ARMI e ARMATURE

Enciclopedia dell' Arte Antica (1994)

ARMI e ARMATURE (v. vol. II, p. 820, s.v. Corazza; vol. II, p. 315, s.p. Elmo; vol. VII, p. 138, s.v. Scudo; vol. VII, p. 421, s.v. Spada)

M. C. Guidotti; G. Lacerenza; R. Pierobon-Benoit; Ch. Saulnier; C. Lo Muzio; L. Di Mattia

Egitto. - Nell'antico Egitto gli stessi tipi di armi venivano impiegati sia per la guerra che per la caccia: la documentazione pervenuta riguarda quindi ambedue le attività. Fra le armi più antiche, risalenti all'epoca preistorica, si trova la mazza, che era composta da un manico di legno e da una testa di pietra, di forma tronco-conica appiattita o sferica; fin dalle prime dinastie è frequente la raffigurazione del faraone in atto di colpire con la mazza i nemici inginocchiati ai suoi piedi.

Un'altra arma tipicamente egizia e molto antica è il bastone da lancio, usato soprattutto per la caccia agli uccelli e chiamato anche boomerang per la somiglianza nella forma con l'arma australiana. Caratteristici del Medio Regno sono i boomerang o bastoni magici ricavati da zanne di ippopotamo, che presentano incisi animali fantastici e demoni con valore apotropaico e di propiziazione per la caccia.

Le altre armi egiziane sono conosciute attraverso reperti e raffigurazioni di epoca dinastica, anche se probabilmente molte erano già usate in epoca preistorica. La lancia, conosciuta attraverso le raffigurazioni parietali e i modellini di soldati in legno conservati nel Museo Egizio del Cairo, era costituita da un'asta in legno con punta metallica a doppio filo. In metallo, prima rame, poi bronzo e quindi, in epoca tarda, ferro, erano anche le lame dei pugnali, spesso inserite in manici di legno che potevano essere decorati con intarsi in avorio, osso e oro.

La spada, al contrario delle armi precedenti, non ha avuto origine in Egitto, ma è stata importata dall'Asia e dall'area mediterranea: nella XVIII dinastia appare sulle pareti di alcune tombe come fornitura cretese, e in epoca ramesside è raffigurata nelle mani di soldati libici e dei Popoli del Mare. Caratteristico dell'Egitto è invece un particolare tipo di spada, di nome khepesh, che compare anch'esso in epoca ramesside e presenta una lama di forma arcuata e priva della punta.

Un'arma attestata dal Medio Regno in poi è l'ascia: in quest'epoca si presenta con lama metallica di forma lunata con due fori per la legatura al manico, il quale di solito era in legno. Nel Nuovo Regno cambia radicalmente la forma della lama, che diventa un cuneo incassato nel manico e tagliente solo nel bordo esterno. Alcune asce presentano la lama traforata ed elegantemente decorata, e venivano probabilmente utilizzate solo nei cerimoniali.

Gli studi più recenti sulle armi degli antichi Egiziani sono stati dedicati in particolare all'esame degli archi. Fino al Secondo Periodo Intermedio l'arco egiziano aveva una forma semplice, ricavata da un unico pezzo di legno, di solito acacia, una qualità di legno facilmente reperibile e indicata per la sua flessibilità. Per ottenere la curvatura dell'arco si lavorava il legno bagnato a caldo; la sua lunghezza raggiungeva 1,70 m e recenti studi hanno valutato la sua potenza sui 25-30 kg e la gittata fino a 160 m nel tiro a parabola.

Nel Nuovo Regno compare un altro tipo di arco, l'arco composito, importato probabilmente insieme al carro con l'invasione degli Hyksos; fu usato regolarmente fino al regno di Ramesse III (XX dinastia), poi scomparve completamente. La pubblicazione degli archi compositi di Tutankhamon ha portato a conoscere a fondo questo tipo di arco, di cui rimangono pochissimi esemplari, oltre ai ventinove rinvenuti nella tomba del faraone. L'arco composito, che presenta un profilo angolare all'impugnatura, era formato da un'anima di legno con un rivestimento in corno o in osso sul davanti e un tendine di animale applicato sul dorso, per dare maggiore elasticità; il tutto era rivestito e legato con corteccia.

La corda di tensione, come per l'arco semplice, era fatta di budello o tendine di animale, oppure in fibra di lino. La sua lunghezza variava tra 1,10 e 1,40 m e la gittata raggiungeva i 200 m nel tiro a parabola: era dunque più corto e aveva più potenza dell'arco semplice. Dei ventinove archi compositi di Tutankhamon, dieci presentano una lunghezza inferiore a1me probabilmente appartenevano al faraone quando era bambino. La maggior parte degli archi di Tutankhamon sono stati fabbricati in legno di frassino, con rivestimento in corteccia di betulla, cioè in materiale importato; non si è invece sempre conservato il tendine sul retro.

Il rivestimento presenta una ricca decorazione, assente solo sull'impugnatura: si tratta di piccoli pannelli rettangolari allungati con iscrizioni in geroglifici (cartigli e titoli del faraone), oppure con motivi geometrici e vegetali decorativi (spirali, cerchietti, petali, palmette, ecc.). Un solo arco, detto «arco da cerimonia», è completamente ricoperto di foglia d'oro.

Per quanto riguarda le armature, i soldati egiziani non usavano proteggere ilj corpo con particolari indumenti. Solo lo scudo è documentato fin dai tempi più antichi; esso era costituito di solito da una tavola di legno arcuata, di forma rettangolare, mentre nel Medio Regno appare arrotondato nella parte superiore; proteggeva il soldato dalle spalle alle ginocchia. Nella tomba del faraone Tutankhamon (Nuovo Regno) sono stati trovati quattro scudi, con una lavorazione a traforo e intarsi di foglia d'oro, sicuramente destinati solo a un uso cerimoniale. La corazza e l'elmo compaiono in Egitto a partire dal Nuovo Regno e, come la spada, l'arco composito e il carro, sono stati importati dai popoli vicino-orientali. La corazza doveva proteggere in prima linea il conduttore di carro e l'arciere, che non potevano proteggersi con lo scudo, e faceva parte dell'equipaggiamento reale; era costituita da fasce di pelle o di tela su cui erano applicate scaglie di metallo o di cuoio, e poteva arrivare a coprire il corpo del soldato dal collo fino alle ginocchia.

Con la XVIII dinastia compare nelle raffigurazioni egizie anche l'elmo, come tributo siriano. La mancanza di ritrovamenti conferma che l'elmo non è mai stato adottato dagli Egiziani; le raffigurazioni si riferiscono sempre a soldati stranieri e limitatamente al periodo del Nuovo Regno.

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(M. C. Guidotti)

Vicino Oriente. - L'arma più antica e semplice è la mazza con cima globulare in pietra, che, rimasta a lungo in uso in quanto arma «povera», conobbe un'ampia fortuna iconografica come attributo divino. Le asce, con lama di metallo (rame e bronzo; poi, più raramente, ferro) e manico di legno, si presentano in numerosi tipi, variabili sia nelle lame (rettangolari, finestrate, «a zappa», con cresta posteriore, «a orecchio di bue») sia negli immanicamenti (tubolari, a lama fissata direttamente sul manico tramite chiodi o morsetti) e nel manico (dritto, convesso, con curvatura a falce). È dall'ascia con manico «a falce» che deriva una particolare arma a percussione, la αρπη o «arma curva»: anche detta, ma impropriamente, «spada curva» (Krumm- o Sichelschwert, curved o sickle sword); già nota ai Sumeri e spesso presente come simbolo o insegna di potere, nel corso del II millennio si diffuse verso Occidente raggiungendo, tramite la Siria, l'Egitto del Nuovo Regno (spada khepesh).

L'arco, ben noto nei tipi a curvatura semplice o doppia, talvolta rinforzato con funi o inanellature di vimini, cuoio o metallo, è inizialmente corto; verso il XXIV sec. a.C., in età accadica, appare il c.d. arco composito, formato dall'unione di più elementi (strisce di legno, osso, collanti, nervi e tendini animali): estremamente più potente e preciso dell'arco tradizionale (che tuttavia, essendo più economico, resta il più diffuso), esso si diffonde in maniera particolare in Siria, ove se ne perfeziona la fabbricazione e, dalla metà del II millennio a.C., viene esportato in Egitto. Per trattenere meglio la fune, le estremità degli archi erano sovente incurvate verso l'esterno; nei tipi assiri assumono anche fogge fantasiose, soprattutto a testa d'oca. Le frecce, di canna o legno leggero, spesso alettate e a punta piatta, erano custodite in gruppi di 20-30 in faretre di diverse fogge, provviste o meno di copertura, fatte di canne intrecciate rinforzate con tessuto o cuoio; esemplari di metallo sono stati rinvenuti, tra gli altri siti, a Mari e nell'Urartu.

La tipologia delle punte di lance e di frecce e delle lame di spade o pugnali, è estremamente varia: triangolare, foliacea, a punta semplice, tronca o curva; a sezione romboidale, curva o poligonale; piatte, con nervature, costolatura o entrambe. Spade, daghe e pugnali presentano ulteriori varietà nelle impugnature, sia nelle forme che nei materiali (legno, pietre dure, metalli preziosi, osso, avorio), come nei foderi, fatti generalmente di vimini intrecciati, talvolta rinforzati con elementi di cuoio o fasce metalliche; particolari esemplari potevano essere di metalli più o meno preziosi, legno o avorio, e decorati con incisioni. Le spade erano portate nel loro fodero, appese intorno al torace tramite un laccio o una fascia di cuoio; benché siano noti foderi allacciati anche per i pugnali, essi erano più spesso portati direttamente nella cintura.

Per quanto riguarda gli elementi difensivi, l'elmo evolve da un tipo semplice, a calotta semisferica o a casco, talvolta vagamente apicato o con un pileo, ad altri più complessi - generalmente conici - con elementi mobili in cuoio atti a proteggere guance e nuca, decorati con creste e incisioni a sbalzo. Tra gli scudi, se in età sumero-accadica furono privilegiati i tipi rettangolari, la forma rotonda, di varie dimensioni, fu invece preferita dagli Assiri, sia nella versione piatta che in quella convessa con umbone centrale, pur sempre accanto ad altri tipi. Retti grazie a uno o più manici fissati internamente, gli scudi più comuni erano formati da allineamenti o intrecci di canne e all'occorrenza rinforzati con elementi metallici (borchie o fasce); erano usati anche scudi di metallo rivestiti di cuoio, che periodicamente dovevano essere unti. Sembra, infine, che l'introduzione delle corazze, attribuita agli Hurriti, sia da far risalire all'inizio del II millennio a.C. Tali corazze erano in realtà corpetti, maglie o tuniche formate da centinaia di lamine in bronzo (kursindu) generalmente di forma rettangolare o, più raramente, simili a scaglie, e dotate di fori attraverso i quali passavano cordoncini di cuoio atti a tenerle allineate; nate per proteggere i guerrieri, ma usate anche per cavalli e carri, secondo un testo rinvenuto a Nuzi (Yorgan Tepe, in area hurrito-mitannica) il numero delle lamine di una sola corazza poteva giungere a più di mille unità. Le raffigurazioni più complete e interessanti di armature sono rintracciabili nei bassorilievi assiri, particolarmente in quelli del palazzo di Sennacherib a Ninive. Scaglie o parti di corazza non sono rinvenimenti rari nel corso di scavi archeologici; variabili in lunghezza e numero di fori, la maggior parte degli esemplari (da Nuzi, Teli Fahar, da aree assire, sire e ittite) non precede il XV sec. a.C.; soltanto a Boğazköy sono state rinvenute alcune lamine in un contesto di XVIII sec. a.C., età in cui le corazze erano certamente note, poiché attestate nei testi di Mari. Verso il XIII-XII sec. a.C. le armature a placche raggiungono l'Egeo: tra il 1968 e il 1975 ne sono stati trovati resti sia a Micene (XII sec. a.C.) che a Cipro (Enkomi, Gastria), sebbene in contesti più recenti.

Sumer. - In età protosumerica, la «stele della caccia» da Uruk (Warka), datata tra la fine del IV e l'inizio del III millennio a.C. (Iraq Museum, Baghdad), mostra un personaggio regale in due momenti della «caccia sacra»: in uno ha la lancia, nell'altro un arco di particolare spessore, con estremità ricurve e relativamente corto rispetto alla freccia impiegata, che ha una punta trapezoidale atta a esaltarne la forza d'urto. Fra le armi che nella prima età protodinastica (c.a 2900-2750 a.C.) i re di alcune città sumeriche usavano consacrare nella città di Lagaš, sono particolarmente significativi due esemplari appartenuti a due re di Kiš: una testa di mazza semicilindrica ornata da una teoria di protomi leonine a rilievo, e una punta di lancia in bronzo. Solo con l'arte del pieno periodo protodinastico, coeva alla I dinastia di Ur (c.a 2600-2450 a.C.), si hanno le prime raffigurazioni compiute di armamenti e strumenti bellici. Molti sono i dati provenienti dai corredi del cimitero di Ur. L'armamentario tipico del tempo è raffigurato sul c.d. stendardo (British Museum): sui quattro carri, ancora rudimentali, si trova un soldato con la sua particolare arma (fionda, lancia, scure) e una faretra portagiavellotti.

I fanti sono dotati di due tipi di equipaggiamento: la fanteria leggera ha una spada e un elmo a calotta apicata - di cui a Ur sono stati rinvenuti vari esemplari in bronzo - allacciato sotto il mento con una correggia di cuoio; la fanteria pesante, armata di lance, è protetta anche da un lungo mantello maculato - probabilmente di cuoio - allacciato intorno al collo. Le lance hanno punta foliacea (solo quella del re, al centro nel registro superiore, è più larga); alcuni soldati portano asce con lama a «orecchio di bue».

Altri dati si trovano in un altro importante documento protodinastico, la «stele degli avvoltoi» di Tellō, i cui frammenti sono al Louvre (v. vol. IV, figg. 1251-1252), nella quale si ricorda la battaglia vinta verso il 2460 a.C. da Eannatum I, re di Lagaš, contro la città di Umma. Sul primo lato appare il dio Ningirsu armato di mazza a cima globulare, suo attributo; nella sinistra ha una rete con cui trattiene i nemici, ma è il secondo lato a presentare il maggiore interesse. Nella fascia superiore, Eannatum precede la fanteria pesante che, protetta da alti scudi rettangolari sostenuti con il braccio destro, procede a schieramento chiuso; nella seconda, in cui il re guida l'attacco stando su un carro con portagiavellotti e brandendo una lancia con la sinistra, la fanteria leggera è armata di lancia nella destra e ascia nella sinistra. Assenti i mantelli, appaiono gli scudi fatti di canne intrecciate e rinforzati con tre file di borchie metalliche, per un totale di nove a scudo. Le armi rinvenute nella necropoli di Ur, sia in bronzo che in rame, confermano i dati iconografici. Fra le asce, soprattutto del tipo a «orecchio di bue», è di particolare interesse un'ascia bipenne bifinestrata sul cui immanicamento tubolare è imitata l'allacciatura dei manici più antichi, di legno. Le impugnature delle daghe (sia a lama piatta che costolata), essendo spesso in legno o altro materiale deperibile, non si sono conservate, come pure - salvo poche eccezioni - i foderi, fatti di giunchi intrecciati; presente, ma non attestato iconograficamente, è il tridente, con denti a sezione quadra.

Le tombe di Ur sono soprattutto note per aver restituito una serie di armi preziose: in particolare, una daga con lama d'oro e impugnatura in lapislazzuli (Iraq Museum) il cui fodero, anch'esso in oro e minuziosamente traforato, era legato a una cintura di cuoio laminata d'argento; un'altra daga presenta un'impugnatura di legno impreziosita con avorio, rame e lapislazzuli. Le aste di alcune lance erano inanellate con metalli di diverso colore (bronzo, argento, oro); anche gli archi potevano presentare sottili anelli d'oro. Oltre ai numerosi elmi comuni, è da menzionare l'elmo aureo di Meškalamdug (Iraq Museum; v. vol. VII, fig. 1187): una calotta lavorata a sbalzo, che riproduce la tipica acconciatura sumerica con fascia frontale e chignon dietro la nuca; poiché restavano coperte anche le guance, al centro delle orecchie, fedelmente riprodotte, si trovano due fori. Sembra che sotto l'elmo, probabilmente per evitarne il contatto diretto con il cranio, si usasse indossare un ulteriore copricapo, più lungo, anche atto a proteggere la nuca: se ne trova una chiara raffigurazione nei guerrieri sullo «stendardo» di Mari, oggi al Louvre. L'arte neosumerica (c.a 2100-2000 a.C.), peraltro ancora poco conosciuta, non registra novità particolari: sui frammenti della stele di Urnammu, fondatore della III dinastia di Ur, si scorgono le solite asce a immanicamento tubolare; alcuni influssi accadici possono tuttavia essere riconosciuti in una stele frammentaria d'alabastro (Boston, Museum of Fine Arts), in cui un guerriero presenta un elmo con costolature orizzontali e un'ascia a manico curvo nella cui ansa è inserita la lama tramite morsetti chiodati.

Akkad. - La documentazione sulle armi della civiltà accadica, che con Sargon crea il primo stato unitario mesopotamico (c.a 2335-2150 a.C.), è alquanto scarsa. Poiché gli Accadi fecero propri molti aspetti della cultura sumerica, nelle stele dei primi sovrani, note da frammenti oggi al Louvre, molti elementi sono a essa comuni. Non ne mancano, tuttavia, di nuovi, come un generale alleggerimento degli equipaggiamenti, l'uso sistematico dell'arco e dell'ascia con manico curvo. Nella stele di Sargon, i guerrieri usano sia l'arco sia tale tipo di ascia; in quella di suo figlio, Rīmuš, la fanteria porta l'elmo apicato, una daga o una lancia; il corpo di arcieri usa l'arco con estremità ricurve. Il medesimo orientamento risulta anche dai monumenti di Naram-Sin. Nella stele che egli si eresse a Sippar (ma rinvenuta a Susa, e oggi al Louvre), per commemorare la battaglia vinta contro i Lulubei (v. vol. I, figg. 23-24), il re, con l'elmo divino, impugna le sue armi personali: l'alto arco composto nella sinistra e una lancia nella destra; i soldati, armati di arco o lancia, sono difesi soltanto dal copricapo con l'elmo soprastante. Nella glittica appare, generalmente in mano a divinità, un certo numero di armi (lance, archi, spade, mazze, pugnali); la scarsa definizione delle incisioni rende tuttavia problematica la possibilità di ricavarne dati precisi.

Babilonia. - È noto che gli Amorrei, giunti nel XIX sec. a.C., dopo una fase seminomadica, al controllo della Mesopotamia stabilendone quale capitale Babilonia, potenziarono sia gli armamenti sia le difese del territorio. Purtroppo, se si eccettua la glittica, i documenti figurativi paleobabilonesi sono scarsi. Tra le tipiche lastre fittili, una, da Khafāğa (Oriental Institute, Chicago), raffigurante la lotta fra un dio e un mostro, presenta il primo con un arco triangolare e una faretra, della quale si vede solo la cima; nella destra è una daga corta a lama larga e triangolare (v. vol. I, fig. 1197). A Mari, dove per breve tempo prosperò una dinastia autonoma, sul dipinto che decorava la sala delle udienze del palazzo del re Zimri-Lim (Louvre), appare un guerriero con un copricapo atipico, caratterizzato da una fasciatura bianca che gira sotto il mento, e un mantello.

La fascia sottogola si ritrova, ancora a Mari, in una testa a tuttotondo di guerriero (museo di Aleppo), il cui elmo a calotta ha la parte inferiore costolata. Dopo l'età cassita i dati sono ancora più isolati: su un kudurru di Nabucodonosor I (c.a 1146-1123 a.C.) si vede un genio tendere un arco ricurvo, mentre su quello del suo successore, Marduk-nadin-akhkhe (c.a 1116-1101 a.C.) il re ha un arco sottile, ma frecce più consistenti del solito (v. vol. i, fig. 1198). Per la scarsa documentazione neobabilonese (c.a 628-539 a.C.) si ricorderanno alcuni sigilli, generalmente a soggetto mitologico, in cui appare l'arco con estremità ricurve.

