ARNOLFO di Cambio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 4 (1962)

ARNOLFO di Cambio

Stefano Bottari

Figlio di Cambio, nacque a Colle di Valdelsa nel 1245 circa. È insieme con Lapo, fra gli allievi di Nicola Pisano che dovevano collaborare col maestro nell'esecuzione del pulpito del duomo di Siena, secondo l'impegno preso da quest'ultimo nell'agosto 1265 con fra' Melano, procuratore della Fabbriceria del duomo. L'opera, secondo i patti, venne avviata nel marzo dell'anno successivo, ma A., contrariamente all'impegno, non era presente, tanto che fra' Melano, nel mese di maggio, notificò al maestro un'ingiunzione, reclamando la presenza del giovane allievo.

Evidentemente A., per essere tenuto lontano dall'inizio dei lavori del pulpito, doveva essere impegnato in qualche altra impresa, e doveva pure trattarsi di impresa che teneva occupata tutta l'"officina", se lo stesso Nicola ebbe cura di interporre tra la data dell'impegno e quella dell'inizio del pulpito un bel lasso di tempo. Gli studiosi sono ormai concordi nell'indicare nell'Arca di San Domenico in Bologna l'opera che teneva impegnato Nicola e la sua scuola al momento del contratto per il pulpito senese, e particolarmente poi A. all'inizio dei lavori del pulpito. Nell'Arca di San Domenico bisogna pertanto ricercare la più antica documentazione dell'attività di A., a meno di non cedere alla tentazione di favoleggiarne una preistoria nei cantieri cisterciensi di San Galgano e dello stesso duomo di Siena. La ricerca, nel senso indicato dalle più attendibili supposizioni, è stata avviata da R. Barsotti (cfr. L'Arca di S. Domenico e il pulpito di Pistoia - Arnolfo di Cambio e l'Arca di S. Domenico a Bologna, in L'Illustrazione Vaticana, V [1934], pp. 336-340, 380-384, 561-565) e proseguita, con risultati ben più calzanti, da C. Gnudi (cfr. Nicola, Arnolfo, Lapo - L'Arca di S. Domenico in Bologna, Firenze 1948, pp. 57 ss.). Documenti e qualità di stile concordano difatti nel far ritenere che Nicola abbia ideato l'Arca e vi abbia dato anche mano con il concorso di suoi allievi, principalmente Lapo e A.; che a un certo punto la partecipazione diretta di Nicola e Lapo sia venuta meno e che a portare avanti i lavori sia stato A. aiutato da fra' Guglielmo da Pisa; che infine anche A. si sia allontanato per lasciar libero il campo al solo fra' Guglielmo.

Non è possibile riprendere in questa sede l'analisi dell'opera per distinguere l'apporto dei vari collaboratori (impresa già egregiamente condotta dallo Gnudi e avvalorata dagli ulteriori studi: cfr. S. Bottari, L'arca di San Domenico, in Scritti di Storia dell'Arte in onore di M. Salmi, Roma 1961, pp. 391-415), ma è da sottolineare che nell'Arca, come oggi si vede, la parte anteriore, eseguita sotto la direzione di Nicola, è notevolmente diversa dalla posteriore, condotta sotto quella di Arnolfo.

V'è, nella intavolazione dei due scomparti del lato posteriore, un impegno architettonico che manca nei due del lato anteriore; e le singole figure, anche quando l'esecuzione resta approssimativa, hanno una gravità, un risalto monumentale, che le allinea, in sequenza coerente ed unitaria, con quelle successive dello stesso Arnolfo. È la metrica solenne e grandiosa delle più antiche figurazioni di Nicola (quelle dei più antichi scomparti del pulpito pisano), ma l'imposto più rigorosamente architettonico frena lo slancio, l'immensa forza di espansione. In tale misura, nel calcolo sottile che bilancia le composizioni e potenzia il blocco monumentale delle figure, già si avverte una delle qualità fondamentali dell'arte fiorentina; e non è certo un caso che le scene arnolfiane, le sue figure, anticipino, in maniera tanto pungente, scene e figure del ciclo francescano di Giotto, e proprio della zona più antica e genuina di esso.

