella narrazione della Colonna, dove il nemico è sempre pavido, sguaiato, disprezzato, schiacciato dalla massiccia e inesorabile potenza romana; i nessi compositivi saranno più facili, quasi sempre addirittura banali.

Tutto ciò sembrerebbe portarci a concludere che sia da far intercorrere un non brevissimo intervallo di tempo tra gli otto rilievi e la Colonna, opera di epigoni del Maestro dei rilievi, mentre alla maestranza della Colonna saranno da attribuire alcuni sarcofagi (da Portonaccio al Museo Naz. Romano, n. 112327; a Roma, Collezione Giustiniani, a Frascati, Villa Taverna e a Perugia). La Colonna Traiana è l'evidente modello all'inventore e agli scultori di quella Antonina; ma la temperie artistica è profondamente cambiata. La stessa riduzione dei giri da 23 a 21 e l'accresciuta altezza della colonna (Colonna Traiana m 38, Antonina m 41,95) che porta all'adozione di figure più grandi e, per di più, meno folte e con rilievo più accentuato (a danno della linea architettonica della colonna), indica la tendenza a colpire a prima vista, ad accentuare l'immediata efficacia propagandistica dei rilievi. Vi sono anche aggruppamenti e soluzioni chiaramente imitati dalla Colonna Traiana; ma vi è un elemento di novità particolarmente notevole: molto sovente la figura dell'imperatore si trova impostata frontalmente (v. vol. ii, fig. 588), in diretta comunicazione con lo spettatore. È questo il segno più evidente di un distacco dal naturalismo di tradizione ellenistica e dell'assunzione di elementi che possiamo ben chiamare ideologici e addirittura metafisici, che per la prima volta penetrano nel rilievo romano, manifestando così la loro accettazione nella cultura ufficiale del tempo. Che la figura dell'imperatore, presente in quasi ogni scena, appaia posta frontalmente nella grande maggioranza dei casi (escluse le scene di marcia e di colloquio con principi barbari), non è, infatti, soltanto una questione di convenzione iconografica, né un motivo estetico-formale, di gusto. Questo fatto corrisponde a una precisa interpretazione, che carica la figura dell'imperatore di un contenuto religioso: sono le figure di culto, in ogni tempo e luogo, che agiscono sullo spettatore "guardandolo in faccia" e facendo scattare in tal modo l'elemento magico di una comunione spirituale.

L'ingresso dell'elemento irrazionale, metafisico, si presenta anche nella rappresentazione, del tutto nuova, dell'episodio avvenuto nell'anno 174, noto come "miracolo della pioggia nel paese dei Quadi", (scena xvi) con la grande figura alata del benefico genio ruscellante, preceduta da quella del "miracolo del fulmine" (scena xi a). E allora, posti sull'avviso, noi daremo un valore non puramente di gusto formale, ma effettivamente di contenuto, al fatto che già negli otto rilievi del Maestro la forma plastica e naturalistica veniva allentata, distrutta almeno in parte, da una ricerca di effetto coloristico e di spazialità, che introduceva elementi inafferrabili, irrazionali, come l'aria, il vento, la luce, gli stati d'animo mutevoli, entro un contesto ancora sostanzialmente saldo e naturalisticamente corretto. Che questi elementi nuovi vengano ottenuti con l'uso espertissimo di nuovi strumenti (quali il trapano corrente a taglio elicoidale), che forano e "mangiano" il marmo, dimostra che un già consumatissimo mestiere artigiano viene adesso posto al servizio di un particolare contenuto che si vuole esprimere. Quel contenuto, però, non è nato negli ambienti della cultura di Roma, ma nella speculazione filosofica e filosofico-religiosa delle Scuole che allora fiorivano nelle città delle province orientali, entro l'arco geografico che va da Efeso ad Alessandria. Non è certo per caso che questa svolta artistica, che così profondamente incide nella tradizione e prelude a quella che, di lì a un secolo, sarà una definitiva rottura, coincida con la prima profonda crisi delle strutture che avevano retto sino ad allora l'Impero Romano. Ma questa crisi si accompagna alla perdita dello spirito razionale e scientifico ereditato dalla cultura greca: la medicina finisce con Galeno di Pergamo (129-201 d. C. circa), la geografia con Tolomeo di Alessandria (100-178 d. C. circa).

4. Asia Minore, Siria e Egitto. - Durante l'età degli Antonini i centri artistici asiani si dimostrano particolarmente fiorenti, con prodotti di grande maestria tecnica e di eccellente qualità artistica, alcuni dei quali divenivano anche oggetto di esportazione, il che presuppone un commercio ancora attrezzato in modo assai efficiente. Possiamo anzi dire che il commercio romano raggiunge in questo tempo il suo massimo vigore, anche verso l'Oriente, con la scoperta della regolarità delle correnti dei venti stagionali (specialmente dei monsoni indiani). Vetri e modelli per opere toreutiche, di fabbrica alessandrina, si trovano esportati sino all'odierno Afganistan (v. begram e, più avanti n. xi, b). Marco Aurelio fu raggiunto persino da ambascerie cinesi. Esempio insigne della scultura asiana esportata in Italia è il grande sarcofago di Melfi, datato al 169 (v. vol. iii, fig. 33), che mostra l'adattamento di tipologie risalenti all'età classica, impiegate in un inquadramento architettonico avvivato dalla nuova concezione pittorica degli elementi ornamentali. Il confronto tra questo sarcofago e quello da Portonaccio con battaglia e barbari prigionieri (Museo Naz. Romano, n. 112327), anche se questo appartiene al venticinquennio successivo, mostra come i fermenti nuovi penetrati nell'arte vengano sviluppati con foga in senso espressionistico e di distruzione della tradizione classica, proprio nell'ambiente romano e non senza che agiscano, di riflesso, le consuetudini della corrente "plebea".

Della pittura non rimangono, al solito, che pochi avanzi. I resti di una villa esistenti sotto la basilica di S. Sebastiano sull'Appia mostra, fra ambienti di più tarda decorazione, anche un ambiente riferibile all'età antonina, con piccoli paesaggi che continuano, sia pure in diversa sintassi, quanto si era fatto nella pittura d'età flavia (v. tavv. a colori pp. 871-880). Ma della tradizione pittorica ellenistica rimangono, specialmente per questo tempo, i ritratti che le eccezionali condizioni climatiche hanno conservato nel Fayyum (v.). Erano ritratti eseguiti per privati, conservati nelle case e poi, in morte, applicati sulle bende delle mummie. Analoga ritrattistica doveva essere diffusa anche nel resto dell'Impero; ma non si è conservata. I ritratti di mummie del Fayyūm ci confermano, accanto alle sculture asiane, che la tradizione ellenistica si conserva inalterata, sin qui, piuttosto nelle province orientali che in Occidente, dove essa era meno radicata. Sui problemi del rapporto tra periferia e centro torneremo più avanti (n. x). Ma fin da ora possiamo ricordare un esempio caratteristico: la tomba cosiddetta dei tre Fratelli a Palmira (v. vol. v, fig. 1125). (Per la particolare situazione di questa città si vedano le voci palmira, e palmirena, arte). Nel periodo da Adriano a Settimio Severo, Palmira fu città libera; appartiene all'inizio di questo periodo (circa al 140) questo ricco sepolcreto, la cui forma generale ripete l'iwān (v.) di tradizione persiana e le cui decorazioni dipinte, con figure di Vittorie stanti sul globo e recanti nelle mani alzate sopra la testa ritratti sul tipo delle immagini clipeate (v. clipeate, immagini), appartengono in pieno, per tipologia e per stile, al repertorio ellenistico romano. I ritratti non differiscono stilisticamente da quelli coevi del Fayyum. Ancora una volta (come era accaduto in Roma all'inizio della sua civiltà artistica, e ancora al tempo dell'Ara Pacis), una struttura fondamentale indigena viene rivestita, ad opera di artisti immigrati, di elementi decorativi ellenistici, adattati all'ambiente. A Palmira stessa abbiamo altri insigni esempî di questo processo nell'immenso santuario di Bel, iniziato con artisti greci sotto Tiberio, e nella grande via colonnata, che era adorna di statue (in bronzo?) poste su mensole inserite nell'alto delle colonne, costruita tra il 120 e il 150, e che riceverà poi, circa nel 220, il grandioso arcone iniziale. Di età antonina è anche la porta urbica e onoraria, a tre fornici, della città di Anazarbos (v.).

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VII. - Il terzo secolo. - 1. La grande crisi. - Ogni volta che il modo tradizionale di concepire la forma nelle arti figurative è sovvertito da una concezione nuova, da un nuovo linguaggio, ciò provoca profonda irritazione e tenace rifiuto in chi rimane ancorato al passato. Così, il corretto funzionario, l'erudito ammiraglio che fu Plinio il Vecchio, aveva riecheggiato dalle sue fonti che l'arte era morta nella Olimpiade CXXI: proprio quando i successori di Lisippo creavano la nuova e trionfante arte ellenistica che rappresentò una svolta rispetto a quanto di stanco era ormai nella forma classica, pur conservandone i fondamentali principî. La morte dell'arte è stata di poi molte altre volte preconizzata e affermata, fino ai giorni nostri, ogni volta che una tradizione figurativa è stata infranta e che si andava costituendo una nuova iconografia. Il III secolo segna una delle più clamorose di queste rotture: la rottura della forma ellenistica; e quindi per molto tempo si è parlato, a proposito di questo secolo, come di quello della più assoluta decadenza. In realtà, il progressivo abbandono della forma ellenistica, il rifiuto del naturalismo e del razionalismo, segnano l'inizio di un nuovo modo di concepire l'espressione artistica e questo modo si svolgerà, con varie vicende, ma con interna coerenza, durante il millennio successivo. L'elemento irrazionale, penetrato, come si è visto, nel linguaggio artistico già in tarda età antonina, si afferma durante questo secolo e non scomparirà mai più dall'arte europea. Una rottura che avrà così lunghe e lontane conseguenze non può liquidarsi con il solo termine di decadenza. Ma ci sono voluti più di cinquant'anni di studî per giungere a questa convinzione. Bisogna riconoscere, adesso, che dopo mille anni di forma classica-ellenistica, si assiste per la prima volta a un profondo mutamento, che è di contenuto prima ancora che di forma. Ciò che viene abbandonato è il peculiare equilibrio tra intuizione e razionalità, sul quale si era fondata l'eccezionale limpidezza, il sovrumano senso terrestre dell'arte greca, che rimarrà, fra tutte, l'esperienza formale più irripetibile.

Non basta tuttavia constatare la rottura; ci dovremmo anche chiedere perché sia avvenuta. Questo ci condurrebbe a una indagine storica, che qui non può essere affrontata e nemmeno riassunta. Si possono soltanto indicare alcuni elementi, tra i più determinanti, della crisi generale che investe profondamente il mondo antico e lo avvia alla sua dissoluzione e al costituirsi di civiltà diverse, che saranno poi la civiltà bizantina in Oriente e la civiltà carolingia in Occidente. L'abbandono di un certo modo di concepire la forma artistica e il graduale affermarsi di un modo del tutto diverso, non sono che aspetti di questa crisi generale, la espressione artistica di essa. Le invasioni barbariche, l'affermarsi dell'etica cristiana non furono, come un tempo si riteneva, le cause dell'abbandono della forma ellenistica con le sue eleganze, il suo anatomicamente corretto e apparentemente spontaneo naturalismo. La rottura della forma tradizionale avviene molto prima delle invasioni dei popoli "barbari" che si erano posti in movimento, e prima dell'affermarsi determinante del cristianesimo. La rottura avviene per cause interne e intrinseche alla civiltà stessa dell'Impero, giunta alla condizione di incapacità di risolvere le molteplici e sempre più complesse contradizioni che nascevano dalle sue stesse strutture. Prima fra tutte la contradizione esistente tra le strutture formalmente repubblicane, riposanti sull'autorità del Senato, e l'autorità di comando imperiale del princeps. Questa contradizione portava lo Stato sull'orlo della crisi ad ogni successione, invano contrastata, fin dal tempo di Augusto, dai varî ripieghi delle adozioni e designazioni, che rivelavano pur sempre una tendenza monarchica. Gli effimeri Augusti Pupieno e Balbino, nominati insieme nell'aprile del 238 e uccisi nel luglio, furono gli ultimi imperatori di diretta nomina senatoriale, perché anche la designazione senatoria del loro successore, Gordiano III (238-244), fu un affrettato piegarsi ai clamori popolari. Gravissima poi la rottura degli elementi di equilibrio della pax romana, cioè fra resistenza militare ai confini e pressione dei gruppi etnici che si muovevano e premevano a vicenda nell'ampio spazio barbarico, che portò al "disquilibrio fra il prezzo della guerra e le risorse del bilancio statale" (R. Remondon, 1964), fra produzione e consumo. Da qui la rovina dell'assetto monetario, che giunge a fenomeni spaventosi di inflazione (si arriva per successive svalutazioni, a una moneta che dal 97% di argento contenuto nella sua lega, non ne contiene più che il 5% attorno al 260 d. C.), e a una pressione tributaria insostenibile, che distrugge l'economia delle province; sicché, sommandosi le varie cause, si arriva alla paralisi pressoché totale del traffico commerciale. Si aggiunga la confisca dei terreni per l'acquartieramento dei barbari che venivano stabilizzati per difendere l'Impero ai confini, e si avrà sommariamente un quadro della situazione sempre più grave e penosa, che pesa in particolar modo sul colonato rurale e sulla media borghesia provinciale, spogliata dalle prestazioni, ma che porta a un certo momento honestiores e humiliores ad incontrarsi nell'immiserimento. Le gravi imposizioni con le quali si tentò di frenare invano la crisi economica venivano risentite, nelle province dell'Impero, come un marchio di soggezione: hae sunt notae captivitatis, questi sono i segni della servitù, scriveva, a questo proposito, già Tertulliano (Apologet., 13), primo grande scrittore cristiano, alla fine del II secolo. E verrà tempo che i contadini pannonici invocheranno disperati la presenza dei Barbari come una liberazione. Le riforme severiane (193-235), che si accompagnano a tendenze monarchiche assolutistiche, sono appropriate alla situazione, ma accentuano la rottura con il passato e non portano a una stabilizzazione della situazione di crisi. Altri interventi concreti saranno fatti sotto Gallieno (253-258), e solo le profonde riforme di Diocleziano (284-305), che comportano una radicale riorganizzazione dell'amministrazione, dell'esercito, del fisco, e una nuova politica verso i barbari, conducono a una stabilizzazione. Ma la società che esce dalla crisi è tutt'altra cosa da quella di prima. La rottura con la tradizionale società romana è definitiva; abbandonata la finzione giuridica delle forme istituzionali repubblicane, il governo dell'Impero si trasforma in monarchia di tipo orientale, finchè, tra il IV e il V sec. diverrà governo di una burocrazia in mano a pochi grandi funzionarî. Il congegno della tetrarchia, cioè la divisione del governo tra due Augusti e due Cesari (già situati come funzionarî in quanto ricevono uno stipendio), la prevista abdicazione degli Augusti e la successione assunta dai Cesari a loro volta divenuti Augusti, è l'ultimo esperimento, fallito subito anch'esso, per trovare un regolamento alla successione nel governo dell'Impero, prima che si giunga alla monarchia ereditaria di Costantino. Il Senato, espressione del patriziato romano tradizionale, non ha più che una veste formale; lo Stato, nelle sue strutture, riposa ormai sulla classe media rurale italica e provinciale, dalla quale escono i militari professionali e nella quale rientrano quelli che si congedano. La vecchia aristocrazia senatoriale, del tutto esautorata, passa all'opposizione, pur rendendo formale ossequio al potere imperiale.

Questo generale sovvertimento sociale ed economico non poteva non produrre, nella generale incertezza del domani, scoramento, angoscia, disperazione; ma anche senso di rivolta negli uni, attesa di un mutamento, e, in altri, tendenza all'isolamento, alla fuga dalla realtà, dal mondo, per rifugiarsi sempre più nell'astrazione del pensiero, nel metafisico, nell'irrazionale. Accanto alla crisi politica ed economica si ha, inevitabile, una profonda crisi spirituale, che si riflette direttamente nella forma artistica. Anche qui, abbreviando e semplificando, si può dire che la crisi spirituale ha, come esponenti, tre correnti: una è costituita dalle varie tendenze filosofiche, tutte sempre più pervase da elementi misticheggianti fino al neo-platonismo di Plotino (v.); l'altra è costituita dalle varie religioni pagane, alcune, come il culto di Cibele (proclamato culto ufficiale a Lione nel 160), pervase di fanatismo e di esaltazione, altre, come il culto di Mithra (v.), assai largamente diffuse nell'ambiente militare, perché costituenti un forte legame misteriosofico e di fratellanza tra gli adepti, tutte contenenti un nucleo di credenza redentrice che faceva intravedere il conforto di una esistenza migliore, una volta giunti a una rigenerazione liberatrice dalle miserie e angustie del mondo; la terza, infine, la corrente cristiana, che rispondeva in gran parte alle stesse esigenze che alimentavano le credenze misteriosofiche pagane, ma che si valse ben presto di una organizzazione al tempo stesso capillare e centralizzata, e che, diversamente dalle altre, agì in questo tempo come fermento di carattere rivoluzionario, di opposizione all'Impero, riconoscendo, essa sola, non in esso Impero, ma al difuori di esso, una entità universale ed eterna cui sottomettersi. È da parte cristiana che vengono perciò le più esplicite denunce della generale disgregazione; e basterebbe ricordare, a questo proposito, un famoso passo di un opuscolo polemico di Cipriano, vescovo di Cartagine, databile attorno al 250 (ad Demetrianum, 3), nel quale persino la natura appare coinvolta nel generale collasso.

Tutti questi aspetti di un secolo profondamente drammatico accompagnano e spiegano il mutamento che avviene nel linguaggio formale delle arti plastiche, scultura e pittura. Vi sono, naturalmente, aspetti diversi nei varî luoghi e nei varî momenti; ma il mutamento è generale e segue una linea di svolgimento coerente, anche se non continua, ché si riassume appunto nella già indicata rottura dei principî formali ellenistici, che si manifesta violentando l'anatomia, nell'abbandono del naturalismo, nel progressivo allentarsi, e infine nel perdersi, di quella coesione formale che aveva espresso il profondo senso di organicità delle strutture, tipico della concezione realistica antica e nel conseguente prevalere di tendenze che, per semplificare, possono essere e sono state definite "espressioniste" (v. espressionismo). È attraverso questa distruzione della forma antica che, in certo modo, si prepara la finale astrazione bizantina. Uno studio coerente e criticamente approfondito su questo decisivo momento dell'arte antica non è ancora stato condotto; vi sono alcuni studî parziali e strettamente specialistici i quali non hanno ancora effettuato, nella cultura generale, il superamento del concetto di decadenza che fu legato a questo momento artistico dalla cultura neo-classica e accademica e al quale occorre sostituire, invece, il concetto di trasformazione, di passaggio da un'epoca a un'altra della storia dell'uomo nell'area mediterranea ed europea. Anche in mancanza di sufficiente analisi, si possono, tuttavia, indicare alcuni nodi di sviluppo: l'età severiana, il periodo gallienico, l'età della Tetrarchia. In tutti questi periodi si può riscontrare uno svolgimento stilistico rivolto a un progressivo accentuarsi dell'espressionismo e del luminismo ad effetto ottico, coloristico; ma su questo fondo si innestano via via soluzioni di gusto particolare, con uno spiccato accentuarsi dell'individualismo artistico. Buon esempio del gusto che si afferma da questo tempo in avanti, sono le immagini dei gladiatori (v. tav. a colori, vol. iii, p. 944) nel grande mosaico proveniente dalle Terme di Caracalla, le più grandiose di ogni altro complesso termale precedente (v. roma, viii, f, figg. 978, 979).

2. L'età dei Severi (193-235). - Settimio Severo era governatore della Pannonia Superiore, con sede a Carnuntum, quando nell'aprile del 193 le sue legioni, accordatesi con quelle stanziate sul Reno, lo proclamarono imperatore in concorrenza con altri candidati: quelli della guardia pretoriana, delle legioni d'Oriente, delle legioni della Britannia e quello del Senato, che avrebbe dovuto essere l'unico legittimo. Ma quando il 9 giugno dello stesso anno Settimio Severo entra vittorioso in Roma, il Senato lo proclama suo. È il primo della serie degli "imperatori militari", le cui nomine irregolari terranno l'Impero in una specie di anarchia per quasi tutto il secolo, perché ad ogni successione si apriranno, fra i varî comandanti regionali, lotte che quasi sempre finiscono in scontri armati, e perché le successioni così raggiunte comportano bruschi sbalzi nelle direttive, e l'arrivo al potere di avventurieri senza scrupoli. Anche la tradizione amministrativa e burocratica, alla mercè dei favoritismi, si corrompe profondamente.

L'arte, soprattutto la scultura, dell'età severiana è largamente documentata: l'arco a tre fornici eretto nel Foro Romano per le solenni celebrazioni del 203, al ritorno di Settimio Severo dalle guerre contro i Parthi, che avevano assicurato nella Mesopotamia le vie del commercio carovaniero con l'Asia (v. roma, vi, 2); l'arco quadrifronte eretto a Leptis Magna, in Tripolitania, città natale dell'imperatore dove nello stesso tempo si andava realizzando un ampio programma urbanistico, con la creazione di un grande Foro; di una sontuosa basilica, la cui costruzione si protrasse sino al 216 (v. leptis), di un porto con larghe possibilità di attracco e di magazzinaggio, congiunto ai quartieri preesistenti da una grande via colonnata, come nelle città della Siria e della Mesopotamia (v. palmira). Del 204 è l'arco che i banchieri del Foro Boario a Roma eressero in onore della famiglia imperiale (Arco degli Argentari: v. roma, vi, 3). Qualche studioso ha ritenuto di poter distinguere una tendenza "espressionistica e realistica" nei monumenti severiani di Roma, e una tendenza "classicheggiante e idealizzante" nei monumenti africani. Queste caratterizzazioni non reggono a un più attento esame stilistico. Crediamo, piuttosto, di poter ricostruire il processo di produzione di queste opere con la presenza, sicuramente a Leptis, dubitativamente a Roma, di artisti siriaci che dirigono maestranze locali, ma che a Leptis pongono in opera anche parti ornamentali e architettoniche pervenute, già lavorate, dalle officine artistiche prossime alle cave di marmo della Bitinia e della Caria (e tra queste l'officina di Afrodisiade). A Roma si incontrano in prevalenza elementi artistici ancora aderenti ai modi iniziati al tempo di Marco Aurelio e di Commodo e che quei modi rendono più corsivi, non senza una commistione, specialmente nell'Arco degli Argentari, con il linguaggio consueto alla corrente "plebea" dell'arte romana; e a Leptis si hanno aspetti legati alle consuetudini delle maestranze locali, in parte certamente indigene, che dovevano essersi formate nell'approntare i molti monumenti eretti per munificenza dei ricchi mercanti libio-punici durante i due secoli precedenti. A Roma, nell'arco del Foro, la maggiore novità è costituita dai quattro grandi pannelli descrittivi delle imprese militari in Mesopotamia, per i quali si possono ragionevolmente presumere modelli pittorici inviati direttamente dall'Oriente, giacché sappiamo (Herodian., iii, 9, 12) che quando Settimio Severo con la conquista di Ctesifonte chiuse le campagne parthiche, inviò al Senato un resoconto accompagnato da grandi dipinti illustrativi, che vennero pubblicamente esposti. Queste "pitture trionfali" (v. paragrafo ii, 5), diffuse ancor prima del trionfo (che poi Settimio Severo non celebrò, per motivi di salute), possono spiegare la insolita costruzione compositiva dei grandi pannelli, nei quali la narrazione si dispone in fasce orizzontali cominciando dal basso. Lo stile si collega a quello della colonna antonina e anche questo narrare dal basso in alto potrebbe essere riportato a quella, tanto che alcuni studiosi hanno supposto che si volesse inizialmente erigere una colonna coclide e che si sia poi presa una decisione di ripiego, costruendo l'arco onorario e adattandovi cartoni già approntati. In realtà, questa disposizione a zone doveva essere consueta alla pittura trionfale, come ci dimostra già l'antica pittura dell'Esquilino con M. Fannio e Q. Fabio e l'innegabile connessione tra questo genere di pittura e la prima delle colonne còclidi istoriate, quella di Traiano. Se le sculture dell'arco del Foro e di quello degli Argentari si possono spiegare, nel loro aspetto stilistico, con il procedere della nuova corrente iniziata in Roma dal Maestro delle imprese di Marco Aurelio e con i modi della corrente popolare, a Leptis non può esservi dubbio sulla presenza attiva di un Maestro, che fa un uso nuovo della tecnica coloristica e illusionistica iniziatasi sin dalla metà del secolo precedente nelle officine microasiatiche. In alcuni dei grandi rilievi dell'arco, il modellato è sommario, le figure poco più che abbozzate nelle masse principali; ma con solchi profondi, ottenuti con il trapano elicoidale, quella massa viene animata nei contorni, nelle ombre, nelle articolazioni decisive per infonder vita alla raffigurazione, quasi che il Maestro avesse personalmente indicato sulle masse del rilievo, con una pennellata di infallibile sicurezza, i solchi da intagliare. Si inaugura così un linguaggio estremamente corsivo, che si presta a motivi di grande effetto, specialmente se visti a distanza, al tempo stesso assai rapido (e quindi più economico), che avrà grande fortuna per tutto il secolo. Ma questa maniera corrisponde anche, è evidente, a un gusto per le figurazioni immerse nella luce e nell'atmosfera, rese immediatamente leggibili da forti contorni e da fondi d'ombra e che, con l'aggiunta della policromia, doveva dare a questi rilievi l'aspetto di grandi pitture. Specialmente nelle parti ornamentali inserite nelle architetture, piacerà intagliare profondamente i contorni, isolare i fogliami riducendone sempre più il rilievo plastico: tendenza che si vede espressa in pieno nelle paraste della basilica severiana di Leptis (v. vol. iv, figg. 684, 687-690), le quali trovano corrispondenze esatte in pezzi di scultura ornamentale trovati ad Afrodisiade (v.). Questo gusto reca in sé il germe di quelle forme dall'aspetto di trina, che verranno assunte dai capitelli bizantini del VI secolo, sia a Costantinopoli che a Ravenna.

3. Ritratti e sarcofagi. - Particolarmente indicativa per le tendenze del III secolo è la ritrattistica, che produce alcune delle opere più straordinarie di tutta l'arte romana. Con assoluta libertà dai residui schemi ellenistici si fissano nel marmo e nel bronzo le forme fisiche individuali e le labili espressioni psicologiche, caratterizzando, come non mai in nessun'altra epoca, sia gli esangui epigoni di una società ormai in decomposizione, che i massicci e brutali rappresentanti, giunti al successo, della nuova società che si andava costituendo, di contadini, di soldati italici, illirici, pannonici e traci. Fondamentali per costruire la cronologia delle varie correnti artistiche, sono i ritratti degli imperatori: Caracalla (211-217), Elagabalo (218-222), Alessandro Severo (222-235), Massimino il Trace (235-238), Pupieno e Balbino (238), Gordiano III (238-244), Filippo l'Arabo (244-249), Decio (251), Treboniano Gallo (251-254), altrettanti capolavori. Accanto ad essi alcuni ritratti delle Auguste: dalla influentissima Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, figlia del Gran Sacerdote del tempio del dio Elagabalo a Emesa in Siria, la cui presenza è da considerarsi determinante per l'afflusso di artisti siriaci in Africa e in Occidente; a Orbiana, moglie di Alessandro Severo, che mostra un tipo di pettinatura con pesanti intrecci sulla nuca, introdotto intorno al 220 e che con successive variazioni e complicazioni durerà sino a tempi della Tetrarchia. (Per tutti questi ritratti si vedano i singoli esponenti nominali). Ma accanto ai ritratti ufficiali, ve ne sono molti di anonimi, che possono venire raggruppati attorno a quelli. In molti di essi traspare, come nota dominante, l'angoscia del vivere di quei tragici tempi. Un doloroso stupore sembra esprimersi anche nei ritratti di fanciulli, dai grandi occhi velati inseriti nella talora quasi assoluta sfericità delle teste. Caratteristica per questo tempo è la tecnica a incisione, a piccoli colpi di scalpello sulla superficie, con la quale si rendono i capelli tenuti corti, o la peluria della barba sovente non rasa né lunga, ma tagliata con le forbici, dall'aspetto di una stoppia. Una tale tecnica, evidentemente in uso a Roma, più rara nelle province orientali, distingue per esempio il ritratto giovanile da tutte le altre teste di maniera, trattate con ricca plastica chiaroscurale di gusto asiano, nel sarcofago che, nonostante alcune obiezioni (von Heintze), seguitiamo a ritenere allusivo alla elezione di Gordiano III e probabilmente approntato per i genitori di esso (Bianchi Bandinelli, Kähler) e quindi datato al 238 (Roma, Museo Naz. Romano, da Acilia).