Assiria. L'antico regno assiro, sorto nella prima metà del II millennio a.C., è contraddistinto dalle campagne militari di Šamši-Adad; ma la perfetta organizzazione militare del suo esercito anticipa solo in parte quella, eccezionale, che nel Medio Regno e in età neoassira conduce Assur alla guida di gran parte del Vicino Oriente. Per l'Antico e Medio Regno i dati iconografici sono scarsi; viceversa, la documentazione neoassira è estremamente ricca, oltre che nelle fonti, soprattutto nell'iconografia.

Le macchine da guerra e le armi impiegate in tale periodo, alcune delle quali presenti in musei e collezioni private, sono minuziosamente descritte dai bassorilievi in alabastro gessoso posti nelle residenze reali di Nimrud (Khalakh), Dūr-Šarrukīn (Khorsābād) e Ninive (Qūyūnğiq). È soprattutto sulla base di tali bassorilievi che, nel 1970, T.A. Madhloom ha pubblicato un importante studio tipologico e cronologico sull'arte assira, due capitoli del quale dedicati alle armi e ai carri da guerra.

La tradizione di rilievi a soggetto bellico risale almeno ad Assurnasirpal I (XI sec. a.C.), sul cui «obelisco bianco» da Ninive, oggi al British Museum, sono raffigurati alcuni assedi con il carro e truppe di arcieri: gli assediati si proteggono dalla pioggia di frecce con piccoli scudi tondi.

Nei rilievi da Nimrud di Assurnasirpal II (British Museum), gli arcieri indossano un equipaggiamento più vario: elmo conico, spada, arco curvo e faretra; sono protetti da una veste corazzata a placche e da alti calzari. Nel rivestimento bronzeo del portale di Imgur-bel (Balawāt), in cui sono rievocate le campagne in Siria e in Anatolia del IX sec. a.C., gli arcieri, che costituiscono la maggioranza degli armati, hanno una tenuta diversa: le corazze hanno foggia di lunghe tuniche, simili a quelle egizie; le faretre presentano una copertura conica; mancano i calzari; i fanti, con spada e mazze globulari, indossano un gonnellino (v. vol. IV, figg. 1275-1291). Assurnasirpal II è stato il primo re assiro a farsi ritrarre in scene di caccia. In un rilievo da Nimrud, in cui è su un cocchio, appaiono armi di ogni tipo: lance, piccoli scudi circolari, pugnali, arco; una faretra contiene anche una scure; la spada, con l'impugnatura finemente cesellata, è appesa alla spalla sinistra. Si noti che, in questo periodo, appare sovente una serie di pugnali, riposta nella cintura che fascia la vita.

Nelle raffigurazioni di Salmanassar III e di suo figlio Assurnasirpal III, da Assur, di concezione piuttosto rigida, il re porta solo armi simboliche o ufficiali: mazza globulare nella sinistra e «arma curva» nella destra (Museo Archeologico di Istanbul).

La documentazione dell'VIII sec. a.C. non è altrettanto generosa: molte informazioni si trovano, tuttavia, nelle pitture della residenza di Tiglatpileser III a Til Barsip (Teli Aḥmar), delle quali però, a parte pochi frammenti al museo di Aleppo, non restano che i disegni realizzati da L. Cavro poco dopo la scoperta. In una scena due guerrieri seguono il cocchio regale; un fante, privo di elmo, ha una veste leggera con un pugnale alla cintola: con la sinistra regge uno scudo a cerchi concentrici e con la destra una lancia a punta foliacea corta, la cui asta di legno termina con un pomello. Un arciere, con l'elmo semiconico e la faretra finemente decorata, ha le gambe protette da alti calzari e parastinchi allacciati sul davanti. In un'altra scena, i soldati impegnati in un'esecuzione di nemici sono coperti da una veste particolarmente pesante, forse corazzata: portano inoltre gambali, calzari allacciati e una spada a lama curva il cui fodero pende dalla cintola. Ciascun dignitario presente a una udienza reale ha una spada: le impugnature sono quasi tutte ondulate; dietro al trono, le guardie portano mazze globulari «di corte», arco e spada.

Per il VII sec. a.C., da Dūr-Šarrukīn provengono alcuni rilievi (British Museum, Louvre) che mostrano Sennacherib a caccia: le armi del principe sono un arco a estremità ricurve e frecce alettate a punta costolata. I documenti più importanti sono però i rilievi con scene di guerra che lo stesso Sennacherib fece collocare nel palazzo di Ninive (British Museum), nei quali fanti e arcieri indossano lo stesso equipaggiamento di base: elmo conico con paraguance, tunica, gambali stretti con fasce corazzate, calzari. I fanti sono armati con mazze globulari e daghe; la faretra degli arcieri, di vimini, è più stretta del solito e tende a stringersi verso il fondo; alcuni soldati hanno lunghe lance a punta corta (v. vol. IV, fig. 1269). Nella scena con l'assedio di Lakiš, i cui abitanti si difendono alla meglio lanciando torce infuocate e mattoni, sotto la città assediata l'avanguardia assira procede protetta da alti scudi-ripari fatti di canne fittamente intrecciate (v. vol. VII, fig. 182): la retroguardia, che usa fionde, archi e lance, ha invece scudi ordinari ed elmi con paraguance.

Ugualmente importanti gli armamenti nei rilievi di Assurbanipal (c.a 669-631 a.C.) da Ninive, oggi al British Museum. Nella scena con la sconfitta elamita, in cui l'esercito assiro appare al completo, la fanteria pesante porta elmo conico, lancia, scudo di vimini, gambali e calzari; spicca l'ampio uso delle cotte di maglia, di corpetti e di brache corazzate, indossate sia dagli arcieri sia dai cavalieri, armati di lance. Da una scena di deportazione risulta che gli arcieri potevano anche avere un equipaggiamento più leggero. Nel celebre bassorilievo raffigurante la presa della città di Hamaan, i soldati indossano tre tipi di elmo (conico, a calotta semplice o con cresta estroversa); sono inoltre presenti corazze a scaglie. Nelle scene di caccia di Assurbanipal, il re, in sontuoso abbigliamento di corte, è raffigurato soltanto con arco e lancia (v. vol. IV, fig. 1272).

Urartu. - A stretto contatto con l'Assiria, il regno di Urartu (IX-VI sec. a.C.) fu rinomato per le sue raffinate arti metallurgiche. Sugli armamenti urartei si hanno soprattutto dati per l'VIII sec. a.C., tramite esemplari di armi rinvenute in sede di scavo (soprattutto a Karmir Blur) o documenti iconografici, sia urartei che assiri.

Tra i primi, una scena di caccia con il carro, negli affreschi del palazzo di Argišti I a Arinberd, mostra il re con un elmo conico e un semplice arco a punte estroverse (v. s 1970, fig. 868).

Nelle fasce decorative della faretra bronzea di Sarduri II, oggi all'Ermitage, appaiono guerrieri sia a cavallo che su carri - motivi incisi sovente anche sugli elmi conici costolati, di ispirazione assira. Tra le fonti assire spiccano i rilievi di Balawāt, in cui i guerrieri urartei indossano una corta veste, arco, lancia, elmi piumati e scudi tondi; invece nei bassorilievi del palazzo di Sargon II a Dūr-Šarrukīn sono raffigurati con spade, scudi tondi, elmi conici.

E certo che gli Urartei, abili metallurghi, facessero uso di corazze: da Karmir Blur ne proviene un grande frammento con una iscrizione di Argišti I, le cui placche rettangolari sono decorate con incisioni a rosette. Gli scudi, noti da diversi esemplari ritenuti di uso cerimoniale, sono generalmente tondi, a fasce concentriche decorate con teorie ferine, o lisci con umbone centrale a forma di protome animale; nell'interno si trovano tre impugnature, di cui quella centrale più grande.

Ittiti. In età proto-ittita, contemporaneamente alla presenza delle colonie assire in Cappadocia (XX-XVIII sec. a.C.), raffigurazioni di armi sono visibili nelle impronte di sigilli cilindrici del XIX sec. a.C. da Kültepe-Kaniš (museo di Ankara), in cui alcuni dèi stringono mazze globulari, pugnali, lance. La decorazione di un frammento vascolare da Acemhöyük, datato al XVIII sec. a.C. (Ankara), mostra un guerriero-cacciatore con spada alla cintola, che regge con entrambe le mani un sottile giavellotto.

Nell'arte dell'antico impero appaiono armi meglio definite, ma il più delle volte in àmbito simbolico o religioso; nelle loro fogge si possono riconoscere i diversi influssi delle culture circostanti, e il ruolo principale svoltovi da Assiri e Hurrito-Mitannici.

Nel XIV sec. a.C. gli ortostati figurati di Alaca Hüyük (museo di Ankara), principalmente con scene di culto, forniscono pochi dati: i lunghi bastoni curvi che appaiono accanto al re e ai dignitari-sacerdoti sono palesemente simboli religiosi; ma in una scena appaiono due guerrieri armati di lance e in un'altra, di caccia, sono presenti arco e lancia (da notare la punta arcuata della freccia, a percussione). Più consistente è la documentazione ricavabile dalle raffigurazioni rupestri, tra le quali è frequente trovare re con spada alla cintola, con base dell'impugnatura a ventaglio o a mezzaluna. Un armamento forse più completo, ma in cui la scelta degli elementi risponde probabilmente a criteri di iconografia religiosa, è quello del dio-guerriero nel bassorilievo della porta reale di Khattuša (presso Boğazköy; v. vol. iv, fig. 61): il dio ha un pesante elmo conico con pileo, dotato di vistose appendici atte a proteggere nuca e guance; nella destra ha un'ascia a manico curvo e lama con punta a mezzaluna e angoli spiraliformi, alla cintola un pugnale a punta curva (originale al museo di Ankara). Risale al XIV-XIII sec. a.C. un bassorilievo di Karabel, raffigurante un re con elmo conico allungato e un grande arco triangolare; il principe che invece appare su un bassorilievo rupestre di Hanyeri (XIII sec. a.C.) porta un elmo a calotta di tipo siro-egizio, un arco curvo nella sinistra e una lancia nella destra. Fra le raffigurazioni minori dello stesso periodo, si ricorderà il sigillo tondo di Tutkhaliya IV (c.a 1250-1220 a.C.), rinvenuto a Ugarit (Ras Šamra), in cui il re e il suo nume tutelare appaiono armati di lancia, spada alla cintola e mazza globulare. Diverse armi sono raffigurate nei rilievi del presunto santuario rupestre di Yazılıkaya: nella scena dei «dodici dèi» ogni divinità ha un'«arma curva» nella destra; sono armati anche alcuni dei partecipanti all'«incontro di dèi» sulla parete N, fra i quali appaiono la mazza globulare, lance e asce; quasi tutti hanno alla cintura una spada curva con traversa a mezzaluna.

Un problema a sé è il grande bassorilievo (alt. 3,23 m) raffigurante l'impugnatura di una spada con lama costolata e nervature laterali, decorata con leoni e sovrastata da una testa antropomorfa (v. vol. IV, fig. 60). P. Couissin vide in tale soggetto un «dio-spada», ma nel 1939 C.F.-A. Schaeffer, sulla base delle armi mitanniche rinvenute a Ugarit (e in particolare di un'ascia, oggi al museo di Aleppo, con lama rettangolare in ferro e manico in bronzo e oro, decorato con protomi ferine e incisioni), vi riconobbe motivi mitannici; ipotizzando un originale in ferro del XV-XIII sec. a.C., Schaeffer identificò il rilievo di Yazılıkaya come raffigurazione di un trofeo di guerra ittita o di un dono votivo mitannico. Verso quest'ultima direzione sembra condurre una spada di bronzo rinvenuta presso Diyarbakır (alto Tigri), in area hurrita, la cui impugnatura presenta due leoni posti specularmente; l'iscrizione paleoassira incisa sulla lama ne dichiara la funzione votiva, probabilmente per il dio Nergal (la cui arma tradizionale è appunto la spada). H. G. Güterbock, editore del pezzo, ha evidenziato come in alcuni rituali ittito-hurriti le spade fossero usate come oggetti magici o offerte per le divinità.

Nell'arte neo-ittita (c.a 1200-700 a.C.), che dichiara marcati influssi siriani, poche armi si possono trovare negli ortostati di Malatya (Arslantepe), al museo di Ankara: nelle raffigurazioni del re Sulumeli, gli dèi sono armati con armi simboliche (ascia a lama rettangolare, spada, arco triangolare, bastone curvo). Poche sono le armi negli altri rilievi dello stesso sito, oggi al Louvre e al museo di Ankara; arco curvo, lancia e calotta con protegginuca appaiono invece in un ortostato con scena di caccia al leone (c.a 850-700 a.C.).

Il re Hartapuš, raffigurato sul trono in una incisione rupestre di Kızıldağ (c.a IX sec. a.C.), ha una lancia a punta triangolare costolata. Più significativi sono gli ortostati di IX-VIII sec. a.C. da Karkemiš (museo di Ankara), in cui è particolarmente avvertibile l'influsso assiro: i guerrieri, tutti con la spada alla cintola appesa in un fodero a punta tronca, recano grandi scudi rotondi e una caratteristica lancia con punta triangolare a sezione romboidale; un arciere su carro da guerra usa un semplice arco curvo. Su un ortostato, il principe Kamanaš e suo padre portano una lunga spada appesa intorno alla spalla grazie a un'ampia fascia di cuoio: il re ha anche una daga.

In una scena di caccia da Sakçe Gözü (VIII sec. a.C.) si distinguono un elmo apicato, lance, archi e tuniche-corazze a placche aperte in corrispondenza delle gambe; anche il cavallo è corazzato (v. vol. IV, fig. 64). Su un ortostato coevo da Karatepe con il medesimo soggetto, sono presenti l'elmo a calotta, quello conico e l'arco triangolare.

Siria e Palestina. - Alcune armi possono essere riconosciute nelle statuine di divinità, prevalentemente in bronzo, risalenti al II millennio a.C. Sui dati offerti da tali bronzetti, la cui ripartizione in tipi e sottogruppi è stata iniziata nel 1976 da Ora Negbi, si devono tuttavia mantenere alcune riserve, dovute all'incerta lettura dei particolari come al fatto che i soggetti, in quanto divinità, recano armi simboliche o tradizionali, quindi non automaticamente identificabili con quelle di uso corrente. Il tipo I (figura maschile in posizione «anatolica») ha le armi protese in avanti; nel gruppo «siriano» si riscontrano lancia, pugnale, bastone curvo: talvolta un coltello alla cintola e un elmo conico a pareti concave; le figure del gruppo di Ğudayda, più accurate e a tuttotondo, hanno una mazza e una lancia (spesso andate perdute) e un elmo conico o svasato; il gruppo del «monte del Libano» presenta invece una lancia nella destra e un'altra arma, variabile, nella sinistra; il tipo di «guerriero con elmo piumato» è contraddistinto dal caratteristico elmo con cresta trasversale, a petali o pennacchi; nel gruppo di Biblo sono quasi sempre presenti lance: un esemplare ha anche una lunga ascia con lama finestrata.

L'ascia è frequente nel tipo II (soggetti maschili in posizione «egizia»). Il tipo III (dio-guerriero con un braccio alzato), attestato nel Medio e Tardo Bronzo e diffuso anche nel Mediterraneo, ha spesso un piccolo scudo, semi-rettangolare e leggermente convesso, e una corta spada alla cintola: con la destra solleva una lancia, una spada, una mazza semplice o globulare. Informazioni importanti sugli armamenti siro-cananei del II millennio a.C. si trovano nei monumenti egizi del Medio e Nuovo Regno, nei cui dipinti sono talvolta raffigurati, per motivi diversi, gli «asiatici» residenti nell'area siro-palestinese. Tali «asiatici», nel corso del tempo, mostrano di appartenere a gruppi socialmente e culturalmente non omogenei: in principio sono soprattutto pastori nomadi, vassalli non agiati o singoli commercianti; solo dal XV sec. a.C. sono frequenti guerrieri con armamenti complessi, incontrati negli scontri con le opulente città siriane. Si riferiscono al primo caso gli «asiatici» dipinti nella Tomba di Khnumḥotep III a Benī Ḥasan: un gruppo di essi, leggermente in disparte, mostra un semplice equipaggiamento formato da bastoni curvi, sottili lance a punta romboidale, archi curvi e faretra allacciata dietro le spalle; indossano una tunica e calzari allacciati.

Per la prima metà del II millennio, le armi rinvenute in sede di scavo non sono particolarmente numerose; si ricorderanno, da Ebla, alcune matrici di asce finestrate (museo di Aleppo). I ritrovamenti più importanti restano quelli di Biblo: l'«arma curva» in bronzo e oro appartenuta al re Ibšemuabi; il celebre pugnale d'oro sul cui fodero, anch'esso d'oro, è incisa a sbalzo una scena di caccia; infine, le decine di armi trovate nei depositi votivi, e fra queste, asce rettangolari e finestrate, lance a punta triangolare, punte di spada e daghe caratterizzate da nervature e costolatura centrale - elementi comuni alle armi prodotte in quel tempo anche per conto dell'Egitto.

Di Ugarit, è noto il caso di una spada (lama con nervature, impugnatura con traversa e mezzo pomo alla base) raffigurata su una placchetta d'avorio rinvenuta nel palazzo reale, dove se ne è poi rinvenuto un esemplare del tutto simile.

Per la metà del II millennio sono essenziali alcune raffigurazioni di «asiatici» in documenti egiziani del Nuovo Regno; tra i tributari di Qadeš, dipinti nella Tomba di Men-kheper-ra-seneb a Tebe, quasi tutti presentano armi: uno, in particolare, reca da solo un'«arma curva», una spada, una daga nel suo fodero e una faretra; nella Tomba di Rekhmira a Tebe appare, fra altri tributari, un arciere con un copricapo a falda larga e un arco composto decorato con inanellature policrome. I dati più interessanti si trovano però nella decorazione a rilievo di un carro di Thutmosis IV (c.a 1410 a.C.), su cui i nemici figurano travolti dal sovrano (museo del Cairo). La scena, pur se confusa, è estremamente precisa, e consente di distinguere almeno due gruppi di guerrieri con armamenti diversi: uno, privo di elementi di difesa e con armi leggere; un altro con elmi, maglie corazzate o tuniche da guerra, che procede con i carri.

L'armamento di questi ultimi è descritto con particolare precisione: i piccoli scudi rettangolari a fasce incrociate o sovrapposte, apparentemente di metallo, sono rinforzati con borchie (da tre a nove); gli arcieri, che usano l'arco composto, dispongono di faretre anche sui carri. L'eterogeneità degli armamenti usati nell'area siriana risulta anche in raffigurazioni più tarde, in particolare da quelle, a Karnak, con le campagne vittoriose di Seti I (c.a 1318-1301 a.C.): molti Siriani, vestiti solo di un gonnellino, si difendono con lance a punta foliacea e asce finestrate; ma gli assediati di Lakiš usano, oltre l'arco, elmi a calotta semplice e apicata.

Per i dati iconografici da oggetti di produzione siriana, sono da menzionare una celebre coppa d'oro da Ugarit (XV-XIV sec. a.C.) che reca, tra i molti soggetti di una scena di caccia incisa a sbalzo, due personaggi armati di elmo a calotta, lancia e pugnale; la stessa scena, su una patera d'oro dallo stesso sito, mostra invece l'uso di un arco semplice.