Nella parte anteriore dell'Arca gli allievi lavorarono sotto il controllo più diretto di Nicola, e in conseguenza gli accenti peculiari di ognuno, peraltro compromessi dal livellamento operato dalle forti lucidature, risultano più attenuati e sfumati.

Tuttavia, come è possibile isolare le figure di Lapo per il loro ritmo distaccato ed astratto, chiuse come sono nella sognante evocazione di remoti splendori, così è possibile isolare, per il più spiccato assetto volumetrico, per l'andamento geometrico, figure da riportare nell'ambito della spiritualità arnolfiana.

La presenza di Nicola si rivela più attiva e impegnata nel gran fregio del pulpito senese, e di conseguenza, diversamente da quanto accade nell'Arca e particolarmente nella parte posteriore di essa, se è possibile isolare qualche figura e qualche scena e riferirla a questo o a quell'altro dei discepoli esplicitamente associati nell'impresa (ad esempio, A. s'intravvede in qualche tratto della Natività, e poi, ma sempre su modelli del maestro, nelle scene seguenti dell'Adorazione dei Magi, della Presentazione al Tempio, della Fuga in Egitto, nel brano degli eletti del Giudizio, nel gruppo dei profeti), non è altrettanto agevole discorrere di un loro operare autonomo, e puntualizzarne gli accenti peculiari.

Dopo i lavori in collaborazione con Nicola (il pulpito senese venne condotto a compimento nel 1269), solo a Roma, ove lo sappiamo al servizio di Carlo d'Angiò, ritroviamo A. nella pienezza della sua attività autonoma. È probabile che egli si sia incontrato con Carlo d'Angiò nel 1272; ed è pure probabile che l'artista, lontano ormai dal cantiere nicoliano, fosse impegnato, come ha supposto M. Salmi (cfr. Arnolfiana, in Riv. d'Arte, XXII[1940], pp. 138 ss.), in lavori d'architettura e che per qualche tempo (dal 1269 al 1277 non si hanno infatti notizie) abbia seguito il suo protettore nell'Italia meridionale. Certo è che a Roma, nel 1277, ove lo troviamo nella duplice veste di architetto e di scultore, attende ad opere in cui l'architetto appare associato allo scultore, e lo scultore all'architetto. Cadono, in questi anni, opere come la Tomba di Adriano V (m. 1276) in San Francesco a Viterbo; il Monumento al cardinale Riccardo Annibaldi della Molara (m. 1276) in San Giovanni in Laterano, scomposto nella trasformazione borrominiana della basilica, e di cui restano, mirabili frammenti, la figura giacente del cardinale e l'altorilievo con la celebrazione della liturgia; i lavori di trasformazione della chiesa di Santa Maria in Aracoeli, ai quali è da congiungere, secondo l'attendibile ipotesi di P. Cellini (cfr. Di Fra' Guglielmo e di Arnolfo, in Bollett. d'Arte, XL [1955], pp. 222 ss.), la costruzione, sul fianco destro, del "tribunal" con la statua di Carlo d'Angiò; e nel contempo, sempre all'Aracoeli, le due tombe affrontate nella cappella Savelli (quelle del padre e della madre di Onorio IV), nelle quali è certamente suo il piccolo e bloccato gruppo della Madonna col Bambino nel centro dell'alzato della tomba di Luca; e poi, fuori di Roma, ma in connessione con l'attività di questo momento, la fonte innalzata a Perugia in pede platee nel 1281 e di cui restano (tutte nella Galleria di Perugia), come ha specificato il Santi (1960) in una suggestiva ricostruzione, le tre figure degli Assetati e la statua acefala del Magistrato, rivendicata ad A. dal Mariani (cfr. Una sconosciuta scultura di Arnolfo di Cambio, in Riv. d. Ist. di Archeol. e Storia dell'arte, VI [1938], pp. 260-65), e il Monumento al cardinale de Braye (m. 1282), malamente ricomposto nella devastata chiesa di San Domenico ad Orvieto (molti frammenti sono stati ammassati nel salone terreno del cosiddetto Palazzo apostolico e due figure rappresentanti Angeli turiferari, acefali, si vedono esposte nel salone del primo piano).

