INDIANA, Arte

Enciclopedia dell' Arte Antica (1995)

Vedi INDIANA, Arte dell'anno: 1961 - 1995

INDIANA, Arte (v. vol. IV, p. 135)

M. Taddei

Non v'è forse nulla di più sfuggente, nella storia dell'arte dell'India, che la definizione della sua stessa origine: e non tanto perché non la si possa collocare con precisione nel tempo né perché troppo scarsa sia la documentazione della primissima fase della produzione artistica i.; il problema è, paradossalmente, quello di decidere se la produzione della civiltà della valle dell'Indo (III-II millennio a.C. - v. indo, civiltà dello) possa legittimamente esser considerata parte dell'arte indiana. La questione, se si vuole, può innestarsi sull'altra, più generale, se sia accettabile l'uso dell'aggettivo «indiana» che di solito si attribuisce - p.es., in questa voce - all'arte del subcontinente. Alcuni (Huntington) hanno preferito scrivere «arte indica» e «cultura indica» nel riferirsi alle antiche arte e cultura del subcontinente, per evitare ogni possibile confusione, in quanto «indiano» potrebbe riferirsi al solo stato moderno dell'India (escludendo cioè Pakistan, Bangladesh e Nepal): una preoccupazione comprensibile ma forse eccessiva.

Problemi, come si vede, di natura puramente terminologica la cui soluzione comporta però delle valutazioni non banali. Intanto, per porre la questione in termini più correttamente storici, chiediamoci se si possa riconoscere una continuità culturale tra la civiltà della valle dell'Indo e la successiva civiltà indiana.

L'ipotesi secondo cui la fine della civiltà dell'Indo sia da attribuire a invasioni di popolazioni indo-arie, che avrebbero così soggiogato le popolazioni dravidiche locali, portò con sé l'altra ipotesi che vede nella civiltà dell'Indo la presenza, almeno in nuce, di elementi culturali, in particolare religiosi, propri dell'India hindu e apparentemente non spiegabili con la tradizione vedica. Alcuni tentativi più arditi di identificazionç di divinità non hanno avuto seguito, ma resta senza alcun dubbio ancora una questione aperta quella del rapporto tra i culti fallici dell'Indo e il culto del liṅga (v.) nello scivaismo. Questo sarebbe insomma una ripresa deirelemento dravidico che riemerge dall'ondata «ariana» (Śiva non è una divinità vedica) che l'aveva sommerso.

In particolare, il sigillo n. 420 di Mohenjo-daro suggerì a John Marshall l'idea che vi si dovesse riconoscere un «proto-Śiva», sulla base della posa «yogica», dell'evidente itifallismo, del copricapo cornigero, dell'apparente tricefalismo e della presenza di quattro animali: elefante, tigre, bufalo e rinoceronte. Inoltre, i numerosi oggetti di forma più o meno fallica che provengono dagli scavi della valle dell'Indo hanno fatto pensare all'esistenza di un culto del liṅga.

In anni recenti queste identificazioni, sottoposte a un esame più attento, hanno rivelato una notevole debolezza. La figura seduta del sigillo n. 420, benché sia probabilmente un personaggio divino, quasi certamente non è triprosopa e gli animali che l'accompagnano, in quanto selvatici, non possono avere nulla a che fare con Pašupati, l'aspetto di Siva «signore degli animali». Inoltre i supposti liṅga della valle dell'Indo trovano sì possibili confronti con le forme depurate e astratte che il liṅga ha assunto in tempi recenti nell'iconografia scivaita, ma sono ben diversi dai più antichi liṅga - quanto mai realistici - come quello di Gudimallam (Andhra Pradesh, v.; la datazione di quest'opera assai importante per la storia dell'arte dell'India, finora molto oscillante, sembra che sia da fissare tra la seconda metà del I sec. a.C. e la prima metà del I sec. d.C.).

Il problema resta dunque aperto: anche se non si può escludere a priori che elementi culturali della civiltà della valle dell'Indo siano sopravvissuti per riemergere in epoca successiva in contesto brahmanico/hindu, la più elementare prudenza ci induce a considerare quella civiltà come esaurita e separata da una sostanziale anche se non netta cesura dalla civiltà indiana vera e propria. Una tesi senza dubbio attraente è quella avanzata recentemente da A. Parpola, secondo cui i Däsa, popolazione parlante lingua indo-europea, giunta nell'Iran nord-orientale e nel Nord-Ovest dell'India prima degli Ariani vedici, avrebbero svolto una funzione di mediatori tra la tradizione harappana e la cultura vedica.

Oggi si ritiene che le popolazioni parlanti lingue indoarie siano giunte in India intorno al 1500 a.C., anche se, appunto, in ondate successive. Di esse abbiamo i fondamentali testi religiosi, i Veda, cui si affiancarono, tra il VII e il IV sec. a.C., numerosi altri testi di elaborazione filosofica e ritualistica; non abbiamo però alcuna documentazione artistica. La stessa documentazione archeologica è scarsa, ma non a caso: le popolazioni vediche non avevano immagini né luoghi di culto monumentali; il momento religioso essenziale era per loro il sacrificio.

Un problema a tutt'oggi insoluto è quello della datazione del gruppo di bronzi (un uomo su un carro tirato da un paio di buoi, un elefante, un rinoceronte e un bufalo) rinvenuto in superficie a Daimābād (Maharashtra). Si è suggerita una data intorno alla metà del II millennio a.C.: potrebbe trattarsi di opere postharappane, ma la mancanza assoluta di dati stratigrafici impone la massima prudenza nella valutazione di questi bronzi dal modellato efficace e a tratti realistico che sono forse più ragionevolmente assegnabili - anche sulla base dell'analisi del metallo (ma sulla valutazione di questa non mancano divergenze) - a una tarda fase harappana. Gli Allchin li attribuiscono al periodo di Jorwe (c.a 1500-1050 a.C.) e sottolineano il fatto che gli unici confronti possibili - dal punto di vista stilistico - sono da farsi con i precedenti harappani.