Più tarde (prima metà del XII sec. a.C.) sono due placchette d'avorio da Megiddo (Museo Rockefeller, Gerusalemme): sulla prima è incisa una scena di guerra con il carro con faretra e guerrieri in armamento leggero (calotta semplice, scudo rotondo, mazza curva); sull'altra, con una scena di ritorno da una battaglia con prigionieri, il principe, sul cui carro si trovano una faretra con arco, frecce e una lancia a punta triangolare costolata, porta un elmo a calotta; lo precede un guerriero con un piccolo scudo tondo e lancia corta e sottile, mentre al seguito è un attendente che ha solo l' «arma curva».

Si noti che tra le armi rinvenute in contesti di scavo datati alla seconda metà del II millennio, l'«arma curva» è relativamente rara: un importante esemplare in bronzo del XIV-XIII sec. a.C., la cui impugnatura era forse integrata con elementi di legno, è stato rinvenuto a Ugarit. Sono, inoltre, di particolare interesse un fodero per pugnale in avorio, da Megiddo, decorato con fascette trasversali d'oro incise a spirali (XV sec. a.C.), e la lama con cresta posteriore di un'ascia votiva in oro del XIV sec. a.C. da Bet Šĕ'an (Museo Rockefeller). Per i secoli XI-IX a.C. l'attenzione si concentra sulla documentazione iconografica dei regni siro-ittiti, nella quale gli elementi ittiti sono più forti in siti occidentali (come Hama, Malatya, Karkemiš), mentre quelli siriani prevalgono altrove (Sakçe Gözü, Zincirli, Tell Ḥalaf). Fonte primaria di dati sono gli ortostati figurati rinvenuti sia in area siroanatolica che siro-mesopotamica.

In quelli di Teli Ḥalaf, nell'alto Khābūr, appaiono divinità armate o scene di caccia in cui si fa uso di arco, mazze semplici o globulari, bastoni curvi a «mascella di bue»; più interessanti sono le figure di singoli guerrieri: un cavaliere con un elmo a calotta, daga e scudo tondo a fasce concentriche (Vorderasiatisches Museum, Berlino) o un fante armato soltanto di una fionda (British Museum). Per il gruppo siro-anatolico sono da ricordare i guerrieri raffigurati negli ortostati del IX sec. a.C. da Zincirli (Berlino): un soldato, in particolare, vi appare equipaggiato con calzari, elmo con apice arrotondato, una lunga lancia a punta foliacea costolata e uno scudo di forma atipica; alla cintura ha una spada a lama costolata e impugnatura ondulata (v. vol. IV, fig. 66). In un rilievo del re Kilamū (c.a 840-830 a.C.) è visibile un particolare elmo apicato con paranuca.

Non molto, infine, si può dire sulle armi usate nell'antico Israele, a causa degli starsi dati figurativi e della sostanziale omogeneità della documentazione archeologica rispetto alla situazione complessiva della zona siro-cananea; quanto all'uso delle fonti bibliche, considerando il tempo intercorso fra l'epoca degli avvenimenti narrati e i presunti momenti di redazione, esso non può che essere cauto. Dalle tradizioni relative all'età dei Giudici, in cui gli Ebrei vennero a contrapporsi alla evoluta civiltà militare dei Filistei, sembra emergere un armamentario ancora povero, in cui la forgiatura o il possesso di una spada è un fatto eccezionale; solo con la monarchia si pongono le basi di una vera organizzazione militare, che, pur incrementata nei due regni di Israele e Giuda e sollecitata dagli stimoli fenici ed egizî, resta inadeguata al confronto con l'Egitto, l'Assiria e Babilonia. In generale, l'Antico Testamento ha lasciato memoria dell'uso di coprire e ungere gli scudi di cuoio (II Sam., 1.21; Is., 21.5) e delle «vesti di guerra» (I Sam., 17.38-39); in tutto il testo è presente un lessico militare abbastanza vario atto a indicare spade, lance e pugnali, per la cui corretta interpretazione sarebbe quanto mai opportuno uno specifico confronto fra i dati filologici, iconografici e archeologici.

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(G. Lacerenza)

Grecia. - Età del Bronzo. - Il rinvenimento di due panoplie praticamente complete, rispettivamente ad Argo (1953) e Dendra (1960), cui si sono aggiunte ulteriori scoperte, ha consentito di precisare il quadro dell'armamento dall'età micenea agli inizî dell'età arcaica. L'analisi e l'interpretazione delle tavolette in Lineare Β hanno anch'esse apportato utili elementi alla ricostruzione generale.

Il guerriero miceneo disponeva, per la propria difesa, di elmo, corazza, scudo e schinieri.

L'elmo più caratteristico è quello «a denti di cinghiale», disposti a file grosso modo parallele, cuciti su un copricapo verosimilmente in cuoio, completato da paragnatidi di bronzo. Il tipo era stato individuato dal Reichel, sulla base di una descrizione omerica, e la sua esistenza è stata confermata dal rinvenimento nella tomba di Dendra, che si data al XVI sec. a.C., di un esemplare ben riconoscibile. Sulla base di questo ritrovamento è stato possibile attribuire alla classe numerosi altri esemplari (Kallithea, Katsambà, Kazarma, Tebe, Armeni, tra gli ultimi rinvenuti). L'elmo era completato da un cimiero, per il quale sono state ipotizzate almeno tre forme: a coda di cavallo, a conchiglia, a cresta; di quest'ultima esistono riproduzioni (terrecotte rinvenute a Traostalos, Creta), che permettono di farne risalire al Minoico Medio l'uso. Altri tipi, in bronzo, erano comunque in uso: da Cnosso proviene un elmo a calotta conica, con terminazioni a bottone e paragnatidi, datato intorno alla metà del XV sec.; da Tirinto, un altro esemplare si distingue dal precedente per la decorazione a bugne e à-jour, che ne suggeriscono connessioni con il contemporaneo mondo settentrionale europeo.

L'esemplare, che si data intorno al 1100 a.C., potrebbe essere stato portato da un mercenario; si tratta in ogni caso di un elemento isolato. Sebbene gli elmi conservati abbiano sensibili differenze cronologiche, la loro raffigurazione su affreschi, metalli, vasi, rende verosimile l'ipotesi di una contemporaneità d'uso.

L'elemento più noto della tomba di Dendra è la corazza, costituita da un corpetto formato da due lamine di bronzo, unite verticalmente sui fianchi, e rafforzata con l'aggiunta di due spallacci (in base a tale rinvenimento è stato possibile identificare correttamente il c.d. elmo rinvenuto nella tomba XX sempre a Dendra), un collare e all'altezza del ventre, una serie di fasce orizzontali, in parte sovrapposte; si tratta di un oggetto estremamente pesante, destinato a sostituire lo scudo, e riservato a guerrieri combattenti da un carro. Gli esemplari slovacchi più antichi rinvenuti in questi ultimi anni (Čaka, Cierna, Tisou, Ducove), risalenti al XIII sec., farebbero escludere l'origine settentrionale di questo tipo, testimoniando, piuttosto, un influsso egeo. Anche per la corazza sono attestati altri tipi: la c.d. corazza a scaglie, derivata da modelli orientali, è attestata da rinvenimenti recenti (Micene, XII sec.; Cipro, da una tomba datata tra 1075 e 1050 a.C.); un corpetto in cuoio o lino, ricoperto almeno in parte da fasce di bronzo, è attestato probabilmente da un rinvenimento in una tomba di Kallithea, oltre che da numerose rappresentazioni, tra cui quella tanto discussa del «vaso dei guerrieri». Entrambi i tipi, posteriori al modello di Dendra, testimonierebbero una modifica della tecnica di combattimento, piuttosto che una penuria di metallo, come per lungo tempo si è sostenuto.

L'armatura di Dendra era probabilmente completata da schinieri, sempre in bronzo; il cattivo stato di conservazione rende problematico il riconoscimento della forma, forse più vicina ai successivi modelli arcaici. L'esistenza di schinieri ê confermata da altri rinvenimenti (Kallithea, Enkomi, Atene), che si distribuiscono tra Tardo Elladico III Β e C: si tratta di lamine di bronzo, ricurve, che venivano fissate mediante corregge; per i motivi decorativi che li caratterizzano sono stati considerati derivanti da modelli europei, ma le differenze cronologiche tra i vari esemplari, compresi quelli italiani recentemente rinvenuti (Pontecagnano, Malpensa, Canosa), fanno escludere tale derivazione. A un tipo europeo, piuttosto che miceneo viene riportato lo schiniere da un ripostiglio nei pressi di Parigi (Cannes-Ecluse).

Problematica resta, in assenza di esemplari reali, la ricostruzione degli scudi dei tipi «a torre» e «a 8» sulla base delle rappresentazioni figurate; di quest'ultimo una bella rappresentazione è in un affresco di Micene (Tardo Elladico III B-C) e su uno scudo votivo rotondo, da Tebe, (Tardo Elladico III Β). Sicura è l'esistenza dello scudo rotondo, di cui sono noti soprattutto umboni di bronzo, nonostante i dubbi più volte sollevati sulla loro funzione.

La datazione al Tardo Elladico III B-C della maggior parte degli esemplari noti li accomuna, per tecnica, alle c.d. linen-cuirasses e agli elmi, sempre in materiale deperibile, che sembrano caratterizzare il periodo.

La rarità dei rinvenimenti fa ritenere che tale armamento difensivo, in particolare per quanto riguarda i tipi in bronzo, fosse riservato a una élite, e che avesse quindi una funzione di prestigio piuttosto che di reale utilità (anche se non se ne esclude l'effettivo uso in combattimento): ciò spiegherebbe anche l'uso di deporre le armi nelle tombe.

Per quanto riguarda l'armamento offensivo, sebbene non si siano verificate scoperte sensazionali, numerosi studi hanno permesso, attraverso lo studio delle diverse classi di materiali, una conoscenza più precisa e un chiarimento soprattutto sul centrale problema della derivazione e delle origini.

Posizione preminente occupa la spada, che dal momento della sua comparsa, nel corso del Medio Minoico III, evolve continuamente. La divisione principale in due gruppi si basa sulle caratteristiche funzionali: il tipo più antico, probabilmente importato a Micene da Creta, che a sua volta lo aveva mediato dall'Oriente, è uno stocco, cioè una lama appuntita, destinata a colpire solo di punta; per questo, la distinzione rispetto ai pugnali, pure molto diffusi nel periodo, si basa essenzialmente sulla diversa lunghezza della lama. Spesso i pugnali hanno lame riccamente decorate, secondo una tecnica genericamente definibile come niello, che oltre a confermare l'origine orientale della tipologia, ne sottolinea la funzione di oggetto di prestigio. Le spade che si diffondono nel Tardo Minoico, del tipo definito A nella classificazione di N. Sandars, presentano s una serie di varianti, distinte in base alle differenze dell'impugnatura. Il tipo ha un'enorme diffusione - tra i nuovi rinvenimenti è da segnalare un bell'esemplare da una tomba di Tebe oltre che nel mondo egeo, in Europa: si è pensato a una sua diffusione a partire da settentrione, per l'anteriorità delle spade note, ma poiché si tratta di oggetti estremamente semplici è da supporre uno sviluppo parallelo ma autonomo, o addirittura, una diffusione da Creta sul continente greco, e da qui verso Nord.

L'influsso europeo è viceversa comunemente accettato per la spada di tipo B, già nota come Naue II, che rappresenta una vera rivoluzione tecnica: si tratta di una vera e propria spada, destinata a colpire di punta e di taglio (recenti ritrovamenti si sono avuti in Arcadia e a Creta). La sua diffusione massiccia, in Grecia, a partire dal 1200 a.C., si lega sicuramente a una modifica delle tecniche di combattimento, ma va scissa dal problema delle invasioni: la sua introduzione infatti non è improvvisa, ma è preceduta, nel corso del Tardo Elladico III Β, da una ricca serie di tipi, sempre distinguibili sulla base dell'impugnatura. Il pugnale, diffuso a Creta e in misura considerevole nelle tombe a circolo di Micene, sembra poi scomparire.

La sua ricomparsa intorno al XIII sec., con una forma molto simile a quelle delle coeve spade, è attribuita a un influsso dalla penisola italica; il modello, rinvenuto soprattutto a Creta, e molto vicino al c.d. tipo Peschiera, presenta numerose varianti, in parte riconducibili a una matrice europea. A parte qualche caso sicuro di importazione, si ritiene possa trattarsi di una produzione locale, variamente influenzata.

Alla spada si affianca la lancia, per la quale è ugualmente possibile seguire un duplice tracciato evolutivo: da un lato trasformazioni tecniche, per cui si passa da un tipo con immanicatura a codolo, diffuso soprattutto nel mondo minoico, a un tipo con immanicatura a bossolo, costituita per lo più da due lamine staccate e fissate all'asta mediante chiodi.

La distinzione in tipi, recentemente effettuata, si fonda sulle variazioni della lama e dell'immanicatura e sul diverso rapporto di proporzioni fra le due parti: la lama può avere forma stretta e allungata, o larga e lanceolata. Tale differenziazione, così come, la differenza di peso tra i diversi esemplari, potrebbe legarsi a una evoluzione funzionale; utilizzata infatti per combattimento ravvicinato, in un secondo momento (Tardo Minoico III) sarebbe servita anche come giavellotto. Tale trasformazione, documentata dalla presenza di questi diversi tipi nelle stesse tombe, oltre che dalle rappresentazioni di guerrieri con due lance, sarebbe ancora una volta da ricondurre a modifiche tattiche.

Nel corso del periodo si assiste anche a una standardizzazione dei tipi (se ne riconoscono quattro, identificabili sempre in base alle variazioni lama-immanicatura, e cioè: a profilo continuo, a distinzione netta tra le due parti, a foglia e a fiamma), probabilmente legata a una produzione di massa. Il tipo a foglia, massicciamente diffuso a partire dal 1200 c.a, è stato messo in rapporto con le invasioni-migrazioni, ma i documenti oggi disponibili non confermano questa tesi; come in tutti gli altri casi esaminati, somiglianze e aree di diffusione sono frutto di rapporti scambievoli, in entrambe le direzioni, almeno per tutta la durata della tarda Età del Bronzo. La presenza nelle tombe e in rappresentazioni figurate permette di attribuire all'armamento dell'Età del Bronzo anche coltelli, arco e frecce, fionde.

Per quanto riguarda i carri da guerra, rappresentazioni e tavolette sembrano confermare l'esistenza di un carro a due ruote, destinato quanto meno a trasportare il guerriero sul campo, ma nessun esemplare reale riportabile a quest'epoca si è conservato.

Dai secoli bui all'arcaismo. - I diversi elementi di armatura contenuti nella tomba di età geometrica di Argo consentono di valutare le trasformazioni avvenute nei tre secoli precedenti e, nello stesso tempo, anticipano gli sviluppi del pieno arcaismo greco.

In linea generale si constata la graduale affermazione del ferro, che diviene il materiale preponderante, almeno per le armi vere e proprie, con precedenza di adozione per le spade, che sembrano continuare essenzialmente il tipo precedente; più lenta è invece la sostituzione del metallo per le lance, che sembra compiuta alla fine del X sec., quando ricompaiono nelle tombe, spesso a gruppi di due o tre, testimonianza probabile dell'uso prevalente come arma da lancio.

La distinzione in tipi (21 secondo A. Snodgrass, con prevalenza della forma lanceolata, analoga a quella del periodo precedente, tranne che per le dimensioni, maggiori) permette di evidenziare la predominanza di forme allungate, giavellotti più che picche, e l'esistenza di varianti regionali. A Creta, al contrario, continua a prevalere l'uso del bronzo.

La lancia è sicuramente l'arma più diffusa, associata a spade, e soprattutto a pugnali, nelle tombe del periodo.

L'uso dell'arco sembra rarefarsi, almeno fino all'VIII sec., quando i rinvenimenti di frecce tornano a farsi numerosi. Ciò è vero soprattutto per Creta, dove la tradizione non sembra mai essersi realmente interrotta, e il tipo più comune resta analogo a quelli della tarda Età del Bronzo caratterizzati da una lunghezza, grosso modo, costante.

Non si conoscono viceversa, se non da testimonianze letterarie o raffigurazioni vascolari, gli archi, di cui il tipo più usato era probabilmente quello composito semplice; la sua utilizzazione anche sul continente è documentata dalla ceramica geometrica attica, che testimonia anche l'esistenza di un tipo di arco composito doppio.

Per l'armamento difensivo si continua a usare il bronzo, ma il suo uso sembra comunque estremamente ridotto. Si conoscono infatti schinieri ed elmo. Assente sembra essere la corazza, per lo più sostituita da corpetti in materiale deperibile. Per quanto riguarda gli scudi ancora aperto è il dibattito sul c.d. tipo del Dipylon: la sua esistenza reale in età geometrica, viene negata dallo Snodgrass, contro cui si sono schierati, ancora di recente, J. Carter, J. Boardman e J.M. Hurwit, che lo ritiene effettivamente in uso, anche se non derivato dallo scudo «a 8». Interessante in j ogni caso è la sua utilizzazione come elemento decorativo, p.es. su una tavoletta di Penteskouphia, di recente restaurata. Il tipo più diffuso sembra essere quello circolare, per lo più in materiale deperibile, probabilmente con rinforzo centrale metallico, le c.d. phalerae, di cui un rinvenimento recente è da segnalare a Nichoria.

Le nostre informazioni diventano più ricche a partire dall'VIII sec. a.C. Una vera novità è costituita dall'elmo della tomba di Argo, a calotta conica con lunghe paragnatidi e terminante con una staffa, sostegno del cimiero, a ferro di cavallo. L'esemplare rientra nella più generale classe dei Kegelhelme, secondo la definizione del Furtwängler, diffusi appunto nell'VIII secolo. La forma e le caratteristiche tecniche di costruzione, in cinque parti di metallo, lo distinguono nettamente da quanto si conosce per i secoli precedenti, e in particolare dall'elmo di Tirinto, a esso più vicino nel tempo, oltre a renderne improbabile l'origine orientale. La concentrazione dei più antichi esemplari noti tra Olimpia e Argo suggerisce viceversa un'origine peloponnesiaca. Il tipo ha una rapida diffusione, relativamente ampia nello spazio - dal Peloponneso verso Occidente (Ordona) e verso Ν e Oriente (Budapest) - e invece limitata nel tempo (apparentemente non oltre il primo quarto del VII sec.). Si potrebbe quasi pensare a una forma sperimentale, poiché già alla metà del VII sec. esso appare sostituito da due tipi, l'illirico e il corinzio, che domineranno per i secoli successivi un ampio mercato.

Altri elmi sono documentati per questo periodo: in primo luogo l'elmo cipriota, sempre a calotta conica e terminazione a puntale, con paragnatidi a cerniera (tipo Tamassos, di cui un nuovo esemplare della tomba IV) considerato una variante del precedente (Snodgrass), ma più probabilmente tipo a sé, per le differenze tecniche (la calotta è eseguita in un sol pezzo), e riportabile a origine assira. Ugualmente a origine orientale sono da riportare i c.d. Spitzhelme, simili al precedente ma senza paragnatidi, e i c.d. Raupenhelme, in cui la calotta si assottiglia, incurvandosi poi in avanti; di entrambi, per il mondo greco, si conoscono comunque solo rappresentazioni figurate.

Dalla stessa tomba argiva provengono probabilmente anche degli schinieri che, aggiungendosi a quelli già noti da Kavousi, costituiscono una prova di continuità d'uso di questo particolare oggetto, senza che sia tuttavia possibile ricollegarlo direttamente ai precedenti micenei. Diversa infatti è la forma, più vicina all'anatomia della gamba, e il sistema di fissaggio, apparentemente a pressione, e in ogni caso privo di lacci.

Analogo problema si pone per la corazza: il guerriero argivo utilizzava una corazza, descrivibile come un corsetto svasato in vita e comunque definito a campana, che riproduce negli elementi essenziali il corsetto di Dendra. Nonostante questa somiglianza sembra improponibile ipotizzarne una derivazione, dato il vuoto dei secoli che precedono, e soprattutto l'assenza delle fasce di metallo, parte integrante del modello più antico. Più probabile appare l'ipotesi di una reinvenzione greca, su ispirazione dei modelli europei, probabilmente attraverso la mediazione della penisola italica.