Le opere elencate si seguono in un giro di anni che va all'incirca dal 1276 al 1282: anni quanto mai problernatici e che pure sono, per A., di intensa maturazione e presuppongono, con una svolta fondamentale, fecondi contatti tanto con l'ambiente cosmatesco quanto con la cultura meridionale e campana, così come si era atteggiata nella rigogliosa stagione della fioritura sveva.

La Tomba di Adriano V, e così pure i monumenti che seguono, particolarmente quelli funerari, presuppongono una maturata esperienza delle forme cosmatesche, e non è da escludere che per la loro realizzazione A. abbia utilizzato maestri romani o di educazione romana.

A Viterbo, ad esempio, è probabile, come è stato sospettato dal Cellini e confermato dal Salmi (cfr. Encicl. univ. dell'arte, I, Venezia-Roma 1958, col. 745), che A. abbia avuto come collaboratore quel Pietro di Oderisi che già vi lavorava (si accenna al monumento di Clemente V nella stessa chiesa), aveva mandato opere sue nell'abbazia di Westminster e, più tardi, appare esplicitamente ricordato come "socio" nel ciborio di San Paolo. Ma l'ideazione, per quel che tocca la struttura, ha già il ritmo grave e insieme arioso, il respiro massiccio e insieme spazioso, la misura solenne e insieme grandiosa delle architetture arnolfiane.

Le qualità dell'architettura passano determinanti nelle sculture: nelle figure giacenti di Adriano V e del Cardinale Annibaldi; nella teoria delle figure - scandite ritmicamente sul fondo mosaicato alla maniera dei pulpiti salernitani (Salmi, Arnolfiana, p. 142) - della lastra di San Giovanni in Laterano; e poi, in misura sempre più intensa, nella statua turrita di Carlo d'Angiò (Roma, Musei Capitolini), che rievoca in forme più serrate e chiuse, più architettonicamente strutturate, quella di Federico II già nel monumento di Capua (ora nel Museo Campano), e nella serrata orditura plastica del mutilo frammento di un trombetto (Roma, Musei Capitolini) che ad essa si accompagnava; nelle superstiti metope della fonte perugina in cui l'architettura si articola in scultura, con un risalto altrettanto intenso quanto sorprendente; nella superba statua del Magistrato sedente in cattedra, con il gran libro, di una verità suprema, aperto sulle ginocchia; e finalmente nelle parti autografe della Tomba del cardinale de Braye, quali la figura giacente del prelato, le due figurette nitide e ornate degli accoliti che tirano svelte le cortine del sepolcro, il gruppo classicheggiante della Madonna col Bambino (le altre figure, di un tono più opaco e sommario, sono verosimilmente di un collaboratore, e non è da escludersi possa identificarsi in quel fra' Guglielmo, che A. ebbe già compagno a Bologna e che successivamente, proprio in concomitanza con lui, fu a Roma e poi nella stessa Orvieto).