Così pure non è chiaro il contesto dei c.d. copper hoards, oggetti di rame rinvenuti appunto in gruppi più o meno consistenti, sovrattutto in tre zone dell'India settentrionale: Haryana/Rajasthan, Gaṅgā-Yamunā Doab, Chota Nagpur. Forse in parte lingotti, ma anche armi e utensili, essi sono attribuiti al II millennio e sono certamente estranei alla civiltà della valle dell'Indo; è dubbio se in alcuni di essi debbano riconoscersi figure umane stilizzate: in tal caso si tratterebbe di un processo astrattivo non riscontrabile in alcun altro momento della storia del subcontinente. Non manca chi ha voluto vedere negli oggetti «antropomorfici» elementi di un'arma, il vajra vedico.

Stuart Piggott attribuì questi oggetti a gruppi di cacciatori-raccoglitori, in gran parte dediti alla pesca. Oggi si tende a rivedere questo giudizio e ad attribuire agli oggetti un valore non soltanto utilitario ina anche (o invece) cultuale, ma non è stata suggerita alcuna interpretazione coerente che possa sostituirsi a quella del Piggott.

Una produzione artistica che possa essere studiata in termini di evoluzione stilistica appare solo più tardi e in concomitanza con due eventi storici di grande momento: l'affermarsi delle correnti religiose «eterodosse» come il buddhismo (il cui sorgere è tradizionalmente attribuito al VI-V sec. a.C.) e la conquista macedone (fine del IV sec. a.C.). Ricorderemo tuttavia che, per quanto riguarda la nascita del buddhismo (o, per meglio dire, la vita del Buddha Siddhārtha), le date tradizionali - che risalgono a testi religiosi assai tardi - sono state da più parti poste in dubbio: nulla in verità sappiamo del buddhismo prima del III sec. a.C. ed è in tale secolo o poco prima che abbiamo le prime attestazioni di arte indiana. È questa è, molto presto, arte buddhistica, anche se le due cose, come vedremo, coincidono meno di quanto talvolta si sia pensato. Perfino le più antiche fra le modeste manifestazioni coroplastiche non sembra che debbano collocarsi prima del III sec. a.C.: nessuna possibilità quindi di vedere una continuità sia pure «sotterranea» tra le figure femminili della valle dell'Indo e quelle, pur per qualche verso simili, di epoca maurya.

L'arte i. nasce dunque nel IV-III sec. a.C. come arte monumentale e di committenza aulica: i c.d. Pilastri di Aśoka, distribuiti su una vasta area del bacino gangetico, restano ancor oggi la pressoché unica testimonianza di tale produzione. Studi relativamente recenti hanno tuttavia migliorato la nostra comprensione di quei manufatti: J. Irwin ha mostrato quale sia il valore cosmologico (anzi, più propriamente, cosmogonico) di questi «Pilastri di Indra», simbolo di un asse che incardina le une alle altre le diverse sfere del cosmo; si tratta dunque di monumenti il cui significato non è specificamente buddhistico, come invece si era creduto, eppure non contrasta affatto con il buddhismo, tanto da potere essi in alcuni casi essere oggetto di una lettura esplicitamente buddhistica. I pilastri vengono eretti dal sovrano per affermare ogni volta che egli è il centro, è l'asse di un ordine cosmico e, a un tempo, sociale ed etico che si vuole immutabile. Lo stesso Irwin ha anche mostrato che non tutti i c.d. Pilastri di Aśoka sono dovuti a questo sovrano: alcuni di essi sono più antichi, anche se pur sempre attribuibili a sovrani della dinastia Maurya, quella dinastia che aveva unificato l'India settentrionale approfittando della situazione verificatasi all'indomani della conquista macedone del Nord-Ovest. Talora Aśoka fece incidere i suoi editti sui pilastri (già esistenti o appena costruiti), riaffermando così la «centralità» della sua parola, della sua legge.

È il momento in cui si assiste a un rapido sviluppo della città, già strutturata in maniera complessa, se accettiamo che siano di epoca maurya quei passi dell’Arthaśāstra di Kauṭilya che spiegano come una città debba distribuire e organizzare il suo spazio. L'introduzione del ferro nella fabbricazione degli strumenti agricoli ha probabilmente causato un'esplosione della produzione, consentendo traffici commerciali di più ampio raggio che investono sia l'India gangetica sia il Deccan: se infatti è pur vero che il ferro sarebbe stato introdotto in India intorno all'8oo a.C. (alcuni pensano a date ancor più alte), è soltanto a partire dal IV sec. a.C. (in concomitanza con la fase tarda della Northern Black Polished Ware, «Ceramica nera polita del Nord») che la sua conoscenza ebbe un'effettiva applicazione nella fabbricazione di strumenti di lavoro nella valle del Gange.

Eppure di quelle città conosciamo ben poco, soprattutto dal punto di vista architettonico: la grande sala pilastrata presso Kumrāhar (Patna, v. pāṭaliputra) è probabilmente parte del palazzo di Candragupta, il primo dei Maurya, nonno del più celebre Aśoka; tuttavia le insufficienze metodologiche dello scavo, che furono molto gravi, hanno reso ormai impossibile una sua corretta lettura. Un'idea più completa di come dovesse apparire una città - o almeno la sua zona più «monumentale» - la ricaviamo piuttosto dai rilievi di Bhārhut (Madhya Pradesh orientale) con scene della vita del Buddha, anche se questi appartengono non al IV-III ma al II-I sec. a.C.: edifici a più piani costruiti quasi per intero di legno, almeno nelle loro parti portanti, con logge e balconi, portali ad arco carenato ottenuto mediante flessione di elementi lignei, coperture a padiglione presumibilmente ottenute mediante l'uso di rami, foglie (o paglia) e fango. Le iscrizioni sui rilievi di Bhärhut sono molto sintetiche, ma ne ricaviamo tuttavia qualche termine tecnico: pāsāda è il palazzo, devasabhā («sala di assemblea degli dèi») un santuario con copertura a doppio spiovente e recinto da una balaustra, cui si accede mediante un arco carenato.