Sarà proprio una serie di sarcofagi monumentali a offrire la più esatta testimonianza delle correnti artistiche di questo tempo, a Roma e in quelle fabbriche attiche e microasiatiche, che esportavano i loro prodotti a Roma (mentre la produzione romana era esportata nelle province occidentali: v. sarcofago). Dopo gli studî del Rodenwaldt, negli ultimi vent'anni non sono stati fatti grandi progressi nella ricerca e individuazione di queste varie correnti artistiche e ci si è accontentati di inserire, nel quadro, alcune osservazioni di dettaglio. La precisazione più importante è stata la fissazione al 251 del grandioso sarcofago Ludovisi con battaglia (Museo Naz. Romano), con il riconoscimento della immagine di Ostiliano (v.) nel giovane comandante a cavallo (von Heintze: v. anche sarcofago, vol. vii, fig. 40). Tipici rimangono (fra il 220 e il 270) i sarcofagi con caccia al leone, carichi di un simbolismo remotamente orientale, cui si congiunge adesso il concetto storico, diffuso nella cultura del tempo, della vita come milizia (v. vol. vii, figg. 48, 49). Altri sarcofagi (a tinozza e con teste di leone) introducono un simbolismo dionisiaco attinente alla rigenerazione dopo la morte, così come dall'uva infranta si genera il vino inebriante, assai migliore dell'uva (v. roma, fig. 1042). Ma particolarmente indicativi, per i fermenti morali del tempo, sono i sarcofagi nei quali i defunti sono raffigurati come filosofi e Muse, nel corteggio dei filosofi antichi e delle Muse stesse. Il rappresentare in tal guisa il defunto, che non era necessariamente un intellettuale, ma solitamente un appartenente al ceto senatorio, corrisponde all'immagine ideale dell'homo spiritualis che si trova delineata dagli scrittori del tempo, del mousikòs anèr, che ha i suoi fondamenti nella dottrina stoica, della quale si sono adesso accentuati gli elementi misticizzanti già contenuti nel concetto di "testimonianza" (μαρτυρία) in nome della divinità, affermato da Epitteto (Dissertat., iii), e che trovano poi piena estrinsecazione nelle dottrine neoplatoniche di Plotino e del suo scolaro Porfirio, appassionatamente seguite dai rappresentanti, femminili e maschili, della aristocrazia senatoriale romana. Ma le astuzie della storia condurranno, una volta di più, alla confluenza degli opposti entro le coercitive esigenze delle nuove strutture economiche e politiche: proprio da questi sarcofagi con filosofi, prediletti dall'aristocrazia avversa al Cristianesimo (ma Gallieno, inviso al Senato, i cui membri vengono esclusi dalla direzione politica e dalla ammistrazione militare, proclamerà il Cristianesimo religio licita), sorge la raffigurazione, ancora criptocristiana alla fine del III sec., del filosofo docente, nel quale si intende impersonato il Cristo; e più tardi, dalla iconografia dei filosofi, deriverà l'iconografia degli Apostoli (v. cristo; filosofi; plotino).

4. Da Gallieno alla Tetrarchia. - La personalità complessa dell'imperatore Gallieno (v.) e la durata del suo regno (253-268) non mancarono di lasciare nell'arte del suo tempo, almeno in Roma, una impronta particolare, anche se nell'Impero proseguono le tendenze già prima indicate.

Gallieno era figlio dell'imperatore Valeriano I (253-260) e fu suo coregente fino alla disfatta, cattura e prigionia inflittagli da parte di Shapur I (v. sassanide, arte; shapur i). Si inserisce adesso nell'arte di Roma una impronta tipica degli ambienti aristocratici, colti, filellèni, con una forte tendenza al senso del trascendentale rivestito di forme filosofiche. Gallieno fu amico di Plotino; alcuni suoi ritratti (dopo il 260), riprendono dall'antica tipologia del ritratto di Alessandro Magno, accentuandola, l'iconografia del sovrano in spirituale contatto con la divinità, lo sguardo ispirato sollevato verso il cielo. Gusto per la poesia, per i giochi dell'intelletto e dello spirito, uniti a compiacimento per il fasto (che si esplicò in pieno nelle celebrazioni del suo decennale: Vita, viii, 1-7) e a certa mollezza di vita, si riflettono nella ripresa di un plasticismo classicheggiante nella scultura ufficiale del tempo, che non va inteso come una "rinascenza" classica, ma piuttosto come un voluto ricollegarsi al neoatticismo augusteo, in opposizione al barocco asiano ormai d'uso corrente. Appartengono anche a questo tempo alcuni dei più caratteristici sarcofagi testimonianti le tendenze culturali del III sec., come il sarcofago detto dei Fratelli, probabilmente di un console, a Napoli (Collezione Farnese n. 6603), quello del centurione L. Publio Peregrino di anni 29, con filosofi e Muse nel Museo Torlonia (vol. iii, fig. 841), il sarcofago pastorale del Museo Naz. Romano (n. 125802), con una raffigurazione di greggi e pastori, in un paesaggio accidentato, incorniciata da figure di leoni che sbranano cerbiatti, dove accanto alla tipologia aulica si fanno sentire gli accenti della scultura narrativa della corrente popolare. Se questo sarcofago è forse già del tempo di Claudio il Gotico (268-270), di poco più tardi, del tempo di Aureliano (270-275), è quello detto dell'Annona per la raffigurazione simbolica del commercio del grano (Museo Naz. Romano n. 40799, da via Latina) nel quale il gruppo centrale con il ritratto degli sposi, nell'atto della dextrarum iunctio, ci dà uno dei più espressivi e dolorosi ritratti degli uomini di questo tempo. È il tempo nel quale l'imperatore Aureliano, dopo aver sconfitto Juturgi e Alemanni presso Piacenza, decide di proteggere Roma dalle avanzate dei Barbari, cingendola della munita cerchia di mura che contennero quasi tutta la città di qua dal Tevere sino ai tempi moderni (v. roma, c, 2, pp. 903, 904).

Se i rilievi con figure di Vittorie e Barbari, conservati a Firenze nel Giardino di Boboli, appartennero effettivamente all'Arcus Novus eretto a Roma nel 294 (Kähler), vi si potrebbe trovare un documento che la tendenza classicheggiante dell'età di Gallieno avrebbe continuato a sussistere ancora nella generazione successiva, pur perdendo in gran parte il suo fresco e vivace plasticismo a favore di una più compassata linearità, che riecheggia tendenze in vigore all'inizio del secolo. Ma il monumento più tipico e più grandioso che ci rimanga della scultura tetrarchica è l'Arco di Galerio a Salonicco (v.), databile fra 294 e 303, celebrante le vittorie in Persia, Mesopotamia, Armenia; un monumento di scultura e di architettura nel quale le tendenze manifestatesi nel corso del secolo sono giunte a espressioni ormai del tutto distaccate dalle concezioni artistiche in vigore sino alla metà del secolo. Le scene narrative e quelle di rappresentanza sono dense di figure a rilievo molto alto e forte plastica, mentre le parti ornamentali hanno rilievo più schiacciato, compatto con l'architettura, nei grossi fregi di alloro e nei fioroni inseriti fra volute vegetali, mentre la cornice di grandi foglie di acanto rivolte verso l'alto prelude nettamente al gusto bizantino nella semplificazione delle forme che risultano isolate e nette (si confronti la fig. a p. 1083 con la fig. 936, cornice del tempio della Concordia di età tiberiana). Tutto il rapporto e il ritmo fra sculture e architettura è mutato, con una particolare tendenza alle proporzioni pesanti e alla massa compatta, entro la quale le parti scolpite si inseriscono, facendo corpo: caratteristica la mancanza di corniciature tra i varî rilievi e attorno ad essi, spunto probabilmente derivato dalle colonne còclidi dove, per la prima volta, il rilievo fa massa di per sé e non ha bisogno di essere inserito entro una cornice. Questo arco costituiva col suo fornice maggiore e con un altro analogo, oggi distrutto (v. salonicco), un giano coperto di cupola e affiancato da altre due arcate, che dava accesso a una via porticata conducente alla grande rotonda, forse ideata come mausoleo di Galerio, poi trasformata, attorno all'anno 400, in chiesa cristiana, con alcune aggiunte e modifiche e adornata allora, nella cupola, da grandi composizioni a mosaico (più tardi dedicata a S. Giorgio).

Nell'anno 303, ventennale di Diocleziano e decennale della Tetrarchia (a Diocleziano, il Giovio, e a Massimiano l'Erculio, Augusti, erano stati associati come Cesari, dal 1° marzo del 293, Galerio, figlio adottivo e genero di Diocleziano e Costanzo detto Cloro, genero di Massimiano), la ricorrenza fu ovunque celebrata solennemente. A Roma furono erette, nel vecchio Foro, cinque colonne (raffigurate nel rilievo della oratio sull'Arco di Costantino) recanti l'immagine statuaria di Giove al centro e quelle dei Tetrarchi sulle altre quattro. La base di una di queste colonne si conserva ancora nel Foro e mostra la convivenza di una stanca tradizione plastica insieme con la maniera del tutto illusionistica, ottenuta con un rilievo solcato da profonde incisioni di trapano che sciolgono ogni connessione organica delle forme; ma questa è riservata ancora ai lati della base che si trovavano meno in vista. Negli elementi di trabeazione, invece, il gioco del trapano si esplica liberamente.

Il gusto che dà modulo nuovo all'architettura e che abbiamo intravisto nell'Arco di Galerio, sarà testimoniato in maniera grandiosa dall'immenso palazzo costruito per Diocleziano a Spalato, per la sua programmatica abdicazione (v. palazzo, fig. 1048 e spalato), vera e propria cittadella fortificata, come saranno le residenze medievali.

Ancora non ben chiarita rimane la provenienza e la genesi stilistica delle immagini in pòrfido, collocate all'angolo esterno del Tesoro, fra la Basilica di S. Marco e il Palazzo Ducale, a Venezia (v. fig. 414). Recenti obiezioni (Cagiano de Azevedo, Verzone, Ragona) hanno posto in dubbio che esse rappresentino gli Augusti e i Cesari della prima tetrarchia (v. tetrarchi). Un busto in porfido da Athribis, in Egitto (Cairo, museo) e una testa frammentaria nel museo di Nisc (Jugoslavia), oltre a un frammento di torso del museo di Istanbul (Mendel, Catalogue, ii, n. 653), mostrano che la tipologia e lo stile non sono isolati; ma non conosciamo veri precedenti né in Asia Minore, né in Egitto, né in Occidente. Gli unici paralleli di stile possiamo indicarli, se mai, nelle immagini monetali, limitate alle teste, di Lucio Domizio Domiziano, proclamatosi imperatore spurio nel 296, in Egitto, e coniate a Alessandria, e particolarmente anche in quelle di Galerio, coniate ad Alessandria e a Cizico e di Licinio, coniate a Nicomedia, all'inizio del secolo IV.

5. Pittura e mosaico. Toreutica. Vetri. - Per la pittura si hanno documenti, purtroppo di datazione soltanto ipotetica su basi stilistiche, di una serie di ritratti del Fayyūm (v. capitolo precedente), che mostrano un brusco trapasso dal plasticismo dei ritratti di tarda età antonina (per esempio Berlino, n. 31161/37; New York, Metropolitan Museum, n. 09.181.4; Louvre, n. 2732 bis; ecc.), a una semplificazione dei piani, a un emergere dei contorni e a un prevalere della intensa fissità dello sguardo negli occhi particolarmente grandi, che trova riscontro, a Roma, in una serie di ritratti in scultura di giovinetti e di bambini, sicché queste pitture possono ben essere assegnate a un tempo che va da Alessandro Severo a Gallieno. Per i decenni successivi, le attribuzioni stilistiche sono assai più incerte, poiché nella provincia egiziana inizia, verso la fine del secolo, uno svolgimento artistico più autonomo, locale, che rende più inefficaci che mai i confronti. Ma accanto a questa corrente locale la pittura ufficiale doveva mantenere, nelle province orientali, una vivacità formale ellenistica con maggiore fedeltà che non in Occidente. Lo provano le pitture del sacrario imperiale del campo di Diocleziano, annidatosi nell'antico tempio egiziano di Luxor, delle quali rimangono alcuni avanzi e vecchi acquarelli (v. fig. 242, s. v. pittura). Queste tendenze tradizionali sono confermate da varie osservazioni e dalla ricostruzione, che è possibile fare con sufficiente certezza, di composizioni pittoriche della metà circa del III sec., la cui eco rimane in miniature illustrative eseguite tra la fine del V e gli inizi del VI sec. dell'Iliade Ambrosiana (v. illustrazione). Data infatti da questo tempo il passaggio, su vasta scala, dal rotulo al codice nell'edizione dei testi.

A Roma abbiamo adesso testimonianza di un nuovo tipo di "stile", cioè di schema ornamentale nella decorazione panetak, ormai completamente astratto e lineare: ma il sistema di linee rosse e verdi su fondo bianco conserva ancora fondamentalmente lo schema della edicola centrale con accenni prospettici, lontana derivazione dalle sintassi del I sec., la cui tappa intermedia ci è nota da qualche parete ostiense. L'esempio migliore di questa decorazione è nella già menzionata villa sotto la basilica di S. Sebastiano sull'Appia (v. tav. a col. a pp. 88o-881sa nelle pitture cimiteriali cristiane, che cominciano a potersi documentare a partire dal 235 circa. Un tempo si riteneva che queste pitture fossero da datarsi al I sec. d. C. e si postulava pertanto uno svolgimento dell'arte cristiana del tutto indipendente da quello dell'arte profana. Si è poi riconosciuto l'errore e stabilita l'unità stilistica del tempo, con la sola avvertenza che, nella pittura cimiteriale cristiana, prevalgono le tendenze corsive e semplificatrici della corrente artistica "plebea" (v. catacombe; paleocristiana, arte).

Nella pittura, profana e cristiana, prevale generalmente l'impressionismo corsivo che trova il suo riscontro nel disfacimento formale della scultura; ma vi sono anche pitture di più solida consistenza che rinnovano, con diverso contenuto formale, gli schemi ornamentali costituitisi nel I sec.: un esempio ce ne danno le pitture di una casa di via dei Cerchi a Roma, con figure grandi al vero di domestici e di un dominus dinanzi a un porticato, databili verso il 215. Una eco di grandi composizioni si ha ancora nella scena con figure mitologiche in uno sfondo di marina della Casa Celimontana a Roma. Le pitture di una villa a Zliten, in Tripolitania, uniscono figure allegoriche eseguite a grandi piani a paesaggi impressionistici, ormai poveri di invenzione, ma ancora sulla linea della decorazione di età neroniana. Verso la seconda metà del secolo le pitture dell'ipogeo degli Aurelî (Roma, Viale Manzoni; v. roma, e, d), probabilmente di età gallienica, mostrano in uno stesso complesso pitture a forme solide classicheggianti e composizioni narrative animate da piccole figure descritte a rapide pennellate (v. tav. a colori a pp. 864-865). In quanto ai soggetti, le pitture di questo ampio e nobile ipogeo hanno dato luogo ad esegesi diverse; ma tutto concorre a ritenerle di ispirazione cristiana e di tendenza gnostica anche se, a un secolo dalla morte di Marcione e dopo la condanna delle sue dottrine, non possiamo attenderci una illustrazione di esse priva di interpolazioni. Lo gnosticismo era generalmente praticato da intellettuali delle classi superiori; il mitraismo invece, era una religione più popolare e nelle decorazioni dei mitrei si hanno adesso espressioni pittoriche più corsive, popolaresche, e vi si perdono sempre più le qualità sostanziose della grande tradizione pittorica, che si trovava ancora, in età antonina, nei mitrei, come quelli di Marino o di Capua (v. tavv. a colori, vol. ii, p. 334; vol. v, pp. 116, 118, 120, 492).

Documentazione di estrema importanza ci è conservata nelle pitture di Dura Europos, la città sulla riva destra del corso mediano dell'Eufrate, presa da Traiano e incorporata nella provincia di Siria nel 165, dopo due secoli di dominio parthico, poi conquistata e distrutta dai Sassanidi poco dopo il 256 (v. dura europos). Il Mitreo, il tempio delle divinità palmirene, la Sinagoga, sono ambienti ricchi di decorazioni figurate dipinte. Specialmente quelle della Sinagoga acquistano una importanza del tutto particolare perché, nella generale mancanza di raffigurazioni, dovuta al divieto giudaico di rappresentare esseri animati, le grandi composizioni con scene dell'Antico Testamento indicano la possibilità che le iconografie dell'arte paleocristiana abbiano avuto dei precedenti. Le scoperte di Dura sollevarono enorme interesse tra gli studiosi, perché vi si videro certi modi stilistici che precedevano di oltre due secoli la pittura tardo-antica e pre-bizantina, e si credette trovarvi una conferma alla tesi che faceva derivare la rottura della tradizione formale ellenistica dalle influenze orientali. Oggi il problema è stato impostato in modo più storicistico e il rapporto fra periferia e centro si delinea in modo diverso (v. più avanti cap. ix e x).

Dagli scavi eseguiti ad Antiochia ci si aspettava di trovare una nuova conferma di quanto si era scoperto a Dura: supposta precedenza delle province orientali nella trasformazione dello stile, con abbandono delle forme tradizionali di derivazione ellenistica e inizio di uno stile disegnativo e privo di elementi prospettici, con predominio della frontalità delle figure. Invece, l'abbondante messe di mosaici di Antiochia mostra, per questo tempo, un'assoluta fedeltà alla tradizione (v. antiochia) e solo conferma che il mosaico pavimentale del III sec. rinnova i suoi repertorî ornamentali non figurati, con predilezione per i motivi a intreccio e di effetto prospettico. Nelle scene figurate il mosaico si libera, nel III sec., dalla soggezione di imitare il più possibile la pittura e sviluppa una tecnica nuova, che sfrutta le tessere, ora di formato più grande, per una visione formale più autonoma, anche se l'accresciuto effetto "impressionistico" è, ancora una volta, in armonia con le tendenze generali della pittura del tempo. Ma vi si raggiungono effetti, che solo la tecnica del mosaico rendono possibili.

Proprio i mosaici pavimentali ci danno la testimonianza più cospicua di un fatto di indubbia importanza storico-culturale, che ulteriori studî debbono ancora approfondire e precisare: il fatto che fra tutte le province romane, soltanto quelle africane, a occidente della "palude libica", cioè la Byzacena, la Nurnidia e la Mauretania (corrispondenti all'odierna Tunisia, Algeria e Marocco), creano una cultura artistica in gran parte autonoma, con repertori peculiari che, accanto alle consuete scene mitologiche affrontano, con preferenza, raffigurazioni legate alla vita reale della regione, la caccia e l'agricoltura (v. mosaico di Cherchel, s. v. pittura, fig. 241) con un forte stile realistico originale. (A oriente della libyca palus prevalgono, invece, ancora i modelli di Alessandria). Questo sviluppo artistico corrisponde, del resto, al fiorire della cultura letteraria in genere e della polemica religiosa cristiana in particolare, che assegna alle province africane una posizione di grande rilievo, a partire dalla metà del II secolo. Nel III sec. le province africane sono sovrapopolate (Picard, 1959). L'opera delle maestranze e degli artisti africani si trova anche, unita a motivi che non possono provenire che dal centro urbano di Roma, nei mosaici della villa di Piazza Armerina (v.), in Sicilia orientale, che ci ha conservato il più ampio repertorio musivo che si sia trovato in un unico complesso. La datazione dei principali di questi mosaici in età tetrarchica, già autorevolmente sostenuta, deve però ormai essere abbandonata di fronte ai risultati di sistematici esami stilistici e iconografici e al loro indipendente coincidere con l'esame delle strutture murarie (Carandini, Lugli), che assegnano la esecuzione dei mosaici ad una successione di tempi, che va da circa il 320 a circa il 370.

Nel quadro complesso della cultura artistica di questo III sec. non vanno dimenticate le produzioni di oggetti preziosi, coppe e vasellame d'argento con rilievi a sbalzo e i vetri, che in forme nuove vengono fabbricati non più soltanto ad Alessandria, ma nelle officine di Aquileia e particolarmente di Colonia sul Reno (v. toreurica; vetro e più avanti cap. xi, a e b).

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VIII. - L'arte costantiniana. - La riforma dello Stato iniziata da Diocleziano e compiuta da Costantino fu (come scrisse il Rostovcev) la necessaria conseguenza del rivolgimento sociale avvenuto nel III secolo, e non poteva che seguirne le linee. Ma gli interessi delle popolazioni furono sacrificati alla salvezza e alla conservazione dello Stato e di ciò che restava delle vecchie classi dirigenti. Anche il cristianesimo, con la restituzione dei beni alla comunità romana decretata da Massenzio nel 311-12 e poi con l'editto di tolleranza di Licinio e Costantino del 313 divenuto ufficiale e compartecipe del potere, perdette parte dei suoi motivi rivoluzionari e catartici, indirizzando sempre più la discussione ideologica a motivi e concetti trascendentali e abbandonando l'uomo sulla terra al potere civile. Il contrasto fra città e campagna, avvertito e posto in evidenza anche dai contemporanei (Libanio, Ammiano Marcellino) non viene risolto, anche se l'esercito, ormai esercito di contadini poveri, diviene anche inevitabilmente il rappresentante delle aspirazioni delle classi inferiori esigendo la partecipazione di tutti all'amministrazione dello Stato: cioè un livellamento, innanzi al quale la classe superiore fu atterrita e che effetivamente portò alla sua decimazione. Costantino (306-337) crea un mondo nuovo, trasferisce la capitale a Bisanzio, trasformandola in Costantinopoli (v.), avvia una monarchia assoluta che sventa le minacce di anarchia ad ogni successione, lascia l'Impero avviato a divenire cristiano. Con le strutture che egli asseconda, i problemi sociali si chiudono ormai entro termini di patronato e di colonato e può ben dirsi che da qui partono le radici del feudalesimo. Si statuirà poi, dai suoi successori, la pacifica entrata dei barbari nell'Impero. Dopo Costantino, Oriente e Occidente avranno una diversa linea di svolgimento: l'Oriente diviene la parte dell'Impero più popolata, più ricca, più attiva, nella quale l'autorità dello Stato è maggiore; l'Occidente si trasforma profondamente.

Il convegno tenuto, nella fortezza di Carnuntum, tra i quattro reggenti l'Impero nel 308, ebbe poi nel 310 la conseguenza della investitura anziché a due Augusti e due Cesari, a quattro Augusti, diventi rapidamente rivali; Massenzio, illegalmente nominato e regnante a Roma dal 306, viene battuto da Costantino in una serie di scontri in alta Italia e poi definitivamente sconfitto e ucciso nella battaglia al Ponte Milvio il 28 ottobre 312, con la quale fu poi connessa la leggenda della visione cristiana di Costantino. Con la morte di Licinio nel 324, Costantino rimane come monarca. La sua residenza era stata Treviri, poi Sirmium (nella Pannonia Inferiore, Oggi Srijemska Mitrovica, sulla Sava); nel 315-16 egli rientrò a Roma per le cerimonie del suo decennale e il Senato gli fece erigere l'arco di trionfo presso il Colosseo, monumento di fondamentale importanza per comprendere l'arte di questo tempo (vol. i, fig. 781; roma, vi, 4). Architettonicamente grandioso e di equilibrata armonia, la sua densa decorazione scultorea è in massima parte di spoglio: il fornice centrale e i lati stretti dell'attico sono decorati da rilievi tolti al grande fregio traianeo (v. cap. v); gli otto tondi della parte centrale, provengono da un monumento di Adriano e sull'attico, accanto ad alcune delle statue di prigionieri Daci del Foro Traiano, sono inseriti gli otto grandi pannelli a rilievo con fatti di Marco Aurelio (v. cap. vi). I ricordi di tutti gli imperatori più venerati nella memoria dei romani, dopo Augusto, sono presenti per onorare Costantino. Di nuova esecuzione sono due tondi sui lati stretti, con la quadriga del Sole e la biga della Luna in linea con i tondi adrianei; le Vittorie e i Gebnî delle Stagioni, nei quattro estradossi del fornice maggiore, i Fiumi nei fornici minori, le mensole, gli otto plinti con Vittorie, Barbari e Trofei sui quali poggiano le colonne e, soprattutto, lo stretto fregio folto di figure, che inizia nell'angolo N-O (verso il Foro), passa al lato S inserendosi tra i fornici minori e i tondi adrianei e si conchiude sul lato N, sotto i tondi, con due grandi composizioni, la Oratio e la Liberalitas di Costantino. Questo fregio occupa il posto che anche in altri archi precedenti era dato a raffigurazioni di cerimonie sacrificali e di processioni (v. pompa), espresse in forme più prossime al linguaggio della corrente "plebea" dell'arte romana. Qui si narrano invece le vicende principali della guerra contro Massenzio, a iniziare dalla partenza da Milano, per continuare con l'assedio di Verona, la battaglia al Ponte Milvio, l'ingresso a Roma e concludere, come si è detto, con le due grandi scene di pubblica cerimonia. I modi usati per la narrazione, sono quelli consueti al rilievo storico romano: inserzione di particolari episodî caratteristici che servono a storicizzare una composizione di per sé generica. Ma lo stile di questi rilievi è completamente nuovo: uno stile, è stato detto, più prossimo al rilievo di un'architrave di età romanica, di settecento anni dopo, che non ai rilievi degli anaglifi di Traiano o ai rilievi di Marco Aurelio. Per spiegare questo fenomeno si fece dapprima ricorso al termine di decadenza, poi alla supposta "influenza orientale" e si è persino prospettato (Berenson) che tutti gli artisti validi fossero emigrati, per abbellire la nuova capitale, dimenticando che solo a partire dal 324 si intraprese la costruzione dei monumenti di Costantinopoli, e che le teste costantiniane sostituite nei tondi a quelle adrianee sono opere di saldo vigore. Ma se noi consideriamo le vicende politiche e le profonde trasformazioni sociali di sopra accennate, troveremo facilmente la spiegazione storicamente adeguata, riconoscendo nel fregio costantiniano innanzi tutto l'ascesa, per la prima volta, a un monumento ufficiale eretto dal Senato, di quell'arte plebea che era sempre stata usata da quelle classi medie che formavano le strutture dello Stato tetrarchico e che con esso erano giunte al potere. Nei documenti di questa corrente, che noi possiamo seguire dall'età tardo-repubblicana via via attraverso l'età traianea e antonina, e che si era più volte affacciata come protagonista, durante il III sec., nei monumenti sepolcrali pagani, e particolarmente in quelli cristiani, noi troviamo quasi tutti i precedenti di questo linguaggio artistico, e lo ritroveremo in sarcofagi, ormai esplicitamente cristiani, usciti dalla stessa officina artistica, tra i quali è da notare particolarmente il cosiddetto "sarcofago teologico", nel quale è adombrato il dogma della consustanzialità, discusso e proclamato nel Concilio tenuto a Nicea nel 325 sotto l'autorità di Costantino stesso. Quasi tutti, abbiamo detto, i precedenti di quest'arte sono nella corrente plebea; ma pur tenendo conto dell'adeguarsi anche di questa corrente alle mutate concezioni dell'arte e al suo più facile e corsivo distaccarsi dalla tradizione del naturalismo ellenistico, da essa sempre accettato solo in parte, dobbiamo riconoscere nel fregio costantiniano anche qualche elemento nuovo, di origine diversa. Specialmente nei due grandi rilievi del lato nord. Nei rilievi di arte plebea, sempre si trovano le proporzioni gerarchiche in luogo di quelle naturalistiche: i protagonisti della composizione sono raffigurati più grandi e, in una stessa figura, le parti più importanti, come la testa, sono di proporzioni maggiori del resto: il segno simbolico prevale sul rispecchiamento della realtà. Ma se osserviamo il rilievo con la Liberalitas di Costantino, vedremo impiegati ben cinque diversi moduli di proporzioni, a seconda dell'importanza dei personaggi: al centro l'imperatore, che, seduto, sovrasta i personaggi del seguito in piedi di fianco a lui nella stessa loggia; negli altri scomparti della zona superiore, i funzionari che registrano e preparano le tavolette col denaro da distribuire sono un poco più piccoli di proporzioni di quelli che stanno nella loggia dell'imperatore; di grandezza intermedia sono i funzionari elevati che ricevono dalle mani dell'imperatore il donativo (che essi accolgono con mani velate); e infine di un modulo nettamente minore è la massa anonima dei beneficiari, che si affollano con la mano alzata sotto il palco imperiale in rigida fila entro la prospettiva ribaltata che abolisce le figure viste di dorso. Vi è dunque una sistematica e burocratica norma di precedenze, che imprime nuovo significato al completo abbandono del naturalismo. Ma soprattutto è da rilevare la posizione rigidamente frontale della figura dell'imperatore, che è di frontalità assoluta, ma anche unica fra tante figure: a lui solo tale posizione compete. Quanto nella Colonna Antonina era una preferenza, qui è diventato un canone. E questa immobilità dell'imperatore, sottolineata e apprezzata dai biografi del tempo, trasformava anche il vivente imperatore in una immagine sacra. Egli si presenta nella sua divina maiestas e la composizione iconografica, con la figura principale al centro, più grande e vista di fronte, fiancheggiata dalle altre poste sui varî registri, che per la prima volta vediamo nel rilievo costantiniano, si perpetuerà, appunto con la designazione di "maestà", sino alle iconografie religiose del sec. XIV (per esempio: Maestà di Maria, di Duccio di Buoninsegna, 1311). Tutto, nel cerimoniale del tempo, è divenuto sacro e divino attorno all'imperatore e alla sua sacra domus: la sacra vestis lo ricopre e le sue guardie saranno i protectores divini lateris. Solo tenendo presente questa concezione potremo comprendere come Costantino, non ancora battezzato (lo sarà in punto di morte: in albis decessit dirà Eusebio) presieda il Concilio di Nicea. Come più tardi Teodosio nel 380 promulgando l'editto di Tessalonica che obbliga alla ortodossia cattolica nicena e dichiara eretici e "insensati stravaganti" gli appartenenti ad altre correnti di fede cristiana, già Costantino fissa e impone il dogma in nome proprio e non a nome della Chiesa. Vi è dunque, nei rilievi costantiniani, anche l'espressione di una ideologia nuova, quella della sacralità regale, che viene dall'Oriente e che già aveva, da secoli, determinato nell'arte parthica (v.) e nell'arte sassanide (v.), la rappresentazione frontale di ogni figura che fosse in qualche modo venerabile: divinità, sovrano, privato defunto. Ma sarebbe sbagliato dire che nel rilievo costantiniano vi sia influsso stilistico orientale: altra cosa è lo stile, altra l'iconografia; quello, determinato dallo svolgimento della forma artistica; questa, dalla ideologia che la determina e la prescrive. Nei rilievi costantiniani vi è assorbimento di ideologia e di iconografia di origine orientale; ma nessun elemento stilistico, formale, che esca dall'àmbito dell'arte tetrarchica occidentale. Erroneo è anche il congiungere questa frontalità a quella arcaica (Buschor) e voler così indicare il chiudersi di un ciclo (come se la storia non fosse continua trasformazione e sviluppo). La frontalità arcaica significava, soprattutto, l'aver raggiunto una regola e uno stile per dominare la labilità della espressione formale primitiva e una certezza dalla quale partire alla conquista della realtà: la frontalità tardo-antica è invece una convenzione che nasce da una ideologia e prepara un sempre più coerente abbandono del realismo, una sempre maggiore astrazione.