Discordi sono le opinioni per quanto riguarda l'uso del carro, e l'esistenza di una vera cavalleria. Il carro, presente nelle raffigurazioni vascolari, doveva servire con molta probabilità, al trasporto del guerriero sul campo; il rinvenimento, in tombe particolarmente ricche, di cavalli ed elementi del carro dimostra la conservazione del valore simbolico di prestigio, e di conseguenza il suo uso probabilmente ristretto a una piccola cerchia (tombe di Palaepaphos e Lefkandi).

Significato e funzione analoghe aveva, con buona probabilità, il seppellimento dei soli cavalli anche se non se ne può escludere l'effettivo uso in battaglia. La presenza di più lance nelle tombe, potrebbe confortare l'ipotesi dell'esistenza della cavalleria, mentre non conclusiva è la presenza di morsi o più in generale di finimenti di cavalli, come nella tomba citata di Cipro, dove peraltro non sono conservate le armi di offesa. Una prova a favore è viceversa fornita da quegli elementi protettivi, i prometopìdia, di cui si segnala un interessante esemplare decorato da Mileto.

L'età arcaica. - L'affermazione dell'oplitismo, che caratterizza l'età arcaica e classica, coincide con la diffusione di un nuovo tipo di armamento. Questo non viene creato unitariamente, in relazione alle nuove tecniche di combattimento, ma, come ha ben messo in evidenza A. Snodgrass, utilizza le trasformazioni realizzate in precedenza, in maniera indipendente per ogni singola arma.

L'oplita è protetto da elmo e scudo, schinieri e più raramente corazza e utilizza come armi di offesa essenzialmente la lancia, e una corta spada. La grande varietà di tipi va ascritta più che a tecniche particolari del combattere a differenze regionali e in parte cronologiche. A differenza delle età precedenti si dispone per questo periodo di una documentazione più ricca, che consente di cominciare a tracciare una storia delle armi e dell'armamento, per le singole regioni del mondo greco.

L'arma di cui è attestata la maggiore varietà è senz'altro l'elmo. Il tipo più usato è il corinzio, diffuso dall'Italia - ma esemplari si sono rinvenuti anche in Francia e Spagna - fino al Mar Nero, verso N, e lungo le coste del Mediterraneo (un esemplare presso Mersin).

La sua prima apparizione, testimoniataci da rappresentazioni figurate, si pone alla fine dell'VIII sec., mentre i più tardi esemplari si possono far risalire alla fine del VI secolo. Il rinvenimento di elmi in contesti più tardi - essenzialmente tombe, come nella necropoli di Sindos (Macedonia) - non giustifica l'abbassamento di tale cronologia, giacché tra il momento della costruzione e quello dell'obliterazione può intercorrere un intervallo di tempo abbastanza lungo: una prova è fornita dalle tracce di colpi e riparazioni che una attenta analisi dei pezzi permette di riconoscere (p.es. nell'esemplare rinvenuto a Palaepaphos, nei pressi della rampa dell'assedio persiano).

Cronologia assoluta e relativa si fondano essenzialmente su confronti con rappresentazioni figurate, anche perché la maggior parte degli esemplari noti (secondo un recente calcolo se ne conoscono 550) proviene dal commercio antiquario, o da contesti di difficile datazione, come nel caso dei numerosi rinvenimenti di Olimpia, o di altri santuari, come Samo, o, in Magna Grecia, Francavilla Marittima, per ricordare solo i rinvenimenti recenti.

L'elmo subisce nel tempo numerose modifiche, in parte legate alla ricerca di una maggiore funzionalità, in parte alla diversità dei centri di produzione. In base a questi due elementi, il Kukahn aveva proposto una tipologia, secondo tre classi principali che, con qualche modifica, è ancora oggi seguita (Snodgrass, Pflug). In generale, si nota una tendenza a passare da una forma rigida, a pareti quasi verticali, più lunga che larga, con paranuca più o meno accentuato, a una forma con profilo a S, in cui le singole parti sono ben evidenziate: in particolare le paragnatidi e soprattutto la calotta, distinta dalla parte inferiore, mediante carenature.

L'allungamento delle paragnatidi, che caratterizza soprattutto gli esemplari più tardi, è tra l'altro destinato a favorire un nuovo modo d'uso: l'elmo non è più calato sul volto ma viene portato lasciando libero il viso, come testimoniano la coeva scultura (p.es. il frontone di Egina) e la pittura vascolare.

Del gruppo I fanno parte elmi costruiti in un solo pezzo, probabilmente peloponnesiaci, ed elmi ottenuti dall'unione di due parti, sia verticalmente che orizzontalmente, di probabile fabbricazione italica, databili entro la prima metà del VII sec. (alcuni esemplari provenienti da Sala Consilina e Torre di Satriano, altri conservati a Berkeley). Al II gruppo corrispondono elmi in un solo pezzo, di ottima qualità e caratterizzati da decorazione incisa lungo tutto il bordo (il c.d. gruppo di Myros) o da un fiore di loto sul nasale (il c.d. Lotusgruppe) diffusi tra la metà del VII e la metà/fine del VI secolo. Fanno parte del III gruppo, che si diffonde a partire dalla metà del VI sec., elmi con calotta nettamente distinta dal paranuca, paragnatidi allungate, e frontale triangolare sottolineato da carenature e decorazione incisa.

Uno sviluppo locale, determinato dall'imitazione dei più recenti esemplari del tipo corinzio, è rappresentato dal c.d. elmo apulo o italo-corinzio. Diffuso essenzialmente in Apulia e Lucania, a partire dalla fine del VII e in uso fino al IV sec., tale elmo è caratterizzato dalla chiusura della parte facciale: se gli esemplari più antichi (gruppo I) hanno una sia pur minima apertura in corrispondenza del naso e della bocca, con due fori ugualmente ridotti per gli occhi, quelli successivi testimoniano della graduale chiusura: le paragnatidi sono unite da sbarrette orizzontali (gruppo II), e infine sono saldate insieme, mentre i fori degli occhi vengono riempiti con pietre colorate, che li riproducono (gruppo III).

Poiché appare impossibile che tali elmi fossero calati sul viso, si può supporre che venissero semplicemente poggiati sul capo, o piuttosto che avessero valore puramente simbolico, dato che quasi tutti gli esemplari noti, che presentano una ricca decorazione graffita in base alla quale è stato anche possibile individuare le officine di ambiente indigeno, provengono da tombe di guerrieri.

Agli esemplari già noti è da aggiungere la ricca serie messa in luce in Basilicata (Melfi, Lavello), l'elmo da Rutigliano, in Apulia, accanto a pezzi provenienti dal commercio antiquario (Losanna).

Diversi per concezione e struttura sono i c.d. elmi illirici. Il nome è stato impropriamente attribuito alla classe, sulla base dei luoghi di rinvenimento; anche se da questo punto di vista il quadro appare immutato (anche i rinvenimenti recenti sono localizzati essenzialmente nella Grecia settentrionale, come gli splendidi elmi rinvenuti nella necropoli di Sindos) oggi gli studiosi sono concordi nel ritenere, come aveva ipotizzato il Kunze, che luogo originario di produzione fosse, ancora una volta, il Peloponneso. A ulteriore conferma vi è stato l'importante rinvenimento della tomba di Kalavryta, oltre a numerosi altri dal Peloponneso settentrionale. Affini ai tipi corinzi, come dimostra un esemplare da Amburgo, gli elmi illirici se ne distaccano assai rapidamente, assumendo il loro tratto più caratteristico: l'apertura anteriore che lascia il viso scoperto.

La distinzione in tre classi, proposta dal Kukahn e ripresa dal Kunze, viene ancora utilizzata, con qualche affinamento. Analogamente ai tipi corinzî, si nota il passaggio da un modello estremamente rigido a uno più anatomico, con un arricchimento anche delle decorazioni. Tipo i: squadrato, in un solo pezzo, ma spesso in due con il cimiero applicato direttamente sulla calotta, come rivela la doppia costolatura che è un altro dei tratti caratteristici del tipo, è diffuso nel Peloponneso tra la fine dell'VIII e la fine del VII sec. a.C. Tipo 2: la calotta è costituita da una sola lamina, il profilo segue la linea del cranio, le paragnatidi si allungano; sui bordi compare una decorazione a chiodini ribattuti; il tipo si diffonde anche in area balcanica, e sembra essere stato in uso tra la metà del VII e la metà del VI sec. a.C. Tipo 3: continua il processo di adattamento al cranio, mentre contemporaneamente si cerca di accrescere le potenzialità difensive con l'allungamento del paranuca; se ne individuano numerose varianti, legate soprattutto alla diversa resa delle paragnatidi. Diffuso tra metà del VI e metà del IV sec. a.C., soprattutto in area balcanica, dove viene anche prodotto, acquista un nuovo elemento caratterizzante, diretta conseguenza del suo uso anche funerario, cioè la chiusura della parte anteriore con una maschera, generalmente d'oro; ciò conferma la tesi, di nuovo recentemente avanzata, dell'origine, in quest'area geografica, degli elmi a maschera di età imperiale.

Tra i molti di recente rinvenimento è da segnalare, oltre quelli di Sindos, l'esemplare dalla necropoli di Giannina, sulle cui paragnatidi è graffito un cinghiale. Questo, come l'altro elmo rinvenuto nella stessa necropoli, fu usato apparentemente come ossario.

Rappresentazioni figurate ed esemplari reali testimoniano infine l'esistenza di almeno altre due classi di elmi, legati piuttosto ad ambiente insulare: i c.d. elmi cretesi e gli elmi ionici. I primi hanno una calotta relativamente bassa, e risultano piuttosto larghi, anche per effetto delle paragnatidi, che sono sporgenti in avanti. Gli esemplari più antichi sono formati da due valve; in comune con gli elmi illirici hanno la relativa ampiezza dell'apertura anteriore, dovuta all'assenza del paranaso, ridotto a un semplice apice. Benché riccamente decorati a sbalzo, non erano usati nelle parate, ma in combattimento: il gruppo più numeroso, da Afrati, è interpretato infatti come bottino di guerra. I motivi decorativi e soprattutto la forma dimostrerebbero, secondo H. Hoffmann, l'ispirazione orientale. In base alla cronologia si datano tra il 630 e il 580 a.C. - e alle caratteristiche formali sono invece considerati di origine peloponnesiaca da Kukahn e Snodgrass. Una conferma a questa ipotesi può venire da alcuni elmi miniaturistici, rinvenuti a Bassae nel 1959, insieme ad altri elementi della panoplia, probabile dedica di mercenari cretesi, dopo la II guerra messenica. Per la forma possono essere considerati vero elemento di passaggio tra i tipi corinzi arcaici e quelli cretesi.

Gli elmi ionici ci sono viceversa noti esclusivamente da rappresentazioni figurate, in particolare da aryballoi antropomorfi a forma di testa elmata.

Il tipo, che compare probabilmente alla fine del VII sec., se non all'inizio del VI, si presenta con forma evoluta: la calotta è nettamente distinta dal paranuca, così come le paragnatidi; peculiare della forma è il frontale piatto, sormontato da un porta-cimiero. Tra le ipotesi avanzate sul luogo di origine, sembra convincente quella che lo considera una interpretazione orientale dell'elmo corinzio.

Ultimo a fare la sua comparsa, almeno in base alla documentazione disponibile, è il c.d. elmo calcidese, presente contemporaneamente come arma reale e come oggetto raffigurato sui vasi c.d. calcidesi, da cui prende il nome, nell'ultimo terzo del VI secolo. Caratterizzato da apertura facciale e relativamente ampia e netta distinzione tra calotta e paranuca, fin dai primi esemplari viene comunemente considerato un prodotto di officine magnogreche, come i vasi; la maggior parte degli esemplari proviene dall'Italia meridionale, come lo splendido esemplare a St. Louis, probabilmente proveniente da una tomba metapontina.

Più maneggevole e più facile da indossare, questo tipo conosce, sia pure con numerose varianti, una rapida diffusione e una lunga durata, fino a tutto il IV sec. a.C. La varietà degli esemplari pervenutici rende difficile una tipologia troppo precisa: attualmente si preferisce ridurre a cinque i tipi principali, eliminando i gruppi V e VI del Kunze, troppo generici. Le differenze formali, legate soprattutto al variare delle paragnatidi, corrispondono in linea generale a centri di produzione diversi. Così al I tipo, a paragnatide arrotondata, con alto proteggi-nuca e nasale stretto e lungo, e decorazione frontale appena accennata, si affianca il II, con paranuca più breve, nasale ridotto, frontale triangolare ben marcato e paragnatidi a «falce», cioè sagomate a seguire il contorno degli occhi. Tre sembrano essere stati i centri di produzione: la Grecia settentrionale, con elmi caratterizzati da decorazione frontale a sbalzo e spirali sulle paragnatidi; Tracia e Macedonia, con una forma molto allungata e decorazione ridotta al minimo; Italia meridionale, la cui produzione è distinta da decorazione incisa sul frontale, e in qualche caso protomi di ariete sulle paragnatidi. Quest'ultimo elemento caratterizza il III tipo, sempre magno-greco. Allo stesso ambiente si legano altri esemplari, del IV tipo, distinti in base alle paragnatidi a profilo triangolare estremamente appuntito, e alla decisa distinzione del frontale, oltre che dalla scomparsa del nasale. È questo, probabilmente, il prototipo degli elmi riprodotti nelle pitture delle tombe pestane, segno della sua fortuna presso i Lucani. Una maggiore apertura per gli occhi caratterizza infine il V tipo (Pflug), che presenta anche paragnatidi sempre a falce, ma mobili. Sebbene il maggior numero di esemplari noti provenga ancora dall'Italia meridionale, dove è presente anche una variante particolarmente fortunata - il c.d. elmo attico-calcidese - il tipo è ugualmente noto nella madre patria, sia nelle rappresentazioni (guerrieri del frontone di Egina e nella ceramica attica, agli inizî del V sec. a.C.) che in esemplari reali. L'elmo di recente rinvenuto a Tithorea, in Beozia, le cui paragnatidi sono riccamente decorate a sbalzo (erote su delfino?) oltre ad ampliare l'area di diffusione, ha permesso di attribuire a questo tipo le numerose paragnatidi decorate già note, rinvenute ormai staccate dall'elmo cui originariamente appartenevano (Andriomenou, Aitken).

Varianti dei tipi I e II sono attestate in Etruria, distinguibili soprattutto per la decorazione, che si ritrova poi su tipi italici continentali.

Un problema è costituito dall'elmo attico: non se ne conoscono infatti esemplari reali e la sua individuazione si fonda essenzialmente su raffigurazioni. Una semplice calotta, a volte completata da una visiera, decorata con volute sulle tempie, e da paragnatidi mobili, con alto cimiero, è l'elmo con cui viene spesso raffigurata Atena nella ceramica attica, fin dagli inizî del VI sec.; lo stesso tipo sembra portato dalle Amazzoni e in qualche caso da guerrieri anonimi. La schematicità del modello potrebbe far pensare a una libera elaborazione dal tipo calcidese, mai esistita nella realtà.

La grande novità della panoplia difensiva degli opliti, strettamente legata al combattimento in file serrate, è lo scudo. Rotondo, come il più diffuso tipo di età geometrica, se ne differenzia per le maggiori dimensioni, e soprattutto per la presenza della doppia impugnatura (pòrpax e antilabe), che consente maggior libertà di movimento. Completamente di bronzo, ma più spesso con l'anima in legno, ha la superficie liscia; bordo, bracciale e impugnatura sono riccamente decorati a rilievo. Lo stile della decorazione permette di attribuire la maggior parte degli esemplari noti a officine argive, confermando così la tradizione (Apollod., Bibl., Il, 1, 2; Plin., Nat. hist., VII, 200) che ne attribuisce ad Argo l'invenzione.

La maggior parte degli scudi conosciuti proviene da Olimpia, ma la loro generale diffusione è provata, oltre che dalle numerose rappresentazioni figurate, da rinvenimenti e pubblicazioni recenti (un esemplare dalla Sicilia, in ottimo stato di conservazione, un esemplare a grandezza reale e 12 votivi da Melfi, modellini da Bassae). Ulteriore elemento distintivo è la presenza decorativa di un'applique - l'epìsema - al centro dello scudo, raffigurante soggetti vari, per lo più animali, destinata probabilmente all'individuazione del combattente. La funzionalità come arma è provata dall'estremo conservatorismo della forma, che non subisce modifiche sostanziali fino all'età ellenistica.

Quasi contemporaneamente allo scudo oplitico si diffonde un altro tipo, sempre rotondo, il cui rivestimento metallico è costituito da una serie di fasce concentriche che si chiudono formando un «lambda»; un bell'esemplare, da Delfi, è perfettamente riconoscibile dopo un recente restauro. Rinvenuti in quantità nell'Antro Ideo, e considerati cretesi, derivano probabilmente da modelli ciprioti, come i coevi scudi europei del tipo Herzsprung. La loro durata non sembra oltrepassare il VII sec. a.C. Sempre rotondo, e di probabile origine urartea, è un altro tipo la cui caratteristica è la presenza, al centro, di una protome animale con doppia funzione apotropaica e di rinforzo (due esemplari a Delfi, uno con gorgòneion, da Creta). Scopo pratico avevano gli apici sporgenti dal centro di una terza variante di scudo rotondo, legato, secondo la maggior parte degli studiosi, a Cipro.

Nessuno di questi tre tipi dura a lungo, né conosce grande diffusione. Il fatto che tutte e tre queste varianti siano ancora caratterizzate dall'impugnatura centrale, nella tradizione dei secoli precedenti, spiega le ragioni della loro relativamente rapida scomparsa.

Conosciuto esclusivamente attraverso raffigurazioni e soprattutto come simbolo monetale della confederazione beotica, è lo scudo beotico derivato dal Dìpylon, ma non refrattario a influenze «moderne», se si deve credere alle raffigurazioni che lo mostrano fornito di antilabè e pòrpax, ed epìsema.

Minori varietà sono riconoscibili per le corazze, sia perché ci sono pervenuti pochi esemplari, sia perché dovevano essere meno usate come protezione del corpo, e probabilmente sostituite spesso, anche in età arcaica, da giustacuori in materiali deperibili.

Esemplari, miniaturistici e a grandezza naturale, provengono da Creta (Afrati), caratterizzati, come tutte le altre armi cretesi, da ricca decorazione; formate da due valve con chiusura laterale, e svasate in basso, risentono, come gli altri elementi della panoplia cretese, di forti influssi peloponnesiaci (Snodgrass) o orientali (Hoffmann). Innegabile è la loro appartenenza al tipo «a campana».

Una peculiarità cretese è rappresentata dalle lamine semicircolari di bronzo, impropriamente definite, come ha dimostrato Hoffmann, mitre. Decorate a rilievo, erano probabilmente un completamento della corazza, a protezione del ventre, o un suo sostituto.

Alla stessa tipologia delle corazze anatomiche a campana appartengono i numerosi esemplari rinvenuti in Tracia, tutti in tombe a tumulo, noti da tempo, ma la cui conoscenza è stata approfondita di recente in seguito a restauri (p.es. di Dălboki). È stato possibile distinguerne due gruppi, di cui il più antico, compreso tra VI e V sec. a.C., è molto vicino al tipo di Argo per la svasatura dell'estremità inferiore, e il breve colletto, mentre molto più vicina alla reale anatomia è la resa dei pettorali. Il centro di produzione è da ricercarsi in Grecia e più probabilmente ad Atene.