Queste caratteristiche, che ci fanno comprendere perché nulla ci sia rimasto di questa architettura (il clima dell'India non consente la sopravvivenza del legno e di altri materiali deperibili, come l'avorio), probabilmente si erano già affermate nel periodo maurya, ma si resta nell'ambito della pura possibilità. Soltanto il toraṇa (portale) scolpito della grotta di Lomāś Rsi (v.), se davvero è del tempo di Aśoka o comunque di epoca maurya, può rappresentare un elemento di comparazione tra l'architettura di questa e l'architettura raffigurata nei rilievi di Bhārhut.

Altro discorso si può fare per la scultura, documentata sovrattutto dai capitelli figurati di quei «Pilastri di Aśoka» di cui qualcosa si è già detto. Qui abbiamo a che fare con un gruppo abbastanza consistente, e molto omogeneo dal punto di vista tipologico, di simulacri animali: leoni isolati o attergati in gruppo di quattro, tori, elefanti.

Lo stesso Irwin ha suggerito di suddividere i pilastri maurya in due gruppi, di cui il più antico, caratterizzato fra l'altro da più deboli fondazioni, comprenderebbe i buoi di Rampurva e Prayāga (v.), l'elefante di Sankisa e il leone di Vaiśāll e sarebbe precedente ad Aśoka, il più recente (con iscrizioni di Aśoka) comprenderebbe invece soltanto esemplari con capitelli leonini: Sārnāth (v.), Lauriyā Nandangarh (v.), Rampurva. La scelta del leone parrebbe dunque caratterizzare il regno di Aśoka.

leoni vengono giudicati stilisticamente non-indiani da Irwin (e da altri), al contrario del bue di Rampurva e dell'elefante di Sankisa che appaiono invece squisitamente «indiani». La questione è delicata e merita maggiore approfondimento, peraltro difficile per la scarsa documentazione che abbiamo dell'arte maurya: i leoni hanno senza dubbio un aspetto «araldico» e richiamano possibili prototipi achemenidi o addirittura mesopotamici e il fatto che si affermino in un secondo momento rispetto agli altri animali emblematici suggerisce - è questo tutto quel che possiamo dire - che si tratti di una scelta programmatica da parte del sovrano, magari tenendo presente un modello straniero. Che il Buddha, il «leone degli Śākya» (Śākyasiṃha) possa essere adombrato in quei simulacri è ipotesi da non dimenticare ma da controllare nella nuova prospettiva simbologica proposta da Irwin.

Il II sec. a.C., grosso modo il periodo della dinastia Sunga (c.a 185-80 a.C.), vede la produzione, in parti dell'India tra loro lontane, di un'arte sia di contenuto religioso (quasi esclusivamente buddhistico) sia profana con caratteristiche abbastanza omogenee.

L'arte buddhistica si esprime per la prima volta in forma completa e matura in alcuni monumenti fondamentali dell'India antica, fra i quali è eminente lo stūpa di Bhārhut, cui già si è fatto cenno. Un altro stūpa, il n. 2 di Sāňcī, è attribuito da alcuni alla prima metà del II sec. a.C. e sarebbe dunque più antico di quello di Bhārhut, ma per altri si deve collocare piuttosto verso la fine del secolo: la sua decorazione è più semplice e non contiene alcuna di quelle rappresentazioni narrative che saranno caratteristiche degli stūpa più tardi. Ma quel che più interessa è che, a differenza di quanto si è sempre creduto, la sua decorazione originaria (alcuni rilievi sono aggiunte seriori, forse contemporanee della vedikā dello stūpa 1) non comporta alcun tema buddhistico, come ha rilevato M. Bénisti (che propende per la datazione più alta), ma appartiene ancora al fondo tradizionale dell'antica cultura indiana. Significa questo che dobbiamo considerare lo stūpa 2 di Sañcl come un monumento non-buddhistico, sviluppando a questo proposito un'intuizione di J. Irwin che ha mostrato come lo stūpa (v.), sia in fondo un simbolo cosmogonico semplicemente indiano, senza che gli si debba applicare alcun'altra etichetta, e che esso sia stato poi incorporato in un contesto buddhistico? La presenza delle reliquie di alcuni arhat (maestri della dottrina buddhistica) lo farebbe escludere, ma il dubbio non sarebbe ingiustificato.

Ormai da tempo si è riconosciuto che anche l'India peninsulare (soprattutto l'Andhra Pradesh) era coinvolta nello stesso processo di sviluppo artistico, anche fuori del dominio degli Śuṅga. Lo stūpa di Amarāvatī è praticamente certo, grazie a documenti epigrafici, che sia in origine una fondazione di Aśoka e la sua decorazione più antica si colloca assai presso nel tempo a quella di Bhārhut e dello stūpa 2 di Sāňcī. Così pure a epoca suñga-satavahana (II-I sec. a.C.) sono da attribuire i frammenti scultorei dello stūpa di Pauni (v.), scoperti in anni relativamente recenti.

Accanto a questi monumenti costruiti, nel II sec. a.C. si eseguono opere colossali scavate nella roccia, opere che fra le prime hanno suscitato l'interesse degli studiosi nel secolo scorso ma che non hanno mai avuto una sicura sistemazione cronologica. La loro importanza è enorme perché esse riproducono «in negativo» le forme di edifici costruiti, fornendoci così di questi rappresentazioni in scala naturale che nessuna filologia ci avrebbe mai restituito.