Quel pervenire della corrente plebea al monumento ufficiale fu di breve durata: come sempre avviene, le nuove classi, giunte al potere, si affrettarono a voler imitare l'arte preferita dalle classi dominanti di prima, poiché quelle forme artistiche erano segno di potenza, di lusso, di cultura. Nasce così, con un ideale rifarsi ad Augusto, fondatore della potenza imperiale, quella che siamo soliti chiamare la "rinascenza classica" sotto Costantino. Vi sono dunque, nel periodo costantiniano, opere di scultura che appartengono a tre correnti diverse e ne abbiamo esempio nella iconografia stessa di Costantino (v.): ancora alla corrente espressionista, propria del III sec., alla corrente plebea, e alla corrente del classicismo che diviene linguaggio artistico ufficiale. In talune opere minori, specialmente gemme e camei, questo classicismo appare così coerente, da aver fatto per molto tempo datare alcuni pezzi costantiniani all'età augustea (Bruns). Ma nelle opere di maggiore mole esso si rivela come una convenzione aulica e non come una corrente artistica che si esprima spontaneamente. Il vigoroso plasticismo del III sec. si trova raggelato, come se le prescrizioni normative che regolano adesso tutta la vita del sovrano e della sua corte si estendessero anche alla produzione artistica.

Di fatto, la caratteristica precipua dell'arte costantiniana sarà che la ricca e variata produzione artistica, dalla quale a partire dall'ellenismo era stata permeata la vita di tutti i cittadini che non appartenessero alla classe degli schiavi, ora con la paralisi dei traffici, la decadenza economica e il farsi schematica e più rozza la cultura, si restringe alle opere promosse dal potere centrale e all'artigianato di lusso, per una classe ristretta di persone potenti e doviziose. Formalmente corrette, ma prive di vita nella loro elegante levigatezza, le opere d'arte assumono un valore di preziosità che pone in risalto il loro effetto ornamentale e ne fa quasi dimenticare l'assenza di invenzione nelle iconografie, che si ripetono con poche variazioni; ma, per chi le consideri nel contesto dell'arte dell'antichità, ne diviene evidente la mancanza di intuizione individuale. Anche dove forme ellenistiche sopravvivono, come spesso nei mosaici, esse si presentano isolate, come ritagliate e applicate sopra un fondo neutro, che ne annulla ogni residuo realismo. La rottura iniziata con l'età tetrarchica trova adesso il suo pieno compimento.

Da questo raggelamento si salva o, forse, addirittura trae vantaggio, l'architettura, nella quale le premesse fondate nei tempi di Nerone, dei Flavî e di Traiano, e poi sviluppate nel III sec. (che vede per esempio, all'inizio, costruire le grandiose Terme di Caracalla e, al termine, quelle ancor più grandiose di Diocleziano), vengono portate alle loro ultime conseguenze, con semplicità di forme generali ed esuberanza strutturale. Il tipo di grande sala centrale delle terme viene trasformato in ambiente a sé stante, allungato, aprendolo alle due testate, e pervaso di movimento prospettico. Si forma così la struttura della basilica iniziata da Massenzio e ultimata da Costantino sul fianco del Foro Romano (v. basilica, fig. 15; roma, fig. 928 n. 48 e p. 946). In questo edificio le crociere delle vòlte, decorate a cassettoni ottenuti nella stessa gettata delle vòlte, raggiungono i 23 m; gli ambienti a fianco (impropriamente considerati talora quali navate laterali), incrociano con le loro assi oblique l'asse principale dell'edificio. E l'ultima e più grandiosa creazione dell'architettura civile romana occidentale. Nella sua abside troneggiava un colosso acrolito di Costantino, i cui resti sono probabilmente da riconoscersi in quelli oggi conservati nel cortile del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, sia esso o no da identificarsi con la statua più volte menzionata da Eusebio (per esempio Hist. Eccles., ix, 9, 10-11) databile al 315. Il medaglione d'argento col cristogramma sull'elmo, còniato a Sirmium (v. costantino, fig. 1138) è stato citato a convalidare tale ipotesi, ma lo stile dei frammenti sembrerebbe più tardo e non molto lontano da quello del ritratto colossale in bronzo (v. tav. a colori pag. 736) variamente attribuito a Costante II o a Costantino stesso. L'impiego delle nervature laterizie a cassetta (v. cap. iv) si fa adesso più intenso e consente arditezza di costruzione di ambienti a pianta centrale privi di contrafforti, come nel ninfeo liciniano detto Tempio di Minerva Medica, a Roma. Una tecnica, constatata per la prima volta nel mausoleo di Diocleziano a Spalato, e diffusasi più tardi, consentirà di costruire cupole senza ricorrere ad armature, partendo dall'arco voltato sulle pareti e salendo in alto con una serie di brevi archi che si espandono a ventaglio e si intersecano, disponendosi come i contorni degli elementi di una pigna.

A Roma, Costantino farà costruire la Basilica Lateranense (v. roma, figg. 1022, 1023), presso il palazzo assegnato al vescovo e che forse era stato di Massenzio; la chiesa dei SS. Pietro e Marcellino e il mausoleo di Elena (v. elena), oggi Tor Pignattara; la piccola basilica sulla memoria sepolcrale dell'apostolo Paolo e, a partire dal 324, quella sulla memoria dell'apostolo Pietro (figg. 993, 1024) a cinque navate, sullo schema della basilica Lateranense. (Ma la basilica di S. Pietro sarà terminata solo da Costantino II, 337-361). La creazione della basilica cristiana, sviluppandola dalla basilica giudiziaria romana (v. basilica), fu certamente opera di un architetto insigne; essa è da considerarsi, in realtà, l'ultima manifestazione del genio architettonico romano. Infatti, l'estremo e unico capolavoro architettonico che sarà S. Sofia di Costantinopoli, edificata sotto Giustiniano dal 532 al 537 e restaurata nella cupola nel 56o (v. isidoro di mileto, 1° e 2°), è piuttosto da considerarsi connesso con i particolari aspetti dell'architettura romano-ellenistica dei centri dell'Asia Minore, non senza spunti tratti dall'architettura dell'Oriente sassanide. L'edificio costantiniano che precedeva S. Sofia a Costantinopoli fu consacrato solo da Costanzo II nel 360.

La novità sostanziale della basilica cristiana fu il transetto, sulla cui genesi e motivazione si discute (e vanno tenute presenti a questo proposito le induzioni ricavate dalla pianta del palazzo di Diocleziano a Spalato). Altre innovazioni: l'apertura del cosiddetto "arco trionfale" verso l'abside assai ampia entro la quale si svolgeva il culto, e il fatto che la navata centrale, destinata alla comunità dei fedeli e nelle cui pareti, in alto, si aprivano le finestre, fosse più elevata di quelle laterali; inoltre la prassi che, alla copertura a vòlta gettata, venisse sostituito il tetto con capriata in legno, scoperta. Il mausoleo della figlia di Costantino, morta nel 354 (oggi S. Costanza: v. roma, i, ii e vol. v, fig. 323 e tav. a colori, p. 234), forse inizialmente destinato a battistero, ha una cupola poggiante sopra un anello di doppie colonne. La cupola era decorata da mosaici nei quali ritornavano motivi di barche condotte da Eroti, in un paesaggio fluviale popolato da uccelli, di lontana origine ellenistica: ne restano disegni di Antonio da Sangallo, di Francisco d'Olanda e di altri. Anche i mosaici dell'ambulacro, conservati, hanno ascendenti nella iconografia ellenistico-romana del III sec., mentre i mosaici con storie di Cristo, di poco posteriori, rimangono stilisticamente isolati, e indicano forse ascendenze diverse (v. tav. colori a pp. 166-167). In questo mausoleo di Costantina (o Costanza) si trovava il grandioso sarcofago in porfido decorato a grandi girali vegetali con eroti vendemmianti di accertata fabbricazione egiziana. L'altro grandioso sarcofago in porfido conservato oggi, col precedente, nei Musei Vaticani (v. vol. vii, fig. 50), nel quale era stata deposta S. Elena, la madre di Costantino morta tra il 329 e il 335, ha invece raffigurazioni di cavalleria romana in lotta contro barbari. Esso proviene dal mausoleo di Elena ed era stato probabilmente, se il ritratto su di esso è identificabile, approntato per Costanzo Cloro (morto nel 306), del quale Elena era stata concubina.

Sostanzialmente può dirsi che il classicismo costantiniano si estende, come ovvio, anche all'arte cristiana, respingendo ai margini la corrente "plebea" che vi aveva prevalso prima. Il grande sarcofago di Giunio Basso, prefetto dell'Urbe, morto nel 359 (Grotte Vaticane), è il più notevole esempio dell'incontro fra le due correnti, quella popolare che traspare ancora dalle teste vivaci ma alquanto rozze, e quella calligrafica del classicismo ufficiale, che compone e dà levigatezza alle pieghe, carezzandole tanto, da togliere ogni vigore ai disegno (v. vol. iii, fig. 1164). Di contro alle sofferte, dolorose teste del III sec., la compostezza e la voluta serenità di espressione che qui troviamo, segna chiaramente il carattere aulico del conformismo predominante nel duro regime costantiniano. Il sarcofago di Giunio Basso concepisce tuttora, come in tutta l'arte cristiana precedente, la raffigurazione dei fatti dell'Antico e del Nuovo Testamento e la correlazione fra di essi, in senso simbolico e non storico-narrativo; ma la maggiore vivacità di alcune scene indulge a un certo naturalismo narrativo.

Le costruzioni in concreto e laterizio vengono adesso rivestite splendidamente non più con soli pannelli di marmi diversi (v. sectile opus), ma con incrostazioni marmoree figurate, come ne abbiamo qualche magnifico esempio (v. tavv. a colori, vol. iii, p. 928; iv, p. 102) nelle tarsie provenienti dalla basilica di Giunio Basso. Lo splendore delle costruzioni ufficiali e delle case dei potenti non fu mai maggiore; anche a Ostia ritorna, e più netto, il divario fra abitazioni della piccola borghesia e case signorili, che era sostanzialmente scomparso nell'età flavia e traianea. Le case più belle divengono piccoli palazzi residenziali, con ambienti di rappresentanza decorati con gusto ed eleganza di mosaici e di rivestimenti in marmo, con annesse esedre e fontane (per esempio Casa di Amore e Psiche, Casa dei Dioscuri, Casa delle Fortuna Annonaria). Nella residenza di Treviri (v.) che, con Milano e Nicomedia formava oltre a Roma la serie delle capitali della tetrarchia, restano a testimoniare dell'attività edilizia del tempo la Porta Nigra, la Basilica Palatina, le grandiose terme, e gli "horrea di S. Erminio", dove è da notare la conformazione esterna delle pareti a lesene sporgenti unite da archi, che continuerà ad essere impiegata, con lesene o pilastri, nelle chiese paleocristiane e fino all'età romanica.

Nella nuova residenza, Costantinopoli, oltre al completamento dell'ippodromo, Costantino costruì il primo complesso del Grande Palazzo, detto Chalkè, che gli scavi hanno ora in parte rivelato nell'aspetto assunto alla fine del secolo (v. costantinopoli; mosaico). Ma la costruzione più significativa, dal punto di vista urbanistico, sarà il Foro, di forma non più rettangolare, bensì circolare, con porticato attorno e con due archi di accesso: un tipo di Foro che aveva precedenti a Gerasa e ad Apamea, città carovaniere. Al centro si alzava la colonna di rocchi di porfido, ancora esistente, liscia, sormontata dalla statua in bronzo di Costantino raffigurato come Helios-Apollo: tuus Apollo, aveva scritto il panegerista del 310, con allusione alla visione avuta da Costantino nel tempio gallico di Apollo sulla via tra Lione e Treviri. Ma sul globo postogli in mano era la croce. Della base di questa colonna rimane memoria grafica in un disegno del 1561, di M. Lorichs (v. vol. ii, fig. 1147). Pur tenendo conto del manierismo del disegnatore, la composizione delle figure nel rilievo mostra in pieno lo stile aulico del classicismo costantiniano di rappresentanza, con le due simmetriche figure di Vittorie che reggono trofei e, al centro, la imago clipeata dell'imperatore, radiata; in basso la figura della Tyche della città, seduta.

Ormai della enorme civiltà artistica dell'antichità, la più libera, la più ricca di scoperte, di invenzioni, che aveva permeato di sé ogni aspetto della vita dei popoli mediterranei, non rimaneva che il guscio esteriore, che aveva tuttavia ancora la forza di dare espressione ad un contenuto tanto diverso. L'incrinatura e poi la rottura della forma antica, verificatasi con la rottura dell'equilibrio tra intuizione e razionalità (in che era consistito il "miracolo greco"), a favore di un sempre maggiore peso dell'elemento ideologico irrazionale e trascendente, è ora giunta a un totale capovolgimento del significato del linguaggio artistico. Tuttavia, la tradizione iconografica antica era così potente e ricca, che essa sopravvive ancora, come veste esteriore, quasi per altri due secoli.

Bibl.: V. in calce al cap. IX.

IX. - Da teodosio alla fine dell'impero romano d'occidente. - I caratteri accennati a proposito dell'arte di età costantiniana, del suo rarefarsi e del suo assumere aspetti aulici e preordinati da una etichetta di contenuto e di forma si accentuano, precisandosi, nei due secoli che vanno dalla metà del IV alla metà del VI, dai figli di Costantino a Giustiniano (527-565). Teodosio I (379-395) mantiene ancora formalmente l'unità dell'Impero: alla sua morte si crea la scissione; impero d'Occidente con Onorio, impero d'Oriente con Arcadio. Nel 402 la corte si trasferisce da Milano a Ravenna. Nel 410 Roma sarà conquistata da Alarico, capo dei Visigoti; nel 476 l'ultimo imperatore d'Occidente sarà deposto e Odovakar (Odoacre), sciro, figlio di un personaggio del seguito di Attila, capo di un esercito di Eruli, Goti e Barbari di altre stirpi, divenne rex gentium in Italia. I Vandali passano in Spagna e in Africa, dove stabiliscono un forte regno germanico e ne saranno poi scacciati da Belisario un secolo dopo (533). Ma non sono questi dominanti barbarici che distruggono gli ultimi palpiti della civiltà artistica antica (come ha documentato il Courtois, 1955). Senza comprenderla, essi la rispettano; e la forma antica, sia pure svuotata del suo contenuto, sopravvive in questi due secoli. Si estinguerà definitivamente solo ad opera degli imperatori bizantini e per i proprî fermenti interni della cultura nuova che irradierà, su basi totalmente diverse da quella antica, dai centri di Costantinopoli e di Antiochia, di Tessalonica e di Alessandria e, per taluni aspetti, dai centri dell'oriente sassànide. A Roma saranno innalzati ancora archi onorarî a Graziano, a Valentiniano, a Valentiniano e Valente, a Teodosio, Arcadio, Onorio e, nel 405, a Teodorico, dei quali nulla rimane. Tra il 402 e il 405 saranno rifatte le porte della città, munite di torri rotonde, che ancora vediamo (v. roma). L'Italia si impoverisce, mentre l'Oriente conosce una ripresa di intensa anche se ristretta vita economica e intellettuale, e l'Africa nord-occidentale afferma la sua cultura propria. A Costantinopoli vengono innalzate le colonne còclidi di Teodosio e di Arcadio, ricche di figure come le loro ispiratrici romane di due secoli innanzi. Ne rimane poco più che il ricordo grafico (v. più avanti e colonna, vol. ii, pp. 763, 765); ma ci rimane l'intera base dell'obelisco di Teodosio (v. vol. ii, figg. 1152-1154), a Costantinopoli. Ivi la base della colonna dedicata all'imperatore Marciano da Taziano, prefetto della città fra il 450 e 452, reca la dedica, ancora in latino (C.I.L., iii, 1, 738); ma la decorazione si è semplificata al massimo: due Vittorie tengono uno scudo nella faccia principale e nelle altre non vi è che una corona col monogramma cristiano.

Si accentua ancor più in questo periodo il carattere aulico della produzione artistica: in realtà chi governa è la corte imperiale e la burocrazia; gli imperatori, spesso giovanissimi, sono sovente soltanto gli "officianti della liturgia imperiale". Negli ultimi vent'anni del sec. IV la scena politica è dominata dai movimenti migratori delle popolazioni barbariche, cui si fa opposizione talora con le armi, spesso con le trattative e gli accordi, che apparvero, in effetti, l'unica soluzione possibile: "valeva forse meglio riempire la Tracia di cadaveri che di contadini? "obietterà Temistio (Orat., 16) prefetto di Costantinopoli dal 384. Nel 380 Ostrogoti, Vandali e Alani si stabiliscono in Pannonia, nel 386 in Frigia; dell'autunno 382 è il trattato fra Teodosio e Fritigern che stabilizza le masse dei Visigoti fra Danubio e Hemus come nazione germanica indipendente, federata, all'interno delle frontiere imperiali. Per altri aspetti, anche culturali, assume particolare importanza il trattato di pacificazione con i Sassànidi stabilito nel 389-90 e durato sino al 502.

Allo stesso tempo elementi barbarici entrano nella corte imperiale e nella gerarchia ufficiale: i consoli del 383, 384, 385, si chiamano Merobaudo, Richomero, Bauto; la figlia di Bauto, Eudossia, sposerà Arcadio. L'aristocrazia accoglie i principi barbari e rafforza talora con tali alleanze la propria indipendenza rispetto alla corte, talora vi si inserisce. Stilicone stesso, figlio di un vandalo e di una romana, domina la corte prima in oriente e poi in occidente e dà la figlia Maria in moglie a Onorio. Dei giovanissimi sposi esiste forse un'immagine nel grande cameo Rothschild (vol. ii, fig. 438), la cui datazione stilistica sembra convenire piuttosto a questa che ad altra coppia, come ultimamente era stato proposto. Abbiamo infatti nell'ultimo quarto del secolo, sotto Valentiniano I, Teodosio e Valentiniano II, un ulteriore affinarsi delle eleganze lineari di quest'arte di corte, che si esprime con freddo linearismo, ma con sostenuta grazia. Si ricordi, per esempio, la statuetta da Cipro al Louvre, già detta di Elena e ora piuttosto attribuita a Elia Flaccilla, moglie di Teodosio I, morta nel 388. Questa fredda eleganza si incrina soltanto agli inizî del V sec. per ricercare una più intensa espressione. Questo processo può vedersi confrontando la bella statua di Valentiniano II a Istanbul (Inv. 2264, da Afrodisiade), alla quale si può porre vicina la testa colossale di Villa Borghese (L'Orange, Studien, 1933, n. 95) o quella gentilissima di Arcadio (già ritenuta di Teodosio) a Istanbul, da Bayezid (N. Firathi, Short Guide, n. 5028), con la testa del Museo Naz. Romano, già senza fondamento detta di Giuliano l'Apostata (Inv. 247, Catal. 323), nella quale l'eleganza e il linearismo permangono, ma il classicismo già si infrange a favore di una sensibilità espressiva diversa. Questa prevarrà poi, specialmente nei centri microasiatici (Efeso, Afrodisiade) dove sono stati rinvenuti varî ritratti di magistrati, le cui statue togate hanno, pur mantenendo dominante la forma lineare, una indubbia e nobile monumentalità, mentre le teste sono ritratti ricchi di espressione e di plastica coloristica (v. vol. i, afrodisiade, fig. 166-167; vol. iii, fig. 284). Il massimo di questa tendenza alla ricerca espressiva, soprattutto nel senso dell'espressione spirituale, dell'ideale abbandono della corporeità umana, è raggiunto dal ritratto detto di Eutropio (Vienna, Collez. di Antichità del Kunsthistorisches Museum, inv. i, 88o) ma non attribuibile a questo personaggio, ciambellano di Arcadio, morto nel 399, perché varie considerazioni oggettive, di scavo, e ragioni di stile la fanno datare piuttosto attorno al 450. Dinanzi a questa immagine (v. vol. iii, fig. 846) non si può non richiamare la posizione ideologica espressa da Plotino, che è implicita in tutta questa trasformazione artistica, il quale giungeva a considerare elemento positivo e desiderabile la malattia come mezzo per affinare l'esperienza del sapiente (Ennead., i, 4, 14): mai si era affacciata espressione più opposta di questa all'ideale atletico dell'arte classica dei Greci, che ancora in età ellenistica amavano distinguersi dagli altri non-greci come "quei del ginnasio". Allo stesso tempo si deve collocare l'impressionante "Colosso di Barletta" (v. vol. i, fig. 1238), probabile immagine dell'imperatore Marciano (o di Valentiniano III?) eseguita a Costantinopoli; ma qui la capacità di sintesi semplificatrice ed espressiva è rivolta, piuttosto che allo spirituale, a porre in evidenza una brutalità massiccia quale esaltazione di potenza e di virtù militare.

Per confronto, ritratti di esecuzione romana, che si possono collocare alla fine del IV sec. o agli inizî del V, come quello ostiense nel quale si è ipoteticamente proposto di riconoscere Simmaco (v.), palesano un'assenza di raffinatezza e di garbo e, sostanzialmente, i residui dell'espressionismo sorto nel III sec., ma adesso fattosi più sommario. La toga di questa statua, con le pieghe schiacciate e calligrafiche mostra l'estendersi ovunque delle tendenze al linearismo e alla schematicità, che saranno elementi sui quali elaborerà una nuova e valida forma artistica l'età bizantina. (Ma effetti analoghi di riduzione della plasticità si erano avuti nell'arte popolare-provinciale augustea.)

Ormai il problema storico-artistico non riguarda più tanto l'arte romana, quanto la preparazione, attraverso il "neoellenismo" di questa età, all'arte bizantina e, al di là di questa, all'arte medievale europea; un problema che esula dai limiti di questo articolo, e di questa Enciclopedia. Ci limitiamo pertanto ad elencare alcune delle opere e dei gruppi di opere, che documentano la situazione artistica dell'età fra Teodosio 1 (379-395) e Giustiniano (527-563).

Va tenuto presente innanzi a tutto, che Roma esercita ancora un fascino storico e un'autorità tradizionale; ma che nella "nuova Roma" o "seconda Roma" che era Costantinopoli, si trovano adesso i monumenti più importanti e che ivi si sviluppa e consolida uno stile aulico, che rimarrà sempre aperto a varie correnti (come era avvenuto a Roma) tanto che riesce quasi impossibile definire un particolare stile costantinopolitano. Esso ha tuttavia, alla fine del IV sec. e nel corso del V, una caratteristica particolare: quella di riassumere o di continuare modi proprî alla tradizione ellenistica vera e propria, piuttosto che quelli tipicamente occidentali romani. Ciò si può vedere abbastanza chiaramente dallo studio delle due colonne gemelle, quella di Teodosio eretta attorno al 394 e quella di Arcadio del 402, per quanto non ne rimangano che scarsi frammenti e sia possibile studiarle solo attraverso disegni del tardo Rinascimento (a Cambridge e a Parigi). Le due colonne dovevano avere carattere assai simile tra loro; esse erano chiaramente ispirate al modello delle due colonne còclidi esistenti a Roma (in particolare Teodosio amava sottolineare la propria origine spagnola, che lo univa idealmente a Traiano). Ma le diversità appaiono tipiche: il carattere di monumento onorario, celebrativo, e al tempo stesso di monumento architettonico singolare, viene a superare nettamente il carattere di cronaca figurata, che avevano avuto in modo prevalente le colonne del II sec., direttamente connesse con la pittura narrativa trionfale. Rispetto ai modelli romani le colonne erano più alte (5o m) e avevano minor numero di spirali; pertanto le figure risultavano di dimensioni ancora maggiori che nella Colonna Antonina. La base, con la porta d'accesso alla scala interna posta in evidenza, sottolineava il carattere architettonico e il capitello del fusto della colonna sormontato da una specie di torretta con altro capitello, sospingeva ancor più verso l'alto la figura imperiale che coronava la sommità di ciascuna colonna. Il soggetto svolto nei rilievi era, per Teodosio, il trionfo sui Barbari e la guerra contro un usurpatore (Massimo?); per Arcadio, la cacciata dei Goti da Costantinopoli e vittorie per mare e per terra su altre popolazioni gotiche. In conformità al mutato concetto dell'autorità imperiale e all'accresciuto interesse per l'elemento simbolico, trascendentale, l'imperatore non è raffigurato mai in atto di scendere in campo, di mescolarsi alle truppe; se si accosta all'esercito è sempre circondato dalle sue guardie: ma più spesso riceve omaggio stando nel suo padiglione (ciborium, kàthisma) a forma di loggia. Figure allegoriche (angeli) indicano l'intervento divino nel corso degli avvenimenti. Particolarmente degno di nota è il fatto che nella colonna di Arcadio vi sono rappresentate vere vedute di paesaggio e scene idilliache campestri (per esempio, cavalli al pascolo come in sarcofagi asiani: v. vol. vii, fig. 19) di un impianto prospettico assai più realistico che nelle soluzioni convenzionali della Colonna Traiana, e assai più aderenti alla tradizione ellenistica.

Invece, nella base dell'obelisco di Teodosio, ancora in situ, si ha uno stile assai diverso. L'obelisco fu eretto nell'ippodromo nel 390, dopo varie difficoltà che prima non era stato possibile superare (come accenna l'iscrizione); perciò nella base vera e propria, oltre alle tabelle con l'iscrizione dedicatoria greca e latina, si sono rappresentati da un lato le corse delle quadrighe nell'ippodromo stesso, e dall'altro il trasporto e l'erezione dell'obelisco stesso.

Sia queste scene narrative che quelle raffiguranti danzatori e musici (tra i quali due suonatori di organo pneumatico) in basso del rilievo del lato S-E (mano A) animate da piccole figure, non hanno più alcun rapporto con l'arte romana della corrente popolare, come sarebbe stato da aspettarsi. Le quadrighe in corsa hanno addirittura lineamenti del tutto ellenistici. Ma il grande cubo che sta sopra alla base (v. vol. ii, figg. 1153, 1154), posato su quattro sostegni con forte stacco d'ombra, interamente coperto di composizioni unitarie a bassorilievo, prive di incorniciatura, mostra uno stile disegnativo che potrebbe dirsi un raffinamento di quello che si ha nei punti delle colonne dell'Arco di Costantino, così come tutta la composizione, frontale, a prospettiva ribaltata, potrebbe dirsi una aristocratica sublimazione delle composizioni osservate nei rilievi della oratio e della Liberalitas nel fregio costantiniano dell'arco romano. Oggi il rilievo si presenta compatto nel suo nitido chiaroscuro; con la policromia che doveva avere originariamente, l'effetto doveva essere simile a quello di un grande arazzo, reso particolarmente vivace dal rilievo che accentuava le figure. Si sono volute distinguere due mani in questi bassorilievi della base, ognuna delle quali avrebbe eseguito due facce del cubo e la seconda, a qualche anno di distanza dalla prima, ne avrebbe ripreso la composizione accentuando la linearità delle figure e l'appiattimento del rilievo. Si è detto, a questo proposito, che questo secondo artista potrebbe definirsi il primo scultore bizantino che conosciamo. Resta, comunque, il fatto che l'invenzione della composizione appartiene al primo scultore, e che questi deve aver eseguito il suo lavoro non appena l'obelisco era stato eretto, cioè nel 390. Nei quattro grandi rilievi della base sono rappresentati, complessivamente, tre Augusti (Teodosio I, Valentiniano II, Arcadio) e due principî (in toga probabilmente Onorio, console nel 386, e Eucherio, fanciullo) che assistono alle gare svolgentisi nell'ippodromo. Ma iconograficamente non sarebbe possibile alcuna distinzione né identificazione. Il ritratto individuale ha ceduto il posto all'immagine tipologica del sovrano, sopraindividuale, eterna: perpetuus Augustus. Ma anche la caratterizzazione dei personaggi della corte e della guardia imperiale non è più individuale, bensì tipologica. Particolarmente tipiche le figure delle giovani guardie dai lunghi capelli, dai volti di un dolce ovale; le ritroviamo nelle figure analoghe del grande piatto d'argento (missorium) di Teodosio conservato a Madrid. Veramente esse preludono certe figurazioni di Angeli dell'arte bizantina; ma soprattutto illustrano con esattezza il polemico appello che ad Arcadio rivolge Sinesio, il filosofo neoplatonico di Cirene, valoroso soldato e poi vescovo della sua città, nello scritto De regno (16-18), dove critica il lusso della corte e il chiudersi degli imperatori nel Palazzo, inavvicinabili, che "simili a lucertole" si nascondono "nel fondo del Palazzo, affinché gli uomini non vedano che siete uomini come loro". Sinesio si sofferma a descrivere le "guardie scelte per lo splendore della loro giovinezza..., fiere della capigliatura bionda e ricciuta, il viso e la fronte ruscellanti di profumi, portano scudi d'oro, lance d'oro. La loro presenza annuncia l'apparizione del principe, come i primi raggi del giorno annunciano l'avvicinarsi del sole...".