Si tratta di un gruppo di opere quanto ma serrato e denso, accomunato da un uguale fervore creativo e, nella complessa diversità delle esperienze, da una uguale inclinazione di stile; di un gruppo di opere che scavalca quelle di più immediata dipendenza nicoliana, per una motivazione classica sempre più legata e assorbita in una ispirazione architettonica, per una squadratura plastica sempre più intensamente strutturata in piani e volumi fermi e massicci, larghi e stringenti; in una parola per una sempre più centrata calibratura architettonica. È questo il senso che bisogna dare alla maturazione arnolfiana nel passaggio dalla Toscana a Rorna, e a stimolarla poterono concorrere da un lato i contatti con la cultura meridionale postulati dal Salmi (cfr. Arnolfiana, pp. 139 ss., e dello stesso: L'Architettura,in Firenze, a cura di I. De Blasi, Firenze 1943, p. 147; Arnolfo, in Il Trecento, Firenze 1953, pp. 153-60; Una precisazione su A. architetto, in Palladio, n.s., VII [1957], pp. 92 ss.) e particolarmente quelli con le forme spaziose, geometricamente misurate dell'architettura cisterciense, dall'altro la più attiva applicazione in opere di architettura e, in minor grado, lo stesso incontro con l'artigianato fervido dei Cosmati. L'esperienza nei cantieri nicoliani resta però sempre fondamentale non solo per il peso che ebbe nel suo orientamento e nel suo svolgimento, ma, a considerare il fatto più importante della cultura di questo momento, per il peso che ebbe nello stesso svolgimento di Giotto. È da aggiungere che le qualità accennate pongono le opere suddette trale più tipiche dell'artista. Nel fatto, esse sono quelle che più vivacemente contribuirono a imprimere un nuovo ritmo alla cultura romana dei Cosmati (la Tomba Annibaldi, ad esempio, così come è possibile ricostruirla, con la figura del defunto unita, tra cortinaggi, alla celebrazione del rito, diventa, come ha notato il Salmi - cfr. Enciclopedia..., col. 745 -, il prototipo delle tombe gotiche romane ed è riecheggiata in quella di Stefano de Surdis innalzata nel 1303 da Giovanni di Cosma in Santa Balbina), ed ebbero pure una risonanza che, con l'opera di Tino (si pensi alle tombe napoletane), si prolunga fino alla metà del secolo successivo. La Tomba del cardinal de Braye, poi, imitata in quella di Benedetto XI nella chiesa di San Domenico in Perugia, divenne nel fatto un modello emblematico.

Come s'è visto, per alcune delle opere suddette, A. dovette per qualche tempo allontanarsi da Roma. Qui lo ritroviamo qualche anno dopo impegnato in opere di grande rilievo: il rinnovamento del Sacello del Presepe in Santa Maria Maggiore, dove si custodiscono le reliquie della Culla, commessogli verosimilmente da Onorio IV ed eseguito tra il 1285 e il 1287, e il ciborio della basilica di San Paolo, che reca, con il nome di A., quello del "socio" Pietro, e nella scritta dedicatoria dell'abate Bartolomeo, committente dell'opera, l'anno 1285. Il "socio" è certamente quel Pietro di Oderisi di cui già s'è detto, e non, come per lungo tempo si è creduto, il pittore Pietro Cavallini, che peraltro, incaricato dallo stesso abate, attendeva alla decorazione della basilica, e che più tardi, ancora una volta, si troverà ad operare, contemporaneamente ad A., nella basilica di Santa Cecilia in Trastevere.

Sono anni questi estremamente prestigiosi: gli anni di Cimabue e Torriti, di Pietro Cavallini e A., di Giotto e del Maestro della S. Cecilia, e se qui si dà posto a queste sequenze, che sono pure sequenze di generazioni, è per simboleggiare il cammino dell'arte e sottolineare il ruolo che l'ambiente romano venne ad assumere.

La trasformazione dell' "oratorium praesepis" non è più apprezzabile per il trasferimento operato nel 1586 da D. Fontana dalla sua antica sede all'attuale ambiente sottostante alla cappella Sistina della stessa basilica di S. Maria Maggiore: gli accorgimenti allora adoperati non evitarono la sua trasformazione in senso tardo-cinquecentesco. I due profeti David e Isaia sono sempre al loro posto nei pennacchi dell'arco, stupendamente annodati nei loro ritmi, al pari dei cartigli, ma la composizione delle figure all'interno appare sconvolta e la Madonna col Bambino, meglio che rilavorata, addirittura sostituita con un'altra ad opera di Francesco di Pietrasanta. Comunque le figure in piedi (due Magi e S. Giuseppe), di una gravità ancora nicoliana, sembrano opera di bottega, mentre quella del Re inginocchiato, che rimanda anch'essa a motivi nicoliani, anzi a quei motivi che il maestro attingeva al taccuino di Villard de Honnecourt o addirittura al largo giro dei bronzi, rinnova la vivacità dei profeti, raccolta com'è e bloccata, con appassionata vigoria, negli argini del suo profilo.