Un'evoluzione, che rende il tipo più funzionale, è rappresentata dal II gruppo; l'esemplare più antico, quello di Dălboki, si data alla prima metà del V secolo. Il corpetto perde la caratteristica svasatura inferiore, terminando con una linea orizzontale, che permette l'aggiunta di una lamina per la protezione del ventre; scompare anche il colletto, che lascia posto a una scollatura a canottiera, destinata a facilitare i movimenti: la protezione viene assicurata da pettorali di ferro o di bronzo e per le armi da parata probabilmente d'oro. Queste corazze, che ricorrono ancora in contesti di IV sec., erano destinate probabilmente alla cavalleria.

Una prova della diffusione e produzione di armi di tipo greco in ambiente periferico è data dalla scoperta, nell'edificio arcaico 14, a Panticapeo, di un'officina di armaiolo che fabbricava corazze in ferro e in bronzo.

Elemento importante dell'armatura erano gli schinieri, che non presentano tuttavia grandi novità formali, ma si limitano a perfezionare il tipo preesistente. La gamba risulta protetta dal ginocchio alla caviglia da schinieri anatomici fissati per semplice pressione. Numerosi sono gli esemplari decorati, per lo più con una protome animale in corrispondenza del ginocchio, di cui sono segnalati numerosi nuovi rinvenimenti (Olimpia, Kalavryta, Magna Grecia).

Nelle rappresentazioni più antiche, l'oplita ha a disposizione due lance, il che fa supporre che almeno una fosse lanciata come giavellotto. Tuttavia il costume si evolve, e l'oplita è armato di una sola lancia, destinata al combattimento ravvicinato, quindi con funzione di picca.

L'individuazione di un tipo di lancia caratterizzante l'età arcaica appare estremamente problematica, da un lato perché la sostituzione del ferro al bronzo nel periodo precedente è più lenta, è in ogni caso né definitiva né duratura, dall'altro perché estremamente scarsi sono i contesti ben datati che superano l'età geometrica. Di tale fase si conserva l'allungamento della lama, tuttavia poco consistente, mentre se ne modifica la larghezza, che diventa maggiore; il bronzo sembra di nuovo prevalere come materiale. Questi elementi confermano la funzione essenzialmente di picca. L'uso del ferro rimane invece prevalente per le spade, che conservano anche, sia pure con una leggera riduzione delle dimensioni, la forma tipica della fase precedente, almeno per tutto il VII secolo. Ben presto venne introdotta una forma più corta. Alla fine del VI sec. il modello a taglio e punta è stato ormai sostituito da un tipo di spada con lama corta a un solo tranciante.

Una ricca tipologia di questi materiali è fornita dal «deposito» di Candela, in Arcadia (30 punte di lancia, 3 spade, frecce), databile alla fine del VII sec., probabile sepolcro di opliti morti in battaglia, e da due tumuli tessali (Chicorema e Karaeria), datati alla seconda metà del VI sec., pure sepolcro di morti in combattimento (da segnalare, nel secondo, anche i resti di due carri).

Semplice e funzionale, l'armamento oplitico può essere considerato, così come la tattica di Combattimento, un'invenzione greca, anche se per alcuni elementi della panoplia è possibile individuare prestiti da altri ambienti.

L'adozione dell'armamento oplitico in Magna Grecia, testimoniato soprattutto da rinvenimenti in ambienti indigeni - ove si era conservato l'uso del seppellimento delle armi col defunto, in segno di prestigio - ne favorì la diffusione anche in Etruria e a Roma: basti citare la tomba di guerriero di Lanuvio, testimonianza nello stesso tempo di una persistenza del costume e di una innovazione tecnologica.

Le figurazioni della ceramica attica nel VI sec. a.C., permettono di colmare le lacune dovute alla scarsità dei ritrovamenti reali, e l'apporto della ceramica diventa fondamentale per conoscere l'armamento di altri tipi di combattenti.

Trova particolare fortuna la rappresentazione degli arcieri, riconoscibili come Sciti per il loro abbigliamento: pantaloni stretti, corpetto in pelle o stoffa, tipico berretto, per lo più appuntito, con apertura per le orecchie e due bande laterali per il fissaggio. A parte l'ascia, la loro arma è l'arco, verosimilmente del tipo composito, e la tipica faretra (il gorytòs) composta da due elementi rettangolari giustapposti, uno per l'arco, l'altro per le frecce; queste ultime, sempre in brónzo, hanno breve codolo e corta punta barbata.

Stranieri, ma rapidamente adottati ad Atene, sono anche i costumi dei cavalieri traci. Come gli Sciti, questi non indossano armatura difensiva, ma variegati mantelli di lana, che coprono corte tuniche, sempre di stoffa, e berretto di volpe (l'alopekis), come sola protezione per il capo; hanno come arma un giavellotto.

I peltasti, che fanno la loro prima comparsa nel VI sec., e sono destinati ad avere un ruolo duraturo, indossano un semplice mantello e si difendono con un piccolo scudo, la pelta, da cui prendono appunto il nome. Tradizionalmente si identifica come tale lo scudo lunato portato dalle Amazzoni.

Le fonti antiche menzionano diversi tipi di pelte, tra cui anche una rotonda, sicché tale identificazione è stata di recente messa in dubbio. Concordi viceversa sono le testimonianze che la descrivono di vimini, rivestita di pelle, per lo più di capra o pecora.

Per l'attacco i peltasti dispongono di almeno due giavellotti, caratterizzati dal puntale di bronzo, che spesso poteva essere usato anche per colpire. L'individuazione dei giavellotti, salvo che nelle rappresentazioni dove può aiutare il modo in cui l'oggetto è impugnato, è estremamente difficile. Le piccole proporzioni della lancia non sono un elemento sufficiente; più importante è il rapporto del peso tra punta e cannone: una punta lunga e sottile, con un lungo cannone, è ben bilanciata, e quindi adatta a essere lanciata. Non si conoscono forme del tutto nuove per il VI sec., ma è verosimile che si continuino a produrre quelle in uso nel secolo precedente, di cui una tipologia aggiornata e ristretta rispetto a quelle di S. Benton e H. L. Lorimer è stata proposta da Snodgrass.

Queste truppe rappresentano comunque, come è stato messo in rilievo da più studiosi, un episodio, localizzato in Attica, e legato agli interessi di Pisistrato in Tracia e regioni confinanti, cosa che ne spiega la non regolare utilizzazione. In effetti cavalieri e soprattutto arcieri dovevano essere impiegati in battaglia anche prima della comparsa di questi specialisti barbari; a mercenari cretesi si deve probabilmente la reintroduzione massiccia di questa tecnica, testimoniata dai rinvenimenti in discreta quantità nei santuari di Lindo, Olimpia, Perachora, Samo, di frecce a codolo, che a Creta sono attestate per tutta l'età arcaica, mentre l'esistenza di una effettiva cavalleria in appoggio alla falange oplitica è ancora oggetto di discussione tra gli studiosi.

Il V secolo. - La durata e l'importanza delle guerre che occupano tutto il secolo non sembrano aver avuto influenze significative sull'armamento; poche sono le novità da segnalare, forse anche per la diminuizione della documentazione.

Per quanto concerne le armi di difesa, raffigurazioni vascolari e scultoree documentano la diffusione, accanto ai vecchi, di nuovi tipi di elmi anche se non sempre è facile distinguere se si tratta di elmi metallici o di semplici copricapi. Il più antico, identificato con il pìlos, è una semplice calotta conica; più complessa è la forma del c.d. elmo frigio, di cui le prime rappresentazioni rimontano alla fine del secolo; elementi distintivi sono la larga punta ripiegata in avanti e la presenza della visiera. Quest'ultimo elemento, caratterizza anche il c.d. elmo tracio che, come il frigio, ha un breve paranuca nettamente distinto dalla calotta; la semplicità della forma rende probabile la derivazione dal berretto in pelle indossato abitualmente dai Traci, donde il nome. Ultimo in ordine cronologico è il c.d. elmo beotico, che è la semplice trasposizione in bronzo del petaso, indicato da Senofonte come particolarmente adatto alla cavalleria.

La ricerca di maggiore funzionalità è alla base della sola modifica di qualche rilievo dello scudo oplitico; una corda passata lungo tutto il bordo e fermata a intervalli regolari da borchie, in modo da offrire più possibilità di impugnatura, sostituisce la presa singola precedente. Va segnalata l'apparente scomparsa degli altri tipi rotondi (a protome, apice, ecc.) e la diffusione, viceversa, della c.d. pelta, sempre riservata agli armati alla leggera.

Le novità riguardano invece la corazza. Il tipo anatomico subisce un'evoluzione verso una maggior facilità di movimento, come dimostrano - a parte i ben noti rilievi attici - gli esemplari traci di cui si è già parlato; la forma precedente, con collare, è ancora prodotta, come mostrano rinvenimenti recenti.

Accanto a questi tipi che, nonostante i nuovi accorgimenti, restano pesanti e caldi, torna in uso la tunica di lino, probabilmente rinforzata da elementi metallici. Poiché unica fonte sono le rappresentazioni vascolari, non sempre è facile riconoscerne il materiale.

Sembra comunque sicura l'esistenza di almeno due varianti principali. La più diffusa presenta una lamina metallica in corrispondenza del petto, fissata mediante spallacci, ugualmente metallici, mentre sui fianchi la protezione sarebbe affidata al semplice tessuto; il collegamento delle parti metalliche sarebbe ottenuto mediante corregge.

L'altra variante aggiunge ai fianchi una cotta, con scaglie di forme varie; si tratta di un adattamento greco di un tipo di corazza usata soprattutto dai popoli orientali, nella forma del rivestimento completo. In entrambi i casi il corsetto è completato, in basso, da una o due file di laminette, per le quali poteva essere usato tanto il cuoio quanto il metallo.

Poche sono le novità anche per quanto concerne le armi d'offesa. Punte di lancia e giavellotto sembrano essere prodotte prevalentemente in bronzo, almeno in Grecia, anche se, come osserva lo Snodgrass, ciò potrebbe derivare dal fatto che i materiali esistenti provengono essenzialmente da santuari.

Scomparsa ormai definitivamente la lunga spada di taglio e punta, gli opliti continuano a usare, in caso di combattimento corpo a corpo, le spade a elsa cruciforme e lama rigonfia o adottano un nuovo tipo, forse derivato da modelli del Vicino Oriente, con breve lama ricurva a un solo taglio, destinata a pericolosi fendenti. L'impugnatura, anch'essa ricurva in modo da permettere una migliore protezione della mano, terminava spesso con una testa d'uccello.

L'utilizzazione crescente di armati alla leggera, in particolare arcieri, è testimoniata dal grande numero di punte di freccia - tipo c.d. scitico rinvenute sui campi di battaglia.

Il IV secolo e l'ellenismo. - La prima metà del IV sec. a.C. vide il prodursi di importanti modifiche negli usi di guerra che non determinarono tuttavia alcun apprezzabile effetto sull'armamento.

E dalla Macedonia, regione finora rimasta marginale dal punto di vista della creazione di armi, che arrivano le novità, determinate dall'adozione e dalla diffusione di nuove tecniche di combattimento.

Alla destra della falange erano schierati due gruppi di fanteria probabilmente pesante è stato recentemente ipotizzato che si trattasse addirittura di opliti - con funzione di appoggio: i c.d. hypaspistès e gli argyràspides. Ancora a destra era schierata la cavalleria pesante, mentre sui fianchi si disponevano, secondo le necessità, arcieri e frombolieri, cavalieri armati alla leggera, ecc.

I fanti macedoni sono apparentemente poco protetti, perché privi di corazza; la loro difesa si limita all'elmo, agli schinieri, a uno scudo. La loro incolumità è in effetti affidata soprattutto all'impiego del nuovo tipo di lancia, la sarissa, e al modo stesso in cui è schierata la falange. Essi dispongono inoltre di una spada, per il corpo a corpo. Di analoga composizione sembra essere l'armatura dei cavalieri, che dispongono, in più, della corazza.

La documentazione relativa si è arricchita grazie a nuove scoperte, tra cui gli eccezionali rinvenimenti del tumulo regale di Verghina, che permettono di ricostruire con relativa precisione tanto l'armamento dei nobili (cavalieri?) che dei fanti macedoni.

Nella tomba maggiore del grande tumulo erano deposti due elmi in ferro - probabilmente arricchiti da decorazione applicata in argento e/o oro, a giudicare dai resti su uno degli esemplari - che costituiscono l'anello di passaggio dai c.d. elmi tracio e frigio al tipo attico con visiera, che è l'elmo più diffuso in età ellenistica. A calotta arrotondata, con cimiero incurvato in avanti, frontale sagomato e visiera, paragnatidi mobili sagomate, questo elmo è probabilmente un'invenzione macedone, la cui diffusione è evidentemente legata alle vicende storiche.

L'elmo attico fa la sua effettiva comparsa solo alla fine del IV sec., e resta in uso fino alla metà del II sec. a.C. È caratterizzato da calotta bassa e un po' schiacciata, visiera e breve paranuca; la parte anteriore è rinforzata da una fascia più o meno larga, spesso decorata; sulla calotta è applicata una bassa cresta. Se ne distinguono due varianti principali, a seconda che sia composto da più pezzi (quattro, come negli elmi, in ferro, rinvenuti in una tomba della seconda metà del IV sec. a Prodromi, in Tesprozia) o da un pezzo solo, generalmente in bronzo.

A partire dal IV sec. conoscono ampia diffusione tutte le nuove forme di cui si è parlato che, con qualche oscillazione, restano in uso fino a tutto il II sec. a.C.

l pìlos è presente in due varianti. La prima, probabilmente greca, ha calotta arrotondata terminante con una fascia concava, quasi verticale; la seconda, diffusa soprattutto in Magna Grecia, ha calotta conica, terminante con una breve fascia sempre concava, ma a profilo svasato.

Il tipo frigio è noto in tre varianti di cui la più diffusa è localizzata soprattutto nella Grecia settentrionale. La calotta, ovale, termina con largo e alto puntale ripiegato in avanti; paranuca, visiera e paragnatidi mobili, per lo più decorate con l'imitazione della barba, assicurano la protezione del volto.

La seconda, attestata soprattutto nei Balcani, è una commistione di questo tipo con quello calcidese, da cui deriva il frontale, con paranaso, ma conserva le paragnatidi barbate, come nell'esemplare da Pletena, in ferro.

La terza invece è documentata soprattutto in Italia (cinque esemplari di probabile produzione tarantina sono stati pubblicati di recente) ed è anch'essa una commistione della forma principale con quella calcidese, semplificata: la protuberanza anteriore è appena accennata, la visiera è scomparsa senza peraltro essere sostituita dal paranaso; viceversa più marcata è l'apertura per le orecchie mentre le paragnatidi sono prive della decorazione a barba.

Quest'ultima variante, decisamente ibrida (la peculiarità della calotta terminante orizzontalmente sulla fronte è tipica, p.es., degli elmi sannitici comunemente detti attico-calcidesi) rispecchia pienamente lo spirito del tempo, segnato da scambi ed esperimenti, di dimensioni difficilmente raggiunte prima.

Tre sono anche le varianti note dell'elmo beotico. A un vero e proprio petaso - breve calotta emisferica, con

rigida falda orizzontale, di cui un esemplare in bronzo proviene da una tomba ateniese della metà del IV sec. - si affianca un tipo più comune, con calotta più ampia e ovaleggiante e larga falda ondulata, obliqua, come l'esemplare dal Tigri; la terza variante è in realtà un ibrido, per l'associazione di una calotta emisferica, con frontale evidenziato da volute, alla falda, leggermente ondulata e quasi orizzontale.

Lo scudo, circolare, aveva un'impugnatura centrale, ma doveva essere in realtà sostenuto da una sorta di bandoliera, che consentisse di avere entrambe le mani libere per poter impugnare la sarissa. I nomi antichi sembrano fare riferimento essenzialmente al materiale di cui gli scudi erano fatti, senza che sia possibile dedurne delle differenze formali. Si riteneva comunque che non ci fosse in realtà alcuna differenza tra i tipi, caratterizzati da dimensioni ridotte. La rappresentazione di scudi nella tomba di Lyson e Kallikles, ha permesso viceversa di ipotizzare l'esistenza, accanto a quelli più piccoli, di scudi di dimensioni non molto dissimili da quelli oplitici, cosa che è oggi confermata dal prezioso scudo rinvenuto nella tomba di Verghina.

Che la corazza fosse appannaggio di nobili e cavalieri sembra confermato dal fatto che gli esemplari rinvenuti, oltre che nella Tomba di Filippo, provengono sempre da tombe caratterizzate da ricchi corredi.

Anche per la corazza il metallo usato è il ferro, impreziosito da appliques d'oro. È del tipo a corsetto, con larghi spallacci, che andava indossato su una corta tunica; mancano elementi utili per il completamento della parte inferiore, che si presenta tagliata nettamente all'altezza della vita. È la stessa corazza con cui viene comunemente rappresentato Alessandro. Il tipo non era tuttavia esclusivo; lo stesso Macedone viene rappresentato con la corazza di tipo anatomico, nella versione più evoluta, vale a dire più aderente all'anatomia del torso, e con arrotondamento della parte inferiore, a protezione dell'addome. Questo tipo, che continua quello di età classica, è ancora attestato anche in altre regioni greche e in particolare in Magna Grecia (tomba di Prodromi, tomba di Cariati, probabile tomba di Metaponto; sempre dall'Italia meridionale proviene un bell'esemplare con iscrizione di dedica, attualmente in una collezione privata svizzera, per il quale si discute se si tratti di un ricco bottino o piuttosto della prova dell'adozione in ambiente indigeno della panoplia greca).

Immutati restano gli schinieri, sempre in bronzo; come per gli altri elementi della panoplia, viene sempre più ricercata l'aderenza all'anatomia: la differenza di altezza di una delle coppie rinvenute nella tomba di Verghina è uno degli elementi su cui si basa l'attribuzione a Filippo. Altri esemplari vengono dalle ricche tombe sia greche che magno-greche già citate.

La scoperta nel 1970, sempre nella necropoli di Verghina, di una punta di lancia e di un saurotèr di dimensioni maggiori del normale (rispettivamente m 0,51 e m 0,44) ha permesso di chiarire anche forma e dimensioni della sarissa. Lunga oltre quattro metri, poteva avere l'asta in uno o due pezzi, la cui unione doveva essere assicurata da elementi metallici, destinati anche a ridurne le vibrazioni. Conosciuto e usato da tempi remoti, il tallone diviene, con la sarissa, ancora più necessario, giacché se gli uomini delle prime file dovevano reggere la loro arma quasi orizzontalmente, quelli dalla sesta in poi la reggevano obliquamente, puntandola sul terreno, venendo a formare un vero e proprio muro di difesa. Il tallone aveva anche la funzione di bilanciare il peso della punta. Il rinvenimento di Verghina, oltre a confermare l'esistenza, spesso contestata, di questo elemento per l'asta macedone, ha permesso di riconoscere come sarisse numerose altre punte, come quelle rinvenute in tombe della fine del IV sec., sempre a Verghina.

L'associazione, nella stessa tomba, di lance di dimensioni tradizionali assicura che i soldati macedoni dovevano comunque potersi servire di entrambi i tipi.

Una lancia analoga per forma, ma di dimensioni ridotte, era usata dai cavalieri, che si servivano però soprattutto della kopìs, cioè della spada corta e ricurva, adatta a tirare fendenti. Il tipo a elsa cruciforme, e lama verosimilmente dritta, resta comunque in uso: un prezioso esemplare faceva parte del corredo di Filippo.

Tra gli oggetti conservati nella tomba c'è anche una splendida faretra, in oro, con ricca decorazione a rilievo su temi dell'Ilioupèrsis; è un tipico esempio di gorytòs, che continua quindi a essere utilizzato senza modifiche sostanziali, anche se, nel contesto particolare, sembra piuttosto doversi considerare destinato alla caccia.

I successori di Alessandro non sembrano modificare sostanzialmente né tattica né armamento. Caratteristica del periodo è la presenza preponderante di mercenari nell'esercito; dal punto di vista dell'armamento ciò spiega la grande varietà di tipi che sembrano essere usati: p.es., il lungo scudo rettangolare dei Galati, ma anche la grande varietà degli elmi. Questi costituiscono in effetti la classe meglio studiata, anche perché si dispone di maggiore documentazione.