Abbiamo già fatto cenno della grotta di Lomâs Rsi, forse la più antica; ma il gruppo più consistente e complesso è quello dell'India occidentale: Bhājā (vihāra 19) e Pitalkhorā (ν.) vengono collocate tra la fine del II e l'inizio del I sec. a.C., Bedsā verso la metà del I sec. a.C. o poco dopo, mentre il grande caityagṛha di Kārlī è senz'altro più tardo, da attribuirsi secondo J. C. Harle alla metà del I sec. d.C. o poco dopo. Viene così respinta la vecchia datazione al II sec. a.C. e quella, più prudente ma pur sempre priva di reale fondamento, dell'8o a.C. circa che ancora era accettata dal Rowland; tuttavia Harle non considera accettabile neppure l'ipotesi opposta, quella che fu avanzata da W. Spink su basi epigrafiche e accolta ancora di recente dagli Huntington, che colloca il caityagṛha di Kārlī intorno al 120 d.C., e ciò perché la data del sovrano Nahapāna ricordato in un'iscrizione di Kārlī da cui parte il ragionamento di Spink è tutt'altro che certa.

Un certo accordo si è orinai raggiunto per i torana del grande stūpa (n. 1) di Sāňcī: I sec. d.C., anche se con qualche non indifferente oscillazione; in particolare si resta perplessi di fronte alla proposta di J. C. Harle di collocarli tra la fine del I e l'inizio del II sec. d.C., una datazione eccezionalmente tarda di cui non viene fornita giustificazione. Resta invece un totale disaccordo per quanto concerne opere scultoree isolate come la famosa yakşī di Dīdargañj (presso Patna). Questa presenta la caratteristica politura che è propria delle opere certe di età maurya e tuttavia, quando la si confronti con i rilievi di Bhārhut, di Pitalkhorā, o dello stesso stūpa 1 di Sañcl, essa appare più matura, più prossima p.es. alle coppie di donatori del caityagṛha di Kārlī. Pertanto v'è chi, come gli Huntington e P. Chandra, preferisce attribuirla a epoca maurya (III sec. a.C.) e chi, come J. C. Harle, la data, sia pure con qualche esitazione, al I sec. d.C. Inutile aggiungere che simili incertezze e oscillazioni si verificano anche a proposito delle varie immagini di yakşa (Parkham, Patna, ecc.) di questo stesso periodo. Il fatto è che ancora manca un'analisi stilistica rigorosa di questa produzione, analisi ormai urgente perché coinvolge un numero sempre maggiore di opere: abbiamo già detto di Amarāvatī e Guḍimallam, ma si dovrà aggiungere che la stessa arte del Nord-Ovest ha una sua fase «proto-gandharica» (alcuni preferiscono dire «pre-gandharica») non disgiungibile dalla produzione «śuṅga» (ν. Gandhāra, arte del).

Vi era anche una produzione profana, fatto questo che spesso si dimentica (e non senza motivo, poiché ce ne restano solo lacerti) nello studio dell'arte i.: alcune figurine di terracotta (ma per alcune, quelle femminili, v'è sempre il dubbio che siano rappresentazioni di «dee madri»), fra cui le c.d. Baroque Ladies del Nord-Ovest, placche di terracotta con scene apparentemente «di genere» o fiabesche (in qualche caso si trovano corrispondenze con dei jātaka), ma soprattutto avori. Questi ultimi sono stati rinvenuti in varî siti dell'India (fra le più recenti scoperte ricordiamo il frammento di Bhokardan, nel Maharashtra, molto simile al celebre avorio di Pompei), ma soprattutto importante è il gruppo di avorî di Begrām (Afghanistan), da tempo ben noti ma ancora in attesa di una soddisfacente datazione: oggi si tende a collocarli tra la fine del I sec. a.C. (i più antichi) e il II sec. d.C., superando quindi la vecchia ipotesi di Ph. Stern che pensava a un tempo compreso tra l'ultimo quarto del I sec. d.C. e la seconda metà del II sec., attribuendoli cioè tutti a epoca kuṣāṇa.

Un'altra importante acquisizione per la storia dell'arte i. dovuta agli scavi francesi in Afghanistan è il disco (forse coperchio) di madreperla con incrostazioni di pasta vitrea trovato ad Ai Khānum, in cui C. Rapin suggerisce che si debba riconoscere una rappresentazione del mito di Sakuntalā. La caduta della città greca di Ai Khānum, che si colloca intorno al 150 a.C., rappresenta un prezioso terminus ante quem per questo raro oggetto di artigianato indiano cui non è facile trovare confronti precisi in India: Rapin propone un valido confronto con l'importantissimo vaso di rame inciso di Gumla (Kulu Valley, Himachal Pradesh), scoperto nel 1857 ed esposto al British Museum ma per lo più ignorato dai manuali; anche per questo Ioṭā, che presenta tante affinità stilistiche con i rilievi del vihāra di Bhājā, si conferma quindi la datazione in età sunga proposta da B. Rowland piuttosto che quella tradizionale al 200-300 d.C. e diviene di conseguenza del tutto improbabile l'identificazione della scena con una storia della vita di Siddhārtha (questi non era infatti mai rappresentato iconicamente in epoca śuṅga).

A Mathurā (Uttar Pradesh) nuovi scavi hanno procurato nuovo materiale scultoreo ma soprattutto hanno fornito indicazioni cronologiche molto importanti anche per la questione a lungo dibattuta della data del sovrano kuṣāṇa Kaniṣka, la cui collocazione nel II o addirittura nel III sec. d.C. viene ormai scartata, fra l'altro, sulla base dei risultati degli scavi di Sonkh. Questi ultimi meritano anche di essere rammentati per il tempio absidato 2, un'importante acquisizione per la storia dell'architettura religiosa.