Il ciborio della basilica di S. Paolo, in cui gli elementi di derivazione gotica - pinnacoli, ruote, archi trilobi, crociera costolonata, fioroni rampanti, ecc. - si organizzano e si equilibrano in una composizione architettonica misurata, spaziosa e chiara, accusa nella maggior parte delle sculture, molte delle quali ripropongono motivi del classicismo campano e meridionale, il largo intervento del "socio": non sono da escludere modelli arnolfiani, ma i contorni statici, l'andamento levigato del rilievo, lontani dal ritmo fervido e immaginoso delle opere autografe, hanno sapore artigianale. Non si nega, ripeto, ad A. questo più radicale indugio su spunti e motivi della tradizione classica, che, d'altra parte, stabilisce il tono fondamentale della sua opera più avanzata; si dice soltanto che la sua presenza è là dove un fremito più sottile e interno anima le strutture, e la rigidità delle immagini, la levigata presenzialità, si discioglie in concretezza architettonica, in accenti di più vibrata verità.

Dal ciborio di S. Paolo a quello di Santa Cecilia, eseguito nel 1293, nonostante gli anni intercorsi, il passo è breve: A. porta in quest'ultimo a un alto grado di decantazione gli spunti classici ancora dissimulati, nel ciborio di S. Paolo, dall'apparatura gotica, e riesce ad una prefigurazione sorprendente di quell'arcano equilibrio che resta qualità primaria della civiltà fiorentina. Il ciborio di Santa Cecilia (lo si immagini nella pienezza del suo sviluppo) annunzia infatti, nella perspicuità con cui sono colti i rapporti tra le strutture e lo spazio, soluzioni che saranno più tardi riprese da Filippo Brunelleschi.

Le sculture, sia che si accampino nelle partiture architettoniche (come gli Evangelisti, i Profeti, le Donne savie o le Vittorie attorno alle ruote nei timpani terminali), sia che si adergano isolate, come i quattro santi (Cecilia, Valeriano, Urbano, Tiburzio) posti di sghembo sugli spigoli, hanno il tono ornato e prezioso dell'architettura, lo stesso equilibrio. Esse infatti (e mi riferisco particolarmente a quelle degli spigoli, in gran parte autografe) s'intagliano nitide, come avori, e il colore e l'oro le ravvivano, rendendo cristallina e luminosa la materia. L'invenzione più alata è costituita dalla presentazione ellittica del gruppo equestre di S. Tiburzio, quell'ampia, solenne stesura di linee e di piani, alla quale il limite architettonico non nega l'audace pienezza illusiva dello scorcio, come questa non esorbita dalla misura architettonica entro cui il gruppo è contenuto.

L'anno successivo, il 1294, fu per A. colmo di grandi eventi: l'invito a rientrare a Firenze, dopo tanti anni di lontananza, per la fabbrica più importante della città, la chiesa di Santa Reparata; l'avvento al trono pontificio di Bonifacio VIII, che lo portò ad intensificare la sua attività in Roma. Per il nuovo papa dovette infatti attendere al complesso Sacello di s. Bonifacio, che ospitò pure il monumento funerario che lo stesso pontefice si fece innalzare in vita, e, a ricordare solo le opere di più sicura autografia e di più alto grido, alla statua bronzea di S. Pietro la cui appartenenza ad A., e non già alla tarda antichità, è stata di recente ribadita dal Salmi (1960) con l'appoggio di accurate analisi e ricerche.

Il Sacello di s. Bonifacio (consacrato il 6 maggio 1296) più non esiste, e solo scialbamente lo rievoca la rozza stampa inserita da G. Ciampini nella sua opera sui sacri edifici (De Sacris aedificiis a Constantino Magno constructis synopsis historica, Roma 1747, pp. 64s., tav. XX). Dalle poche sculture superstiti nelle Grotte vaticane emerge però, per impegno e vigoria plastica, la figura del Pontefice distesa sui cortinaggi del letto funebre. La statua bronzea di S. Pietro (nella basilica), esemplata su antichi modelli, ma di una solennità che nasce dalla strutturazione ferma e potente, costituisce, avanti la partenza da Roma, il più fervido e convinto omaggio di A. alla tradizione classica, che, in modo tanto congeniale, orientava le ricerche di questo momento della sua attività.