La reale trasformazione della guerra è legata però alla rilevanza sempre più grande che ha assunto, a partire da Alessandro, l'espugnazione della città, grazie ad assedi sempre più perfezionati.

Si sviluppa così una nuova arte, la poliorcetica, di cui alcuni trattati sono giunti fino a noi, conservandoci il ricordo di catapulte capaci di lanciare proiettili del peso di tre talenti alla distanza di uno stadio, torri di avvicinamento, arieti, così come degli stratagemmi usati dai difensori.

MONUMENTI CONSIDERATI. - Età del Bronzo. - Elmi: Dendra, tomba 12: N. Verdeiis, in ADelt, XVI, 1960, p. 93 ss., fig. 72; G. Daux, in BCH, LXXXV, 1961, p. 672; LXXXVI, 1962, p. 740; E. Protonotariou-Deilaki, in AAA, III, 1970, p. 106 ss. - Kallithea, tomba B: N. Yalouris, in AM, LXXV, 1960, Suppl. 28, p. 42 ss. - Katsambà: S. Alexiou, in AAA, III, 1970, p. 233 ss. - Kazarma: E. Deilaki, in AAA, II, 1969, p. 311. - Cnosso: M.S.F. Hood, P. de Jong, in BSA, XLVII, 1952, p. 243 ss. - Tirinto: G. Daux, in BCH, LXXXII, 1958, p. 707, tav. 726; N. Verdelis, in AM, LXXVIII, 1963, p. 17 ss. - Armeni: E. Banou, Το οδοντοφρακτο κρανος απο το ΥΜ III νεκροταφειο στους Αρμενους Ρεθυμνης, in Πεπραγμενα του ΣΤ' Διεθνους Κρητολογικου Συνεδριου, Α2, Chania Ι990, pp. 39-47.

Cimieri: Α. Sakellariou, in Studi in onore di Doro Levi, I, Catania 1973, p. 127 ss.

Corazze: Dendra: N. Verdelis, in ADelt, XVI, 1960, p. 93 ss.; P. Åström, in AM, LXXXII, 1967, p. 54 ss.; P. Åström (ed.), The Cuirass Tomb and Other Finds at Dendra, Göteborg 1977; Å. Åkeström, in Berbati 2. The Pictorial Pottery, Stoccolma 1987, p. 129 ss.; D.E.H. Wardie, Problems in Greek Prehistory, Manchester 1986, Bristol 1988, p. 469 ss. - Kallithea: N. Yalouris, in AM, LXXV, 1960, p. 47 ss. - Micene: H.W. Catling, in AA, LXXXV, 1970, p. 441 ss. - Tebe: G. Daux, in BCH, LXXXVIII, 1964, p. 776. - Cipro: V. Karageorghis, E. Masson, in AA, XC, 1975, p. 209 ss. - Europa: A.M. Snodgrass, in Studies in Honour of C.F.C Hawkes, Londra 1971, p. 31 ss.

Schinieri: Atene: Ν. Platon, in ADelt, XXI, 1966, p. 56, figg. 59-60; P.A. Mountjoy, in OpAth, XIV, 1984, p. 135 ss. - Dendra cfr. Corazza. - Kallithea: N. Yalouris, in AM, LXXV, 1960, p. 45 ss.; E.T. Vermeule, in AJA, LXIV, 1960, p. I ss. - Canosa: W. Johannowsky, in RendAccNapoli, n.s. XLV, 1970 (1971), p. 205 ss. Malpensa: A. Mira Bonomi, in Studi F. Rittatore Vonwiller, Como 1980, p. 127 ss. - Pontecagnano: B. D'Agostino, in StEtr, XXXIII, 1965, p. 674. - Cannes-Ecluse: C. Caucher, Y. Robert, in GalliaPrHist, X, 1967, p. 169 ss.

Scudi: Micene: P.M. Fraser, in ARepLondon, 17, 1970-1971, p. 10, fig. 16. - Tebe: E. Touloupa, in ADelt, XX, 1965, p. 281. Tomba di Tebe: M. Kasimi-Soutou, m ADelt, XXXV, 1980 (1986), I, p. 88 ss.; H.W. Catling, in ARepLondon, 34, 1986-1987, p. 24, figg. 33-35.

Spade: K. Demacopoulou, in AAA, II, 1969, p. 226 ss.; E. Deilaki, in ADelt, XXIX, 2,2, 1973-1974, p. 202 ss., fig. 145; H.W. Catling, in RDAC, 1973, p. 103 ss.

Secoli bui. - Elmi: Argo: P. Courbin, in BCH, LXXXI, 1957, P· 322 ss.; E. Deilaki, in ADelt, XXVIII, 2,2, 1973, p. 99, fig. 95a. - Olimpia: G.A. Papathanasopoulos, in ADelt, XXIV, 1969, 1, pp. 132-142. Cipro: A.G. Bucholz, in AA, 1973, p. 335 ss., fig. 36.

Scudo: Penteskouphia: H. Robinson, in ADelt, XIX, 1964, p. 101, fig. 109b.

Phalera: Nichoria: W.A. McDonald, R.J. Howell, in ADelt, XXIX, 2, 1, 1973, p. 236 ss.

Tombe con carro e finimenti di cavallo: Cipro: V. Karageorghis, in BCH, LXXXVII, 1963, p. 270 ss.; XCI, 1967, p. 202 ss. Mileto: C. Weickert, in IstMitt, VII, 1957, p. 126 ss., tav. XL,I.

Età arcaica. - Elmo corinzio: Olimpia: N. Yalouris, in BCH, LXXXIV, i960, p. 271, fig. 12 (altro esemplare con dedica di Ierone di Siracusa, che si aggiunge a quello già noto); G. A. Papathanasopoulos, in ADelt, XVII, Ι, 1961-1962, p. 107 ss.; N. Yalouris, ibid., XX, 2, 2, Chron., 1965, p. 209 s.; G.A. Papathanasopoulos, ibid,, XXIV, 1969, pp. 132-142; Th. Karaghiorga, ibid., XXVII, 1972, p. 268 ss.; A. Liagouras, ibid., XXIX, 2, 2, 1973-1974, p. 343 s.; H.W. Catling, in ARepLondon, 28, 1981-1982, p. 25 s., fig. 49 (due esemplari, con iscrizioni graffite, da un pozzo). - Samo: S.C. Gröschel, in Bathron. Festschrift H. Drerup, Saarbruck 1988, p. 141 ss. Sindos: AA.W., Σινδος (cat.), Salonicco 1985, p. 280. Palaepaphos: A. M. Snodgrass, in Trierer Winckelmannsprogramme, VI, 1984, p. 45 ss. - Mersin: C. Radan, in IsrExplJ, XI, 1961, p. 176 ss. Francavilla Marittima: M.W. Stoop, in BABesch, LV, 1980, p. 163 ss. - Sardegna: F. Lo Schiavo, in StEtr, LUI, 1987, p. 99 ss.

Commercio antiquario e collezioni: C.W. Neeft, in Festoen. Festschrift A.N. Zadoks-Josephus Jitta, Groninga 1976, p. 441 ss.; T. Lorenz, in Festschrift R. Hampe, Magonza 1980, p. 133 ss.; P. Hellström, in MedelhavsMusB, XIX, 1984, p. 49 ss.; A.H. Jackson, in BSA, LXXXII, 1987, p. 107 ss.; J. Swaddling, in AntJ, LXVII, 1987, p. 348 ss.

Elmi in due parti: Sala Consilina, tomba A 410: J. de La Genière, L'âge du fer en Italie meridionale, Napoli 1968, p. no. - Torre di Satriano, tomba n: R. Ross Holloway, in Satrianum, 1970, p. 64. Berkeley: C. Weiss, in CalifStClAnt, X, 1977, p. 195 ss.

Elmi apulo-corinzi: Melfi Cucchiari, tomba A: P. Orlandini, in Atti dell'XI Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 1971, Napoli 1972, pp. 273-308, in part. p. 289; tomba F: AA.VV., Popoli anellenici in Basilicata, Napoli 1971, p. 104 ss. - Melfi Leonessa, tomba 7: ibid., p. 114. - Lavello, tomba 56: ibid., p. 130. - Rutigliano, tomba 24: F.C. Lo Porto,, in Atti del XVI Convegno di Studi nella Magna Grecia, Taranto 1976, Napoli 1977, p. 741. - Commercio antiquario: A. Bottini, in Antike Helme (cat.), Magonza 1988, p. 133 ss.

Elmi illirici: Sindos: AA.VV., Σινδος (cat.), cit., passim. - Giannina: I. Andreou, in ADelt, XXXII, 1977, p. 151; ead. in Illiria, 1985, p. 281 ss. K- alavryta: A.H.S. Megaw, in ARepLondon, 1962-1963, p. 21; E. Mastrokostas, in ADelt, XVII, 1961-1962, p. 130 ss. - Olimpia: E. Kunze, ibid, p. 107 ss.; id., 8. Bericht über die Ausgrabungen in Olympia, Berlino 1967, pp. 111-183, in part, p. 125 ss.; Th. Karaghiorga-Palama, in ADelt, XXVII, 1972, p. 268; H.W. Catling, in ARepLondon, 28, 19811982, p. 25. - Elea: N. Yalouris, va. ADelt, XVIII, 1963, p. 102 ss. Commercio antiquario: Ph. Petsas, in ADelt, XXV, 1970, p. 201 ss.; A. Snodgrass, Wehr und Waffen im antiken Griechenland, Magonza 19842, p. 81 ss.; D. Kent-Hill, in The Journal of the Walters Art Gallery, XXVII-XXVIII, 1964-1965, p. 9 ss. (probabilmente dalla Macedonia).

Elmi cretesi: Afrati: H. Hoffmann, Early Cretan Armourers, Magonza 1972. - Bassae: A. M. Snodgrass, in Studi in onore di Doro Levi, 2, Catania 1974, p. 196 ss.

Elmi calcidesi: F. G. Lo Porto, in AttiMGrecia, XVIIIXX, 1977-1979, p. 171 ss., tav. LXVII; A. Andriomenou, in AM, XCI, 1976, p. 189 ss.; B. T. Aitken, in AntK, XXV,1982, p. 58 ss.

Scudo oplitico: Olimpia: E. Kunze, in ADelt, XVII, 1961-1962, p. 107 ss. - Italia meridionale e Sicilia: W. Hermann, in AA, 1966, p. 255 ss.; M. W. Stoop, in BABesch, V, 1980, p. 163 ss.; E. Kunze, Archaischer Bronzeschild in Antike Kunstwerke aus der Sammlung Ludwig II, Basilea 1982, p. 230 ss.

Scudo rotondo: Delfi: I. Costantinou, in ADelt, XVI, B, 1960, p. 159, figg. 142b e 144g; L. Lerat, in BCH, CIV, 1980, p. 93 ss.; H. Walters, in ADelt, XVIII, 1963, p. 292, fig. 337b. - Bassae: A. M. Snodgrass, in Studi in onore di Doro Levi, cit. p. 196 ss. - Creta: H. Hoffman, Early Cretan Armourers, Magonza 1972. - Noicattaro: L. Nista, in ArchCl, XXX, 1978, p. 1 ss.

Corazze: Olimpia: E. Kunze, in, ADelt, XVII, 19611962, p. 107 ss.; - Creta: S. Alexiou, ibid., XX, 1965, p. 554, fig. 697; H. W. Catling, in ARepLondon, 23, 19761977, p. 31, fig. 54. - Tracia: L. Ognenova, in BCH, LXXXV, 1960, p. 501 ss. Panticapeo: I. D. Martchenko, in SovArkh, 1971, 2, p. 148 ss.

Schinieri: Olimpia: E. Kunze, in ADelt, XVII, 19611962, p. 107 ss.; Th. Karaghiorga, ibid., XXVI, 1971, p. 146, fig. 126. - Kalavryta: E. Mastrokostas, ibid., XVII, 1961-1962, p. 131, fig. 156. - Bassae: A. M. Snodgrass, in Studi in onore di Doro Levi, cit. p. 196 ss.

Spade, lance, frecce: Candela: C. Steinkauer, in ADelt, XXV, 1971, p. 122 ss., fig. 107. - Tessaglia: A. Tziaphalias, ibid., XXX, 1975, p. 194 ss.; fig. 105a; H.W. Catling, in ARepLondon, 27, 1980-1981, p. 25, fig. 45.

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(R. Perobon-Benoit)

Italia. - I ritrovamenti di armi relativi all'Età del Bronzo sono ancora scarsi, per non dire inesistenti; le necropoli che vanno dall'Età del Ferro sino al V sec. a.C. circa offrono viceversa una numerosa documentazione.

Le più interessanti sono quelle etrusche, in particolare i complessi villanoviani di Tarquinia e di Veio, e quelli di epoca orientalizzante a Marsiliana d'Albegna, Populonia, Vetulonia. Bisogna infine tenere conto dei ritrovamenti in Campania, ad Alfedena nel Sannio, a Novilara nel Piceno e di numerosi recuperi nell'Italia meridionale.

A partire dal V sec., cessa il costume di deporre le armi nelle necropoli e quindi la documentazione relativa si basa sull'abbondante materiale iconografico: innanzitutto la ceramica, sia greca che italiota; quindi le situle, le terrecotte architettoniche e gli acroteri etruschi, gli affreschi di Tarquinia e di Paestum, rilievi e statuine di diversa provenienza.

L'armamento difensivo. - Le armi difensive sono estremamente variate e si evolvono a seconda delle epoche e delle diverse regioni. Gli elementi strettamente funzionali non mutano affatto, mentre le decorazioni sembrano dipendere dalla ricerca di prestigio individuale e dalle «mode» vigenti. Il fenomeno si manifesta con particolare evidenza negli elmi, che si ornavano di cimieri e di piume, e nelle corazze che potevano essere modellate in forma più o meno raffinata. Al contrario, dopo l'introduzione della tattica oplitica, gli scudi rispondono, per forma e per fattura, a regole comuni.

Gli elmi. - Le sepolture di età villanoviana hanno fornito numerosi modelli di elmi in ceramica, probabilmente ricalcati su quelli che erano effettivamente in uso. L'elmo apicato, costituito da una calotta circolare, appartiene al tipo degli elmi campaniformi; la decorazione consiste in puntinature e borchiette. Gli esemplari di questo tipo sono dotati di una punta che doveva consentire l'aggiunta di un pennacchio di crine. Un esemplare in bronzo proviene dalla necropoli Monterozzi di Tarquinia: l'apice è decorato con una serie di linee parallele e termina con un bottone.

Un altro tipo, privo di contesto archeologico, presenta, infilato nell'apice, una sorta di tridente sormontato da tre figurine di guerrieri. I Villanoviani conoscevano parimenti l'elmo crestato: si tratta di una calotta emisferica che regge una cresta metallica disposta in senso anteriore-posteriore. La decorazione è costituita da puntinature e borchiette lavorate a sbalzo, e talvolta compare il motivo solare dell'uccello. Tali modelli sono conformi al tipo comune in Europa nel periodo halstattiano. Un esemplare molto bello proviene dal Poggio dell'Impiccato a Tarquinia; un altro, eccezionale per le dimensioni della cresta (alt. cm 63),, proviene da Veio. Alla base della calotta sono saldate inoltre, da ciascun lato, tre piccole aste cilindriche.

Nel periodo orientalizzante, gli Etruschi adottano l'elmo greco di tipo corinzio, formato da una lamina modellata, che comprende il nasale e le paragnatidi. Gli esempi più noti provengono da Populonia e da Vetulonia. L'adozione dell'elmo greco arcaico è confermata da alcune stele contemporanee (stele dei guerrieri di Tarquinia e stele di Avele Feluske Tusnutie di Vetulonia). L'elmo corinzio con pennacchio compare anche sulle statue del guerriero di Orvieto e della Menrva del Foro Boario. È però contemporaneamente attestato anche un tipo di elmo che sembra locale: si tratta di una semplice calotta emisferica, dotata di piccoli speroni, destinati ad agganciare un elemento decorativo. È il caso degli elmi che provengono dal Circolo degli Ulivastri di Vetulonia e dalla Tomba del Duce.

Numerose situle documentano inoltre alcuni tipi particolari di elmo: p.es. nella situla della Certosa i fanti che marciano in prima fila portano un elmo apicato, contornato lungo il bordo da borchiette, probabilmente metalliche; i guerrieri della seconda e della terza fila indossano calotte simili all'elmo della Tomba del Duce, ornate di pennacchio; quelli della quarta portano un elmo che sembrerebbe fatto di materiale deperibile, feltro o cuoio. I cavalieri hanno una semplice calotta in bronzo. Anche sulla situla Arnoaldi compaiono elmi simili, costituiti da una semplice calotta in bronzo. Quanto alla situla di Providence, la prima fila di guerrieri indossa un semplice elmo conico, probabilmente di feltro.

L'Italia meridionale pre-ellenica è molto povera di documentazione, in Campania, Basilicata e Calabria si segnalano alcuni ritrovamenti di elmi villanoviani apicati; ma si suppone che il tipo di protezione più diffuso fosse in cuoio. È probabile che la rottura negli equilibri locali, conseguente all'arrivo dei Greci, abbia ostacolato uno sviluppo analogo a quello che riscontriamo nelle necropoli villanoviane. Il Sannio e il Piceno al contrario hanno fornito una documentazione estremamente varia e originale: la necropoli di Novilara, p.es., ha restituito elmi di forma conica, ornati con una doppia cresta in lamiera (una stamina di Numana indossa un elmo conico di questo tipo). Sono state trovate alcune calotte emisferiche formate da quattro pezzi ribattuti di bronzo che terminano con un bordo allargato. Quest'ultimo elemento serviva tanto da visiera che da paranuca. L'origine del modello sembrerebbe nord-adriatica.

Esistevano inoltre adattamenti molto interessanti del tipo corinzio, documentati da numerosi rinvenimenti nelle Marche, in Abruzzo, in Basilicata e in Puglia. Grazie agli scavi di Melfi, sembra chiaro che le popolazioni indigene in un primo momento si siano avvalse di oggetti d'importazione, e che successivamente ne abbiano copiato il modello. Il risultato è un elmo corinzio di tipo evoluto, che presenta al di sopra degli occhi un bordino rilevato che imita le sopracciglia, alla sommità un'asta destinata al fissaggio del pennacchio e, su ciascun lato, tre asticciole per le piume. Alcuni elmi, a paragnatidi non separate, sono plasmati a imitazione della forma del volto.

Un altro elmo, utilizzato come maschera funeraria, proviene dalla Tomba Capanale-Strapede di Ruvo: la forma è completamente chiusa, la calotta è decorata con un motivo a boccoli, un bordino rilevato sta a indicare il naso e le sopracciglia, gli occhi sono in avorio, mentre l'iride, sicuramente realizzata in pasta vitrea, è andata perduta. Resta l'incastro a forca per il pennacchio e una delle due antenne per le piume.

L'iconografia in larga misura conferma questi diversi adattamenti dei modelli greci, come p.es., una statuina in bronzo del Louvre, il c.d. Guerriero Siciliano, senza dubbio di provenienza sannitica. Il bronzetto rappresenta un guerriero che porta un elmo costituito da una semplice calotta con paragnatidi probabilmente articolate. Il medesimo tipo di elmo, privo però di decorazioni, ricorre in alcune statuine di Chieti del IV sec. a.C. Per quanto il loro disegno sia estremamente stilizzato, le stele daunie mantengono il ricordo di una grande varietà di elmi, ornati di pennacchi, di teste di animali o ancora di piume.