Un inatteso arricchimento del catalogo delle sculture della «scuola» di Mathurā kuṣāṇa ci viene dallo scavo di Saṅghol (v.): una grande fossa raccoglieva ben 117 elementi scolpiti della balaustra di uno stūpa, da attribuire al I sec. d.C. Sanghol, come è stato rilevato da S. P. Gupta, è un sito di importanza vitale per l'interazione tra le «scuole» di Mathurā e del Gandhāra, un fenomeno alla cui conoscenza ha dato il maggior contributo J. E. van Lohuizen-de Leeuw (v. gandhāra, arte del). è considerevole lo sforzo di classificazione del materiale scultoreo da parte di varí studiosi: esso ha dato luogo a cataloghi (N. P. Joshi), tentativi di sintesi (R. C. Sharma) e persino a convegni. Diversi studi si sono rivolti alle iconografie, naturalmente in stretta connessione con gli studi sull'iconografia gandharica. I più rilevanti sono certamente quelli di H. Hārtel sul Buddha kapardin e di G. Verardi sulla simbologia del Bodhisattva, per quanto riguarda l'arte buddhistica; quello dello stesso Verardi sui sovrani kusäna per una revisione critica del concetto stesso di «arte dinastica» e in primo luogo di «culto dinastico» kusäna: qui il Verardi dimostra l'inconsistenza di teorie ampiamente accettate e riconduce il fenomeno iconografico in questione (immagini reali di Māṭ, di Surkh Rotai, ecc.) all'ideologia del cakravartin. Da ricordare poi la preziosa dissertazione di G. Kreisel sulle immagini di Śiva nell'arte di Mathurā e alcuni studi in parte paralleli: p.es., quelli di G. von Mitterwallner sull'evoluzione del lihga e sull'iconografia di Durgā Mahiṣāsuramardinī nell'arte kuṣāṇa.

Anche l'arte del periodo gupta è stata oggetto di revisione attenta soprattutto dal punto di vista della cronologia, una revisione che si può dire abbia inizio con un articolo di J. Rosenfield del 1963, in cui si dimostrava, su basi epigrafiche, come le opere considerate «classiche» della scuola gupta di Sārnāth fossero da datare non già al momento considerato «più alto» dal punto di vista politico (i regni di Candragupta II e di Kumāragupta I), ma a un momento più tardo, quello turbolento dei successori

di Skandagupta, e cioè alla seconda metà del V sec. d.C. I lavori d'insieme di maggior rilievo sono quelli di J. C. Harle e di J. G. Williams.

Una fase più antica dell'arte gupta a Sārnāth mostra una maggiore dipendenza dalle elaborazioni formali e iconografiche di Mathurä: si tratta di opere che vengono attribuite agli anni tra il 430 e il 460. Ed è in effetti a Mathurä che si deve riconoscere un ruolo di guida nella produzione gupta collocabile nella seconda metà del IV sec., ancora molto vicina ai precedenti kuṣāṇa; ma non si dimentichi che nella stessa Sārnāth sono presenti immagini che hanno recepito e assimilato la lezione di Mathurā fin dal II-III sec. e cioè assai prima dell'inizio della dinastia Gupta (320 d.C.). In realtà non è possibile indicare un momento preciso di trapasso da un periodo all'altro: sebbene la ben nota «classicità» (in senso indiano) dell'arte gupta sia in parte un'operazione consapevole con risvolti anche ideologici (si veda in proposito quanto la stessa Williams aveva osservato sull'atteggiamento dei Gupta nei confronti del passato, sovrattutto maurya, e si veda l'alto livello qualitativo raggiunto dalle monete, nello stesso stile che caratterizza la più raffinata produzione scultorea), è pur vero che essa non è che il «naturale» (cioè privo di traumi) punto di arrivo di un'elaborazione che era cominciata nei secoli precedenti. D'altra parte le nostre conoscenze sulla società indiana non sono abbastanza approfondite perché si possano cogliere le connessioni tra l'esplosione della produzione scultorea - buddhistica e non - in epoca gupta avanzata e il contemporaneo, sempre più drammatico, fenomeno del declino politico ed economico (e di conseguenza, fisico) della città indiana.

Le iconografie hindu, che in epoca kusäna avevano subito un intenso lavorio passando per sperimentazioni poi abbandonate, trovano in epoca gupta una loro canonizzazione che rappresenta un punto fermo nella storia dell'arte indiana.

Più difficile è stabilire quale sia stato il ruolo delle singole regioni in questa elaborazione. Certamente molto si deve al Gandhāra e a Mathurā, ma ancora forse non siamo in grado di attribuire a ciascuno il suo. Quando J. C. Harle scrive che la concezione del grande rilievo con Varāha a Udayagiri (Madhya Pradesh) - che è attribuibile con sicurezza all'inizio del V sec. - deve molto al «ninfeo» (cioè la nicchia con la rappresentazione delle acque) di Haḍḍa (Afghanistan orientale), egli dà per accettato che quest'opera sia più antica di quella, il che invece non è affatto certo.

Hanno ricevuto un'attenzione particolare i santuari rupestri di epoca gupta e post-gupta (Ph. Stern, W. Spink, Sh. Weiner, H. e I. Plaeschke); le iconografie delle pitture di Aj anta sono state studiate con risultati fortemente innovativi da D. Schlingloff. Eppure, per quanto riguarda Ajaṇṭā, è stata ultimamente posta in discussione la sua pertinenza alla sfera dell'arte gupta, indipendentemente da quella che poteva essere l'estensione del territorio dominato o controllato dai Gupta. Si dovrà probabilmente piuttosto considerare Ajaṇṭā come il prodotto del più notevole fra i «sotto-stili» regionali gupta tra la fine del V e l'inizio del VI secolo.