Le strutture del Sacello di s. Bonifacio, composto nell'aspetto di un ciborio trabeato con guglie e pinnacoli, anticipano in certo senso quelle del prospetto della chiesa di Santa Reparata, a cui l'artista si applicò al rientro a Firenze, agli inizi del 1306. Largamente trasformato nel corso del '300 e del '400, il massimo tempio fiorentino conserva sempre l'ariosa e ferma partitura di spazi e di volumi che il genio di A. vi impresse, mentre la facciata, rimasta incompiuta e demolita nel 1568, è rievocata da un prezioso disegno conservato nel Museo dell'Opera del Duomo e dal fondo di un affresco del Poccetti nel chiostro di S. Marco.

Del pari largamente ricostruibili - sia per scene da esse derivate, sia per i marmi, in parte autografi e in parte di collaboratori, conservati a Firenze (Museo dell'Opera del Duomo) e, avanti le distruzioni dell'ultima guerra, a Berlino (Kaiser Friedrich Museum) - sono le figurazioni scultoree che, sistemate entro edicole, sormontavano le tre porte. Di quella centrale si conserva inoltre, nel Museo dell'Opera del Duomo, l'architrave e la rosea lastra intarsiata contro la quale risaltava il gruppo della Madonna col Bambino in trono, di un'astratta solennità architettonica, gruppo fiancheggiato, a parere rispettivamente del Toesca (cfr. Marmi della scuola di Nicola Pisano, in Rass. d'arte, IV [1917], pp.93-96) e della Becherucci (cfr. Sculture dell'antica facciata del Duomo di Firenze, in Dedalo, VIII [1928],p. 722), da un'appassionata e intensa e ardente figura di S. Reparata e da un S. Zanobi, di fattura più scadente, e forse più tardo. Nelle edicole dei due portali laterali erano sistemate le scene della Natività e della Dormitio che, in tutto o in parte si ricompongono per i rilievi, da essi derivati di Michele da Firenze rispettivamente in S. Anastasia a Verona e nella chiesa della Tomba ad Adria. Della prima, sempre nel Museo dell'Opera del Duomo, resta la Vergine che solleva il corpo sul lettuccio su cui è distesa per contemplare il Bambino e restano pure una figura di Pastore (Firenze, collez. Torrigiani) e, parzialmente, il rilievo con l'Annunzio ai pastori (ibid., Museo dell'Opera), dovuti però a collaboratori. Dell'altra scena, quella della Dormitio, restava, a Berlino, la Vergine, composta sul letto funebre con la figura tipicamente arnolfiana di S. Giovanni, piegato ai piedi, e, sempre tra Berlino e Firenze, altri pezzi (tra cui la figura del Cristo con l'animula della Vergine), dovuti però a collaboratori.

Altri marmi, più o meno ricollegabili a questo momento, che è di intenta rimeditazione di forme classiche e tardo-antiche, sono stati segnalati in vari musei e collezioni, ma di essi mette conto di citare, per l'attendibile collegamento con quelli della facciata, solo l'Angelo annunziante della collez. Porter a Cambridge (Mass.), assai vicino alla mirabile S. Reparata.