Le ceramiche dell'Italia meridionale e gli affreschi di Paestum dimostrano che i Lucani utilizzavano numerosi modelli di elmo: alcuni sono di tipo «attico», dotati di un fluttuante pennacchio al centro a cui possono aggiungersi dalle due alle cinque penne sui lati. Si trovano inoltre elmi in bronzo che ricordano per forma il berretto frigio: ne esistono numerose rappresentazioni sui vasi apuli, indossati da guerrieri orientali in scene ispirate alla guerra di Troia; alcuni esempi reali dimostrano però che questa non era una semplice convenzione iconografica (elmo di Conversano). Le popolazioni dell'Italia meridionale hanno anche fatto uso - probabilmente per le truppe leggere - del pilos greco e di un adattamento apulo, a forma di cono allungato, senza bordi.

Le corazze. - In età arcaica le popolazioni italiche sembrano conoscere, come protezione, soprattutto il cuoio imbottito. A partire dal VII sec. a.C. però fanno la loro comparsa in Etruria modelli direttamente ispirati alla corazza greca del tipo bivalve, vale a dire un pettorale e un dorsale di bronzo, uniti da corregge, spesso completati da una gorgiera. Una decorazione a sbalzo sottolinea la forma dell'oggetto. Molto presto verrà adottato il tipo anatomico che imita la muscolatura del corpo umano, lo stesso che ancora ricorre, arricchito di un gorgòneion, nelle statue degli imperatori romani in età imperiale.

Agli inizî dell'Età del Ferro l'Italia meridionale offre una documentazione assai povera; alcune statuine sarde invece rappresentano guerrieri che indossano come protezione un disco di bronzo o di cuoio. Quest'ultimo assomiglia alla corazza primitiva dei Sanniti, costituita da due dischi di legno, contornati da un cerchio in bronzo e uniti da una bandoliera. La protezione era limitata al petto e alla schiena: la statua del guerriero di Capestrano ce ne fornisce un esempio eloquente e i ritrovamenti delle tombe di Alfedena ne confermano l'uso. Con l'andar del tempo il disco viene fornito di una lamina di bronzo decorata con motivi incisi. Nello stadio successivo si migliora la protezione accostando tra loro tre dischi; è interessante notare come in questo campo i ritrovamenti di Alfedena corrispondano esattamente alle rappresentazioni di guerrieri che compaiono sulla ceramica italiota o in alcuni affreschi di Paestum. Un esemplare di corazza sannitica di questo tipo, probabilmente appartenente a un mercenario, è stata ritrovata in Tunisia.

I guerrieri dell'Italia meridionale indossavano anche delle tuniche bianche; erano ornate di bande e di festoni nel caso degli Apuli, colorate e impreziosite da ricami in quello dei Lucani.

Gli scudi. - Nell'età arcaica si conosceva lo scudo circolare, decorato da una lamina di bronzo, simile a quello dell'oplita greco. Tanto le tombe etrusche che la ceramica dell'Italia meridionale ne forniscono una ricca documentazione. Esso sembrerebbe peraltro far parte della panoplia delle classi più abbienti. In parallelo, le rappresentazioni figurate ci attestano l'esistenza di uno scudo di legno dalla forma allungata, ovale o rettangolare, un vero e proprio scutum (situla della Certosa, situla Benvenuti, situla di Providence). È possibile che in origine i guerrieri sanniti, che combattevano in ordine sparso, con una tattica flessibile, non abbiano conosciuto l'uso dello scudo, come sembrerebbe indicare la statua di Capestrano, mentre la ceramica italiota dimostra che nel IV sec. a.C. essi facevano uso di un grande scudo circolare, simile a quello degli opliti greci.

L'armamento offensivo. - Le a. offensive sono molto meno variate. In sintesi è possibile affermare che tra l'VIII e il IV sec., la tattica militare era concepita in funzione del combattimento oplitico, che faceva uso soprattutto di una lancia, mentre il pugnale o la spada corta servivano come a. di supporto. Un mutamento di tattica si verificò molto probabilmente all'epoca delle guerre puniche: i Romani adottarono allora il c.d. gladio ispanico e il pilum, mentre scomparve la lancia. Le truppe leggere erano sempre munite di giavellotti. Rarissimo era anche l'uso dell'arco e delle frecce; se ne incontra qualche esempio in epoca orientalizzante, quando alcuni aristocratici etruschi combattevano con i carri. In età villanoviana sono documentate anche le asce in bronzo, che oltre a essere usate per il combattimento, costituivano un emblema di potere. Anche le tombe picene hanno restituito un gran numero di armi che con ogni probabilità erano utilizzate come insegne di prestigio sociale.

Le lance. - I ritrovamenti effettuati nelle tombe, così come le rappresentazioni figurate dimostrano che esse misuravano circa due metri: montate su un'asta di legno, hanno un manico a baionetta, rinforzato da un perno e talvolta da una spirale metallica. La fiamma assume forme diverse: triangolare, a bordi ondulati, a foglia di alloro, a foglia di olivo. Il saurotèr o codolo non costituisce una regola. Quando esiste, esso è di forma conica, termina con alcuni cerchietti modanati ed è retto da un perno. Questi tipi sono indifferentemente in bronzo o in ferro, anche se, come è ovvio, i primi sono quelli meglio conservati.

Le spade. - Le spade di grandi dimensioni scompaiono alla fine dell'Età del Bronzo, quando vengono sostituite da spade corte o pugnali. Nella grande maggioranza dei casi si tratta di lame dritte, più raramente asimmetriche, inizialmente di bronzo e successivamente di ferro. La varietà è data dalle decorazioni, sull'elsa e sul fodero. In Etruria si trovano impugnature sferiche in bronzo e lame decorate in alcuni casi con inserzioni di osso o di avorio (Tomba del Duce), e sussistono anche dei modelli di grande spada ad antenne, simili a quelle di Halstatt, nei quali la lama allungata è sormontata da piccole antenne terminanti in un bottone. Vi sono anche dei pugnali dotati di un'elsa a bottone o a forma di T. Nel caso in cui i foderi si sono conservati, essi sono di legno, decorati con lamine di bronzo, e terminano con un puntale, anch'esso in bronzo.

Le tombe del Piceno hanno restituito spade dritte e altre ricurve a forma di scimitarra; il confronto con le stele di Novilara induce a pensare che si trattasse di sciabole da abbordaggio che venivano usate contro i pirati illirici.

Carri da guerra e cavalleria. - A partire dalla fine dell'età villanoviana, numerose tombe contengono morsi di cavallo, di un tipo comune nell'antichità, detto a rete. L'uso dei cavalli da guerra è confermato per l'epoca orientalizzante, fatto questo che non deve stupire, dal momento che le tradizioni romane più antiche mantengono il ricordo di una cavalleria aristocratica, diretta erede di quella etrusca. L'uso del carro invece è conosciuto in alcune città solo per un periodo breve, limitato al VII secolo. I più importanti ritrovamenti provengono dalla necropoli di Marsiliana d'Albegna, di Populonia (Tumulo dei Due Carri), di Vetulonia, di Caere (Tomba Regolini-Galassi), di Preneste (Tomba Barberini), di Castellina in Chianti e di Castel di Decima. Per quanto si può giudicare dalle parti superstiti, si tratta di cassoni di forma rettilinea, decorati con lamine di bronzo e dotati di ruote a quattro raggi. Il timone si conclude con una protome teriomorfa.

Tale effimero sviluppo dei carri da guerra in Etruria è contemporaneo alla loro scomparsa nel mondo mediterraneo, dove restano in uso solo a Salamina di Cipro e in Assiria, presso i Sargonidi. È dunque probabile che si tratti di una «moda» straniera, introdotta in alcune città grazie alle grandi correnti di scambi commerciali che caratterizzano tale periodo e dettata da un entusiasmo passeggero, ma tuttavia adatto a rafforzare il prestigio dei principi, la cui tradizione è destinata a sopravvivere nella pompa trionfale romana.

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(Ch. Saulnier)

Iran. - Epoca preachemenide (fine II-prima metà I millennio a.C.). - Una serie di reperti (placche addominali, elementi triangolari per la spalla, dischi pettorali) provenienti dal Luristan, da Hasanlu e da altri siti dell'Iran occidentale, consentono di ipotizzare l'impiego di armature in materiali morbidi (lino, feltro, cuoio) cui erano applicati elementi metallici (in bronzo) destinati a proteggere le parti vitali del corpo; le scaglie in bronzo rinvenute dal Ghirshman a Čoqā Zanbil (tardo ΙΙ-inizî I millennio a.C.) costituiscono la più antica attestazione dell'armatura a scaglie in territorio iranico. Sono attestati elmi in cuoio (necropoli Β di Siyalk), ma di particolare interesse è un elmo metallico da Sefid Rud (fine II-inizî I millennio a.C.): di forma emisferica, con tagli ad arco in corrispondenza delle sopracciglia (simile dunque all'elmo «kubano» (v. oltre Asia centrale) e con una decorazione a figure antropomorfe e teriomorfe applicate sulla parte frontale; al reperto di Sefid Rud si può correlare un esemplare raffigurato in una statuetta da Khurwin (IX-VIII sec. a.C.), coronato da un elemento verticale dalla sommità ricurva in avanti.

Sono documentate punte di lancia, in bronzo e ferro, di forma follata più o meno larga (p.es. Hasanlu, IX sec. a.C.) o a forma di bisturi (Ziwiye, VII sec. a.C.), in entrambi i casi con costolatura centrale. Dal Luristan provengono lunghe spade in ferro, pugnali in bronzo e asce da combattimento. L'arco «angolare» di tipo assiro è raffigurato in una coppa da Hasanlu e su una placchetta d'avorio da Ziwiye (di probabile origine assira, VIII-VII sec. a.C.). È attestato anche l'arco semplice, talvolta di notevoli dimensioni (vaso d'argento da Amlaš, XI-IX sec. a.C.). Dal Luristan provengono gli esemplari più antichi, in ambito iranico, di anelli muniti di una sorta di gancio utilizzati per montare la corda sull'arco e, probabilmente, anche per tenderla al momento di scagliare la freccia. Da numerose località, punte di freccia sia in bronzo sia in ferro.

Periodo achemenide (VI-IVsec. a.C.). - Grazie alle fonti classiche e ai rinvenimenti archeologici, i dati concernenti le armature con rinforzo metallico assumono in quest'epoca maggiore consistenza, sebbene non si possa valutare l'ampiezza della loro utilizzazione nell'ambito dell'esercito; inoltre l'assenza quasi totale di testimonianze figurative non consente di avere un'idea precisa sulla loro struttura.

L'Iran achemenide testimonia una certa diffusione dell'armatura a scaglie. Nell'ambito dell'esercito di Serse, Erodoto (VII, 61) attribuisce ai Persiani l'uso di una tunica manicata, a tinte vivaci, e di una corazza a scaglie di ferro, precisando, tuttavia, che tale tenuta era propria dei Medi (VII, 62); di scaglie d'oro (più probabilmente di ferro placcato in oro) era ricoperta la corazza di Masistio, capo della cavalleria persiana nella battaglia di Platea (IX, 22). Le scaglie in ferro rinvenute a Persepoli, lunghe da 1,5 a 5 cm, presentano un'estremità di forma arrotondata (che era quella visibile e volta verso il basso) e l'altra rettangolare (nascosta dalle scaglie superiori che le si sovrapponevano), caratterizzata dalla presenza di fori (da due a quattro, a volte su più file) atti a consentire l'allacciamento della scaglia al supporto (in feltro o cuoio); le scaglie in ferro erano sempre lisce, quelle in bronzo potevano presentare una convessità circolare al centro o una nervatura longitudinale.

Il rivestimento dell'armatura achemenide comprendeva anche lamelle metalliche rettangolari, lunghe da 2,5 a 9 cm, come risulta da rinvenimenti effettuati in Iran (Persepoli, Pasargade), ma anche in Egitto (Memfi, Dafne) e in Asia Minore (Gordion). Esse presentano spesso quattro fori, uno a ogni angolo, o, più di rado, concentrati nella parte superiore. Tali lamelle erano solitamente in ferro, a volte con nervatura centrale; le più antiche provengono da Ziwiye (VII sec. a.C.) (erroneamente interpretate da Ghirshman come elementi di cintura da guerra). Rispetto ai modelli assiri e urartei, le lamelle achemenidi si differenziano per il materiale (ferro), per la nervatura che le attraversa in tutta la lunghezza e per l'assenza del margine in rilievo (ancora visibile a Ziwiye). Da scavi archeologici provengono, inoltre, piastrine rettangolari in bronzo, con numerosi fori lungo i margini; si può ipotizzare che esse rinforzassero corazze morbide, alternandosi a strati di feltro, cuoio o stoffa, ma non è escluso che appartenessero a cinture da guerra (il cui uso presso Medi e Persiani non è tuttavia provato).

L'armatura rigida achemenide poteva essere dotata di un'alta gorgiera diritta, cui fa riferimento Senofonte (Eq., XII) nella descrizione della tenuta ideale per la cavalleria, evidentemente corrispondente al tipo persiano. È con ogni probabilità persiana la gorgiera portata alla luce in una sepoltura di Derveni (Macedonia greca, seconda metà del IV sec. a.C.). Probabile trofeo di una delle campagne militari asiatiche, essa è costituita da un supporto di cuoio rivestito di scaglie in bronzo dorato; alta più di 15 cm (la corazza greca presentava una protezione per il collo alta non più di 2-3 cm), ricopriva il collo e il viso fino all'altezza degli occhi. I bracciali a lamine anulari (del tipo attestato presso Sciti e Saka) sono testimoniati in una piastra dal «tesoro dell'Oxus».

I paramerìdia di Senofonte (Anab., I, 8,6), sorta di gambiere (probabilmente in cuoio o feltro) rivestite in scaglie di bronzo, utilizzate dai cavalieri della guardia di Ciro il Giovane, sono attestati nell'iconografia microasiatica - sarcofago di Payava (Licia) e rilievo da Yeniceköy (IV sec. a.C.) e in un sigillo achemenide: notevolmente più larghi della gamba, essi la ricoprivano fino alla caviglia e, nella parte superiore, debordavano all'indietro fino a coprire la natica del guerriero, assicurati tramite cinghie al corpo del cavallo.

La pittura vascolare greca testimonia, infine, l'impiego presso gli Achemenidi di una corazza trapuntata in materiale morbido, priva di maniche, lunga fino alla vita o alla coscia, con cucitura sui fianchi e sulle spalle, e foggiata a rete di quadrati diritti o obliqui; al centro di ogni quadrato è una placchetta, mentre dalla parte inferiore della corazza pende una frangia.

Il c.d. elmo kubano, già testimoniato in epoca protostorica, è visibile in una statuina appartenente al «tesoro dell'Oxus», caratterizzato, come nella già citata figura da Khurwin, da un alto terminale (questa volta rivolto all'indietro). In un cilindro achemenide (VI-IV sec. a.C.) lo ritroviamo nella sua forma essenziale. Erodoto (VII, 84) attribuisce alla cavalleria persiana l'impiego di elmi in bronzo battuto (l'elmo «kubano» è invece ottenuto per fusione); lo storico si riferisce forse al tipo a calotta apicata, con margine inferiore rettilineo, superficie priva di decorazioni (queste due caratteristiche lo differenziano dal modello vicino-orientale da cui deriva) e punta più o meno allungata; due esemplari achemenidi sono stati rinvenuti al di fuori del territorio iranico, l'uno a Memfi (Egitto), l'altro a Olimpia (Grecia). In Asia Minore, infine, erano impiegati elmi di foggia greca; particolarmente diffuso era il tipo «spartano», utilizzato dai fanti nel paese d'origine, ma adottato dalla cavalleria nell'esercito persiano.

Gli scudi sono attestati in tre tipi fondamentali. Il primo è il grande scudo rettangolare impiegato dalla fanteria, testimoniato nei rilievi di Persepoli e nella pittura vascolare greca, e verosimilmente assunto dalla tradizione mesopotamica; costituito da una fila di canne fissate a un supporto di cuoio, rinforzate in alto e in basso da fasce trasversali, esso poteva essere poggiato a terra e fissato in posizione verticale grazie a un supporto (cfr. Herodot., IX, 102). Sempre a Persepoli è attestato uno scudo di forma circolare, evidentemente costituito da canne o rami flessibili ravvolti a spirale. Nello stesso sito troviamo, infine, uno scudo che, caratteristico della guardia regia, corrisponde al tipo «beotico»; di forma ovale, con due incavi ovali ai lati, era costituito da una tavola di legno rivestita di cuoio; lungo il margine presentava una fascia di bronzo e al centro un umbone a forma di ruota di carro. Le fonti classiche fanno riferimento a elementi protettivi per il cavallo: un frontale, un pettorale e i già citati paramerìdia (Senofonte), che evidentemente assolvevano una funzione difensiva anche per l'animale. Pettorali in argento decorati sono stati rinvenuti a Ziwiye (VII sec. a.C.).

La lancia è l'arma tipica dei membri della Guardia Regia, gli «Immortali» di Erodoto (VII, 41, 83), raffigurati sui rilievi di Persepoli e Susa. Il fusto può portare all'estremità inferiore una granata. Particolarmente nitida la descrizione dell'arma nel noto mosaico di Alessandro da Pompei (Casa del Fauno): la cuspide ha forma follata o romboidale e una breve immanicatura, da cui è interamente attraversata. L'uso di una corta lancia è segnalato per la fanteria (Herodot., VII, 61).

Nel VII-VI sec. a.C. in tutto il Vicino Oriente si registra un'ampia diffusione di punte di freccia di tipo scitico (Cleuziou); i Medi, che in questo processo svolsero un ruolo di intermediari, assunsero dagli Sciti probabilmente anche la tattica del tiro con l'arco a cavallo, nonché lo stesso arco composito di tipo scitico, costruito in legno, elementi di osso o corno e tendini. Di dimensioni contenute, caratterizzato da curvatura semplice o doppia, con impugnatura al centro, e da estremità nettamente ripiegate, esso è visibile in un rilievo da Kızkapan (Media, VII-VI sec. a.C.). Il «grande» arco che Erodoto (VII, 61, 62) e Senofonte (Anab., III, 4, 7) attribuiscono a Persiani e Medi potrebbe essere di tipo semplice. La decorazione a rilievo delle tombe regali, secondo uno schema ripetuto per quasi tutta la durata della dinastia, comprende la raffigurazione del sovrano achemenide con un arco (dalla curvatura semplice) puntato a terra; le guardie regie persiane portano l'arco sospeso alla spalla e una faretra richiusa; l'arco delle guardie mede (e in qualche caso, di quelle persiane) è invece riposto in una grossa custodia, coperta da una sorta di cappuccio e sospesa al fianco (del tutto simile a quella portata dai Saka). Ulteriori testimonianze di quest'arma sono fornite dalla monetazione e dalla sfragistica.

Nell'iconografia è attestata la spada lunga, provvista di lama a doppio taglio, con nervatura centrale, guardia larga e massiccia, impugnatura cilindrica leggermente bombata, pomo di forma tronco-conica. La «corta spada» che Erodoto (VII, 61) attribuisce ai fanti persiani corrisponde all'akinàkes, ulteriore contributo scitico all'armamento dell'epoca in esame. Nei rilievi achemenidi, in cui, in realtà, è tipico del costume medo e saka, esso presenta lama rastremata con nervatura centrale, elsa cilindrica e liscia, pomo schiacciato; riposto in un fodero di cuoio, con banda di rinforzo (decorata o meno) in prossimità dell'apertura e puntale, è sospeso al fianco destro. Il fodero può presentare rivestimento metallico decorato, a volte su supporto in legno.

Dal «tesoro dell'Oxus» proviene un rivestimento in oro di fodero di akinàkes, reputato da Barnett di provenienza meda, con raffigurazione di scena di caccia al leone; un rivestimento in avorio (con rappresentazione di leone che cattura un cervide) rinvenuto nel Tempio dell'Oxus di Takht-e Sangin (I sec. a.C.-I sec. d.C.) è stato invece attribuito da Litvinskij alla produzione achemenide (prima metà del V sec. a.C.).