Il periodo gupta è un momento essenziale per l'elaborazione del tempio hindu, che ha una delle sue prime realizzazioni nel Tempio 17 di Sāñcī, a copertura piana (primo quarto del V sec.), sebbene vi siano serî dubbi che non vi fossero altre strutture al di sopra. Di questa prima fase del tempio hindu - che occupa per intero il periodo gupta - è difficile disegnare un percorso evolutivo, sia per la discontinuità della documentazione, sia per il fatto che alcuni dei templi più antichi (a cominciare dallo stesso Tempio 17 di Sāñcī, ma soprattutto quello apparentemente più evoluto di Nachna Kuthara) hanno subito restauri molto pesanti. Dello stesso famosissimo Tempio dei Daśāvatāra di Viṣṇu (a Deogarh, v. lalitpur) la struttura di coronamento è ampiamente congetturale, per non dire che la sua datazione, basata su confronti stilistici, oscilla tra il 500 c.a e l'inizio del VII sec., comunque in un arco di tempo che andrebbe definito post-gupta (la dinastia dei «Gupta imperiali» cessa alla metà del VI sec.). Altrettanto incerta è la datazione dell'altro celebre tempio, quello di Bhītārgāon (Uttar Pradesh), costruito in mattoni e con decorazione figurata in terracotta, che però ultimamente viene quasi concordemente assegnato al V sec. (metà del V per la Williams, fine del V per Harle). Superfluo ricordare a questo punto le ben note, splendide terrecotte di Ahicchatrā al National Museum di Nuova Delhi.

Ancor più che per approfondimenti di studi, l'arte del periodo gupta e immediatamente post-gupta è venuta alla ribalta per il rinvenimento e la riconsiderazione di opere che hanno mostrato quanto vitale fosse la produzione nelle aree «periferiche», lontane cioè da quelli che erano stati considerati praticamente gli unici due centri di grande rilevanza per la scultura al di fuori del Nord-Ovest: Mathurā e Sārnāth.

Il Rajasthan e il Gujarat in particolare occupano oggi un posto di grande rilievo non soltanto grazie agli scavi di Devnimori le cui terrecotte (c.a 375 d.C., ma più recenti di almeno un quarto di secolo per S. L. Schastok) mostrano affinità considerevoli con quelle di Mīrpūr Khās, nel Sind (v. gandhāra, arte del) e si collocano in una tradizione che sembra avere radici nell'«ellenismo» del Nord-Ovest, ma anche grazie alle sculture di Sāmalājī, di Tanesar, ecc. Se quelle di Śāmalājī sono già ben note fin dall'inizio degli anni '60, quelle di Tanesar sono entrate più di recente nel repertorio corrente dei manuali di storia dell'arte. Uno studio di S. L. Schastok ha inquadrato in maniera per ora definitiva questo sorprendente materiale. Il gusto in qualche modo «ellenizzante» di alcune di queste sculture (ricordiamo sovrattutto le mirabili «madri», forse Kṛttikā, oggi a Los Angeles e a Cleveland, e quelle rimaste a Tanesar, tuttora oggetto di culto) non ha mancato di rinfocolare la discussione sul problema delle «influenze» occidentali, già affrontato in maniera puntuale da H. Goetz alla fine degli anni '^0. Non è da escludere che almeno in parte queste reminiscenze tardo-ellenistiche giungano all'India occidentale non per il tramite gandharico ma direttamente, per via di mare, insieme con alcuni elementi di tecnica pittorica individuati ad Ajaṇṭā.

Lo sviluppo stilistico dopo i Gupta nell'India nordorientale ha suscitato un grande interesse fin dalla pubblicazione di un articolo di Sh. Weiner, nel 1962, in cui si evidenziava il ruolo svolto nel VII sec. da tre siti: Besnagar, Nālandā e Pāhārpur. È il periodo di rinascita «imperiale» con Harṣavardhana (606-647) e con la ripresa dei tardi Gupta nel Magadha.

Più di recente D. Paul ha mostrato come Nālandā sia il luogo ideale di osservazione per studiare il passaggio dall'arte gupta a quella pāla, individuando un primo momento di dipendenza da Mathurā, poi una sintesi tra le elaborazioni di Sārnāth e quelle locali, ma anche un concomitante apporto dal Nord-Ovest che si manifesta sovrattutto nella produzione in stucco, dove si possono riconoscere tratti stilistici e iconografici che difficilmente si potrebbero spiegare nell'ambito della tradizione nordorientale.

Questo ripropone in termini ancor più estremi il problema dell'elaborazione e della diffusione dei motivi nell'India proto-medievale (ma il concetto di «medioevo indiano» è rifiutato senza mezzi termini da J. C. Harle).

Nālandā effettivamente sembra essere uno dei più vitali centri di elaborazione, oltre che di produzione, e ciò non sorprenderà quando si pensi all'importanza della sua università di studi buddhistici che fu anche fonte di prim'ordine di innovazioni dottrinali. È quindi ben possibile che ancora nel IX sec. vi fossero contatti diretti con il Nord-Ovest, ma, per quanto riguarda la trasmissione di motivi artistici, si deve piuttosto ritenere che l'apporto «gandharico» a Nālandā sia assai limitato, forse soltanto alla produzione in stucco, mentre è palese - come la stessa Paul ha messo in evidenza - che la produzione in bronzo, così ampiamente attestata a Nālandā ma anche in altri siti (p.es. Maināmati, nel Bangladesh), è assolutamente caratteristica della regione.

Per restare nell'ambito del Bihar e del Bengala, ricordiamo che gli sviluppi di epoca pāla (la dinastia si afferma nella seconda metà dell'VIII sec.) sono stati oggetto di alcuni lavori d'insieme (A. K. M. Shamsul Alam e, sovrattutto, S. L. Huntington) che hanno avuto fra l'altro il grande merito di rendere noto materiale non sempre reperibile in pubblicazioni precedenti; gli studi della Bautze-Picron, di carattere tipologico e iconografico, oltre che stilistico, si segnalano per il loro contributo a una classificazione più rigorosa nonché per un tentativo di valutazione estetica più articolato delle pur felici intuizioni critiche di S. Kramrisch (1929); tuttavia, come rileva J. C. Harle, molto resta ancora da fare e l'evoluzione della scultura päla (non sempre distinguibile dai posteriori sviluppi al tempo della dinastia Sena), non si presta ancora a una lettura che non sia soltanto morfologica.