La vecchia tesi dell'Ainalov, il quale all'inizio del secolo, mentre si annunziava la polemica "Oriente o Roma", sosteneva che le radici dell'arte bizantina dovevano ricercarsi nell'ellenismo, appare sostanzialmente confermata anche se i particolari si sono arricchiti di nuovi interrogativi, quando osserviamo che a circa dieci anni di distanza dalla base dell'obelisco di Teodosio si hanno i mosaici della cupola di S. Giorgio di Salonicco (la rotonda costruita da Galerio). Questi grandi mosaici sono già interamente bizantini nell'impianto frontale, nel gusto lineare e nella policromia delle figure impostate sopra un fondo oro, che non è ancora il fondo oro unitario e del tutto astratto dei mosaici ravennati della prima metà del VI secolo (v. ravenna), perché vi si delineano, quasi in trasparenza, fantasiose costruzioni architettoniche di tipo ellenistico, che possono fare ricordare le facciate dell'agorà di Mileto, delle tombe di Petra e le fronti sceniche imitate nelle pitture di II stile; ma che è già pienamente consapevole del suo valore di astrazione. Dal punto di vista del disegno, le grandi figure dei mosaici di S. Giorgio non differiscono, se non per qualità più alta, ma non certo per impostazione dei problemi generali della forma, dalle figure della base dell'obelisco di Teodosio: ne sono il logico sviluppo. Del resto, se noi raccogliessimo le sparse osservazioni che si possono fare a proposito della policromia dei bassorilievi, si vedrebbe che il valore di preziosità e di astrazione che esplicitamente assume l'oro in questa età, era stato preparato da gran tempo e che le prime manifestazioni ne sono riscontrabili su sarcofagi asiani ancora nella prima metà del III secolo. Nei sarcofagi di fabbricazione romana, si trova invece, ancora più tardi, una policromia vivace e alquanto grossolana, di schietto sapore popolare, come in un sarcofago cristiano delle catacombe di S. Sebastiano (v. tavv. a colori a p. 990 e vol. vii, p. 34). Si deve tuttavia far distinzione tra composizioni di rappresentazione (come la base dell'obelisco e i mosaici di S. Giorgio) e composizioni narrative: una distinzione già valevole da tempo per l'arte parthica e sassanide. Nelle une si esprime e si sviluppa lo stile astratto, lineare, a grandi campiture di colore, che porterà direttamente allo stile bizantino; nelle altre, quelle narrative, si avrà ancora una eco del naturalismo ellenistico, riflesso dalle composizioni di argomento storico dell'arte romana da Traiano in poi. Solo acconsentendo a tale distinzione di "generi" si comprende la convivenza, nei mosaici all'interno della basilica di S. Maria Maggiore a Roma, delle composizioni dell'arco trionfale e di quelle, ancora plasticamente mosse e differenziate, dei mosaici della navata con i fatti di Giosuè e altre scene dell'Antico Testamento, che dalle indagini tecniche stratigrafiche sembrano ora necessariamente collocarsi alla stessa epoca di Sisto III, cioè fra il 432 e 440 (v. roma, i, 7; bibbia, fig. 134; mosaico, fig. 324).

La convivenza di modi diversi di espressione non implica necessariamente, ci sembra, coesistenza di correnti artistiche di diversa provenienza e magari opposte, perché sia gli uni che gli altri di questi modi sono accomunati dal fatto di essere sostanzialmente espressioni di maniera, riflesse in un intento di preziosità, di eleganza, di fasto, che si avvale del grande patrimonio artistico del passato, ripetendone forme diverse, tutte svuotate, appunto, dall'intento precipuamente esteriore, di ornamento, che l'arte ha assunto in questo tempo. Che la preziosità e l'ornamento siano i valori meglio sentiti, lo dimostra il fatto che, con grande abilità e amore, si producono adesso oggetti di argenteria (v. toreutica) e di oreficeria, vetri (v. vetro) e stoffe (v. tessuti). Nelle stoffe entreranno precocemente elementi ornamentali sassànidi (v. iranica, arte; sassanide, arte). A Roma, del resto, un motivo tipico di tale arte, la serie di elementi cuoriformi (derivati da foglie d'edera: v. nisa parthica) usata come bordura, si trova per le prime volte nelle illustrazioni del calendario di Filocalo (v.) e nelle pitture della nuova catacomba privata della via Latina, le une e le altre databili ancora alla metà del sec. IV.

Una produzione tipica di questo tempo sono i dittici d'avorio, il dono dei quali agli alti funzionarî in occasione del loro accesso alla carica fu regolato da un decreto speciale nel 384 (v. dittico). Anch'essi sono perciò espressione dell'arte ufficiale e assumono particolare interesse, perché sono generalmente datati dai personaggi ai quali si riferiscono e ne conservano talora l'iconografia. Anche qui vediamo espressioni di gusto chiaramente proto-bizantino (dittici di Basilio, 480; Magnus, 518; Orestes, 530) ed altre nelle quali si perpetuano riecheggiamenti ellenistici (dei Simmachi e Nicomachi, fig. 382 e 401; con Asklepios e Igea a Liverpool, circa 400; del poeta e la Musa, circa 400, v. tav. a colori, vol. i, p. 944). Accanto ai dittici, altre opere in avorio (pissidi, reliquiarî, cassette), documentano centri di produzione non soltanto a Costantinopoli, Alessandria, Antiochia; ma anche in Occidente, a Milano (v.) a Roma, a Ravenna, a Treviri, in discussi centri della Gallia (v. lipsanoteca).

Documento della formale continuità di motivi ellenistici, svuotati di ogni vigore di realismo, e della convivenza di motivi diversi, sono anche le miniature che illustravano i non molti codici pervenutici di questo tempo e quelle, più numerose, di piena età bizantina (talora fino al X sec.), che ripetono miniature di codici per noi perduti del IV, V, VI sec. (v. illustrazione; codice; rotulo). Ancora della fine del IV-inizî del V sec. sono i frammenti dei due codici di Virgilio, eseguiti in Occidente (Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Lat. 3225, Virgilio Vaticano; Cod. Lat. 3867, Virgilio Romano); della fine V-inizî VI sec. i frammenti della Iliade Ambrosiana (Milano, Biblioteca Ambrosiana, F. 205 inf.) eseguita in Oriente. Il precipuo interesse di quest'ultima consiste nel fatto di averci conservato composizioni illustrative i cui schemi risalgono ad età diverse: alcuni ancora prossimi alle illustrazioni dei rotuli di età ellenistica, altri assegnabili alla metà del III sec. e manifestamente derivati da pitture, altri dell'avanzato IV sec. e altri coevi all'esecuzione del codice, che dovette essere particolarmente sontuoso e ricco di illustrazioni, se nuove composizioni dovettero essere aggiunte al già ricco repertorio omerico tradizionale. Nel Dioscoride di Vienna (Cod. Vindobon. med. gr., 1), sicuramente eseguito a Costantinopoli e datato attorno al 512, le composizioni dedicatorie mostrano lo stile proto-bizantino, ma non senza vivaci ricordi ellenistici nella minuta decorazione a chiaroscuro di qualche fondo, mentre i disegni delle erbe medicinali risalgono ancora in modo documentabile a repertori, probabilmente pergameni, dell'ultimo ellenismo. Motivi iconografici ellenistici permangono nelle miniature della Genesi di Vienna (Cod. Vindob. theol. gr., 31), cronologicamente ormai al di fuori del limite di questo articolo, ma famose nella storiografia dell'arte romana, perché dallo studio di esse derivò al Wickhoff (v.) la necessità di intraprendere quel polemico e, al suo tempo, innovatore studio, che ha segnato l'inizio dei moderni studî sull'arte di Roma.

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IX. - D. V. Ainalov, Ellenističeskie osnovy vizantiiskogo iskusstva, in Zapiski Imper. Russkogo Archeol. Obèčestva, N. S., XII, 1900-1901 (trad. con aggiunte dell'A.: The Hellenistic Origins of Byzantine Art, New Brunswick 1961); J. Strzygowski, Orient oder Rom, Lipsia 1901; L. Matzulevich, Byzantinische Antike, Berlino 1926; H. Delbrück, Spätantike Kaiserporträts von Konstantinus Magnus bis zum Ende des Westreiches, Berlino 1926; id., Die Consulardiptychen und verwandte Denkmäler, Berlino 1929; A. W. Byvanck, Het Problem d. Romeinsche Kunst in laatantieken Tijd, in Handel. V. Nederl. Philologen Congres, Leida 20-21 aprile 1933; M. Pieper, Die ägyptische Buchmalerei, in Jahrbuch, XLVIII, 1933, p. 40 ss.; H. Koethe, Die Hermen von Welschbillig, in Jahrbuch, L, 1935, p. 198 ss.; G. Bruns, Der Obelisk u. seine basis auf dem Hippodrom zu Konstantinopel, in Istanbuler Forschungen, VII, 1935; A. W. Byvanck, Antike Buchmalerei, in Mnemosyne, S. III, VI, 1933, p. 241 ss.; VII, 1939, p. 115 ss.; VIII, 1940, p. 115 ss.; J. Kollwitz, Oströmische Plastik der theodosianischen Zeit, Berlino 1941; G. Brett, The Mosaic in the Great Palace of the Byzantine Emperor, Oxford 1947; G. Bruns, Staatskameen des 4. Jh., in 104. Berl. Winckelmannspr., 1948; H. Swift, Roman Sources of Christian Art, New York 1951; G. Q. Giglioli, La colonna di Arcadio a Costantinopoli, Napoli 1952; K. Weitzmann, Das Klassische Erbe in der Kunst Konstantinopels, in Alte u. neue Kunst, III, 1954; id., Narration in early Christendom, in A Symposium: 57th Meeting of the Arch. Inst. America, Chicago 1955, p. 83 ss.; Chr. Courtois, Les Vandales et l'Afrique, Parigi 1955; Th. Klauser, Studien zur Entstehungsgeschichte der christl. Kunst, I, in Jahrbuch f. Antike u. Christentum, I, 1958, p. 20 ss.; F. Volbach-M. Hirmer, Arte paleocristiana, Firenze 1958; D. Talbot, Rice, The Great Palace of the Byzantine Emperor, II Report, Edimburgo 1958; H. W. Haussig, Kulturgeschichte von Bysanz, Stoccarda 1959 (tr. it.: Storia e cultura di Bisanzio, Milano 1964, pp. 17-53); K. Weitzmann, Ancient Book Illumination, Cambridge (Mass.) 1959; G. Becatti, La colonna coclide istoriata, Roma 1960 (pp. 93-150: colonna di Teodosio; pp. 151-254: colonna di Arcadio; pp. 265-288: l'arte delle colonne di Teodosio e di Arcadio); W. F. Volbach, Silber u. Elfenbeinarbeiten vom Ende des 4. bis zum Anfang des 7. Jahrh., in Akten VII Intern. Kongress f. Frühmittelalterforschung (1958), Graz 1961, p. 21 ss.; A. W. Byvanck, Rome en Constantinopel in de vierde eeuw, in Mededeel. Nederl. Hist. Inst. Rome, XXXI, 1961, p. 73 ss.; H. P. L'Orange, The antique origin of medieval portraiture, in Acta Congressus Madvigiani, 1954, III, Copenaghen 1957, p. 53 ss.; id., Der subtile Stil: eine Strömung aus der Zeit um 400 n. Chr., in Antike Kunst, II, 1961, p. 68 ss.; A. W. Byvanck, Les origines de l'art du Bas-Empire, in Bull. Verenig. Kennis Ant. Besch., XXXVII, 1962, p. 68 ss. e XXXIX, 1964, p. i ss.; M. Cagiano de Azevedo, Gli argenti tardoantichi nell'Italia del Nord, in Aevum, XXXVI, 1962, p. 211 ss.; M. Bonicatti, Studi di storia dell'arte sulla tarda antichità e sull'alto medioevo, Roma 1963; D. Talbot Rice, On the date of the mosaic floor of the great Palace in Constantinople, in Charistirion, I, Atene 1964; A. H. M. Jones, The Later Roman Empire, 284-602, Oxford 1964.

X. - Le culture periferiche e il dissolvimento della forma ellenistica. - Si è discusso a lungo (forse troppo a lungo) se il trapasso dall'arte dell'antichità classica all'arte del Medioevo europeo fosse stato il prodotto di uno sviluppo interno dell'arte romana o fosse dovuto a influenze o irruzioni di forme e di modi stilistici extra-europei e particolarmente iranici. Oggi si è compreso che il problema va posto in modo diverso, e che il quadro storico, assai più complesso e sotterraneo, non può risolversi con schematiche contrapposizioni. Un vasto problema, che qui può essere soltanto accennato, ma della cui esistenza occorre rendersi conto, sia pure sommariamente, per completare il quadro storico della fine della civiltà artistica ellenistico-romana, è costituito dalla situazione delle culture in quel tempo esistenti o che si andavano formando alla periferia del mondo romano.

Queste culture periferiche assorbono la civiltà artistica ellenistico-romana; ma anche la trasformano e ci dobbiamo chiedere se e come, ad un certo punto, esse anche daranno del proprio non più tanto all'arte tardo-antica, quanto alla costituzione dell'arte europea dell'alto Medioevo. Per quanto ogni singolo episodio si conformi storicamente in modo diverso, vi sono tuttavia alcune costanti che può essere utile di rilevare.

Il problema non può essere disgiunto dal suo antefatto fondamentale, che fu l'estensione della forma ellenistica, tra il III e il I sec. a. C., a tutto il bacino del Mediterraneo e, in Asia, sino all'Indo. (Di questa espansione e, soprattutto, della lunga durata della penetrazione di forme ellenistiche nell'area iranica ed oltre, stanno dando larghissima documentazione gli scavi nell'Uzbekistan, Tagikistan e Afghanistan, i cui risultati non sono ancora stati sufficientemente assimilati dagli studiosi dell'arte dell'Occidente). Rispetto all'originario ellenismo, il problema del rapporto tra esso e la periferia si pone anche per la penisola italiana, dove l'ellenismo non nasce spontaneamente, ma entra in contatto con una rudimentale e incolta, ma pur sensibile, capacità artistica locale (v. etrusca, arte; italica, arte) e produce reazioni diverse, che entrano, come abbiamo visto, quali componenti di fondo nella storia della formazione dell'arte romana.

La forza di penetrazione della forma ellenistica era stata enorme (certe sue conclusioni sono state mediate sino ai nostri giorni). Questa forza di penetrazione fu dovuta, crediamo, a tre elementi: al carattere di industria artistica artigianale che la cultura artistica assunse nell'ellenismo, favorita dalla struttura mercantilistica della società ellenistica; alla sua estrema raffinatezza tecnica che, in quanto industria artistica, batteva ogni altro prodotto; al suo linguaggio stilistico fondato sul realismo naturalistico e perciò facilmente comprensibile, che comportava organicità di struttura ed eleganza nella forma liberamente moventesi nello spazio. La forma artistica del realismo naturalistico è poi sembrata a lungo l'unica corretta, e la più logica delle forme nelle arti figurative (e soltanto la nostra generazione, che ha avuto il privilegio di vivere l'esperienza dell'arte astratta e informale, si è persuasa che essa non è l'unica).

L'arte dell'ellenismo era stata, inoltre, un'arte urbana, cittadina; e come tale, raffinata, intellettualizzata. Per essere stata legata al carattere mercantile della società ellenistica e al suo forte concentramento del potere economico nelle mani di una élite, essa assunse anche un carattere di preziosità, che si manifesta nel grande sviluppo assunto dalla toreutica (e per questo aspetto ebbe ad apprendere dall'arte achemènide incontrata con le conquiste di Alessandro). Quell'arte dell'ellenismo fu, perciò, arte essenzialmente mondana, che trattò anche il tema religioso con scarso sentimento del sacro e del mistero e lo rivestì, piuttosto, di erudizione rnitologica. La religiosità si rifugiò nelle sette popolari misteriosofiche, esprimentisi diversamente che con le forme delle arti decorative. Di contro, le civiltà artistiche periferiche ebbero evidente carattere incolto. Tanto è vero che non poche tra le loro manifestazioni, ove manchino elementi di fatto, dati di scavo, rimangono per noi senza possibilità di una datazione, se non vi sia un qualche riflesso dell'arte ellenistica. Prese a sé, esse si presentano infatti prive di sviluppo interno, prive, per noi, di possibilità di storicizzarle.

Questo fondo di tradizione periferica rimane vivo, in Occidente, nella corrente italico-romana, che abbiamo detta "popolare", "plebea". Ad un certo momento abbiamo anche veduto come questo elemento popolare, plebeo, entri quale fattore importante nella formazione dell'arte tardo-antica (v. par. viii); ma esso, più che elemento costituente, si identifica con la produzione artistica "provinciale", con il che si intende la produzione delle province occidentali, anche se questa assume, in qualche luogo e in qualche periodo, caratteri particolari permanenti, che attestano una elaborazione artistica locale, segnano cioè il contributo effettivo di tendenze artistiche insite in quel tale ambiente periferico. Ciò accade, in Occidente, in modo particolare. nella Gallia Narbonense, nel I sec. a. C. e nella regione tra Mosella e Reno nel III sec. (v. gallo-romana, arte). In precedenza è già stato accennato, inoltre, alla formazione di una cultura artistica con caratteri particolari nelle province settentrionali dell'Africa settentrionale.

Nelle province orientali, dalla Siria alla Mesopotamia, alle regioni iraniche, dove il contatto con l'ellenismo era stato preceduto dallo svolgersi di grandi civiltà artistiche, le cose si presentano secondo una situazione storica assai diversa; ma con effetti finali analoghi. Nelle monarchie orientali l'arte era sempre stata al servizio esclusivo delle alte gerarchie, regali o religiose. In quelle culture artistiche si erano perciò sviluppate regole e prescrizioni esatte, che formavano il supporto di uno stile sostanzialmente unitario attraverso i secoli: era gloria dell'artista seguire esattamente quelle regole, come ci confermano talune iscrizioni. Abbattute dalla conquista di Alessandro le monarchie nazionali, cadute le strutture tradizionali, in Mesopotamia, in Iran, in Egitto, caddero anche le regole e le tradizioni artistiche; si perdette la capacità stessa di esprimersi in forme d'arte: resiste soltanto l'architettura, legata al culto. Perciò nessuna resistenza si oppose alla penetrazione della forma greca ellenistica. Quanto rimane di tradizione locale diviene arte popolare, subalterna. Nell'accentuato contrasto città-campagna, che caratterizza l'ellenismo, i residui di forme artistiche locali vengono respinti alla periferia estrema: così si produce, pertanto, un fenomeno analogo a quello riscontrato in Occidente. I contatti (arte egiziana-ellenismo; arte achemènide-ellenismo) non crearono correnti d'arte originale, fondate su principî formali nuovi, durante i tre secoli di penetrazione greca.

Là dove le strutture sociali ed economiche che avevano sorretto la cultura greco-ellenistica furono distrutte dall'avanzata di popoli nuovi o crollarono a seguito della conquista romana, forme artistiche nuove andarono costituendosi e determinandosi, permeate (sia pure) di forma ellenistica più o meno assorbita ed intesa. In Oriente, a partire dal 150 a. C., abbiamo la formazione dell'arte parthica (v.); in Occidente, più complessa, più ricca di articolazioni basata sopra strutture economiche e politiche più vaste, ma sostanzialmente su di un analogo piano di genesi storica, l'arte romana. In queste formazioni di nuove culture artistiche entra come decisivo, accanto all'elemento religioso, che spesso determina l'aspetto esterno, rituale, l'elemento popolare essenzialmente descrittivo e celebrativo, quando non si limiti ad essere niente più che un accessorio di insistenza ornamentale.

A queste norme rispondono tanto le produzioni locali dell'arte italico-romana e popolare romana o provinciale, che quella parthica e poi, con particolare evidenza, la produzione locale che più tardi delle altre si delinea, ma con più insistenza e coerenza, cioè l'arte dell' Egitto copto, cioè dell'interno, dove sorge il cristianesimo popolare, in contrasto con il cosmopolitismo di Alessandria. Qui (v. copta, arte) abbondano, nei rilievi e nelle stoffe, gli esempi di forme d'arte ellenistica "degenerate" in senso popolare, che convivono accanto ad espressioni di ancor vivo ellenismo, le une provenienti da centri di vita rurale, le altre da centri socialmente ed economicamente più elevati, ed allo stesso tempo si possono osservare le penetrazioni di forme e soprattutto di iconografie iraniche. Ma ciò che occorre anche notare è che certe forme dell'arte incolta sono sempre e dovunque assai simili tra di loro, siano esse dell'Egitto copto, o dell'ambiente italico-etrusco di settecento anni prima, o dell'ambito provinciale celtico in Gallia e in Britannia.

Si può forse trarre una conclusione generale: che l'incontro tra l'arte ellenistica, eminentemente colta e intellettualistica e il linguaggio popolare di un'arte incolta e rustica, produce, tanto all'inizio che alla fine della civiltà romana, dei risultati assai simili, che sono una conseguenza della tensione tra un gusto istintivo e grezzo e un gusto raffinato, e il contrasto fra una razionale concezione della vita dell'uomo sulla terra e l'abbandonarsi agli irrazionali istinti che spingono verso una concezione simbolica della vita e del mondo. Certi aspetti raffinati dell'arte ellenistica (per esempio l'idillio bucolico, forma d'arte tipicamente urbana e intellettualistica) dovevano apparire del tutto incomprensibili agli strati incolti, rurali o barbarici: le scene ispirate ai lavori agricoli non assumono mai, infatti, nell'arte delle province, l'aspetto idillico. Altri aspetti ancora, dell'idillio mitologico, dovevano apparire o incomprensibili o, più ancora, portare a un senso di ripulsa morale, non comprendendosene i lontani motivi ispiratori. A questo spontaneo tipo di avversione si aggiunga quello delle comunità cristiane per l'antico repertorio artistico. E spesso il motivo religioso si accompagnò (nelle comunità egiziane, per esempio, e in quelle africane) a esplicite rivendicazioni nazionali, come quella che scoppiò nella chiesa copta al concilio di Calcedonia nel 450.

Si può constatare che dovunque, in Occidente e in Oriente (Italia, Gallia, Britannia, Mesopotamia, Egitto), la dissociazione e distruzione della forma ellenistica è portata avanti da un lato con il contributo diretto delle correnti d'arte plebea, popolare, le quali si inseriscono nel contrasto fra città e campagna, riconosciuto determinante dagli storici per le sorti del mondo antico alla sua fine, e nelle tendenze alla rivendicazione nazionale; dall'altro col prevalere, anche nella classe colta, delle istanze irrazionalistiche. L'elemento rurale (coloni, militari, di ogni parte dell'Impero, e tra questi un numero crescente di Barbari) è quello che finisce per sopraffare i resti della civiltà antica. Le città costruite da Alessandro e dai successori come barriera contro il mondo fluido dei nomadi asiatici sono abbandonate una dopo l'altra dai Romani e un flusso di forme artistiche "incolte", caricate spesso di significati trascendenti, penetra nei luoghi che erano stati centri della civiltà artistica dell'ellenismo e giungeranno in seguito sino al centro dell'Europa: motivi copti e scitici si trovano nell'arte merovingia insieme ad antichi motivi celtici e a derivazioni dal repertorio romano. Germi sorti nell'arte provinciale gallo-romana e dell'Italia settentrionale si svilupperanno, insieme ad altri, nell'arte romanica e finanche in quella del gotico francese. Motivi ornamentali sassanidi penetrano, a partire dalla metà del IV sec., nel repertorio decorativo tardoromano, anche a Roma (ornamenti a serie di cuori nelle cornici della miniatura del mese di marzo del calendario del 354 e di alcune pitture della nuova Catacomba di via Latina: v. vol. iv, fig. 1233 e A. Ferma, La pittura della nuova Catacomba di via Latina, 1960, tavv. 67 e 109); e più ne penetreranno in seguito e sino all'alto Medioevo, attraverso l'importazione di ceramiche e soprattutto di stoffe. Ma si tratta, appunto, di elementi ornamentali, che vengono accolti in un repertorio ormai privo di una tradizione propria radicata in una società salda e omogenea. Veri e proprî imprestiti verranno invece operati nel campo dell'architettura, trasmessi dalle vigorose comunità cristiane della Siria e dell'Anatolia. Tutto questo appartiene, però, ormai ad una civiltà artistica diversa e non più a quella antica. Sino a che questa ebbe vita, le forme orientali non penetrarono nella scultura e nella pittura come elementi costitutivi operanti sul mutamento della problematica artistica, anche se ideologie orientali, come quella della sacralità del sovrano, determinarono mutamenti nella iconografia (ma occorre sempre tener distinta l'iconografia dal fatto puramente formale dello stile).

Al fondo della trasformazione artistica c'è questo immenso rivolgimento di popoli, che distrusse le classi ereditarie della cultura tradizionale. Gli storici si sono posti la questione se si possa parlare, alla fine del mondo antico, di una "rivoluzione sociale" e hanno concluso negativamente: movimenti dal basso vi furono, ma non si formò, infatti, una coscienza di classe. Tuttavia, un rivolgimento e uno spostamento di classi vi fu, nel senso più volte indicato nel corso di questa esposizione. La società schiavistica non fu colpita, nemmeno dalla Chiesa: la più profonda sovversione di essa fu avanzata da Totila nel 545-546; ma la prammatica di Giustiniano la ristabilì e la trasformazione avverrà poi dall'interno, attraverso gli ordinamenti feudali.

La vecchia disputa "Roma o Bisanzio" per stabilire le ascendenze formative dell'arte medievale, oggi si è definitivamente dimostrata come mal posta. E il vecchio monito del von Schlosser, che occorre tener conto, accanto a una magistra latinitas anche di una magistra barbaritas, non può più intendersi e risolversi nel senso, caro alla scuola di Vienna, di un mutamento di gusto e nient'altro, né nel senso idealistico di non dare, all'arte plebea, null'altro valore che quello di "cultura scaduta".

Accanto alle linee che si è cercato di tracciare nei capitoli precedenti per spiegare il corso storico dell'arte di età romana, è necessario tener presente, per spiegare la sua fine e la totale rottura con la tradizione ellenistica, anche questo elemento d'arte legato alle classi meno colte, legato alle rivendicazioni delle province, che aspirano a divenire, e poi faticosamente diverranno, nazioni autonome. Talora in esse vengono ripresi lontani motivi artistici indigeni, sempre trasformati profondamente dal secolare contatto con il riflesso di quella civiltà ellenistica della quale erano divenuti ultimi portatori, assai oltre i confini dell'ellenismo, i Romani. È da questi varî fermenti intersecantisi nei grandi rivolgimenti dell'età delle migrazioni dei popoli barbarici, che nascerà, non senza costante memoria della forma antica, ma con tutt'altro contenuto, l'arte dell'Europa medievale.

Bibl.: X. - W. Neuss, Formzerfall u. Formaufbau bei dem Uebergange von der antiken zur mittelalterl. Kunst, in Jahrbuch, XLIV, 1929, p. 184 ss.; F. Oelmann, Zur Kenntnis der Karolingischen u. Omajadischen Spätantike, in Röm. Mitt., XXXVIII-XXXIX, 1923-4, p. 193 ss.; Abriss der Geschichte Antiker Randkulturen, edito da W.-D. v. Barloewen, Monaco 1961; Chr. Courtois, Les Vandales et l'Afrique, Parigi 1955. Per l'arte copta: G. de Francovich, L'Egitto, la Siria e Costantinopoli: problemi di metodo, in Riv. Ist. Arch. St. Arte, N. S., XI e XII, 1963, p. 83 ss.; Christentum am Nil, Int. Arbeistagung z. Ausstellung "Koptische Kunst", Essen, Villa Hügel, 1963, Recklinghausen 1964; R. Bianchi Bandinelli, Constitution et dissolution de la forme plastique de l'Hellenisme, in Actes VIIIe Congrès Internat. d'Archéologie, Parigi 1963 (in corso di stampa); id., Forma artistica tardo-antica e apporti Parthici e Sassanidi nella scultura e nella pittura, in La Persia e il mondo greco-romano, Convegno Internaz. Accad. d. Lincei, Roma 1965 (in corso di stampa).

Bibl. generale: A gruppi di paragrafi di questo articolo è stata indicata la bibliografia usata per la loro singola redazione. Si danno qui di seguito soltanto alcune principali opere di carattere generale. Per i repertorî di monumenti si veda la voce archeologia (vol. I, p. 561 ss.). Si veda inoltre la bibliografia data alle voci alle quali si è rimandato nel corpo dell'articolo, e specialmente: copie e copisti; costantinopoli; gallo-romana; arte; monumento funerario; mosaico; ostia; pittura; pompei; ritratto; roma; sarcofago; villa; urbanistica.