A. morì a Firenze prima del 1310.

Si è già detto che A. venne richiamato a Firenze per la sua fama di architetto ed è da aggiungere che dai Fiorentini venne considerato come il più grande architetto dei suoi tempi. Si è pure osservato che la sua opera di scultore non è separabile da quella dell'architetto, ma nel contempo s'è accennato a opere di pura architettura, come la trasformazione della chiesa dell'Aracoeli e la costruzione del "Tribunal", per Carlo d'Angiò, o come la costruzione di Santa Reparata, di cui, proprio di recente (1961), è stata fornita da parte di G. Kiesow una traccia attendibile e la delimitazione di quanto tuttavia rimane. Si tratta di monumenti del più alto interesse, ai quali però, per indicazioni antiche e rivendicazioni recenti, altri bisogna aggiungerne per rendere più concreto, anche in ordine alle motivazioni stilistiche, il giudizio su A. architetto. Mi riferisco, oltre che ai contributi del Cellini (art. cit., ed inoltre: Ricordi normanni e federiciani a Roma,i n Paragone,VII [1956], n. 81, pp. 3-12), agli studi del Middeldorf e Paatz (cfr. U. Middeldorf-W. Paatz, Die gotische Badia zu Florenz und ihr Erbauer A. di Cambio,in Mitteilungen des Kunsthistorischen Instituts in Florenz, III, 8 [1929-32], pp. 492-517; W. Paatz, Werden und Wesen der Trecento Architektur in Toskana, Burg b. M. 1937; W. e E. Paatz, Die Kirchen von Florenz, I-VI, Frankfurt a. M. 1940-54, v. Indici) e a quelli del Salmi (scritti citati). Passando alle opere bisogna in primo luogo accennare alla presenza di A. nella chiesa di S. Croce in Firenze, in cui appare riproposta quella ferma e spaziosa misura che, secondo il suggerimento del Salmi (cfr. Una precisazione su A. architetto), A. derivava dall'architettura normanna e angioina dell'Italia meridionale (il Salmi ha citato in proposito la chiesa napoletana di S. Lorenzo). All'architettura meridionale rimanda pure il ballatoio, che, correndo per tutta la navata centrale della chiesa al disopra delle arcate, stabilizza l'assetto spaziale. Si tratta di un elemento di schietta origine meridionale, anzi pugliese, già apparso nel duomo di Siena forse per suggerimento di Nicola Pisano (W. Krönig, Toskana und Apulien-Beiträge zum Problemkreis der Herkunft des Nicola Pisano, in Zeitschrift für Kunstgeschichte, XVI[1953], pp. 101 ss.), e poi ancora nel duomo d'Orvieto che, tanto all'interno quanto all'esterno, presenta significative analogie con architetture arnolfiane. Sono agganci, questi via via sottolineati, che legano, sia nella scultura sia nell'architettura, l'Italia meridionale alla Toscana, in una vicenda che scorre parallela a quella della lingua, e che chiude in sé il destino della rinata cultura italiana.

Delle altre opere occorre richiamare la parte che A. ebbe nel rinnovamento della Badia di Firenze, appena intuibile per le trasformazioni dei primi decenni del '600, le "terre murate" dei Fiorentini (Castel San Giovanni, Castelfranco e principalmente Terranuova nel Valdarno Superiore) e finalmente, sempre a ricordo del Vasari (Le Vite... con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, I, Firenze 1878, pp. 289 ss.), Palazzo Vecchio con l'ardita torre impostata in falso.

Fonti e Bibl.: Per le fonti e una bibl. fino al 1957: cfr. M. Salmi, A. di C., in Encicl. univ. dell'arte, I, Venezia-Roma 1958, coll. 744-51. Per una rassegna sugli studi arnolfiani: G. De Francovich, Studi recenti sulla scultura gotica toscana: A. di C., in Le Arti, II (1940), pp. 236-251. A ciò si aggiunga: M. Salmi, Il problema della statua bronzea di S. Pietro nella Basilica Vaticana, in Commentari, XI (1960), pp. 22-29; E. Berti Toesca, Un frammento d'A., in Bollett. d'arte, XLV(1960), pp. 66 s.; P. Cellini, Giochi d'acqua a Perugia, in Paragone, XI (1960), n. 127, pp. 3-34; F. Santi, Considerazioni sulla fontana di A. a Perugia, in Commentari, XI (1960),pp. 220-230;G. Kiesow, Zur Baugeschichte des Florentiner Domes, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Instituts in Florenz (1961), pp. 1-22.

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