L'Orissa è, fra le regioni dell'India, quella che può forse vantare una maggiore quantità di nuove conoscenze acquisite in questi ultimi anni. Gli scavi di Ratnagiri, correttamente pubblicati da Debaia Mitra, hanno portato alla luce un grande stūpa e due vihāra (monasteri), dei quali il n. 1 è quello che mostra una produzione scultorea di più elevata qualità. La tradizione gupta è ancora estremamente vitale in questo complesso che viene attribuito all'VIII secolo. I confronti con il Vaital Deul e altri templi di Bhubaneshwar sono stringenti, ma la produzione buddhistica sembra nell'insieme essere più conservatrice di quella hindu. Quest'ultima è stata oggetto di studio in un'opera monumentale di Th. E. Donaldson, il cui materiale cade però in massima parte oltre i limiti cronologici di questa enciclopedia.Il Deccan, in cui si trovano i ben noti santuarî rupestri di Elura (uno dei complessi più ampiamente studiati dell'India antica fin dal secolo scorso), conserva anche un altro nucleo di eccezionale importanza per il numero dei templi, per il loro stato di conservazione e per la varietà dei tipi architettonici: esso è costituito da Bādāmi (l'antica Vātāpi), Aihole (v.) e Mahākūṭa. Ormai si è d'accordo nel collocare queste opere tra il VI e la prima metà dell'VIII sec., al tempo dei primi Cāḷukya occidentali: ricordiamo il tempio Malegitti Śivālaya (VII sec.) a Bādāmi, il tempio di Gaudargudi ad Aihole (fine del VI-inizio del VII sec.) e, ancora ad Aihole, il tempio di Huchimalligudi (VII-VIII sec.) e quello di Durgā (primo quarto dell'VIII sec.); nella stessa area, ma un po' più tardi, il tempio di Virupākṣa a Paṭṭadakal (metà dell'VIII sec.). Maggiore incertezza permane a proposito del c.d. Tempio di Lāḍ Khān ad Aihole: sebbene nessuno ormai creda più alla datazione alta (V sec.), le proposte tuttavia oscillano ancora di un secolo, tra il VI-VII e il VII-VIII. Quest'ultima attribuzione è sostenuta da S. Rajasekhara sulla base delle strette affinità stilistiche con il tempio di Jambuliṅga a Bādāmi, che si data grazie ad alcune iscrizioni.

Nessuna omogeneità tipologica unifica questi templi, i quali mostrano piuttosto di essere dipendenti da modelli anche lontani, sia settentrionali sia meridionali. La loro varietà rende ancor più difficile una classificazione cronologica sulla base dell'evidenza interna ed è sintomo del carattere composito e fortemente ricettivo di una regione che, sotto i Cāḷukya occidentali, si trovò a essere in breve volgere di anni centro di partenza di forti spinte espansionistiche (verso l'India centrale e verso la costa orientale dell'India meridionale) e preda di conquistatori dal Sud. Il c.d. Tempio di Lāḍ Khān presenta una pianta anomala che ha fatto dubitare che in origine si trattasse davvero di un tempio.

Ai Cāḷukya occidentali si deve anche la costruzione dei templi di Alampur (Andhra Pradesh), alla confluenza della Tungabhadra e della Krishna (VII sec.). In tempi relativamente recenti sono stati scoperti alcuni nuovi gruppi di templi assimilabili a questi ultimi: i templi di Satyavolu, presso Giddaluru nel distretto di Kurnool (Andhra Pradesh) e il tempio di Mahānandi, anch'esso nell'Andhra Pradesh (M. Rama Rao).

E sviluppo dell'arte di Aihole e Bādāmi la produzione dei Cāḷukya orientali, che nel VII sec. si erano stabiliti nelle regioni costiere di lingua telugu sul corso inferiore della Krishna e più a Sudi M. Rama Rao ha raccolto una discreta documentazione sui templi del distretto di Guntur, fra i quali il gruppo di maggior rilievo è quello di Bikkavolu: i più antichi templi risalirebbero al tempo di Gunaga Vijayāditya (848-891).

Se ora ci spostiamo più a S lungo le coste del Coromandel, è certamente l'architettura (e la scultura templare) dei Pallava quella che richiama maggiormente l'interesse degli studiosi, ancora una volta per la grande quantità delle opere e per il livello non di rado altissimo della loro qualità. La loro documentazione è da gran tempo assai ampia e non converrà soffermarsi su di esse se non per ricordare che ai templi pallava cavati nella roccia è stato dedicato il primo volume della serie Architectural Survey of Temples dell'Archaeological Survey of India.

Il centro principale è, com'è noto, Māmallapuram (vulgo Mahabalipuram), la cui costruzione si ritiene per lo più che sia da attribuire ai sovrani Narasiṃhavarman I Māmalla e Narasiṃhavarman II Rājasiṃha e sia pertanto compresa grosso modo tra il 630 e il 720 d.C. La produzione architettonica a Māmallapuram viene così a dividersi in due stili - Māmalla e Rājasiṃha - restando escluso il più antico stile Mahendra (dal nome del padre di Narasiṃhavarman I, Mahendravarman I); ciò comporta un'ancor più spiccata unitarietà di stile nella città, in quanto, nell'evoluzione delle forme architettoniche pailava, uno stacco netto si avverte proprio all'inizio del regno di Narasiṃhavarman I Mämalla. Dai pilastri massicci a sezione ottagonale (ma con sommoscapo e imoscapo a sezione quadrata) si passa infatti ai più snelli pilastri degli stili successivi, a volte sostenuti da leoni: accosciati nello stile Māmalla, rampanti nello stile Rājasiṃha.