Opere generali: F. Wickhoff, Die Wiener Genesis, Vienna 1895 (2a ed. della sola introduzione: Römische Kunst, Berlino 1912; tr. ingl. Roman Art Londra 1900; tr. it.: Arte romana, Padova 1947); A. Riegl, Die Spätrömische Kunstindustrie nach d. Funden in Oesterreich-Ungarn, I, Vienna 1901 (2a ed.: Spätrömische Kunstindustrie, Vienna 1927; tr. it.: Industria artistica tardoromana, Firenze 1953; Arte tardoromana, Torino 1959); P. Gusman, L'art decoratif de Rome, 2 voll., Parigi 1912; E. Strong, Roman Sculpture, Londra 1911 (tr. ital. su testo rifatto dall'A.: La scultura romana da Augusto a Costantino, 2 voll., Firenze 1923-6); R. Cagnat-V. Chapot, Manuel d'archéologie romaine, 2 voll., Parigi 1916 e 1920; H. Koch, Römische Kunst, Breslavia 1925, 2a ed.: Weimar 1949; P. Ducati, L'arte classica, Torino 1927; 3a ed. e ristampe, 1944; G. Rodenwaldt, Kunst der Antike, in Propyläen-Kunstgeschichte, III, Berlino, 2a ed., 1927; E. Strong, L'arte di Roma antica, Bergamo 1929; L. Curtius, Geist. d. röm. Kunst, in Die Antike, V, 1929, p. 187 ss.; F. Chamoux, Le monde romain de Sylla aux Sévères, in R. Huyghe, L'art et l'Homme, I, Parigi 1937, p. 887 ss.; P. Ducati, L'arte in Roma dalle origini al sec. VIII, Bologna 1938; W. Technau, Die Kunst der Römer, in Geschichte der Kunst der Altertum, II, Berlino 1940; H. Berve, Rom, in Das neue Bild d. Antike, II, Lipsia 1942; R. Bianchi Bandinelli, Storicità dell'arte classica, Firenze, 1a ed. 1943; 2a ed. accresciuta 1950; H. Kenner, Antike röm. Wandmalereien in Kärnten, in Corinthia, I, Klagenfurt 1950, p. 149 ss.; F. Matz, Bemerkungen zur römischen Komposition, in Akad. d. Wissensch. u. Literatur in Mainz, 8, Wiesbaden 1952, p. 625 ss.; id., in Neue beiträge z. Klass. Altertumswiss. (Festschr. Schweitzer), Stoccarda 1954, p. 319 ss.; A. Rumpf, Malerei und Zeichnung, in Handbuch, VI, Monaco 1953; C. C. van Essen, De Kunst van het oude Rome, L'Aia 1954; A. Aymard, Rome et son empire (Hist. gén. des Civilisations) Parigi 1954; P. v. Blanckenhagen, Narration in Hellenistic a. Roman Art, in A Symposium. 57th Meeting of the Archaeol. Inst. of America, Chicago 1955, p. 78 ss.; I. Scott Ryberg, Rites of the State Religion in Roman Art, in Mem. Amer. Acad. in Rome, XXII, 1955; J. Beaujeu, La religion romaine è l'apogée de l'Empire: I, La politique religieuse des Antonins, Parigi 1955; A. García y Bellido, Arte Romana, Madrid 1957; M. Borda, La pittura romana, Milano 1958; H. Kähler, Rom und seine Welt, 2 voll., Monaco 1958-1960; L. Crema, L'architettura romana, Torino 1959; C. C. van Essen, Précis d'histoire de l'art antique en Italie, in Latomus, XLII, Bruxelles-Berchem 1960; A. W. Byvanck, De Kunst der Oudheid, vol. IV, Leida 1960, p. 200 ss. (sino a Commodo; seguirà un vol. V; ottima come guida bibliografica); M. Lee Thompson, Monumental a. Literary Evidence for Programmatic Painting in Antiquity, in Marsyas, IX, 1960-1, p. 36 ss.; M. Grant, The World of Rome, Londra 1960; tr. ital.: La civiltà di Roma (133 a. C.-217 d. C.), Milano 1961; A. Frova, L'arte di Roma e del mondo romano, Torino 1961; G. Kaschnitz, Weinberg, Das Schöpferische i. d. Röm. Kunst, (Röm. Kunst, I), Amburgo 1961; id., Zwischen Republik u. Kaiserreich (Röm. Kunst, II), 1961; id., Die Grundlagen der Republikan. Baukunst (Röm. Kunst, III), 1962 a cura di H. v. Heintze; G. Becatti, Arte romana, Milano 1962; H. Kähler, Rom und sein Imperium ("Kunst der Welt"), Baden-Baden 1962; G.-Ch. Picard, L'art romain, Parigi 1962; (tr. it.: Roma e l'arte imperiale, Milano 1963); R. Brilliant, Gesture and Rank in Roman Art, in Mem. of the Connectictut Acad., XIV, New Haven 1963; G. M. A. Hanfmann, Römische Kunst, Wiesbaden 1964; Arte e civiltà romana nell'Italia Settentrionale (Catalogo d. Mostra, vol. I), Bologna 1964.

(R. Bianchi Bandinelli)

XI. L'esportazione di oggetti artistici e il commercio romano oltre le frontiere dell'impero. Il sommario (e in parte tuttora provvisorio) disegno dello svolgimento storico dell'arte di età romana, che è stato delineato nei paragrafi precedenti, necessita di un completamento perché si possa intendere appieno l'enorme importanza culturale che tale produzione artistica ebbe quale veicolo di diffusione di iconografie e di schemi formali, risalenti in massima parte ancora all'ellenismo e che della civiltà ellenistica sostanzialmente mantenevano la concezione di un realismo naturalistico, sconosciuto alle altre civiltà antiche. Tale necessario complemento è la conoscenza, sia pure per elementi sommarî, della diffusione che opere di artigianato artistico ebbero dai centri romanizzati verso i paesi situati al di là delle frontiere imperiali. Al tempo medesimo tale conoscenza ci permette di acquisire alcuni dati sulla diffusione e organizzazione del commercio, che nella sua ampiezza e varietà costituì elemento economico fondamentale e talora addirittura preminente e decisivo nelle vicende storiche dell'Impero romano e nel successivo costituirsi delle nuove nazioni.

Si raccolgono qui sotto A) le notizie relative all'esportazione romana al di là del limes (v.) centro e nord-europeo, elencate per tipi di oggetti; sotto B) quelle relative all'Africa, all'Arabia, all'India, al Pakistan, all'Afghanistan e all' Estremo Oriente elencate per località. Manca ancora una revisione dei materiali eventualmente rinvenuti nell'area della Russia europea, dal golfo di Carelia al Mar Nero; ma è iniziata dal 1962 la pubblicazione in fascicoli, col titolo Archeologija SSSR, della carta archeologica dei territori dell'U.R.S.S. che renderà possibile tale revisione.

(Red.)

A) Europa. - L'importante fenomeno dell'esportazione romana oltre le frontiere germaniche si può osservare da due diversi angoli di visuale: 1) innanzi tutto da N, dal punto di vista della Germania stessa; infatti gli oggetti esportati dalle regioni meridionali hanno in ogni tempo costituito per gli archeologi punti fermi di vitale importanza, sia sotto il profilo dello studio delle relazioni commerciali, che principalmente ai fini della datazione dei prodotti locali in genere rinvenuti nelle tombe assieme ad oggetti importati: la cronologia relativa si trasforma cioè in cronologia assoluta, le antichità germaniche possono essere inquadrate negli anni antecedenti o posteriori alla nascita di Cristo; 2) da S, dal punto di vista dell'Italia giacché proprio in Italia e in altri centri dell'Impero romano si trovavano le botteghe che esportavano questi oggetti. Si deve al costume germanico di corredare di ricche suppellettili le tombe dei morti d'alto lignaggio se, attualmente, gli esemplarî meglio conservati di questa produzione minore dell'artigianato romano si rinvengono in maggior quantità oltre i confini dell'Impero, soprattutto oltre il limes germanico, piuttosto che in Italia. È per questo che i rinvenimenti dell'Europa centrale e settentrionale rivestono la massima importanza anche nell'ambito dell'archeologia classica e saranno piuttosto le antichità di questi paesi un tempo "barbari" che non quelle della madrepatria stessa a darci un panorama completo della produzione artigianale romana, soprattutto per alcune branche di notevole importanza.

Nelle tombe del N si trovano soprattutto numerosissimi vasi di bronzo (a migliaia!), in quantità molto minore i vasi di vetro e naturalmente molto più raramente i preziosi vasi d'argento la cui esportazione è ricordata da Tacito (Germania, 5). Più difficilmente ci si spiega la scarsità nelle tombe germaniche di vasi romani in terra sigillata (v.) che sono invece molto frequenti negli stanziamenti germanici compresi in un'ampia fascia lungo le frontiere, ma che diminuiscono sensibilmente verso l'interno del paese - è evidente che date le ingenti spese di trasporto non era conveniente esportare tanto lontano un articolo relativamente poco costoso e tanto fragile. Nella Germania oltre il limes insieme ai vasi si rinvengono in numero relativamente elevato fibule romane, ma siamo lontani dalle cifre toccate dai vasi di bronzo: evidentemente la concorrenza della produzione indigena era troppo forte. Numerosissime invece le monete romane rinvenute nel N: poche nelle tombe o in rinvenimenti isolati che si debbono probabilmente ad antichi stanziamenti, ma il loro numero è talmente ingente nei tesori, che è senz'altro pari e a volte persino superiore a quello delle monete dei tesori rinvenuti nei territori dell'Impero romano. Finora una statistica completa esiste soltanto per la Germania oltre il limes (Bolin) mentre per l'Impero romano non è ancora stata fatta.

Nella descrizione dei vasi di bronzo, d'argento e di vetro, nella successione e l'ordinamento dei tipi, ci atterremo in quanto segue all'opera dello Eggers, Der Roemische Import (v. bibl.), e alla stessa numerazione dei tipi. Gli altri oggetti, ad eccezione delle monete e delle perle, saranno ordinati progressivamente subito dopo i gruppi già catalogati dall'Eggers stesso (dunque n. 251 ss.). Per la cronologia verrà tenuto presente il seguente schema:

A = ultima fase della civiltà di La Tène = 100 a. C. - 0

B = prima età imperiale 0-150 d. C.

C = tarda età imperiale = 150-350 d. C.

1. Crateri di bronzo. - I più antichi crateri dell'ultima fase di La Tène e della prima età imperiale rinvenuti nel N, non soltanto i crateri dalla ricca decorazione figurata, come quelli di Gundestrup (vol. ii, fig. 404) e di Rynkeby in Danimarca, ma anche i semplici crateri di bronzo con l'orlo di ferro sono di produzione greca o celtica. Solo a partire dalla tarda età imperiale si trovano crateri romani. Si tratta dei cosiddetti crateri di tipo occidentale (Westland-Kessel) con attacchi di manico in ferro e dal collo strozzato. Molto rari gli esemplari con attacchi triangolari vivi, una forma che raggiunse la sua massima fioritura durante il primo periodo delle invasioni barbariche.

2. Secchi di bronzo. - Ai più antichi tipi di secchi romani appartengono le situle con attacchi di manico a delfino (Situlen mit Delphin-Attachen) come quelle del n. 18, provenienti da Harsefeld nella Sassonia meridionale rinvenute in parte in tombe dell'ultima fase della civiltà di La Tène, in parte in quelle della prima età imperiale, note tra l'altro nell'ambito dell' Impero per i ricchi rinvenimenti fatti nella necropoli tardo-celtica di Ornavasso nell'Italia settentrionale. Da questo tipo si sono sviluppate, pur restando sotto l'influenza greca, le situle con attacchi a testa femminile (Situlen mit Frauenkopf-Attachen) della rinascenza augustea. Queste si incontrano dall'inizio della prima età imperiale e perdurano fino alla prima fase della tarda età imperiale. Artisticamente più perfetti sono gli esemplari più antichi, databili fra l'età di Augusto e quella di Nerone, con le loro forme snelle, dalle curve eleganti e con attacchi di manici a testa femminile di stile naturalistico (cfr. il n. 24 da Leg Piekarski in Polonia). Risalgono invece alla seconda metà del I e alla prima metà del II sec. le situle di Skròbeshave in Fionia (Danimarca), cfr. n. 25, dalla sagoma meno elegante e con attacchi di manici stilizzati. Le situle più recenti della seconda metà del II sec. sono basse e larghe ed il corpo del vaso è spesso argentato con una ricca decorazione ornamentale o figurata; lo stile degli attacchi si è ormai completamente imbarbarito, cfr. n. 29, da Göldenitz nello Holstein.

Relativamente rari sono nella Germania oltre il limes i secchi del tipo di Ehestorf nella Sassonia meridionale, n. 31, dal collo strozzato, l'orlo aggettante riccamente decorato e l'attacco a tre punte. Alla prima età imperiale appartengono inoltre i secchi del tipo di Nienbüttel nella Sassonia meridionale, n. 33, che sono sferici con tre piccoli piedi, il labbro riccamente decorato e gli attacchi modellati a forma di due teste di muli. Nessuna affinità tipologica sussiste fra il tipo di Nienbüttel ed i secchi del tipo di Stolzenau nella Sassonia meridionale, n. 34, con attacchi a testa femminile e tre piedi di forma leonina. Questi ultimi risalgono con sicurezza alla tarda età imperiale probabilmente al III sec. d. C. Coevi sono anche i secchi conici del tipo di Vaengegard nello Själland, Danimarca, n. 35, alcuni con attacchi a testa femminile di stile già piuttosto imbarbarito, alcuni con attacchi triangolari oblunghi.

Alle forme più semplici ma più usuali appartengono nella Germania oltre il limes i secchi di tipo orientale (Oestlandtyp). Quelli dalla forma ancora leggermente slanciata (per esempio di Vangede, Själland) risalgono alla prima età imperiale, mentre vanno datati alla tarda età imperiale quelli dalle forme basse e larghe con uno spigolo vivo al centro (per esempio di Eskildstrup in Fionia, Danimarca).

I secchi di bronzo ondulati appartengono al periodo di transizione tra la prima e la tarda età imperiale, cioè alla prima e alla seconda metà del II secolo. Tipologicamente più antichi sono i secchi grandi ed eleganti, cfr. n. 44 da Gile in Norvegia, quelli più piccoli e più larghi (per esempio di Vallöby nello Sjölland, Danimarca) sono invece più recenti. Cronologicamente però queste due forme, a stare ai rinvenimenti fatti in luoghi rimasti inviolati fino alla scoperta, sembrano essere coeve. È sorprendente anche che il tipo si sia diffuso fin nelle regioni più orientali della Germania settentrionale: il centro di irradiazione va indubbiamente collocato fra l'Oder e la foce della Vistola. Sarebbe comunque prematuro postulare l'esistenza di una bottega artigianale in un centro orientale dell'Impero romano. Mentre infatti il tipo non compare nei ricchi depositi romani di vasellame di bronzo del III sec., numerosi frammenti sono stati rinvenuti nei castelli del limes (Saalburg, Zugmantel). Forse la sua produzione è antecedente di alcuni decennî ai depositi di vasellame di bronzo, i più sepolti probabilmente alla metà del III sec. circa.

I secchi del tipo di Hemmoor invece (così chiamati dalla necropoli di urne di Hemmoor, Sassonia meridionale, dove sono stati rinvenuti non meno di 18 vasi di bronzo di questo tipo) vanno indiscutibilmente datati alla tarda età imperiale. Alla prima età imperiale appartengono soltanto alcune forme che preannunciano questo tipo, come il secchio n. 53 di Fycklinge in Svezia, splendidamente decorato da palmette e da un fregio a meandro. I veri e proprî secchi del tipo di Hemmoor compaiono appena nel 200 d. C. circa e sono decorati alcuni con un fregio figurato (cfr. n. 55 da Häven nel Mecklemburg), altri invece sono completamente privi di decorazione (per esempio quelli di Varpelev nello Själland, Danimarca). Non è stato ancora possibile fare una netta distinzione fra le forme più antiche e quelle più recenti di questo tipo così ricco di varianti. Contrariamente ai secchi ondulati, i secchi del tipo di Hemmoor sono diffusi nelle regioni più occidentali della Germania settentrionale, particolarmente nei territori a occidente dell'Oder e più ancora in quelli a occidente dell'Elba. In questo caso alla larga diffusione nella Germania oltre il limes corrispondono nelle province romane della Gallia, del Belgio, della Germania settentrionale e meridionale e della Rezia, rinvenimenti quasi altrettanto ingenti, tanto che è assai probabile che il centro di produzione debba collocarsi a Colonia.

3. Catinelle di bronzo. - Le catinelle a pareti dritte e a fondo circolare piatto (per esempio quelle di Körchow nel Mecklemburg) appartengono ancora all'ultima fase della civiltà di La Tène ed alla prima età imperiale. Coeve sono le più antiche catinelle con beccuccio rotondo, cfr. n. 73, del pari di Körchow. Nella prima età imperiale le catinelle a pareti diritte con il fondo sopraelevato e manici mobili a forma di omega sono molto rare, mentre sono numerose nella tarda età imperiale. Esistono due varianti del tipo col manico a forma di omega: il tipo scanalato, cfr. n. 77 da Vallöby, Själland, Danimarca (simili al secchio scanalato del n. 44 e probabilmente provenienti dalle medesime botteghe) e il tipo privo di decorazioni (per esempio le catinelle di Grabow nella Pomerania). Alla tarda età imperiale risalgono inoltre numerose varianti del tipo di catinelle a pareti dritte che si differenziano fra loro soprattutto per quantità e forma degli attacchi dei manici. Le più importanti sono le catinelle con tre attacchi a foglia di vite con teste di leopardo, cfr. n. 83, da Helzendorf nella Sassonia meridionale. Anche in tarda età imperiale esistono catinelle con beccuccio il più delle volte con un coperchio riccamente decorato (per esempio quelle di Grieben in Sassonia). Sia nella Germania oltre il limes che nelle province romane lungo il Reno, queste catinelle si rinvengono spesso assieme ai secchi del tipo di Hemmoor. Forse provengono addirittura dalle stesse botteghe. Un processo di sviluppo completamente diverso hanno invece subito le catinelle romane con piede. Il tipo più antico è quello delle catinelle a piede con manici mobili a forma d'anello e con l'orlo ornato da un fregio ad ovuli. Esiste una variante più antica con un attacco semplice di forma rettangolare ed un'altra variante più recente con sotto l'attacco una palmetta eseguita a getto, cfr. n. 92 da Poggendorf nella Pomerania. Esemplari della variante più antica sono stati rinvenuti in alcune necropoli germaniche dell'ultima fase della civiltà di La Tène ed anche nell'oppidum tardo-celtico di Bibracte nella Gallia meridionale, descritto da Cesare (58 a. C. circa). Gli esemplari della variante più recente invece, risalgono indiscutibilinente alla prima età imperiale e sono stati rinvenuti nell'ambito dell'Impero romano dell'epoca, tra l'altro nel castello ligneo romano di Haltern in Westfalia, distrutto nell'anno 9 d. C. In questo caso dunque cronologia relativa e cronologia assoluta coincidono.

Il tipo di catinella a piede con manici fissi a foglia di vite invece è per ora testimoniato soltanto da rinvenimenti dell'ultima fase della civiltà di La Tène, cfr. n. 94, da Dobbin nel Mecklemburg. Qualche esemplare è venuto alla luce anche nella necropoli tardo-celtica di Ornavasso nell'Italia settentrionale. Potrebbero forse essere considerate una successiva variante di questo tipo le catinelle a piede di età imperiale con manici fissi a forma di omega. Le più antiche (per esempio quelle di Lübsow nella Pomerania) hanno manici fissi di fattura semplice che terminano a testa di serpente. Le più recenti sono vistosamente decorate da manici fissi foggiati a forma di due capri sdraiati (per esempio quelle di Czéke-Cejkow in Slovacchia). Unica nel suo genere la variante proveniente dalla tomba di Hoby nello Själland, Danimarca, databile alla prima età imperiale, tomba ricca di preziosi esemplari veramente rari (v. 8, Vasi d'argento) l'orlo è ornato da un fregio ad ovuli ed il manico, riccamente decorato, è applicato in alto sull'orlo stesso del vaso. Le catinelle a piede scanalato non sono invece così rare e risalgono tutte alla tarda età imperiale.

4. Tazze, piatti, vassoi. - Una piccola tazza di bronzo senza piede di Hiddensee in Pomerania è l'unico esemplare del genere che sia stato finora rinvenuto; è databile senz'altro all'inizio del II sec. grazie alle altre suppellettili del medesimo rinvenimento. Piccole tazze di bronzo con piede, placcate in argento, cfr. n. 112, da Schwolow in Pomerania, compaiono invece in numerosi rinvenimenti databili con esattezza alla tarda età imperiale. Simili per tecnica e per forma e all'incirca del medesimo periodo, ma privi dello spesso rivestimento d'argento sono i piatti di bronzo con base anulare (per esempio quelli di Balenthin in Pomerania), un tipo rinvenuto in genere soltanto nelle tombe della tarda età imperiale della Germania centrale. Anche i vassoi di bronzo ovali, cfr. n. 121, da Hassleben in Turingia, provengono esclusivamente dalla Germania centrale e risalgono tutti alla tarda età imperiale.

5. Brocche di bronzo. - Le più antiche sono le brocche di bronzo ad imboccatura rotonda e manico incurvato verso il basso, cfr. n. 122 da Siemianice in Polonia. Questo tipo è già testimoniato nell'ultima fase della civiltà di La Tène e precisamente nei rinvenimenti delle necropoli di Ornavasso nell'Italia settentrionale e di Aylesford nell'Inghilterra meridionale. Nella Germania oltre il limes è invece noto finora soltanto da rinvenimenti che risalgono all'inizio dell'età imperiale (prima metà del I sec. d. C.). Però il tipo più comune della prima età imperiale è quello della brocca alta e snella con manico ricurvo verso l'alto, l'imboccatura trilobata e con applicati busti femminili, cfr. n. 124, da Hagenow nel Mecklemburg. Da questo tipo si sviluppano in seguito le brocche basse e larghe del pari con imboccatura trilobata e con un leone impresso sul manico (per esempio quelle di Lübsow in Pomerania). La brocca dalla ricca ma elegante decorazione di Hoby nello Själland in Danimarca è invece un unicum. Verso la fine della prima età imperiale compaiono le cosiddette brocche gallo-romane di bronzo, cfr. n. 128, da Överbo in Svezia, un tipo che perdura per tutta la tarda età imperiale.

6. Casseruole di bronzo. - Le più antiche casseruole della Germania oltre il limes sono le padelle di bronzo grandi e piatte con ganci a forma di testa di cigno (cfr. quelle di Gautzsch in Sassonia). Risalgono all'ultima fase della civiltà di La Tène come è testimoniato anche dai rinvenimenti delle necropoli di Aylesford nell'Inghilterra meridionale e di Ornavasso nell'Italia settentrionale. Fin dall'inizio dell'età imperiale compaiono le casseruole con manici a forma di testa di cigno, altre con trafori a "forma di pelta" (per esempio quelle di Kjaerumgaard in Fionia, Danimarca). I tegami di questo tipo si possono datare molto bene: frammenti sono stati rinvenuti nei castelli di età augustea di Haltern in Westfalia e Oberhausen in Baviera, oltre che negli strati più antichi del castello di Brugg (= Vindonissa) in Svizzera. Alla prima età imperiale appartengono anche le casseruole con imboccatura a forma di fagiolo. Provengono certamente anch'esse dalle botteghe di Capua e sono parimenti testimoniate nei castelli dell'età augustea come Haltern, ma anche in quelli dell'età di Claudio come Hofheim nell'Assia e Hood Hill in Inghilterra; si può dunque stabilire per esse una cronologia assoluta (0-50 d. C.). Coeve sono le prime casseruole ad imboccatura rotonda e ornate da un fregio di tirso, cfr. n. 139, da Pugehöj nello Jutland, Danimarca. Mentre le casseruole con manico a testa di cigno sono frequentissime in Boemia (regno marcomanno del re Marbod), il centro di diffusione delle prime (ed anche delle più tarde) casseruole ad imboccatura rotonda è senza alcun dubbio la Danimarca. Entrambi i tipi provengono sicuramente dalle botteghe di Capua. Però le casseruole con manico a testa di cigno giungevano in Boemia passando per Aquileia e Carnuntum, una piccola quantità veniva smerciata nelle regioni centrali della Germania settentrionale, ma nessun esemplare giunse fino in Danimarca. Le più antiche casseruole ad imboccatura rotonda, cfr. n. 139, passavano probabilmente per Marsiglia, risalivano il Rodano e scendevano lungo il Reno e attraverso il Mar Baltico giungevano in Danimarca. Quelle più tarde con il fondo ed il manico fortemente aggettanti, spesso con le marche di fabbrica campane p.cipi. polybi e l. ansi. epaphrodit, compaiono nelle tombe databili tra il 50 ed il 150 d. C. e sono inoltre testimoniate nei rinvenimenti del castello di Hofheim (42-60 d. C.) e a Pompei (79 d. C.). Le casseruole ad imboccatura trilobata sono molto più rare. Spesse volte hanno le stesse marche di fabbrica del gruppo precedente e provengono con ogni probabilità da Capua.

Di tipo completamente diverso, probabilmente ispirato dalle forme dei vasi d'argento (dal momento che questi esemplari non sono d'argento essi stessi), sono le casseruole con manico decorato a rilievo, cfr. n. 151, da Debe in Polonia. Un esemplare del tutto identico è stato rinvenuto nel castello di Haltern di età augustea. Le casseruole di bronzo con manico a testa di ariete (per esempio quella di Rondsen nella Prussia occidentale) erano probabilmente adibite più ad usi cultuali che profani. Proprio al loro carattere cultuale è dovuto che questi vasi siano stati rinvenuti nella Germania oltre il limes esclusivamente in tombe della prima età imperiale (0-150 d. C.), datazione convalidata dai rinvenimenti da Haltern in Westfalia (fino al 9 d. C.) e di Pompei (fino al 79 d. C.), e che, d'altro canto, il tipo conservi inalterate le sue caratteristiche fino al III e al IV sec. nei rinvenimenti delle province romane. Un esemplare completamente a sè stante è la casseruola decorata con smalti policromi, n. 156, rinvenuta nella fontana di Pyrmont in Westfalia. Assieme ad altri vasi smaltati fa parte di un gruppo eseguito in una speciale tecnica, originaria della Britannia romana.

7. Ramaioli di bronzo con colatoio. - Il fatto che tanto nelle tombe germaniche che nei depositi di vasellame di bronzo delle province romane si siano rinvenute spesso coppie di vasi di cui l'uno rientra perfettamente nell'altro, il ramaiolo con il colatoio, si deve ad un modo di bere in uso presso i Romani. La forma più antica è rappresentata da ramaioli e colatoi con manico a forma di remo decorati con un motivo a volute, cfr. n. 159, da Hagenow nel Mecklemburg, che compaiono appena nelle tombe più antiche dell'età imperiale; ma due esemplari, conservati in ottimo stato e che combaciano ancora messi l'uno nell'altro, sono stati rinvenuti nelle macerie del quartiere degli ufficiali, distrutto da un incendio, del castello di Haltern in Westfalia ed è stato perciò possibile datarli esattamente all'anno 9 d. C. Da questi tipi più antichi, in cui anche il manico è decorato, si sviluppano quelle forme semplici che predominano negli ultimi decennî della prima età imperiale ed in cui la decorazione si limita ad un motivo a reticolato. Quasi insensibilmente questi ramaioli e questi colatoi si sviluppano fino ad assumere la forma dell'esemplare del n. 161 proveniente da Leuna in Sassonia. Sono sempre a fondo piatto, di dimensioni estremamente piccole o eccessivamente grandi e sono delle forme tipiche della tarda età imperiale. Sono stati spesso rinvenuti assieme a secchi del tipo di Hemmoor nelle tombe della Germania oltre il limes e nei depositi di vasellame di bronzo del III sec. delle province romane occidentali. Di tipo completamente diverso sono i ramaioli dal manico sottile forniti di colatoio. Questi non sono ancora testimoniati nelle tombe germaniche dell'inizio dell'età imperiale (0-50 d. C.), ma diventano una delle forme ricorrenti nella successiva fase della prima età imperiale (50-150 d. C.). Mancano perciò nel castello di Haltern in Westfalia, compaiono per la prima volta nel castello di Hofheim in Assia (42-60 d. C.) e sono testimoniati anche a Pompei (79 d. C.). Nessun esemplare di questo tipo, evidentemente passato di moda fin dalla metà del II sec., è stato rinvenuto nelle tombe della tarda età imperiale.

8. Vasi d'argento (v. anche toreutica). - I grandi vasi d'argento del famoso tesoro di Hildesheim (v.) non saranno trattati in questa sede. Infatti il tesoro, che rappresenta indubbiamente il più importante rinvenimento dell'età imperiale, non presenta alcun nesso con la coeva civiltà germanica e rientra perciò quasi esclusivamente nell'ambito dell'archeologia classica. Non ci occuperemo neppure di quei vasi d'argento il cui sviluppo si riconnette ai tipi già trattati di vasi di bronzo, dai quali essi si distinguono esclusivamente per la preziosità del materiale e la ricchezza della decorazione: ci riferiamo al cratere celtico d'argento di Gundestrup che rientra nel gruppo dei crateri di bronzo con il labbro di ferro; alla catinella d'argento di Straze in Slovacchia che, come tipo, è strettamente connessa con le catinelle di bronzo a pareti dritte; al piatto d'argento di Hassleben affine ai piatti di bronzo ed infine alle casseruole con manico decorato a rilievo, cfr. n. 151, che, come abbiamo già accennato, sono spesso d'argento. Ci occuperemo invece delle coppe d'argento usate per bere, rinvenute assai di frequente, e quasi sempre a coppie, nelle tombe principesche germaniche sia della prima che della tarda età imperiale. È significativo sopratutto che nessuna di queste coppe d'argento appartenga ad un tipo eseguito in serie. Contrariamente ai vasi di bronzo, che venivano invece prodotti in serie nelle fabbriche o nelle botteghe artigiane romane, ogni coppa d'argento è una creazione originale di un argentiere.

Ciò va detto particolarmente per le due coppe d'argento di Hoby nel Laaland con la firma dell'artista (in lettere greche e latine: cheirisophos epoi) e decorate con scene a rilievo in cui sono raffigurati episodî dell'Iliade di Omero. Queste bellissime coppe sono la migliore testimonianza della rinascita dell'arte greca del V sec. a. C. in età augustea. Va invece datata al III sec. la coppa d'argento di Ozstropataka in Slovacchia, n. 169, anch'essa decorata a rilievo ma dalla forma meno elegante. Questi due esemplari andranno dunque posti l'uno all'inizio e l'altro alla fine di una lunga linea di sviluppo di cui però non conosciamo ancora le forme intermedie? Allo stesso periodo della tazza di Hoby, ossia alla prima metà del I sec., vanno datate le coppe d'argento del tipo n. 170 provenienti da Lübsow in Pomerania. La coppa liscia, ornata soltanto sotto l'orlo da un motivo ornamentale fitomorfo dorato, è notevole esclusivamente per la sua sagoma elegante. Questo tipo presenta anche una ulteriore fase di sviluppo: in un'altra tomba di Lübsow che potrebbe essere datata tra il 50 e il 150 d. C. sono state rinvenute due coppe d'argento affini, di forma meno elegante ed eseguite con una diversa tecnica, certamente di produzione germanica. Si deve dunque localizzare a Lübsow, dove risiedeva una corte principesca - finora a Lübsow sono state rinvenute ben sette tombe principesche distribuite in un periodo di 150 anni - la prima bottega d'oreficeria della Germania oltre il limes? Dalla coppa di Lübsow n. 170 si sviluppa invece in età più recente il tipo della coppa d'argento di Varpelev nello Själland, Danimarca, n. 172. Questa coppa è letteralmente ricoperta da una ricca decorazione ornamentale eseguita a traforo che richiese ovviamente un rivestimento interno di vetro azzurro perché la si potesse usare per bere. Di tipo completamente diverso sono le due coppe d'argento di Byrsted nello Jutland, Danimarca, n. 173. Il corpo del vaso è più snello e dalle curve slanciate, il piede è più basso di quello delle coppe già descritte, la decorazione più ricca di quella degli esemplari di Lübsow; sono state rinvenute in una tomba della prima età imperiale. Alla tarda età imperiale, e precisamente alla fine del III sec., vanno invece datate le due coppe d'argento di Leuna in Sassonia. La grande affinità tra i motivi decorativi impressi nella sottile parete vascolare e quelli incisi nelle tazze di vetro del tipo 222 rinvenute nella medesima tomba di Leuna avrebbe potuto inizialmente far pensare ad imitazioni germaniche indigene, come per le coppe di Lübsow. Ma l'ipotesi è invalidata dal fatto che in un grande tesoro d'argenterie del III sec. rinvenuto in Inghilterra, oltre ad una grande quantità di vasi d'argento certamente romani, compare anche una piccola ciotola d'argento del tipo di Leuna. Se ne deduce che all'occasione anche nell'ambito delle province romane si eseguivano copie in argento di tipi vascolari di vetro.

9. Vasi di vetro (v. anche vetro). - Anche i vasi di vetro rinvenuti nelle tombe germaniche erano in gran parte usati per bere e, come le coppe d'argento, si trovano spesso in coppie.

I più antichi sono le tazze azzurre scanalate, in parte marezzate d'un azzurro cupo e di bianco (per esempio quelle di Espe in Fionia, Danimarca) e le tazze di un color cilestrino, cfr. n. 182, da Lübsow in Pomerania. Queste tazze di vetro che si trovano nelle tombe della prima età imperiale (0-50 d. C.) compaiono anche nel castello di Haltern in Westfalia di età Augustea (fino al 9 d. C.). Le coppe del periodo successivo (per esempio quelle di Storedal in Norvegia) sono sempre di color cilestrino ma di forme meno rigide, leggermente più alte e dai contorni più morbidi. Sono state rinvenute in tombe leggermente più recenti della prima età imperiale, databili cioè fra il 50 ed il 150 d. C. Gli esemplari più antichi di questo tipo si trovano nel castello di Hofheim in Assia (42-60 d. C.). Circa allo stesso periodo si possono datare le scodelle di vetro azzurro e bianco, cfr. n. 184, da Juellinge nel Laaland, Danimarca. Anche questo tipo trova paralleli fra gli esemplari rinvenuti nel castello di Hofheim.

Alla fase successiva della prima età imperiale, forse al 100-150 d. C. si possono far risalire le coppe di vetro incolore alte e sfaccettate, cfr. n. 185, da Sojvide nel Gotland. Frammenti di coppe simili sono stati rinvenuti fra l'altro nella famosa magula di Vindonissa (= Brugg, Svizzera) negli strati databili al 100 d. C. circa o più tardi, mentre a Pompei sono testimoniate esclusivamente le forme più antiche di questo tipo. Identiche per forma, ma con scene dipinte a colori (lotte di gladiatori) in luogo della sfaccettatura ornamentale, sono le coppe dipinte di Lübsow in Pomerania. Vetri di questo tipo mancano in Occidente mentre circa trent'anni fa se ne sono rinvenuti nel lontano Oriente: a Begram (v.) nell'Afghanistan, parte di un tesoro reale assieme ad oggetti di scavo del I-III secolo. Questi vetri sono importantissimi per la località remota in cui sono venuti alla luce (v. più avanti, B, v, a).

Un po' più tardi, nella fase di transizione fra la prima e la tarda età imperiale, vanno datate le coppe di vetro incolore, dalla forma più bassa e più larga con incisi motivi ovali ognuno a sè stante (per esempio quelle di Stenlille nello Själland, Danimarca). Pressappoco coeve sono le coppe di vetro incolore affini per forma, ma decorate con filamenti di vetro applicati (da Bügen in Pomerania).

Ancora più tardi e caratteristici della prima fase della tarda età imperiale sono i vetri a serpentina con applicati filamenti color bianco latte e azzurro chiaro (per esempio quelli di Nordrup nello Själland, Danimarca, v. vetro). Strettamente affini sono alcune varianti decorate con filamenti disposti verticalmente o a rete, scanalati obliquamente o anche completamente privi di decorazione. Ad una fase più recente della tarda età imperiale appartengono scodelle di vetro di diverso tipo: ad esempio diatreta (da Arnswalde, Marca del Brandemburgo), tazze con fondo scanalato, cfr. n. 203 da Lundergaard nello Jutland, Danimarca.

Sia alla prima che alla seconda fase della tarda età imperiale vanno datate le coppe a piede dipinte, di forma cilindrica, cfr. n. 209 da Nordrup nello Själland, Danimarca. Frammenti di questo tipo di coppe a piede dipinte sono stati rinvenuti tra l'altro nel castello del limes di Saalburg (90-260 d. C.) e nel castello di Corbridge (195-410 d. C. circa) lungo il cosiddetto "secondo" vallo di Adriano nell'Inghilterra settentrionale.

Si limitano alla fase più recente della tarda età imperiale i rinvenimenti di tazze di vetro incolore decorate ad incisione con motivi ovali o altri motivi lineari (per esempio quelle di Häven nel Mecklemburg, di Hassleben in Turingia e quelle n. 222 da Leuna in Sassonia). Rappresentano una variante del tipo le tazze di vetro dalle pareti massicce di color rubino con incisi motivi ovali, provenienti da Sackrau in Slesia. Dalla stessa Sackrau provengono anche due tazze "millefiori" che, sulla base di rinvenimenti datati della romana Colonia, si possono far risalire al 300 d. C. circa. Citeremo infine le coppe di vetro a forma di corno, fra cui quelle n. 246 di Österhvarf in Svezia, decorate con filamenti di vetro azzurro chiaro e bianco latte, che presentano strette affinità con i vetri a serpentina e che, come questi, sono state rinvenute in una tomba dell'ultima fase della tarda età imperiale, databile cioè tra il 150 ed il 200 d. C.

10. Vasi di terra sigillata. - Per questa categoria si rimanda all'ampio articolo speciale (v. terra sigillata); ma abbiamo già premesso che soltanto raramente si rinvengono nelle tombe vasi di terra sigillata e i pochi che vengono alla luce sono esclusivamente di due tipi: quello del n. 251 (= Dragendorff 31) di Gross-Grünow in Pomerania e quello del n. 252 (= Dragendorff 37) di Vallöby nello Själland, Danimarca. Il tipo del n. 251 è stato rinvenuto anche in una tomba della prima età imperiale; quello del n. 252 è testimoniato in una tomba della tarda età imperiale.

11. Fibule romane (v. anche fibula). - A paragone dell'enorme numero di fibule germaniche, quelle romane sono relativamente poche: sono a mala pena 200. Ci atterremo in quanto segue allo studio dell'Almgren (v. bibl.).

Cronologicamente il tipo più antico è quello della fibula alata norico-pannonica n. 253 (= Almgren, fig. 238). Del pari norico-pannoniche sono le fibule n. 254 e n. 255 (= Almgren, fig. 230-37). Appartengono tutte ad una delle prime fasi della prima età imperiale. Altrettanto antiche, ma testimoniate principalmente nella Renania, sono le fibule n. 256 (= Almgren, fig. 239) e n. 257 (= Almgren, fig. 240), le cosiddette fibule a cardo (Diestelfibeln). Le più diffuse però sono le fibule di cui al n. 258 (= Almgren, fig. 242). Poiché a volte recano il marchio di fabbrica avcissa sono conosciute anche con tal indicazione (Aucissafibeln).

Ad una fase tarda della prima età imperiale, probabilmente alla prima metà del II sec., va datato l'esemplare del n. 259, un tipo che l'Almgren non conosceva. Questa fibula ad arco intarsiata di smalti rossi e verdi è nota anzitutto dal rinvenimento delle paludi danesi di Vester-Mellerup. Il tipo è testimoniato però anche nel castello del limes di Zugmantel.

Più rara nella Germania oltre il limes (compare principalmente nella Prussia orientale) è la fibula a tenaglia, per esempio quella del n. 260 (= Almgren, fig. 244).

Forma tipica della tarda età imperiale, particolarmente del IV sec., è la fibula a testa di cipolla, per lo più di bronzo, ma in singoli casi anche d'oro, n. 261 (= Almgren, fig. 191).

Largamente diffuse nelle province romane sono oltre alle fibule ad arco le fibule a piastra, spesso intarsiate di smalti policromi. Delle numerose varianti riproduciamo qui soltanto due esemplari: una fibula a piastra rotonda n. 262 (= Almgren, fig. 222) ed una fibula a piastra smaltata a forma di lepre, n. 263 (= Almgren, fig. 222 a).

12. Statuette. - Le statuette romane sono relativamente frequenti nella Germania oltre il limes. A dir il vero, contrariamente alla maggior parte delle suppellettili trattate finora, non compaiono mai nelle tombe. Si tratta principalmente di rinvenimenti isolati fatti nelle paludi e - per un gruppo particolarmente importante - nei Wurten o Terpen (v.) olandesi. Di qui proviene la metà delle statuette della Germania oltre il limes finora note.

13. Tavoli pieghevoli. - I tavoli pieghevoli di bronzo romani vanno annoverati fra le suppellettili antiche di maggiori dimensioni rinvenute nella Germania oltre il limes. Possediamo fino ad oggi solo tre esemplari che provengono dalle tombe principesche della tarda età imperiale e precisamente uno da Ozstropataka in Slovacchia, un altro da Straze in Slovacchia ed il terzo da Sackrau in Slesia. Tavolini pieghevoli di questo tipo sono stati rinvenuti in Pannonia nelle tombe tardo-celtiche con carri del II secolo. Si può dunque avanzare l'ipotesi che i principi germanici, presumibilmente Vandali, del III sec., abbiano ripreso quest'usanza funeraria dalla Pannonia.

14. Armi romane. - Come già è stato constatato per le fibule, così anche le armi romane compaiono soltanto in quantità relativamente modesta a paragone delle migliaia di armi germaniche. Ci sono noti spade, pugnali, pila, elmi e corazze a maglia.

15. Oggetti varî. - Oltre ai gruppi citati esiste naturalmente una quantità di altri oggetti che vennero esportati nel N. Ma ciascuno di questi gruppi è rappresentato da un numero talmente esiguo di esemplari da non poter essere in alcun modo paragonato a quelli finora da noi trattati. Va fatta eccezione soltanto per le monete e per i vaghi di collana. Quanto alle monete non riteniamo opportuno trattarle perché rispetto a quelle, numerosissime, rinvenute nell'Impero romano non rappresentano alcun tipo nuovo; né ci occuperemo dei vaghi perché a prescindere dai numerosi studi specifici non esiste per ora una raccolta completa del materiale vastissimo e certamente di notevole importanza rinvenuto nella Germania oltre il limes.

Bibl.: Le opere più importanti sull'esportazione romana nelle regioni nordiche sono: C. F. Wiberg, Der Einfluss der klassischen Völker auf den Norden durch den Handelsverkehr, Amburgo 1867 (oggi completamente superata, ma degna d'essere ricordata perché rapprsenta il primo tentativo di trattare per esteso il tema "esportazione"); H. Willers, Die römischen Bronzeeimer von Hemmoor, Hannover 1901; id., Neue Untersuchungen über römische Bronze-Industrie in Capua und in Niedergermanien, Hannover 1905. (Le due opere del Willes sono fondamentali per gli studî archeologici moderni e sono tuttora valide); H. J. Eggers, Das römische Einfuhrgut im freien Germanien, in VI. Intern. Kongress für Archaeologie, Berlino 1939, p. 569 ss.; id., Der römische Import im Freien Germanien, Amburgo 1951. (È il primo inventario generale completo di tutti i rinvenimenti romani ad eccezione delle monete e dei vaghi di collana. È la principale fonte del presente articolo, di cui si è adottata anche la numerazione dei tipi. Ivi si trovano citati anche gli altri importanti studî di G. Ekholm; H. Norling-Christensen, e J. Werner, che perciò ci esimiamo di ripetere in questa sede); H. J. Eggers, Zur absoluten Chronologie der römischen Kaiserzeit im Freien Germanien, in Jahrbuch des Römisch-Germanischen Zentralmuseums, 2, 1955, pp. 196-244 (con tutta la bibl. precedente riguardo a questo tema e la relativa critica); S. Bolin, Fynden av romerska mynt i det fria Germanien, Lund 1926 (Rinvenimenti di monete romane nella Germania libera); British Museum Catalogue of Silver Plates, fig. 159. L'opera del Dragendorff nei Bonnre Jahrbücher, 96-97, (1895), p. 18 ss. con le tavole dei varî tipi è fondamentale per lo studio dei vasi di terra. s. (v.) in genere. Una panoramica sui ritrovamenti di vasi di t. s. si trova in D. Selling, Terra sigillata fynd i det fria Germania, in Kulturhistor. studien tillägn. N. Aberg, Stoccolma 1938, p. 101 ss. - Lo studio complessivo esistente sulle forme di fibule romane testimoniate nella Germania oltre il limes; è O. Almgren: Nordeuropäische Fibelformen, Lipsia 1923, p. 99 ss. e p. 106 ss. (età imperiale).

(H. J. Eggers)

B) Paesi extra-europei. - I rapporti commerciali. - In questi ultimi anni, l'impulso costante dovuto alle nuove scoperte archeologiche, a più approfonditi studî sintetici e a un più completo studio delle fonti antiche ha modificato notevolmente il concetto tradizionale di "mondo romano". Ad una concezione basata sulla pretesa monoliticità e impenetrabilità dell'Impero, se ne è andata a poco a poco sostituendo un'altra, che tende invece a metterne in evidenza proprio i caratteri di estrema differenziazione interna, la potenziale eccentricità, se non politica, per lo meno economica e culturale.

Dal punto di vista economico, ad esempio, si è messo in evidenza come, mentre nella fase tardo-repubblicana l'artigianato e il commercio italico avevano esercitato nel Mediterraneo, e anche al di fuori di esso, una funzione di prim'ordine, a partire dalla prima età imperiale, invece, e con moto sempre più accelerato, la penisola italica era stata definitivamente tagliata fuori da ogni attività industriale, per divenire semplicemente il centro politico, e del tutto parassitario, dell'Impero. L'attività artigianale, lo smercio dei prodotti lavorati, diverranno un fatto puramente provinciale, che tenderà ad estendersi sempre più, a cercare materie prime e mercati sempre più lontani, spesso senza che si tenga il minimo conto dei confini politici dell'Impero; e questo, specialmente nella zona più aperta, per tradizione antichissima, a scambi e rapporti di ogni genere, cioè nella parte orientale del mondo romano.

È notevole comunque che questo commercio "al di là dei confini" non presenti caratteri di sostanziale differenziazione ad E e ad O. Si può anzi affermare che, fondamentalmente, e tranne rare eccezioni, le province dell'Impero importano materie prime dai territori al di là del limes, ed esportano prodotti finiti; ma la bilancia commerciale dovette comunque essere sempre sfavorevole all'Impero, e il volume delle importazioni superare largamente quello delle esportazioni: la differenza era in genere colmata col pagamento in moneta d'argento o d'oro. In questo le fonti letterarie e i ritrovamenti archeologici coincidono perfettamente: Plinio lamenta infatti, in due passi famosi, che ogni anno almeno 100 milioni di sesterzi venivano assorbiti dal solo commercio con l'India, con gli Arabi e coi Seres (Nat. hist., vi, 26; xii, 41), mentre Tacito (Ann., iii, 53) cita un discorso di Tiberio in cui l'imperatore si preoccupa di "illa feminarum propria, quis lapidum causa pecuniae nostrae ad externas aut hostilis gentes transferuntur". Tutto questo è confermato dal ritrovamento di decine di migliaia di monete, per lo più d'oro, oltre i confini dell'Impero.

Le regioni più interessate a questo commercio erano l'Africa centro-orientale, l'Arabia meridionale, l'India e la Cina (quest'ultima indirettamente, attraverso il Turkestan cinese e l'India stessa). I prodotti più importanti che da queste regioni venivano esportati erano, rispettivamente, l'avorio, gli aromi, le spezie e la seta.

Questi rapporti avvenivano per la duplice via marittima del Mar Eritreo: da una parte, attraverso i porti del Golfo Persico (soprattutto Spasinu Charax) e le grandi città carovaniere (Dura, Petra, Palmira), per sboccare infine nel Mediterraneo ai centri siriaci e fenici; dall'altra, per i porti del Mar Rosso (Berenice, Myos Hormos) e la via che, partendo da essi, attraverso Koptos e il Nilo, giungeva fino ad Alessandria. L'altra grande via di terra che, prendendo origine dalle città della Siria, traversava tutto l'impero parthico da un capo all'altro, per raggiungere infine, dopo essersi bipartita all'altezza di Bactra, il Turkestan cinese da un lato e l'India nord-occidentale dall'altro, la tradizionale "via della seta" insomma, aveva in quel momento, probabilmente, scarsissima importanza. Il fatto che non si abbia notizia di ritrovamenti di oggetti romani lungo di essa, e specialmente nella parte centrale, potrebbe in sé non essere determinante, se non ci fosse l'illuminante accenno delle cronache cinesi alla decisa ostilità dei Parthi nei confronti di ogni tentativo di stabilire dei rapporti diretti tra Cina ed Impero romano, ostilità dovuta al desiderio di mantenere il monopolio del commercio della seta. Una certa importanza dovette rivestire invece per l'Impero la via settentrionale, che, attraverso la penisola balcanica, la Russia meridionale e l'Asia centrale, giungeva nella parte settentrionale dell'impero cinese, aggirando dal N tutto il territorio parthico.

Tutti gli sforzi degli imperatori romani furono quindi diretti a potenziare al massimo la via marittima meridionale, creando una catena continua di porti ufficiali (ἑμπόρια νόμιμα), sotto il diretto controllo, per quanto possibile, dell'autorità romana. Si inserisce perfettamente in questo quadro il distaccamento di una guarnigione romana a Leukè Kome, sulla costa araba del Mar Rosso, ricordato nel Periplo del Mare Eritreo, e la costituzione di una flotta del Mar Rosso a protezione dei mercanti, dovuta probabilmente a Traiano (notizia che è riportata da Eutropio, viii, 2, e dal Chronicon di San Gerolamo, ediz. Helm, vii, 1, con le stesse parole; Plinio, invece, accenna solo ad arcieri che venivano imbarcati sulle navi da carico). Assai plausibile appare anche l'ipotesi che a questa stessa flotta sia dovuta la distruzione di Arabia Felix (Aden), ricordata dal Periplo, e a torto ritenuta mitica ed incredibile da alcuni studiosi, mentre collima perfettamente con tutto quanto sappiamo circa la volontà e la necessità per i Romani di mantenere integralmente il controllo dell'unica via commerciale rimasta aperta per essi verso l'Estremo Oriente. Aden infatti rappresentava, a detta dello stesso Periplo, una pericolosa intermediaria tra India e Impero romano, capace di concentrare un volume di traffici notevole, e tale comunque da nuocere alla stessa Alessandria.

Si inserisce a questo punto il problema della cronologia del Periplo del Mare Eritreo, che costituisce la chiave di qualsiasi studio relativo ai rapporti tra l'Egitto e l'Estremo Oriente. Si tratta di una specie di manuale, compilato ad uso dei marinai e commercianti del Mar Rosso, probabilmente da un mercante alessandrino. Sono citati in esso, con le distanze che li separano, i principali emporî del Mar Rosso e dell'Oceano Indiano, le date migliori per il viaggio, le merci che possono essere vantaggiosamente esportate e importate, brevi notizie relative alla posizione dei porti, alle correnti, venti, maree, ecc. Le datazioni che si sono proposte sono comprese, generalmente, tra il 50 e il 90 d. C., ma alcuni recenti studi (del Paimer e della Pirenne) hanno dimostrato l'insostenibilità di questa cronologia. Assai più probabile parrebbe una datazione nel corso del II o nella prima metà del III secolo.

Se, sulla scorta di questo testo prezioso, si segue il percorso delle navi da carico lungo le rotte dell'Africa, dell'Arabia meridionale e dell'India, si può notare come, nei luoghi da esso indicati, ove si siano effettuati degli scavi regolari, o anche solo scoperte fortuite, le notizie ne siano confermate punto per punto.

Dal punto di vista della provenienza di questi trovamenti, va notato come, almeno dal I alla metà del III sec. d. C., risulti evidente una netta prevalenza del commercio egiziano. Anche se, a partire almeno dall'età di Adriano, si manifesta una massiccia ingerenza di elementi palmireni anche nel Mar Rosso (che diverrà più forte, naturalmente, nel III sec.). Questi ultimi non ebbero mai altra funzione, probabilmente, che di semplici intermediari, e si limitarono per lo più ad esportare prodotti fabbricati in Siria o in Egitto, come appare anche evidente dalla cosiddetta "tariffa palmirena".

Una eclissi temporanea si manifesta in questi rapporti commerciali nella seconda metà del III sec., dovuta alla contemporanea crisi dell'Egitto e dell'impero Kusana, disfatto quest'ultimo dalla nascente potenza sassanide, come appare anche dalla mancanza di monete romane in India tra Decio (249-251) e Diocleziano (moneta del 305); una ripresa successiva, iniziatasi appunto con questo ultimo imperatore e, soprattutto, con Costantino, è ugualmente testimoniata dalle fonti e dai ritrovamenti monetali, ma sembra dirigersi su nuove vie, e aprire contatti marittimi con la Cina passando da S (come tendono a dimostrare i trovamenti di Ceylon). Anche questa possibilità sarà comunque definitivamente preclusa dalla conquista sassanide dell'Egitto e dell'Arabia meridionale, avvenuta nel corso del VI sec., e dalla successiva sostituzione della potenza araba a quella sassanide, con la quale inizia il totale distacco medievale dell'Europa dal mondo estremo e medio orientale.

I. - Africa settentrionale. - Possiamo dividere i ritrovamenti di oggetti romani al di là del limes africano in due gruppi distinti: quello relativo alla fascia costiera orientale, e quello della zona più occidentale (Fezzan e Sahara algerino). Il primo è naturalmente il più ricco: i ritrovamenti si spingono infatti ben più a S in questa zona, mostrando chiaramente l'esistenza di un commercio regolare, testimoniatoci abbondantemente, del resto, anche dalle fonti antiche, dal Periplo a Tolomeo, a Cosma Indicopleuste.

Rapporti relativamente frequenti, per carovaniera, tra l'Egitto e la capitale della Nubia, Meroe, sono testimoniati fin da epoca faraonica. In epoca romana essi dovettero continuare con non minore intensità, come è testimoniato dai vecchi e nuovi ritrovamenti nelle necropoli di Meroe e della Nubia. Ma il commercio di gran lunga più intenso è quello che si svolge per mare. Il Periplo riporta un elenco di porti lungo le coste africane del Mar Rosso e dell'Oceano Indiano, dei quali solo alcuni sono identificabili con sicurezza. Come del tutto privo di importanza è descritto il porto di Tolemaide delle fiere, sbocco di Meroe sul Mar Rosso, fiorente invece sotto i Tolomei, mentre assai frequentato è quello di Adulis, in rapporto diretto con Aksum, posto 3000 stadi, circa 475 km, più a S. Secondo il Periplo, l'importanza di Adulis era dovuta alla sua qualità di centro di raccolta di tutto l'avorio "d'oltre Nilo" (v. adule). Sono poi descritti numerosi altri emporî, posti sulle coste della Somalia. Anche se alcune di queste località sono identificate, nessuna è stata sottoposta a scavi sistematici. Unico trovamento di un certo interesse è quello, molto meridionale, fatto a Port Durnford (Bur Gao), al limite S della Somalia.

1) Hoggar (Sahara algerino). - A circa 1600 km a S di Algeri, non lungi dall'oasi di Abalessa, entro un edificio posto su una collina alla confluenza di due ued, sono apparsi degli oggetti di sicura origine romana. L'edificio, probabilmente un forte, o meglio, una specie di fondaco di commercio fortificato, fu scavato in due riprese (nel 1926 e nel 1933) ed ha rivelato in una delle sue stanze l'esistenza di una tomba; un letto in legno scolpito (di cui sussistevano parecchi frammenti all'atto della scoperta) aveva sostenuto il corpo di una donna bianca, di alta statura, adornata di braccialetti d'oro e d'argento e di collane di pietre dure e di vetro. Questa scoperta conferma alcune leggende tuareg, tramandate oralmente, e che attribuivano la tomba ad una regina detta Tin-Hinan, che sarebbe venuta da un paese straniero. I trovamenti di origine romana sono:

a) impronte di monete di Costantino, trovate entro una ciotola di legno;

b) una lampada romana con rappresentazione della Vittoria che scrive sullo scudo, e frammenti di un'altra;

c) frammenti di vetro incisi a quadrati e circoli, di un tipo databile al IV sec. d. C.

La sepoltura, che ci ha restituito il complesso di oggetti romani trovato più a S in Africa (ad eccezione della costa orientale), va quindi datata, con tutta probabilità, al IV sec. d. C. Questa data coincide, del resto, con il periodo di massima penetrazione del commercio romano nel Sahara, come è testimoniato anche dai ritrovamenti del Fezzan.

2) Fezzan. - A circa 750 km in linea d'aria a S di Leptis Magna, la missione Pace-Sergi-Caputo ha esplorato, negli anni 1933-34, un complesso di tombe, posto nelle vicinanze di Germa, forse l'antica Garama, capitale dei Garamanti (Plin., Nat. hist., v, 36). L'interesse degli archeologi fu attirato dapprima dal noto mausoleo di Geirta, monumento di un tipo definibile genericamente come ellenistico-romano, e del tutto eccezionale in una località posta così a S. Che non si tratti di un edificio costruito per servire da tomba a qualche personalità locale lo ha dimostrato lo scavo, che ha riportato alla luce alcune anfore romane riadoperate come cinerarî, in una zona dove altrimenti è diffusa esclusivamente l'inumazione. Oltre alle anfore, sono apparsi dei frammenti di lucerne, databili al I o all'inizio del II sec. d. C., dei piedi appartenenti ad una statua fittile femminile, frammenti di ceramica sigillata, di cui uno della fabbrica di Rasinius Pisanus, attivo sotto i Flavî, oltre a numerosi frammenti di vasi di vetro, alcuni dei quali appartenenti a coppe costolate, databili al I sec. d. C. Potrebbe trattarsi dunque, come si è supposto, della tomba di alcuni mercanti romani, attribuibile alla fine del I o agli inizi del II sec. d. C.

In un sacello con cella funeraria, a S del mausoleo, sono state rinvenute alcune anfore romane, un coperchio in gesso per una di esse e una coppa vitrea costolata del I sec. d. C., che fornisce un prezioso elemento di datazione. In una vasta necropoli accanto al mausoleo, solo parzialmente esplorata; sono apparse inoltre altre anfore romane, un frammento di un grande cratere e un vaso ovoidale di terra sigillata, due lucerne col marchio di ivni[vs] alexi[vs], probabilmente del II sec., oltre a numerosi frammenti di vasi di vetro.

A circa 5 km ad E del mausoleo fu scavato un complesso di tombe monumentali, che hanno restituito anch'esse degli oggetti provenienti dal mondo romano, ma di epoca più avanzata. Si tratta, fondamentalmente, oltre che delle solite anfore e di qualche oggetto minore, di un notevole insieme di vetri: una bottiglia cilindrica con ansa, decorata con quadrati incisi, al centro dei quali sono dei grossi punti; due bicchieri conici di color verde, ornati con grappoli di punti blu a smalto; un coperchio o coppa con lettere greche tagliate alla ruota; un altro bicchiere conico di colore verdastro; numerosi altri frammenti di piatti e coppe vitree con decorazioni incise o tagliate alla ruota. Tutti questi oggetti vanno datati con tutta probabilità nel corso del IV sec. d. C. Ma il ritrovamento forse più interessante è stato fatto nella necropoli di Gat, posta a circa 330 km a S-O di Germa, nel punto più meridionale toccato dalla missione. Qui, tra altri vetri, fra i quali due di forma ovoidale con rientranze "a marsupio", è apparso un bicchiere dipinto a smalto, di un tipo finora del tutto sconosciuto, ma che dalla forma può essere datato nel corso del IV sec. d. C., e attribuibile con tutta probabilità, data la tecnica, a fabbrica alessandrina.

Buona parte di questi ritrovamenti sono conservati nell'ex Museo Coloniale di Roma (attuale Museo Africano).

Un altro trovamento di un certo interesse è quello avvenuto a 6 miglia ad O di Miniah, nel Sahara libico, durante la costruzione della ferrovia fra questa località e l'oasi di Baharieh, durante la guerra 1914-18. Sono apparse 29 monete, di cui 20 romane. La più antica è un esemplare di Tolomeo III (246-221), le più recenti sono di Giustino II ed Eraclio. Nove appartengono alla zecca di Alessandria. Insieme alle monete sono apparse delle lucerne di terracotta, una delle quali modellata a testa di satiro, probabilmente egiziane.

II. - Africa orientale. - 1) Nubia. - I ritrovamenti di oggetti romani nelle necropoli nubiane sono molto frequenti. Fra questi rivestono una grande importanza soprattutto quelli di Meroe. Già negli scavi ivi compiuti nel 1834 da Giuseppe Ferlini apparvero due situle bronzee (una delle quali decorata alla base delle anse con mascheroni dionisiaci), provenienti sicuramente dall'Egitto romano, oltre a trovamenti minori. Altri oggetti della stessa origine comparvero in scavi successivi: la celebre testa di Augusto in bronzo, ora al British Museum, probabilmente frutto di quella razzia che provocò la spedizione punitiva di Petronio nel 25 a. C.; degli auloi, la cui provenienza è ritenuta alessandrina o corinzia; due teste dionisiache in bronzo, provenienti da una piramide databile al 2541 d. C., studiate recentemente dallo Chamoux; una piccola testa di Atena in bronzo; alcune lampade bronzee con protome sporgente di cavallo e di centauro, di un tipo sicuramente alessandrino; un medaglione bronzeo con rappresentazione di Atteone; una base, sempre di bronzo, con tre figure a rilievo; un vaso d'argento con la rappresentazione di una scena di giudizio (ripubblicata recentemente dal Vermeule, in Antike Kunst, vi, 1963); una gemma con la figurazione dell'Atena Parthènos; un anello con iscrizione greca; un frammento di vetro dipinto con figura di Hathar. Tutti questi ritrovamenti sono compresi tra la fine del I sec. a. C. e tutto il II d. C., e appaiono di origine egiziana (come mostrano tra l'altro le lucerne bronzee ed il frammento di vetro dipinto). Si devono aggiungere varî frammenti di anfore vinarie e di ceramica, sempre provenienti dal mondo romano. Un trovamento del tutto eccezionale, invece, è quello del rhytòn plastico firmato da Sotades, vasaio attico attivo intorno alla metà del V sec. a. C.