N. S. Ramaswami ha sostenuto invece, con argomenti di non poco momento, che tutte le architetture templari (costruite o cavate nella roccia) di Māmallapuram sono dovute alla munificenza di Narasiṃhavarman II Rājasiṃha (c.a 690-720 d.C.). Questo sovrano avrebbe dunque concepito unitariamente la città, molti dei cui monumenti mostrano di esser rimasti incompiuti. I celebri ratha, in particolare, acquistano nella lettura che ne fa il Ramaswami un significato tutto particolare, universalistico: una sorta di galleria di stili e modelli diversi. Abbiamo infatti il Dharmarāja e l'Arjuna-ratha concepiti secondo lo «stile» drāviḍa, il Nakula-Sahadeva-ratha, absidato, che riproduce secondo il modello vesara l'antico caityagṛha, il Bhīma-ratha, anch'esso vesara, che J. C. Harle considera come il prototipo del gopura dei più tardi templi meridionali, il Draupadī-ratha, a pianta quadrata, che trova confronti forse nel Bengala (ma la questione è da approfondire). Qualcosa di simile, abbiamo visto, si riscontra anche con i Cāḷukya di Badami: il Malegitti Śivālaya è costruito secondo il modello drāviḍa, come i templi di Mahākūṭeśvara e Mallikārjuna a Mahākūṭa, dove pure si trovano templi nāgara, cioè settentrionali, e uno con copertura nello stile del Kaliṅga (Orissa), dello stesso tipo del tempio di Mallikārjuna e di quello di Huchimalligudi ad Aihole, e così via: se ne ricava l'impressione che sia i Cāḷukya sia i Pallava (o per lo meno Narasiṃhavarman II Rājasiṃha) riconoscessero nei templi da loro costruiti potenti veicoli di messaggi ideologici grazie alla stessa varietà delle forme architettoniche impiegate.

Una maggiore uniformità troviamo nell'India occidentale e nel Madhya Pradesh (sovrattutto in ambiente Gurjara-Pratihāra), nella cui architettura templare prevale la caratteristica torre dello «stile» nāgara (lo śikhara): basti pensare ai templi di Sūrya e di Hari-Hara a Osian, nel Rajasthan (750-800 d.C.), a quello di Nakti Mātā a Bhavanipura nel Rajasthan (IX sec.), ai templi di Roda nel Gujarat settentrionale (VIII-IX sec.), e ancora ad alcuni fra i più famosi templi di Chitorgarh (Rajasthan meridionale). È fondamentale il lavoro di raccolta e sistemazione di O. Viennot.

Una «scuola» di particolare importanza e originalità è certamente quella del Kashmir, regione fortemente legata al Nord-Ovest e nota fin dall'epoca gupta per una produzione non riconducibile a modelli comuni: ricordiamo qui le terrecotte di rivestimento del tempio buddhistico di Harwan, oggi spesso attribuite al IV-V sec. (Harle, Huntington), ma forse, come propone P. G. Paul, da collocare verso la fine del V sec.; esse sembrano essere il risultato dell gusto eclettico di un ambiente (probabilmente Hūṇa/Eftalita) senza radici culturali nel territorio e comunque non ebbero conseguenze apprezzabili negli sviluppi posteriori dell'arte del Kashmir.

Le sculture di terracotta (ma in realtà di argilla cruda, poi cotta accidentalmente) di Akhnur e quelle più tarde di Ushkar (v. gandhāra, arte del) mostrano quanto forti fossero i legami tra il Kashmir e il Nord-Ovest e quanto il lessico figurativo gupta servisse da elemento unificante anche in queste regioni periferiche.

La sistemazione della produzione architettonica del Kashmir dovuta a H. Goetz è ancor oggi sostanzialmente valida (i suoi scritti sull'argomento sono stati utilmente raccolti in volume); ricordiamo però che ancora attendono l'attenzione che meritano e una degna pubblicazione i templi del Salt Range (p.es. Malot), quelli di Dera Ismail Khan (i due Kafir Kot) e quello di Kallar nel distretto di Attock (in Pakistan), per non dire dei templi nella valle del Kunar, in Afghanistan, tutti databili tra il VII e il IX sec.; di essi, quello di Malot è certamente molto più vicino ai grandi modelli del Kashmir di quanto non siano gli altri.

Qualche novità riguarda invece la scultura in bronzo, strettamente legata alla produzione dello Swāt, se non altro perché il corpus, qualche anno fa estremamente esiguo, è oggi davvero ragguardevole (P. Pai). Inoltre, fra i bronzi recentemente apparsi sul mercato e finiti sia in collezioni private sia in varî musei del mondo (si tratta in gran parte di oggetti provenienti da templi del Tibet e del Ladakh ma in alcuni casi, purtroppo, anche di reperti da scavi clandestini), ve ne sono alcuni datati: questi si vanno ad aggiungere al Lokeśvara della regina Diddā (989 d.C.) conservato allo Sri Pratap Singh Museum di Srinagar, che fino a pochi anni or sono era l'unico punto di riferimento cronologico sicuro. Tuttavia siamo ancora ben lungi dal poter facilmente collocare in successione temporale questi bronzi, la cui perfezione tecnica sarebbe stata raggiunta nel secondo quarto dell'VIII sec., al tempo di Lalitāditya (P. G. Paul).

Per quanto riguarda la produzione in pietra, essa va naturalmente considerata insieme con quella «śāhi», che si afferma prima in Afghanistan (VII-IX sec.) con gli Śāhi turchi di Kabul, poi con gli Hindu Śāhi di Hund (l'antica Udabhāṇda, presso Attock), fino alla conquista musulmana della regione. Anche nel caso di questa produzione, caratterizzata dall'uso del marmo e dall'assoluta preminenza di soggetti hindu, il corpus si è accresciuto notevolmente e la sua evoluzione ci è oggi più chiara grazie alla possibilità di confronti stilistici con la scultura in argilla (sovrattutto Fondukistān e Tapa Sardār) proveniente da scavi scientifici. La migliore sistemazione cronologica dei marmi śāhi è a tutt'oggi quella proposta da Sh. Kuwayama.

Ricordiamo infine che un buon lavoro di ricognizione si va svolgendo in questi anni nelle valli del Himachal Pradesh, con risultati senza dubbio incoraggianti (Università di Vienna-IsMEO).

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