Tutti questi trovamenti, ed altri avvenuti più recentemente, tra i quali vanno citati altri esemplari di lucerne di bronzo e di vetri dipinti, frammenti di statue bronzee, di anfore vinarie e di ceramica invetriata, di porfido e di alabastro (particolarmente interessanti questi ultimi, che confermano la provenienza egiziana di tutto il complesso), sono pubblicati nel monumentale lavoro del Dows-Dunham, apparso recentemente.

Altri scavi eseguiti in Nubia hanno portato alla scoperta di oggetti di provenienza romana. Tra questi i più notevoli sono i seguenti:

Wad-Bau-Naga (riva sinistra del Nilo, a 130 km a N di Khartum): una trulla bronzea, una lampada di terracotta con rappresentazione di gladiatore, databile alla metà del I sec. d. C., un'anfora e frammenti di terra sigillata.

Ballana e Qustui (a 180 km in linea d'aria da Kalabsha, dove passava il limes): vasellame d'argento e di bronzo, lucerne di bronzo, vetri, databili tra il IV e il VI sec. d. C.

2) Etiopia e Somalia (v. anche sabea d'etiopia, arte). - a) Adulis: tra le merci che il Periplo cita come importate in questo emporio, sono le vetrerie, il vino e l'olio. Questi dati corrispondono a quanto ci hanno rivelato gli scavi, compiuti all'inizio del secolo da una missione italiana. Sono apparse infatti numerose anfore cordonate, di fabbricazione egiziana (come si può dedurre dal loro stesso tipo, e dai simboli dei tappi in gesso), che in origine dovevano contenere vino; abbondantissime vetrerie, che per lo più non sono purtroppo riprodotte nella pubblicazione degli scavi: alcune di esse sono così descritte (col. 458): "orlo di una tazza con grandi incavi ellittici a forma di squame"; (col. 559): "Frammenti con baccellature e costolature e reticolati a riliévo,... con grandi incavi ellittici o con minuta sfaccettatura". Ora, vasi di questo tipo sono stati trovati anche in paesi molto più ad oriente (a Begram, nel Turkestan cinese: cfr. più sotto), e debbono ritenersi di origine alessandrina.

Altri oggetti trovati ad Adulis, e di sicura provenienza egiziana, sono: una lucerna con iscrizione greca; un'ampolla di S. Mena; alcuni frammenti di porfido; i vetri millefiori; i vasi di ceramica invetriata. Vanno inoltre citate le due protomi leonine di bronzo, originariamente poste sulla porta della chiesa, databili al IV-V sec. d. C.

b) Aksum: gli scavi hanno restituito, sebbene in quantità minore, gli stessi tipi di oggetti: anfore cordonate, simili a quelle di Adulis, vetri in quantità particolarmente abbondante e ceramica invetriata d'importazione egiziana (v. aksum).

c) Port Durnford (Bur Gao: limite S della Somalia). Un capitano inglese, C. W. Haywood, scoperse ivi, nel 1912, entro un antico edificio, un tesoretto di monete di bronzo; ne facevano parte 17 esemplari tolemaici, uno di Nerone, uno di Traiano, due di Adriano, uno di Antonino Pio, uno di origine incerta, ma comunque del I-II sec. d. C., e altre 79 del IV sec., tra le quali alcune di Costantino, Costantino II e Costante. La continuità del sito è attestata dalla presenza di altre monete datate fino al XVIII secolo. Altre monete apparse in varî luoghi dell'Africa (Sudan, Etiopia, Tanganika, Madagascar, Congo ex-belga, Rhodesia, Natal, Capo), sono state catalogate e studiate dal Charlesworth, il quale mette in evidenza il fatto che la maggior parte di esse appartiene alla fine del III o al IV sec.; ciò dimostra come proprio in questo periodo i rapporti commerciali del mondo romano con l'Africa fossero più intensi, come del resto sembra risultare anche dall'esame dei trovamenti archeologici che si sono prima citati.

III. - Arabia meridionale (v. anche sudarabica, arte). - L'Arabia meridionale è sempre stata un punto di passaggio obbligato per il commercio del Mare Eritreo, e questo sia perché essa era il centro di produzione degli aromata (incenso, mirra, ecc.), che venivano largamente esportati in tutto il mondo occidentale e orientale, sia per l'importanza che aveva assunto quale centro di mediazione commerciale tra gli emporî africani e quelli dell'India. Secondo il Periplo del Mare Eritreo, Aden, prima di essere distrutta da un imperatore romano non identificato, rivestiva appunto una funzione del genere, che successivamente era passata ad Alessandria.

Mentre il commercio dell'incenso e degli altri aromata ci è descritto da Plinio (Nat. hist., xii, 63, 64) come svolgentesi per via di terra, lungo tutta la penisola arabica, fino a Petra, la descrizione del Periplo (24 ss.) ci mostra invece una prevalenza dei traffici per mare. Plinio riflette, probabilmente, fonti anteriori alla conquista romana dell'Egitto, mentre il Periplo si rifà ad una situazione molto diversa, quale poteva esser quella del II sec. d. C. È da presumere che questo cambiamento sia avvenuto gradualmente, ma esso comunque è dovuto inizialmente al notevolissimo incremento del commercio marittimo con l'India successivo alla conquista augustea dell'Egitto, quale ci è descritto da Strabone (ii, 5, 12).

a) Timna. I ritrovamenti più importanti di manufatti romani in Arabia meridionale sono quelli dovuti ad una missione della American Foundation for the Study of Man nel 1950-51 a Timna, la Thomna di Plinio, capitale dell'antico Qataban. Gli oggetti più notevoli sono: due grandi leoni in bronzo cavalcati da eroti (ritrovamento che conferma la notizia del Periplo par. 28, sulla esportazione di statue provenienti dall'Impero romano a Cana, e di lì a Sanbatha), che ricordano quelli del Serapeion di Memfi; una statuetta bronzea, forse di Hypnos; una statuetta frammentaria di Iside in alabastro; frammenti di ceramica aretina (per altri trovamenti del genere, cfr. Arikamedu, più sotto); frammenti di coppe costolate in vetro (simili ritrovamenti sempre ad Arikamedu, e poi a Taxila e a Begram) databili al I sec. d. C.; un frammento di anfora di tipo "rodio". Tranne quest'ultimo e i frammenti di aretina, tutti gli altri oggetti sono probabilmente di fabbrica egiziana (particolarmente importante per determinare la provenienza è il frammento di statuetta di Iside in alabastro).

Altro ritrovamento di grande importanza è quello avvenuto nel 1933 a S-E di Sanca, nella provincia di Chaulan. Tra gli oggetti, che parrebbero tutti di provenienza occidentale, l'unico ben conosciuto è una testa femminile bronzea, donata dall'Imam Yahya al re d'Inghilterra, e conservata ora al British Museum. Secondo il Rostovcev la testa sarebbe di provenienza siriaca o egiziana, ed andrebbe accostata a quella proveniente dalla Villa dei Pisoni, identificata con Cleopatra Thea dallo Pfuhl. Altro ritrovamento importante avvenuto in questa località è una statua maschile stante, alta 2,10 m, di cui non si hanno purtroppo fotografie leggibili, ma che è anch'essa di sicura provenienza romana.

IV. - India (v. anche indiana, arte). - Le fonti più importanti per lo studio dei rapporti commerciali tra l'Impero romano e l'India sono Plinio, il Periplo del Mare Eritreo, e Tolomeo. Il primo ci informa come da Ocelis, nell'Arabia meridionale, si navigasse vento Hippalo per quaranta giorni fino a Muziris, primum emporium Indiae (Nat. hist., vi, 26). Muziris (o Muchiri) è identificata con l'odierna Cranganore (da altri invece con Mangalore) nel Deccan, e appare anche nella Tabula Peutingeriana, che indica in essa l'esistenza di un tempio di Augusto. Il vento Hippalos citato da Plinio è il monsone: nel paragrafo 57 del Periplo è infatti spiegato come i venti etesii (cioè ancora i monsoni) avessero preso nome da un ""Ιππαλος γυβερνήτης" che per primo avrebbe scoperto la possibilità di navigare in alto mare direttamente fino all'India, servendosi appunto di tali venti. L'epoca della scoperta di Hippalos è controversa; alcuni, come il Warmington e, più recentemente, la Pirenne, hanno voluto porla non prima del regno di Claudio, sulla base della notizia di Plinio relativa al viaggio di un liberto di Annio Plocamo a Ceylon all'epoca di questo imperatore (Nat. hist., vi, 24). Ma si tratta di una tesi storicamente insostenibile, come ha ben dimostrato il Wheeler, essendo inconcepibile altrimenti un'organizzazione quale è quella, che già esisteva al tempo di Augusto, e che ci è testimoniata, tra l'altro, da un passo di Strabone già precedentemente citato (nel quale si afferma che più di 120 navi partivano al suo tempo per l'India dal porto di Myos Hormos), da altre notizie di Plinio e dai ritrovamenti archeologici avvenuti nell'India meridionale. Questi ultimi testimoniano infatti l'esistenza di un commercio diretto con l'Impero romano assai intenso proprio a partire dall'epoca di Augusto. Particolarmente interessanti, a questo riguardo, i ritrovamenti di Arikamedu-Pondichéry (ceramica aretina, anfore e vetri) e le monete romane, trovate in gran numero quasi esclusivamente nell'India meridionale, e che appartengono in grandissima maggioranza ai regni di Augusto e di Tiberio. Sembra quindi assumere un particolare valore la coincidenza del passo di Plinio (che riflette in questo caso, probabilmente, una fonte dei primi anni del I sec. d. C.), relativo alla navigazione per l'India, che è detta svolgersi con percorso diretto dall'Arabia meridionale al Deccan, con la cronologia dei ritrovamenti archeologici avvenuti in quest'ultima località.

Del tutto diversa, invece, la descrizione del Periplo. Siamo di fronte ad un commercio più capillare ed esteso, che sembra avere spostato il centro dei suoi interessi piuttosto verso l'India nord-occidentale, nell'emporio di Barbaricon, alle foce dell'Indo e, soprattutto, in quello di Barygaza. Questa discrepanza tra Plinio e il Periplo non è sfuggita al Delbrück, che però, siccome accetta la datazione del secondo nel corso del I sec. d. C., la spiega nel modo seguente: Plinio tratterebbe soltanto le grandi correnti di traffico, mentre il Periplo avrebbe descritto piuttosto il piccolo commercio basato sulla navigazione di cabotaggio. Ora, questa tesi non regge assolutamente, perché anzi è proprio dalla lettura del Periplo che si ha l'impressione dell'esistenza di traffici di grande respiro ed importanza. La cosa più probabile, invece, è che esso descriva una fase più avanzata, probabilmente quella del pieno o del tardo II secolo. Non per nulla tra le merci esportate da Barbaricon e da Barygaza è menzionata la seta (e si specifica, par. 64, che questa veniva portata da Thinis, in Cina, a Barygaza attraverso Bactra): è evidente il tentativo dei commerci romani di svincolarsi dalle pesanti remore poste dall'Impero parthico ai traffici con la Cina, desiderio questo che ispirò tanta parte della politica orientale di molti imperatori, e soprattutto di Traiano. Anche in questo caso i trovamenti archeologici confermano i dati della tradizione scritta: tanto le monete, che gli oggetti di origine occidentale trovati in Pakistan, in Afghanistan, nel Turkestan cinese (particolarmente importanti, fra tutti, quelli di Begram), mostrano di appartenere per lo più alla seconda metà del II sec. o alla prima metà del III.

Un discorso a parte va fatto invece per Ceylon. Le monete romane quivi rinvenute sono di tutt'altra epoca: tranne infatti un gruppo datato tra Nerone e Vespasiano, alcune degli Antonini e una di Aureliano, tutte le altre sono comprese tra Costantino e Onorio (morto nel 423). Tutto ciò coincide abbastanza bene con i dati delle fonti: alla quasi totale ignoranza di Ceylon dell'autore del Periplo, che invece conosce assai bene le coste dell'India meridionale, fa riscontro l'ottima conoscenza che ha invece dell'isola Cosma Indicopleuste (che vi fu verso il 525 d. C.), il quale, a sua volta, conosce male l'India meridionale (Arikamedu, infatti, sembra non essere più attiva dopo il 200). È da presumere che ciò sia in relazione con l'apertura di una nuova "via della seta", tutta marittima e meridionale, questa, dopo che l'invasione dei Sassanidi in Afghanistan, col conseguente crollo dell'impero Kusana, aveva chiuso definitivamente per i mercanti romani la possibilità di frequentare i porti dell'India nord-occidentale. In questo periodo infatti (metà del III sec.) si colloca probabilmente la distruzione di una delle principali tappe della carovaniera che da questi ultimi risaliva fino al Turkestan cinese: Begram.

a) Arikamedu-Pondichéry. I soli trovamenti di una notevole importanza che provengano da scavi regolari sono quelli, ormai celebri, avvenuti ad Arikamedu, 3 km a S di Pondichéry, antica capitale dell'India francese, sulla costa sud-orientale. Questi scavi, iniziati da archeologi francesi nel 1944, furono proseguiti dal Wheeler nel 1945 e dal Casal nel 1947-48. L'emporio così riportato alla luce è da identificare, con tutta probabilità, con la Poduke citata dal Periplo, par. 6o, e da Tolomeo. Gli oggetti di provenienza occidentale ivi scoperti sono:

a) anfore vinarie, alcune delle quali conservavano ancora resti di resina (come quelle rinvenute ad Adulis). È da notare che il Periplo cita il vino tra le mercanzie esportate in questa zona;

b) numerosi frammenti di ceramica aretina (di cui 4 coi marchi vibie; itta; camvri; c.vibi.of);

c) frammenti di vasi di vetro, tra cui una coppa costolata, databile al I sec. d. C. (altri vetri simili sono stati rinvenuti in Arabia meridionale, a Timna, a Taxila, a Begram);

d) due frammenti di lampade in terracotta;

e) inoltre, nel 1937, era stata rinvenuta casualmente una gemma, poi smarrita, che recava il ritratto di un imperatore giulio-claudio, forse Augusto. Mancano invece del tutto le monete.

b) Kolhapur. Nella parte S. della provincia di Bombay, non lungi dalla costa O, a Kolhapur, sono state rinvenute una statuetta in bronzo di Posidone e una oinochòe, pure in bronzo, che sembrano attribuibili al I sec. d. C.

c) Oltre a questi, altri ritrovamenti si sono avuti ad Akota, nello stato di Baroda, nel corso di scavi regolari (un'ansa di vaso in bronzo con la rappresentazione di un erote), a Chandravalli (un'anfora e monete tra Augusto e Tiberio), e in tombe del Monte Nīlgiri (nel distretto di Coimbatore, vasi di bronzo). Ma i trovamenti di gran lunga più abbondanti sono quelli di monete. Abbiamo già notato come la maggior parte di esse siano databili al I sec. d. C. Va aggiunto che si tratta quasi sempre di aurei o di denari, che presentano per lo più uno sfregio trasversale, destinato a metterli fuori corso, e ad impedire il loro rientro nell'area romana. Lo scopo di tesaurizzazione è quindi evidente. Un elenco completo, con carta di ripartizione geografica, ne è stato dato dal Wheeler. Da questo si ricava che, su 29 trovamenti avvenuti nell'estrema punta meridionale dell'India, almeno 20 sono tesori, che vanno da una consistenza numerica di 4-5, fino a parecchie centinaia di esemplari. Di questi 29, solo due appartengono al II sec., e quattro al III-IV (ma si tratta di esemplari isolati). Tutti gli altri trovamenti sono del I sec., con una netta prevalenza dei tipi monetali di Augusto e di Tiberio. Nella fascia immediatamente più a settentrione, le scoperte di monete sono più rare, e predominano i tipi del II secolo.

d) Per quanto riguarda Ceylon, come si è già accennato, la situazione è totalmente diversa. Predominano le monete del IV sec., fino all'inizio del V (da Costantino ad Onorio). Fanno eccezione solo tre tesoretti, nei quali appaiono rispettivamente monete di Nerone e Vespasiano, degli Antonini e di Aureliano (ma queste ultime in associazione con altre di Arcadio).

La popolarità delle monete romane in India è fra l'altro testimoniata, oltre che dai trovamenti e dalle fonti, (si veda ad esempio il già citato viaggio di Annio Plocamo, in Plinio), dalle numerose imitazioni in terracotta di conî giulio-claudi, trovate in varie località dell'India.

V. - Pakistan e Afghanistan. - Mentre l'India meridionale era ricca di prodotti, quali le spezie (pepe, cannella, ecc.), i tessuti, le perle e le pietre preziose e semipreziose, che potevano interessare il commerciante proveniente dal mondo occidentale, non altrettanto si può dire per il N-O della regione. L'Afghanistan soprattutto ha sempre avuto piuttosto il carattere di una zona di transito, di grande nodo di tutte le vie commerciali dell'Asia. È quindi comprensibile che i traffici si siano concentrati in un primo tempo piuttosto nell'India meridionale, e che solo a partire dal II sec. si noti un intensificarsi, se non un prevalere, dei rapporti commerciali con i porti della costa nord-occidentale. Questo, come abbiamo accennato, è connesso probabilmente con l'apertura di una nuova "via della seta" che, partendo dalla Cina e traversando il Turkestan cinese, giungeva fino a Baetra, deviando successivamente a S, attraverso tutto l'Afghanistan per seguire le rive dell'Indo fino alle sue foci, o, per una strada più orientale, a Barygaza (odierna Broach).

La prova più evidente di ciò ci è stata fornita dagli scavi di Begram, l'antica Kāpishī, capitale d'estate dei Kuṣāna, che costituiva una delle tappe di questa grande strada commerciale. Ivi sono stati rinvenuti, ammucchiati gli uni vicino agli altri in due grandi ambienti, oggetti provenienti dal mondo romano, lacche cinesi e avorî indiani, resti evidenti del molteplice andirivieni delle carovane che transitavano nei due sensi. Questi trovamenti assumono un valore documentario ancor più grande, ove li si confronti con quelli di Taxila: benché questa città dovesse essere anch'essa una tappa importante della stessa carovaniera, e benché essa sia stata scavata assai più ampiamente di Begram, i ritrovamenti di oggetti romani furono assai rarî, e mostrano comunque di provenire da rapporti commerciali tutt'altro che intensi e continui. Tutto ciò trova la sua spiegazione se si tiene conto del fatto che la città scavata dal Marshall (Sirkap) decadde nel corso del II sec., mentre quella successivamente ricostruita non fu mai esplorata. Questo ci mostra ad evidenza quanto fosse mutato dal I al II sec. l'andamento dei traffici nella regione. Gli oggetti romani rinvenuti a Begram, infatti, sono quasi tutti databili tra il II e la prima metà del III sec., mentre scarsi sono i trovamenti che potrebbero essere attribuibili al I sec., contrariamente a quanto riteneva il Kurz.

I trovamenti di monete romane, molto più rari che nell'India meridionale (probabilmente perché esse erano fuse e coniate di nuovo, dato che la monetazione Kusana era agganciata al sistema romano), confermano queste conclusioni: la maggior parte di essi appartengono infatti al II e al III sec. d. C.

a) Begram (v. anche begram, vol. ii, p. 34 ss.). - Il complesso più ricco di oggetti provenienti dal mondo occidentale, come si è detto, è quello di Begram-Kāpishī, a circa 45 km a N di Kabul. Ivi una missione francese, diretta da I. Hackin, scoperse in due successive campagne (1937 e 1939-40) un ricchissimo deposito di materiali di varia provenienza. Tralasciando gli avorî indiani e le lacche cinesi, gli oggetti di origine occidentale appartengono alle seguenti categorie:

a) gessi: una serie di medaglioni circolari o "a scudetto", quasi sicuramente calchi di argenterie (è da respingere la tesi del Picard, secondo la quale, nel caso dei primi, si tratterebbe di oscilla). L'uso di questi calchi, come ha felicemente intuito il Wheeler, è assai probabilmente in rapporto con le sculture in stucco del Gandhara. Non mancano infatti, (ad esempio, nel complesso di Hadda), medaglioni circolari, derivanti con tutta probabilità da esemplari in gesso simili a quelli di Begram. Lo studio del Kurz, e quelli successivi dell'Adriani, hanno dimostrato l'origine egiziana di questi oggetti, origine che del resto è attribuibile alla maggior parte, se non a tutto il complesso dei trovamenti;

b) bronzi: statuette di piccole dimensioni, di soggetti vari, talvolta egiziani (Eracle-Serapide, Arpocrate); bustibalsamarî di un tipo assai diffuso, sicuramente databile alla seconda metà del II sec., destinati forse a contenere dell'incenso; numerosi vasi di forme svariate, ma con predominanza di ampie phialae, ecc.;

c) vetri: particolarmente numerosi, e di tipi assai varî (18o esemplari circa, compresi i frammenti). Rari i pezzi attribuibili al I sec. (coppe costolate e "millefiori": in tutto 9 esemplari); il gruppo più numeroso è costituito dai vetri lavorati "a faccette", per lo più in forma di bicchieri tronco-conici (46 esemplari). Questo tipo, diffusissimo in tutto il mondo romano, anche in regioni dell'Europa settentrionale, non è separabile dagli esemplari dipinti, che sono di forma assolutamente identica. Anche per esso è probabile un'origine egiziana. Vanno ricordati anche i vetri con decorazione a reticolo, ottenuta con fili di vetro riportati a caldo (26 esemplari); i vetri incisi (6 esemplari); quelli con decorazione tagliata a rilievo (9 esemplari). Ma il gruppo più notevole è forse quello dei vetri dipinti (23 esemplari con i frammenti). I soggetti rappresentati (battaglie, ludi gladiatori, caccia e pesca, corse di carri, scene di genere, ecc.) sono assai varî, lo stile della pittura fluido e "impressionistico". Confronti, assai scarsi, data la rarità del tipo, possono essere fatti solo con frammenti ritrovati in Egitto (al Metropolitan Museum di New York e al Victoria and Albert Museum di Londra), e con due esemplari scoperti in Pomerania, sicuramente importati dall'Oriente romano (già al museo di Stettino, ora perduti).

Assai interessante anche l'esemplare isolato, appartenente alla categoria dei diatreta, con rappresentazione del Faro di Alessandria (che conferma la provenienza e la cronologia bassa di tutto il complesso).

d) Altri trovamenti: assai importante è la presenza di due vasi di porfido (un bicchiere conico e una patera), altra prova della provenienza egiziana del tesoro di Begram. Inoltre, alcuni vasi in alabastro (tra i quali una patera con manico a testa di ariete, simile a quelle bronzee trovate a Taxila), resti di uno strumento musicale a corde (una lyra), e un rametto di corallo, che, come sappiamo dagli autori antichi (Periplo, Plinio) era importato dai porti del Mar Rosso in India, dove era assai pregiato.

Forse da Begram proviene anche un denario di Traiano Decio, acquistato recentemente nel bazar di Kabul, e pubblicato dallo Scerrato.

b) Taxila. In confronto a quelli di Begram, come si è detto, relativamente scarsi sono gli oggetti di provenienza occidentale trovati a Taxila:

a) bronzi: due patere con manico a testa di ariete, di un tipo assai diffuso nel I sec. d. C.; una statuina di Arpocrate (più antica probabilmente di quella di Begram), identica agli esemplari egiziani;

argento: romano, probabilmente, è da considerare un askòs argenteo, di un tipo comune del I sec. (in varie materie: argento, bronzo, ceramica invetriata, ecc.); così pure un emblema con un sileno (?) che tiene nella destra un kàntharos;

b) vetri: alcuni frammenti di vetri costolati, millefiori, "a filigrana"; alcune ampolle e il frammento di una bottiglia con ansa a nastro striato (il tutto databile sempre entro il I sec. d. C.);

c) altri trovamenti: due sigilli (l'uno con una scena erotica, l'altro con un erote che insegue un uccello); un gioiello in oro (rappresentante anch'esso una scena erotica), e un'anfora vinaria. Va citata inoltre, come conferma della cronologia da attribuirsi alla maggior parte degli oggetti, la presenza di un denario di Tiberio.

c) Chārsada. Centro moderno a 30 km circa da Peshawar, in Pakistan, identificato con l'antica Pushkalāvatī, la Peukelaòtis dei Greci. Essa costituiva un'altra tappa della grande strada tra Bactra e Taxila, che si è più volte citata. I trovamenti avvenuti, attribuibili al mondo romano sono:

a) una tarda statuetta bronzea, attualmente perduta, che parrebbe derivata dal tipo del S. Pietro benedicente in bronzo della Basilica Vaticana. La datazione probabile di questa statuetta sembra il V sec. d. C. (VI sec. per il Bussagli). Sulla sua autenticità sono stati avanzati dei dubbî, che solo un esame diretto, ora purtroppo impossibile, potrebbe sciogliere;

b) un altro trovamento, recente ed ancora inedito, consiste in tre maniglie bronzee (originariamente erano quattro: una è andata perduta), usate come manici di un sarcofago di piombo, che parrebbero di origine occidentale. L'impugnatura vera e propria è costituita da due delfini con le code intrecciate, che si dipartono da un busto femminile. Quest'ultimo presenta caratteri stilistici che sembrerebbero accomunarlo a manufatti egiziani del III o IV sec.; del resto questa produzione in serie di appliques, da destinare ai più varî usi, sembra essere stata, in ogni epoca, una caratteristica dell'artigianato artistico alessandrino. Per restare nei limiti imposti dall'argomento, si ricorderanno soltanto le protomi leonine adattate ai battenti della porta della chiesa di Adulis, stilisticamente assai simili (v. sopra).

I trovamenti di monete, in confronto a quelli dell'India meridionale, sono relativamente scarsi. In Afghanistan abbiamo cinque solidi di Teodosio II, Marciano e Leone ad Hadda; una moneta di Traiano a Khurdi Kabul, presso Kabul; tre aurei di Domiziano, Traiano e Sabina a Ahin Posh, presso Jalalabad; un tesoretto comprendente monete di Adriano, dei Gordiani e di Costantino a Sar-i Pul, nell'Afghanistan del N. A queste bisogna aggiungere la moneta di Decio, comprata sul mercato antiquario di Kabul, e proveniente forse da Begram, di cui si è già parlato, oltre ad un'altra di Filippo l'Arabo, pure proveniente dal mercato antiquario ed ancora medita, ed una terza di Teodosio, dall'Afghanistan settentrionale (anch'essa medita).

In Pakistan, i trovamenti sono ancora più scarsi: un tesoretto contenente alcuni denari repubblicani (il più antico dei quali è un esemplare di Lucio Longino, databile al 52 a. C.) e altri di età imperiale (il più tardo è di Adriano), a Pakli, nel territorio di Hazara; un altro tesoretto di denari repubblicani nello stūpa di Manikyala, vicino a Rawalpindi, nel Pangiab (il più recente è del 48 a. C.); dalla stessa località provengono anche cinque aurei, l'ultimo dei quali di Antonino Pio; c'è inoltre il già citato denario di Tiberio da Taxila, databile all'11-13 d. C.

VI. - Estremo Oriente. - La conoscenza che i geografi classici hanno dell'Asia sud-orientale, al di là del Capo Comorin, è assai scarsa. Il Periplo cita una terra posta ad E del Gange, che chiama Chryse (la dorata), e che corrisponde al Chersoneso aureo di Tolomeo. È probabile che il commercio con queste zone non fosse mai praticato direttamente da mercanti romani; pure è certo che, attraverso forse il commercio indiano, oggetti romani pervenissero anche nel territorio indocinese e, più raramente, fino in Cina. Lo sviluppo maggiore di questi traffici può essere fissato, come per quello svolgentesi attraverso i porti dell'India nord-occidentale, il Pakistan, l'Afghanistan e il Turkestan cinese, intorno al terzo venticinquennio del II sec. d. C., come conferma ancora una volta la concordanza delle fonti e dei trovamenti archeologici. Gli Annali degli Han ci informano infatti che nel 166 d. C. una ambasceria dell'imperatore An-Tun (Marco Aurelio Antonino) giunse alla frontiera dell'Annam. Ciò coincide con i dati offertici dalla scoperta di Go Oc Eo, in Cocincina (Vietnam meridionale), dove apparvero una moneta di Marco Aurelio e un bratteato di Antonino Pio (datato al 152), insieme ad uno specchio cinese della fine della dinastia Han (fine II-inizî III sec.). La stessa fonte ci informa che i Romani da tempo desideravano entrare in rapporto diretto con i Cinesi, ma ne erano stati impediti dagli An-hsi (i Parthi), che volevano mantenere nelle loro mani il monopolio del commercio della seta.

a) Turkestan cinese. - L'antica via che va da Bactra alla Cina è stata esplorata dallo Stein, il quale ha potuto anche eseguire localmente dei piccoli scavi, che hanno spesso dato risultati notevoli. Non tutti questi trovamenti, conservati per lo più al Central Asian Antiquities Museum di Nuova Delhi, sono purtroppo pubblicati. I pezzi più interessanti sono:

a) un magnifico frammento di stoffa, certamente egiziana, con rappresentazione di Hermes, rinvenuto a Lou Lan;

b) numerosi frammenti di vasi di vetro (alcuni dei quali conici). Uno di essi, trovato sempre a Lou Lan, appartiene a quel tipo con decorazione "a faccette", che è presente, in numerosi esemplari, a Begram;

c) due gemme (rappresentanti una quadriga e un erote), e numerose impronte di un'altra (con un'Atena Pròmachos di tipo arcaistico);

d) un frammento di corallo (si veda quanto si è detto per il simile trovamento di Begram).

b) Penisola indocinese (v. indocinese, arte). - Le scoperte più notevoli di oggetti romani in Indocina sono dovute agli archeologi francesi. La prima di esse, in ordine d'importanza, è quella avvenuta nel sito di Go Oc Eo, in Cocincina (Vietnam meridionale), dove è apparso un insieme di oggetti, che, per la loro varia provenienza, e per la loro cronologia, ricordano in piccolo il complesso di Begram. Accanto ad oggetti indiani e ad uno specchio di bronzo cinese (della fine della dinastia Han: fine II, inizî III sec.), sono apparse alcune gemme figurate di provenienza romana, una moneta d'oro con il ritratto di un imperatore antonino (probabilmente Marco Aurelio) e un bratteato di Antonino Pio del 152 d. C., oltre ad alcune conterie di probabile origine occidentale. Particolarmente interessanti i soggetti figurati delle gemme: un gallo su un carro tirato da topi e un gröllos a quattro teste, che ci riportano indubbiamente al mondo alessandrino.

L'altro trovamento è avvenuto a P'ong Tük, nel basso Siam, dove, insieme ad altri oggetti di varia provenienza, fu rinvenuta una lampada in bronzo romana, di un tipo abbastanza noto, della quale il Picard, in un recente articolo, ha dimostrato la provenienza alessandrina, pur volendo attribuire ad essa una data troppo alta (I sec. a. C. al più tardi), del tutto insostenibile (esemplari simili, rinvenuti in necropoli nubiane, non possono essere datati prima del II o, meglio, del III sec. d. C.).

Dubbia invece è l'appartenenza a fabbrica romana di un vaso in argento imitante quelli megaresi, scoperto a Dong-s'on, nel Thanh-hoa (Vietnam).

c) Cina. - Scarse sono le notizie di trovamenti di oggetti romani in Cina. Oltre alle solite conterie, delle quali è sempre estremamente difficile stabilire la provenienza, vanno citate alcune monete, appartenenti per lo più al tardo Impero. Lo Stein ne ha scoperte alcune di Costantino II (337-340), Costante (337-350) e Valente (346-378) nel Khotan (Turkestan cinese: v. sopra). Un solido di Giustiniano II (565-578) è apparso in una tomba appartenente all'epoca della dinastia Sui (581-617) nello Shansi. Il trovamento più importante sarebbe però quello avvenuto a Lingshih, sempre nello Shansi (includente 16 monete di bronzo, comprese tra Tiberio e Aureliano), se la presenza di una moneta di Enrico III di Francia, datata al 1569, non facesse pensare ad una raccolta moderna.

Tra gli oggetti di sicura importazione dal mondo occidentale predominano i vetri. Uno di essi, pubblicato dal Pijoan nel 1922, parrebbe un falso. Più interessanti due trovamenti avvenuti in Corea e nell'Honan (Cina settentrionale). Nel primo caso si tratta di due bicchieri conici con appliques, trovati in una tomba dei re Silla (dal 100 a. C. al 6oo d. C. circa), databili con tutta probabilità al IV secolo. L'esemplare di cui si pubblica una fotografia, di tipo assai noto, è assolutamente identico a quelli scavati dal Caputo nel Fezzan, provenienti quasi sicuramente dall'Egitto. L'altro, trovato nell'Honan, è assai simile a esemplari sicuramente egiziani (cfr. C. C. Edgar, Greco-Egyptian Glass, in Catalogue général des Antiquités égyptiennes du Musée du Caire, Il Cairo 1905, tav. 1). È quindi probabile che anche questi esemplari provengano dall'Egitto attraverso i porti dell'India meridionale, l'Afghanistan e il Turkestan cinese, anche se non può escludersi del tutto una provenienza siriaca (si ricordi che le lacche di Begram sono di fabbricazione coreana, e che il frammento di tessuto da Lou Lan è egiziano).

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Sui rapporti delle città carovaniere con l'Estremo Oriente e sulla "via della seta": F. von Richtofen, Über den Seeverkehr nach und von China im Altertum und Mittelalter, in Verh. der gse. f. Erdkunde, 1876, p. 86 ss.; id., Über die zentralasiatischen Seidenstrassen bis zum 2ten Jh. nach Chr., ibid., 1877, p. 96 ss.; F. Hirth, China and the Roman Orient, Lipsia-Shangai-Hong Kong 1885; id., Zur Geschichte des antiken Orienthandels, in Verh. der Ges. f. Erdkunde, 1889, p. 46 ss.; R. Brünnow-A. von Domaszewski, Die Provincia Arabia, Strasburgo 1904-1909; A. Hermann, Die alte Seidenstrasse zwischen China und Syrien, Berlino 1910; id., Die Seidenstrasse von China nach d. römischen Reich, in Mitteilung. der Geograph. Gesellschaft in Wien, LVIII, 1915, p. 472 ss.; id., Die Verkehrswege zwischen China, Indien und Rom, um 100 nach Christus Geburt, Lipsia 1922; id., Die alten chinesischen Weltkarten, in Ostasiatische Zeitschrift, XI, 1924, p. 97 ss.; P. Pelliot, Note sur les anciens itinéraires chinois dans l'Orient romain, in Journal Asiatique, XVII, 1921, p. 139 ss.; A. W. Lawrence, Late Greek Sculpture and its Influences on East and West, Londra 1927; A. Kammerer, Pétra et la nabatène, Parigi 1929; M. Rostovzev, Les inscriptions caravanières de Palmyre, in Mélanges graphy, in Proceedings of the Classical Association, XXX, 1933, p. 520 ss.; J. Cantineau, Tadmorea, in Syria, XIV, 1933, p. 187 ss.; H. Seyrig, Inscription relative au commerce maritime de Palmyre, in Mélanges F. Cumont, in Annuaire Inst. Philol. et Hist. Orient. et Slaves, IV, Bruxelles 1936; F. J. Teggart, Rome and China, University of California, 1939; R. Grousset, L'Empire des Steppes, Parigi 1949; M. Gubiand, Les caravaniers asiatiques et les riverains de l'Océan Indien vus par les coroplastes de la Smyrne romaine, in Artibus Asiae, X, 1947, p. 324 ss.; XI, 1948 p. 123 ss.; U. Monneret de Villard, La fiera di Batnae e la traslazione di San Tommaso ad Edessa, in Rend. Acc. Lincei, VI, 1951, p. 77 ss.; F. Grosso, Aspetti della politica orientale di Domiziano, in Epigraphica, XVI, 1954, p. 117 ss.; A. Marica, Vologesias, l'Emporium de Ctesiphon, in Syria, XXXVI, 1959, p. 272 ss.; S. A. Nodelman, A Preliminary History of Characene, in Berytus, XIII, 1960, p. 83 ss.; E. Zannas, De Pergame au Gandhâra, in Arts Asiatiques, VIII, 1961, p. 67 ss. Sull'identificazione dell'isola di Icaros: R. Chrishman, L'Ile de Kharg dans le Golfe Persique, in Compt. Rend. Ac. Insc. et Bell. Lettres, 1958, p. 261 ss.; E. Albrectsen, Aleksander der stores visitkort, in Kuml, 1958, p. 172 ss.; R. Chrishman, in Rev. Arch., 1959, p. 70 ss.; id., in Arts Asiatiques, VI, 1959, p. 107 ss.; id., L'Ile de Kharg, Teheran 1960; E. Albrectsen, Alexander the Great's Visiting Card, in Ill. London News, 17 agosto 1960, p. 351 ss.; Kr. Ieppelsen, Et Kongebud til Ikaros, in Kuml, 1960, p. 153 ss.

Africa (Sahara libico e algerino): E. F. Gautier-M. Reygasse, Le monument de Tin-Hinan, in Annales de l'Académie des Sciences coloniales, VII, Parigi 1934; M. Reygasse, Monuments funéraires préislamiques de l'Afrique du Nord, Parigi 1950, p. 88 ss.; G. Caputo, Scavi Sahariani, in Mem. Acc. Lincei, XLI, 1951, c. 151 ss.; J. H. Corbitt, Greco-Roman Finds from the Libyan Desert, in Archaeologia Aeliana, XXXVIII, 1960, p. 125 ss.

Africa orientale: F. Benoît, La côte orientale de l'Afrique au delà de la Mer Rouge dans l'antiquité, in Bulletin de l'Union Géographique du Nord (Douai), 1896, pp. 97 ss.; 193 ss.; J. Conyat, Les ports gréco-romains de la mer Rouge, in Mem. Ac. Inscr. et Bell. Lettres, 1910, p. 525 ss.; C. Conti Rossini, Commenti a notizie di geografi classici sovra il Sudàn egiziano e l'Etiopia, in Aegyptus, VI, 1925, p. 5 ss.; A. Berthelot, L'Afrique saharienne et soudanaise, ce qu'en ont connu les Anciens, Parigi 1927; C. Conti Rossini, Storia d'Etiopia, Milano 1928; A. Kammerer, La Mer Rouge, l'Abyssinie et l'Arabie depuis l'Antiquité, t. I: Les pays de la mer Erythrée jusqu'à la fin du Moyen-Age, in Mémoires de la Société royale de Géographie d'Egypte, XV, Il Cairo 1929; U. Monneret de Villard, Note sulle influenze asiatiche nell'Africa Orientale, in Riv. Studi Orientali, XVII, 1938, p. 308 ss.; id., La Nubia Romana, Roma 1941; C. Préaux, Sur les communications de l'Ethiopie avec l'Egypte hellénistique, in Chronique d'Egypte, XXVII, 1952, p. 257 ss.; R. E. M. Wheeler, Archaeology in East Africa, in Tanganyka Notes and Records, XL, 1955; J. Doresse, L'Ethiopie et l'Arabie méridionale, au IIIe et IVe siècles A. D. d'après les découvertes récentes, in Kush, V, 1957, p. 49 ss.; L. P. Kirwan, Rome beyond the southern Egyptian Frontier, in Geographical Journal, CXXIII, i marzo 1957, p. 16 ss.; B. Davidson, Old Africa rediscovered, The Story of Africa forgotten Past, Londra 1959.

Meroe e la Nubia: H. Schäfer, Ägyptische Goldschmiedearbeiten (Königliche Museen zu Berlin), Berlino 1910; A. Perdrizet, Bronzes grecques d'Egypte de la collection Fouquet, Parigi 1911, p. 6 ss.; Liverpool Annals of Archaeology and Anthropology, IV, 1911, p. 45 ss.; V, 1913, p. 73 ss.; VI, 1914, p. i ss.; VII, 1914-16, p. i ss.; G. A. Reisner, The Pyramids of Meroe and the Candaces of Ethiopia, in Bulletin of Museum of Fine Arts, Boston, XXI, 1923, p. 12 ss.; W. B. Emery, The Royal Tombs of Ballana and Qustul (Mission Archéologique de Nubie 1929-1934), Il Cairo 1938; G. Schneider-Herrmann, Over de figuur achter den zegevierenden Pharao, in Jaarbericht Ex Oriente Lux, X, 1945-48, p. 355 ss.; A. J. Arkell, Meroe and India, Aspects of Archaeology in Britain and beyond, in Essays Presented to O. G. S. Crawford, Londra 1951, p. 32 ss.; Dows Dunham, Royal Tombs at Meroe and Barkal (The Royal Cemeteries of Kush), IV, Boston 1957; id., The Egyptian Department and its Excavations, Boston 1958, pp. 108, fig. 98; 132, fig. 103; D. Gooriechs, Note sur le traitement d'une tête hellénistique en bronze du Musée de Khartoum, in Kush, VII, 1959, p. 212 ss.; id., Examen et traitement d'une tête hellénistique en bronze, découverte au Soudan, in Bulletin de l'Institut Royal du Patrimoine Artistique, III, 1960, p. 55 ss.; Ritrovamenti archeologici in Nubia, in Emporium, LXVI, n. 8, vol. CXXXII, n. 788, 1960, p. 69; F. Chamoux, Une tête de Dionysos en bronze trouvées à Méroë, in Kush, VIII, 1960, p. 77 ss.; Ch. Picard, Propos et documents concernant la toreutique alexandrine, in Rev. Arch., 1961, p. 123; F. Chamoux, The Dionysus from Meroe, in Kush, X, 1962, p. 335 s.; J. Vercoutter, Un palais des "Candaces" contemporain d'Auguste (Fouilles à Wa-bau-Naga, 1958-60), in Syria, XXXIX, 1962, p. 263 ss.; The Illustrated London News, 7 luglio 1962, p. 34.

Aksum e Adulis: Deutsche Aksum Expedition, Berlino 1913; R. Paribeni, Ricerche nel luogo dell'antica Adulis, in Mem. Ac. Lincei, XVIII, 1907, c. 439 ss.; A. Kammerer, Essai sur l'histoire antique d'Abyssinie. Le Royaume d'Aksum et ses voisins d'Arabie et de Méroë, Parigi 1926; S. Puglisi, Primi risultati delle indagini compiute dalla missione archeologica di Aksum, in Africa Italiana, VIII, 1941, p. 95 ss. (v. anche aksum; sabea, arte).

Sulle monete romane in Africa: H. Mattingly, Finds in British East Africa, in Numismatic Chronicle, S. V, XVIII, 1932, p. 175; U. Monneret de Villard, Storia della Nubia Cristiana, Roma 1939, p. 18; M. P. Charleswort, A Roman Imperial Coin from Nairobi, in Numismatic Chronicle, VI S., IX, 1949, p. 107 s.; R. Mauny, Monnaies antiques trouvées en Afrique au Sud du limes romain, in Libyca, IV, 1956, p. 249 ss.; J. Leclant, Une monnaie Romaine à Zeidah, in Kush, XI, 1963, p. 312 s.

Arabia: C. Conti Rossini, Expédition et possessions des Habaèât en Arabie, in Journ. Asiat., XI, 1921, p. 5 ss.; H. Schlobies, Hellenistisch-römische Denkmäler in Südarabien, in Forschungen und Fortschritte, X, 1934, p. 242 ss.; R. Dussaud, Tête de bronze provenant d'Arabie, in Syria, XIX, 1938, p. 98 s.; M. Rostovzev, Social and Economic History of Hellenistic World, Oxford 1941, II, p. 855 e tsto a tav. 96; B. Segall, Sculpture from Arabia Felix, in Am. Journ. Arch., LIX, 1955, p. 209; R. L. Bowen Jr.-F. P. Albright, Archaeological Discoveries in South Arabia, vol. II, Baltimore 1958; H. Goetz, An Indian Bronze from South Arabia, in Archaeology, XVI, 1963, p. 187 ss.

India, Afghanistan e Pakistan: J. Kennedy, Ancient Indian Trade, in Journ. Royal Asiatic Soc., 1898; id., ibid., 1907, p. 953; 1916, p. 835 ss.; 1917, p. 236; W. H. Schoff, First Century Intercourse between India and Rome, in The Monist, XXII, 1912, p. 141; id., Parthian Station of Isidore of Charax: an Account of the Overland Trade Route between the Levant and India in the First Century B. C., Filadelfia 1914; R. Garbe, Indien und Christentum, Tubinga 1914; H. Bauerjee, India's Intercourse with Egypt, Londra 1921; G. Jouveau-Dubreuil, L'Inde et les Romains, Parigi 1921; H. G. Rawlinson, Intecourse between India and the Western World2, Cambridge 1926; E. H. Warmington, The Commerce between the Roman Empire and India, Cambridge 1928; S. Levy, Les marchands de mer et leur rôle dans le bouddhisme primitif, in Bulletin de l'association des amis de l'Orient, III, 1929, p. 19 ss.; A. Sarazin, Der Handel zwischen Indien und Rom zur Zeit der röm. Kaiser, Basilea 1930; M. P. Charlesworth, Five Men, Character Studies from the Roman Empire, Cambridge 1936; A. Foucher, La vieille route de l'Inde de Bactres à Taxila, in Mémoires de la D. A. F. A., I, 1942-47; L. Petech, Tracce del commercio romano in India, in Bull. Comun., LXXI, 1945, p. 65 ss.; J. Poujade, La route de l'Inde et ses navires, Parigi 1946; U. Monneret de Villard, Le monete dei Kushana e l'Impero Romano, in Orientalia, XVII, 1948, p. 224 ss.; J. Filliozat, Echanges de l'Inde et de l'Empire Romain aux premiers siècles de l'ère chrétienne, in Revue Historique, CCI, 1949; id., in Journal Asiatique, CCXXXVII, 1949, p. 167 ss.; W. W. Tarn, The Greeks in Bactria and India2, Cambridge 1951; M. P. Charlesworth, Roman Trade with India: a Resurvey, in Studies in Roman Economic and Social History in honor of A. Chester Johnson, in Roman Economic and Social History in honor of A. Chester Johnson, Princeton 1951, p. 131 ss.; N. Pigulevskaja, Vizantija na putjach v Indiju, iz istorii torgovli visantii s vostokom v IV-VI vv., Mosca-Leningrado 1951; R. E. M. Wheeler, Roman Contact with India, Pakistan and Afghanistan, in Aspects of Archaeology in Britain and Beyond, in Essays Presented to O. G. S. Crawford, Londra 1951, p. 345 ss.; J. Gagé, Gadès, L'Inde et les navigations atlantiques dans l'antiquité, in Revue Hist., CCV, 1951, p. 189 ss.; E. Lamotte, Les premières relations entre l'Inde et l'Occident, in La Nouvelle Clio, V, 1953, p. 83 ss.; J. C. Van Leur, Indonesian Trade and Society, L'Aia 1955; J. Filliozat, Les relations extérieures de l'Inde, I: Les echanges de l'Inde et de l'Empire Romain aux premiers siècles de l'ère chrétienne, Pondichery 1956; M. Bussagli, Profili dell'India antica e moderna, Torino 1959, p. 137 ss.; O. Botto, Il "Navadhyksa" nel "Kautiliyarthasastra" e l'attività marinara nell'India antica, in Rivista degli studi orientali, XXXVI, 1961, p. 109 ss.

Fonti ellenistico-romane sulle relazioni con l'India: O. de B. Priaulx, The Indian Travels of Apollonius of Tyana and the Indian Embassies to Rome, Londra 1873; id., Indian Embassies to Rome, in Journ. Royal Asiat. Soc., XIX, 1887, p. 294 ss.; J. Burgess, ibid., 1893, p. 718; Th. Hultzsch, ibid., 1904, p. 399 ss.; M. N. Adler, The Itinerary of Benjamin of Tudela, Londra 1907; G. Coedès, Textes d'auteurs grecs et latins relatifs à l'Extrême Orient, depuis le IVe siècle a. J. C. jusq'au XIVe siècle, Parigi 1910; N. G. Bauerjee, Hellenism in Ancient India2, Calcutta 1920; M. R. James, The Apocryphal New Testament, Oxford 1924, pp. 363; 371; J. W. mcCrindle, Ancient India as Described in Classical Literature, being a collection of Greek and Latin Texts2, Calcutta 1927; O. Stein, Indien in den Griechischen Papyri, in Indologia Pragensia, Schriften d. phil. Fak. d. Deutsch. Universit., Praga, 20, 1929, p. 34 ss.; F. Altheim, Weltgeschichte Asiens im griechischen Zeitalter, Halle 1947; M. Bussagli, The Apostle St. Thomas and India, in East and West, III, 1952, p. 88 ss.; M. David Meredith, Annius Plocamus: two inscriptions from the Berenice Road, in Journ. Rom. St., XLIII, 1953, p. 38 ss.

Fonti indiane sulle relazioni con l'Occidente: T. W. Rhys Davids, The Question of Milinda, Oxford 1890; A. Weber, Die Griechen in Indien, in Sitzungsberichte der Königlich Preuss. Akad. der Wissensch. 1890, p. 901 ss.; V. Kanakasabhai, The Tamils eighteen hundred Jaers ago, Madras-Bangalore 1904; P. T. Srinivas Iyengar, History of the Tamils from the Earliest Times to 600 A. D., Madras 1929; U. R. R. Dikshitar, Studies in Tamil Literature and History, Londra 1930; Silappadikaram, trad. u. R. R. Dikshitar, Oxford 1939; P. Meile, Les Yavanas dans l'Inde tamoule, in Journ. Asiatique, 1940-41, p. 85 ss.; K. Zvelebil, The Yavanas in Old Tamil Literature, in Charisteria Orientalia for Jan Rypka, Praga 1956, p. 401 ss.; E. Benz, Influssi indiani nella teologia alessandrina del III secolo, in Orientalia Romana, I, Roma 1958, p. i ss.

Elementi indiani nell'arte ellenistico-romana e importazioni dall'India: P. R. Bienkowski, Les Celtes dans les arts mineurs gréco-romains, Cracovia 1928, p. 228 ss.; S. Reinach, in Gazette de B. A., 2, 1929, p. 3 ss.; U. Monneret de Villard, La scultura ad Ahnas, Milano 1923, p. 86 ss.; H. Berstl, Indo-koptische Kunst, in Jahrb. der Asiatischen Kunst, I, 1924, p. 165 ss.; M. Dimand, Indische Stilelemente in der Ornamentik der Syrischen und Koptischen Kunst, in Ostasiatische Zeitschrift, IX, 1922, p. 201 ss.; M. Rostovzev, L'art gréco-iranien, in Revue des arts asiatiques, VII, 1931-32, p. 209 ss.; R. Pfister, Nil, Nilomètres et l'orientalisation du Paysage héllenistique, ibid., p. 121 ss.; A. Maiuri, Statuetta eburnea di arte indiana a Pompei, in Le Arti, 1938, p. 111 ss.; A. Ippel, Statuetten aus Pompeji, in Arch. Anz., LIV, 1939, p. 350 ss.; H. Seyrig, Ornamenta Palmyrena Antiquiora, in Syria, XXI, 1940, p. 289 ss.; 304 ss.; M. Levi-D'Ancona, A Indian Statuette from Pompeii, in Artibus Asiae, XIII, 1950, p. 166 ss.; K. Wessel, Fragmente einer koptischen Tunica aus dem Besitz der ägyptischen Staatssamlungen in München, in Pantheon, XIX, 1961, p. 296; M. Cagiano de Azevedo, Un ritratto al Bassiano?, in Röm. Mitt., LXIX, 1962, p. 159 ss.

Per gli elementi occidentali nell'arte orientale: cfr. gandhara, arte del; hadda, ecc. Uno studio recente con abbondante bibliografia sull'argomento: M. Bussagli, Persistenza delle forme ellenistiche nell'arte del Gandhàra, in Riv. Ist. Arch. St. Arte., N. S., V-VI, 1956-57, p. 149 ss. Due recenti studî iconografici sono quelli di M. Taddei, Iconographic Considerations on a Gandhara Relief in the National Museum of Oriental Art in Rome, in East and West, N. S., XIV, 1963, p. 38 ss.; id., Il mito di Filottete ed un episodio della vita del Buddha, in Arch. Cl., XV, 1963, p. 198 ss.

Monete romane: G. Hill, Roman Aurei from Pudukota, South India, in Numismatic Chronicle, III S., XVIII, 1898, p. 304 ss.; ibid., XIX, 1899, p. 81 s.; C. J. Radges, Roman Coins Found in India, ibid., XIX, 1899, p. 263 ss.; R. Sewell, Roman Coins Found in India, in Journ. Royal Asiat. Soc., 1904, p. 591 ss.; ibid., 1907, p. 953; ibid., 1923, p. 36; H. W. Codrington, Ceylon Coins and Currency, Colombo 1924; J. Hackin, Répartition des monnaies anciennes en Afghanistan, in Journ. Asiatique, CCXVII, 1935, p. 287 ss.; R. E. M. Wheeler, Roman Coins, First century B. C. to fourth century A. D., Found in India and Ceylon, in Ancient India, 2, 1946, p. 116 ss.; U. Scerrato, On a Silver Coin of Traianus Decius from Afghanistan, in East and West, N. S. XIII, 1962, p. 17 ss.; W. M. Masson, La circolazione monetaria nell'Asia centrale antica secondo i dati della numismatica (in russo), in Vestnik drevnei istorii, 1955, p. 37 ss. Per monete romane nell'Usbekistan meridionale e nel Tagikistan: W. D. Žukow, in Epigrafika Vostoka, XIII, 1960, p. 25 ss.; E. W. Zejmal, in Numizmatika i Epigrafika, III, Mosca 1962, p. 141 ss.

Per le singole località ove sono avvenute scoperte di oggetti romani (Arikamedu, Bergram, Taxila) v. le corrispondenti voci. Per le località di minore importanza, Kolhapur, Akota, ecc., v. il fondamentale lavoro del Wheeler (Rome Beyond the Imperial Frontiers, Londra 1954; traduz. ital. Torino 1963). Si aggiunga:

per Chandravalli: R. E. M. Wheeler, Brahmagiri and Chandravalli 1947: Megalitic and other Cultures in Mysore State, in Ancient India, IV, 1947-48, p. 287 ss.; id., Recent Roman Discoveries in India, in Fasti Arch., II, 1947, n. 81;

per il monte Nilghiri: V. A. Smith, The Early History of India, Oxford 1908, p. 401;

per Chārsada (San Pietro): Archaeological Survey of India, Annaul Reports, 1910-11, figg. 822 e 823; B. Rowland, St. Peter in Gandhāra, in Gazette de Beaux Arts, 912, febbr. 1943, p. 65 ss.; M. Bussagli, An important document on the relations between Rome and India. The Statuette of St. Peter at Charsadda, in East and West, IV, n. 4, 1954, p. 247 ss.

Per Begram: A. Adriani, Segnalazioni alessandrine: Le scoperte di Begram e l'arte alessandrina, in Arch. Cl., VII, 1955, p. 124 ss.; id., Divagazioni intorno ad una coppa paesistica del Museo di Alessandria, Roma 1959, nota 88 a p. 66; F. Coarelli, I vetri dipinti di Begram e l'Iliade Ambrosiana, in Studi Miscellanei del Seminario di Archeologia e Storia dell'arte Greca e Romana dell'Università di Roma, I, 1961, p. 29 ss. (tradotto in inglese in East and West, N. S., XIII, 1962, p. 317 ss.); id., Nuovi elementi per la cronologia di Begram, in Arch. Cl., XIII, 1961, p. 168 ss.; id., Su alcuni vetri dipinti scoperti nella Germania Indipendente, ibid., XV, 1963, p. 61 ss.; L'Afghanistan dalla Preistoria all'Islam, Mostra dei capolavori del Museo di Kabul, Torino 1961.

Asia Centrale: Turkestan cinese: M. A. Stein, Ancient Khotan, Oxford 1907, p. 209, 220, 354; tavv. 49, 52, 71; id., Serindia, IV, Oxford 1921, tav. CXL, 12 e 13; id., Innermost Asia, Oxford 1928, p. 241, tav. XXX, p. 756, tav. XC; id., On Ancient Central Asian Tracks, Londra 1933, p. 27 s., 129 ss., fig. 65; F. H. Andrews, Central Asian Antiquities Museum, New Delhi, Descriptive Catalogue, Delhi 1935, p. 14 s.; 23; 317; J. Bergman, in Bulletin of the Museum of Far Eastern Antiquities, VII, 1936, p. 115.

Indocina: G. Coedès, Excavations at P'ong Tûk in Siam, in Annual Bibl. of Indian Archaeol., 1927, p. 16 ss.; id., in Bulletin de l'École française d'Extrême Orient, XXVII, 1927, p. 498; id., The Excavation at P'ong Tûk and their Importance for the Ancient History of Siam, in Journal of the Siam Society, XXI, 1928, p. 195 ss.; Ch. Picard, La lampe alexandrine de P'ong Tuk (Siam), in Artibus Asiae, XVIII, 1955, p. 137 ss.; P. Gardner, Ancient Beads from the Johore Rivers as Evidence of an early Link by Sea between Malaya and the Roman Empire, in Journ. Royal Asiat. Society, 1936, p. 467 ss.; H. G. Quaritch Wales, Archaeological Researches on Ancient Indian Colonisation in Malaya, ibid., XVIII, 1940, p. 60 ss.; G. Coedès, Fouilles en Cochinchine; le site de Go Oc Eo, ancien port du royame de Fou-nan, in Artibus Asiae, X, 1947, p. 193 ss.; L. Petech, Tolomeo ed i risultati di alcuni scavi archeologici sulle coste dell'Asia meridionale, in Riv. di Filologia ed Istruzione Classica, LXXIII, 1950, p. 50 ss.; Ph. O. R. T. Janse, Quelques reflexions è propos d'un bol de type mégarien, trouvée au Viet Nam, in Artibus Asiae, XXV, 1962, p. 280 ss.; L. Malleret, L'archéologie du delta du Mékong, 4 voll. Parigi 1959 e 1962.

Cina: S. W. Bushell, Ancient Roman Coins from Shansi, in Journal of the Peking Oriental Society, I, 1885-87, p. 17 ss.; P. Pelliot, Deux itinéraires de Chine en Indi, in Bull. de l'École franç. d'Extr. Orient, IV, 1904, p. 132 ss.; J. Pijoan, A Greek Glass Vase from China, in Burlington Magazine, XLI, 1922, p. 235 ss.; C. G. Seligman, The Roman Orient and the Far East, in Antiquity, XI, 1937, p. 5 ss.; S. A. Huzayyin, Arabia and the Far East, Il Cairo 1942, p. 119; H. H. Dubs, A Roman City in Ancient China, Londra 1957; Hsia Nai, A Byzantine Gold Coin Discovered in a Sui Dinasty Tomb near Sian, in The Chinese Journal of Archaeology (K'ao-ku Hsüehpao), 1959, 3, p. 67 ss. (sommario in inglese a p. 73 s.); id., K'ao-Ku hsüeh-lun wên-chi (Raccolta di saggi sull'archeologia cinese), Pechino 1961.

(F. Coarelli)