Periodo partico (III sec. a.C.-III sec. d.C.). - Il modello originario del guerriero partico si identifica con il cavaliere in tenuta leggera armato di arco, frecce e, talvolta, una spada. Con l'estendersi del loro dominio all'Iran e al Vicino Oriente ellenizzato, i Parti apportarono significative modifiche all'equipaggiamento della cavalleria (0 almeno a una sua parte), che tuttavia non cessò mai di essere il nerbo dell'esercito. Essa venne suddivisa in due settori: l'uno costituito da arcieri non corazzati, l'altra da lanceri in armatura rigida. È in occasione della battaglia di Carre (53 a.C.) che le fonti classiche riferiscono per la prima volta l'espressione équités cataphracti o cataphractarii a una parte della cavalleria partica, testimoniando cioè l'introduzione dell'armatura con rinforzo metallico nell'esercito arsacide (Plut., Crass., 18, 3; 21, 7; 23, 8; 24, 1-2; 25; 27, 2). A questo dato si può tuttavia aggiungere la menzione di cavalieri catafratti nell'esercito di Tigrane di Armenia (69 a.C.) (Plut., Luc., 26, 7; 28, 2-4), regione che per un secolo aveva subito il dominio arsacide. I cavalieri partici indossavano elmi di ferro e armature di ferro o cuoio; inoltre i cavalli erano protetti da elementi in bronzo o ferro. Pompeo Trogo (lust., 41, 2) parla di un'armatura a piastrine sovrapposte che ricopriva interamente sia l'uomo sia il cavallo. Con ogni probabilità si fa qui riferimento all'armatura a scaglie metalliche che, già attestata in epoca achemenide, con i Parti conobbe un'utilizzazione più sistematica e generalizzata a più ampi settori della cavalleria. Tale processo prese probabilmente avvio già in epoca ellenistica: Tito Livio (XXXV, 48; XXXVII, 40) registra la presenza di unità di catafratti nell'esercito di Antioco III, sebbene non si escluda che alla base di questa innovazione (successiva alla spedizione condotta dal sovrano nel regno greco-battriano, alla fine del III sec. a.C.) vi sia un influsso centroasiatico.

La struttura e la forma dell'armatura partica possono essere ricostruite in base a evidenze archeologiche e iconografiche. Relativamente numerose sono le testimonianze (II-I sec. a.C.) da Nisa, la prima capitale del potentato arsacide. Nella Tesoreria sono stati rinvenuti brani di corazza a lamelle in ferro di diversa misura e sovrapposte, nonché numerose scaglie (con una estremità arrotondata), sia le une che le altre munite di fori per l'allacciamento al supporto in cuoio. Dalla c.d. Sala degli Antenati Divinizzati proviene un frammento di scultura in argilla che riporta parte di una corazza a grandi piastre sovrapposte. Alla tradizione ellenistica sono invece da riportare l'armatura indossata dal dio Ares (corazza liscia e gonna a piastre rettangolari, disposte verticalmente su due o tre file) in alcuni dei rhytà rinvenuti nella Tesoreria, i resti di un probabile rivestimento di scudo dipinto e, infine, l'elmo di una statua in argilla cruda, di cui si è recentemente rinvenuta la testa; è tuttavia difficile ipotizzare se e in qual misura questo tipo di tenuta fosse realmente impiegato nell'esercito partico.

Non meno interessanti i dati forniti da Dura-Europos. Vi sono state rinvenute numerose scaglie in ferro e bronzo, caratterizzate dalla presenza di due gruppi distinti di fori (uno per il fissaggio delle scaglie al supporto, l'altro per l'allacciamento delle scaglie tra di loro). Le dimensioni variano tra 2 e 9 cm; probabilmente scaglie di diversa misura e materiale erano impiegate nella stessa corazza: le più grandi, in ferro, destinate a difendere le parti vitali del corpo, le più piccole, in bronzo, collocate nei punti che richiedevano maggiore libertà di movimento. Il sito ha restituito anche frammenti di scudi di due tipi diversi. In un caso la struttura consta di tre fasce di legno (spesse 1 cm) ricoperte di cuoio su entrambe le facce e con i margini inferiore e superiore arrotondati; tali scudi riportano una decorazione dipinta figurata, a bande policrome o a scacchiera. Un grande scudo costituito da verghe di legno, fatte passare attraverso il supporto in cuoio (secondo uno schema a zig-zag), dai margini inferiore e superiore rettilinei, richiama, invece, un modello attestato sia presso gli Achemenidi (impiegato dalla fanteria) sia in tutta la fascia settentrionale dell'Eurasia nella prima parte del I millennio a.C.

Per quanto concerne i dati iconografici, un cavaliere corazzato partico con lancia figura in un rilievo in terracotta, di provenienza ignota (I sec. a.C.?); l'intera armatura è rivestita di scaglie, mentre il cavallo non presenta alcuna protezione.

In un noto graffito di Dura (II-III sec. d.C.) troviamo la rappresentazione del catafratto descritto dalle fonti. Il cavaliere porta un elmo conico (rivestito da lamelle rettangolari); il viso è protetto da una maschera di maglia, l'armatura consta di una parte a lamelle rettangolari disposte verticalmente in due file a coprire l'addome, mentre le spalle e le cosce presentano una protezione a scaglie; bracciali e gambiere sono del tipo a lamine anulari. Nella mano destra regge una lunga lancia, mentre al fianco sinistro è sospesa una spada di cui è visibile solo l'elsa. Il cavallo è quasi interamente (dalla testa alle ginocchia) protetto da un gualdrappa rivestita di scaglie. In due pitture murali sasanidi dallo stesso sito (III sec. d.C.), un cavaliere (sasanide) è raffigurato nell'atto di disarcionare con una lancia un guerriero (in un caso provvisto di scudo circolare e corta spada), nella cui corazza ritroviamo gli elementi dell'armatura partica sopra esaminata (lamelle combinate a scaglie per il busto, lamine anulari per braccia e gambe). Nel rilievo rupestre di Firuzābād, celebrante la vittoria (c.a 224 d.C.) del sasanide Ardašīr I su Artabano V, l'ultimo esponente della dinastia arsacide, sia il sovrano partico (battuto da Ardašīr) sia il suo Gran Vizir (disarcionato dal principe ereditario Šābuhr) sono raffigurati in un costume analogo a quello attestato a Dura, con la sola differenza che a Firuzābād il busto è protetto da una corazza liscia, probabilmente di cuoio (non è escluso che essa ricoprisse elementi metallici); i cavalli non presentano armature.

Quanto alle armi, i cavalieri corazzati si servivano principalmente di una lunga lancia, a volte anche di una spada; ma fu senz'altro l'arco a rendere celebre la cavalleria arsacide. Impiegato soprattutto dai guerrieri in equipaggiamento leggero, l'arco partico era di tipo composito e derivava dal modello scitico; un esemplare quasi integro è stato riportato alla luce nella necropoli di Boguz (II sec. a.C.-II sec. d.C.), non lontano da Dura-Europos. La forza e l'efficacia delle frecce partiche (Plut., Crass., 30), trovano una spiegazione nelle caratteristiche costruttive dell'arco (curvatura semplice o doppia, estremità diritte piegate ad angolo rispetto alla curva, impiego di corno o osso e tendini di bue), capace di conferire alla freccia una spinta e una portata ineguagliate nell'epoca in esame. Come sottolinea il Medinger, fu proprio la straordinaria efficacia dell'arco composito partico, unitamente alla maestria degli arcieri (abilissimi nel tirare d'arco di spalle) e alla superiorità dei cavalli, a decretare la disfatta subita dai Romani (che utilizzavano l'arco semplice) a Carre. L'arco è ampiamente attestato nella monetazione arsacide; di forma asimmetrica e dalla doppia curvatura, esso è rappresentato in dimensioni via via crescenti (nelle emissioni di Mitridate II e di Artabano II, tende a eguagliare l'altezza della persona). Le frecce erano riposte in una faretra troncoconica, solitamente priva di decorazione.

Su spade e pugnali di epoca arsacide, di particolare interesse è la documentazione iconografica da Hatra e Palmira. Anche in quest'ultimo centro, profondamente influenzato dalla cultura partica, il costume maschile di tipo iranico (studiato da Seyrig) è solitamente associato a una o più armi (iraniche), secondo un'usanza che nel IV sec. Ammiano Marcellino (XXIII, VI, 75) riconoscerà propria delle genti iraniche. La spada è lunga e portata sul fianco sinistro. La nervatura longitudinale della lama, a doppio taglio, si lascia distinguere sulla superficie del fodero; la guardia è diritta, l'elsa cilindrica (molto alta, per bilanciare il peso della lama), leggermente svasata a formare un pomo globulare, talvolta cesellato. Il fodero è liscio; un dispositivo posto a circa un terzo della sua lunghezza consentiva il passaggio di una lunga cintura che, secondo un modo tipicamente iranico, cingeva i fianchi della persona, rimanendo tuttavia molto lenta (sui sistemi di sospensione della spada, si rimanda alla dettagliata analisi di Trousdale). Alla spada si accompagna spesso il pugnale, poggiato sulla coscia destra (o anche due, uno su ogni coscia); la guardia è solitamente diritta, l'elsa, spesso decorata da scanalature a spirale, termina con un anello. A Palmira, il fodero presenta quattro lobi laterali (secondo Seyrig, derivati dagli occhielli destinati al passaggio di lacci) e, talvolta, decorazioni geometriche o una fila di perle.

Periodo sasanide (III-VII sec. d.C.). - I Sasanidi non sembrano aver apportato, almeno in una prima fase, modifiche sostanziali all'equipaggiamento militare dell'epoca precedente. La cavalleria corazzata, i cui membri, appartenenti al ceto nobiliare, costituivano come in epoca achemenide il «Corpo degli Immortali», continua a svolgere il suo ruolo di settore specializzato atto a garantire la forza d'urto spesso decisiva agli esiti della battaglia; come nell'esercito partico, essa è affiancata da arcieri privi di armatura. Testimonianze sul cavaliere corazzato sasanide sono fornite da autori della tarda romanità (Ammiano Marcellino, Giuliano, Eliodoro), che utilizzano il termine di clibanarius (da clibanum, adattamento del mediopersiano grīvbān, «gorgiera, corazza»). Secondo il Rostovtzeff, questo termine sarebbe entrato in uso nel linguaggio ufficiale tardo-imperiale per distinguere i cataphractarii delle forze ausiliarie romane (che non portavano elmi e montavano cavalli non corazzati) dai veri clibanarii persiani. Il Michalak sottolinea, tuttavia, che la distinzione tra i due termini (effettivamente designanti due diverse formazioni di cavalleria nell'esercito tardo-imperiale) è priva di senso qualora la si voglia applicare ai Sasanidi, i cui cavalieri corazzati sono diretti discendenti dei cataphractarii arsacidi, per i quali sia le fonti scritte sia l'iconografia testimoniano l'uso di elmi e di corazze per i cavalli: i due termini sarebbero dunque sinonimi.

Esaminiamo ora le testimonianze iconografiche e archeologiche. Nel rilievo di Firuzābād, la tenuta dei cavalieri sasanidi è contraddistinta da aderenti protezioni di maglia per le braccia e le gambe (i cavalieri partici indossano invece bracciali e gambiere a lamine anulari). L'uso della maglia, che con i Sasanidi diverrà sempre più esteso, sembra sia da riportare a un influsso romano, esercitatosi con tutta probabilità in epoca arsacide. Secondo la descrizione fornita da Eliodoro (Aeth., IX, 15), il clibanarius portava un elmo da cui pendeva una fitta maschera (evidentemente di maglia) con fori per la bocca, le narici e gli occhi (cfr. il graffito da Dura-Europos); un esemplare di elmo rinvenuto a Dura consiste in due pezzi uniti da due bande di ferro chiodate (una interna, l'altra esterna); dallo stesso sito proviene parte di una cotta di maglia datata agli inizî dell'epoca sasanide. Da Eliodoro sappiamo che la sola parte scoperta del corpo era il lato interno delle cosce; per conservare l'equilibrio, pregiudicato dal notevole peso dell'armatura (la sella e le staffe sarebbero comparse solo in epoca tardo-sasanide), il cavaliere corazzato doveva esercitare con le gambe una pressione sui fianchi dell'animale e, probabilmente, aggrapparsi alla sua criniera. A Dura sono state inoltre rinvenute armature a scaglie per cavalli, di forma rettangolare con foro ovale centrale.

Le fonti bizantine del VI sec. (p.es. Procopio di Cesarea) forniscono descrizioni molto meno dettagliate dell'equipaggiamento militare sasanide, rispetto a quelle delle epoche precedenti. L'esercito bizantino si era reso sempre più simile a quello persiano, fino a che, all'epoca di Giustiniano, gli si uniformò quasi del tutto. La descrizione dell'armamento bizantino fornita dallo Strategikòn (trattato sulla guerra) coincide con quella fornita dalle fonti arabe (aṭ-Ṭabarī) relativamente all'esercito sasanide. Alla stessa epoca è probabilmente da datare l'elenco di armi e armature contenuto nel Vendidād (14.9).

La tenuta del cavaliere tardo-sasanide ci è illustrata dall'altorilievo sulla parete di fondo della grande grotta di Tāq-e Bostān (VI-VII sec. d.C.) raffigurante Cosroe II a cavallo. Sul capo ha un elmo da cui pende un velo di maglia a protezione del viso; il busto è coperto da una cotta di maglia pendente al di sotto della cintura; all'avambraccio sinistro è attaccato un piccolo scudo. Oltre alla lancia, è visibile una faretra piena di frecce. Secondo il Michalak, in epoca tardo-sasanide il cavaliere riassume in sé le funzioni che nelle epoche precedenti erano state riservate a due settori separati, ma complementari la cavalleria corazzata (lanceri) e quella in tenuta leggera (arcieri) - (si noterà, tuttavia, che una faretra con frecce, e quindi un arco, fanno già parte dell'equipaggiamento dei cavalieri corazzati del rilievo di Firuzābād del III sec. d.C.); l'impiego dell'armatura metallica viene generalizzato a tutta la cavalleria, non più rappresentata da esponenti della nobiltà, ma reclutata dalla classe dei proprietari terrieri (dehqan). Nel rilievo di Tāq-e Bostān si nota, inoltre, l'uso della sella e, a giudicare dalla posizione delle gambe, delle staffe; la testa e la parte anteriore del corpo del cavallo sono ricoperti da un'armatura (forse a lamelle). A epoca tardo-sasanide sono databili anche gli esemplari di elmi analizzati dall'Overlaet, caratterizzati da un telaio a bande di ferro (rivestite di bronzo) incrociate e da una decorazione a scaglie, all'interno di ognuna delle quali è un motivo a piuma. Per le origini di questo tipo di decorazione, attestato anche in numerosi esemplari di spade della stessa epoca, si rimanda a uno studio del Ghirshman (1963).

Anche per quel che concerne le tipologie delle armi, i Sasanidi si possono considerare eredi delle tradizioni preesistenti. L'arma peculiare al cavaliere corazzato era una lunga lancia; le sue estremità, tramanda Eliodoro (ix, 15), erano assicurate al dorso del cavallo; ciò sembra confermato dal rinvenimento a Dura-Europos di un sistema composto da bande di cuoio e un anello di legno applicato alla parte posteriore di un'armatura per cavallo. L'arco sasanide, composito, è diretto erede di quello partico; frequentemente attestato in scene di caccia raffigurate su lavori di toreutica, presenta spalle dalla curvatura molto accentuata, non di rado con decorazione incisa, ed estremità (nettamente differenziate dalle spalle) diritte o ripiegate, cui è talvolta attaccato un nastro. Le frecce erano riposte in faretre troncoconiche interamente o parzialmente decorate (a scaglie, a zig-zag, a girali, ecc.).

Le spade sasanidi studiate dal Ghirshman, cui, in tempi più recenti, si sono aggiunti altri esemplari riconducibili alla stessa tipologia (Overlaet), hanno lama a doppio taglio, breve puntale e lieve costolatura longitudinale; l'impugnatura, mancante di guardia, è foggiata in modo tale da garantire una solida presa; il pomo si riduce a una placca. Il fodero, rettangolare, è costruito in sottili fasce di legno rivestite di cuoio (oggi scomparso); sia fodero che impugnatura sono ricoperti da lamine d'oro o argento e recano, sul lato anteriore, una decorazione a scaglie simile a quella descritta in relazione agli elmi sopra citati; sul lato posteriore troviamo spirali filigranate. La maggior parte delle spade rappresentate nell'arte sasanide, in particolar modo nella toreutica, è fondamentalmente riconducibile alla tipologia degli esemplari descritti; in esse, tuttavia, la guardia è ancora visibile e il sistema di sospensione è sovente quello ampiamente diffuso in ambito partico, kuṣāṇa e centroasiatico, con un passante situato nella parte centrale del lato frontale del fodero; negli esemplari analizzati dal Ghirshman troviamo invece due passanti a forma di R (l'uno in prossimità dell'apertura, l'altro a metà della lunghezza del fodero), per la sospensione dell'arma tramite cinture; ciò consente di datarli a non prima del V sec. d.C. Alla stessa tipologia si riportano le spade raffigurate a Tāq-e Bostān (VI-VII sec. d.C.), dalla ricca decorazione perlata.

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(C. Lo MuziO)

Asia centrale. Nella letteratura archeologica sovietica si è spesso attribuito all'Asia centrale un ruolo importante nella creazione dell'armatura metallica e nella sua diffusione in altre regioni asiatiche; la documentazione archeologica e iconografica non consente tuttavia conclusioni certe.

Si può supporre che nella prima parte del I millennio a.C. fossero impiegate armature in materiali morbidi (cuoio o feltro), analoghe a quelle attestate in ambito scitico. Probabilmente il pettorale in bronzo con raffigurazioni di antilopi rinvenuto in un kurgan di Tuekta (Altai, VI sec. a.C.) era applicato a un'armatura di questo tipo; dalla stessa sepoltura provengono uno scudo e un gambale ligneo. Le prime testimonianze archeologiche sull'uso di armature rigide risalgono al V sec. a.C.; provenienti da ambito nomadico esse sembrano smentire la tesi che collega l'armatura con rinforzi metallici esclusivamente alle culture sedentarie, dove esisterebbero i presupposti necessari alla loro produzione (elevata tecnologia dei metalli e adeguate fonti di approvvigionamento degli stessi). Sebbene la tenuta militare nomadica fosse condizionata da una tattica bellica che privilegiava la mobilità e la rapidità, è pur vero che armature metalliche furono adottate da gruppi nomadici che dovettero confrontarsi con gli evoluti equipaggiamenti difensivi delle civiltà sedentarie (Cina, Iran achemenide). Come dimostra uno studio del Gorelik, tale fenomeno è percepibile nelle aree periferiche della vasta regione abitata dai Saka. Nella zona compresa tra il Ferghāna e gli Altai, raffigurazioni di guerrieri corazzati sono attestate ad Ak Tarn (V-IV sec. a.C.), nella valle del Talas (IV-III sec. a.C.), e in un pezzo della collezione siberiana di Pietro I il Grande (IV-III sec. a.C.); di poco posteriori sono le testimonianze delle steppe a S dell'Arai (resti di armatura da una sepoltura di Čirik Rabat) e della Chorasmia (raffigurazione di guerriero e cavallo, entrambi corazzati, da Khumbuz Tepe, III-II sec. a.C.). Va ricordato che, a partire dal V sec. a.C., quest'armatura lascia attestazioni archeologiche e iconografiche anche in territorio cinese, seppure in una zona di interferenza con le culture «barbariche»; ciò induce a non escludere un eventuale contributo cinese nella genesi della tenuta militare saka, che il Gorelik considera, in ultima analisi, di derivazione vicino-orientale; difficilmente dimostrabile, benché non priva di fascino, è invece l'ipotesi dell'Altheim, che pone in relazione l'armatura metallica nomadica al costume sciamanico.

L'armatura rigida saka comprende: una corazza e una sorta di gonna svasata (in cuoio o feltro) rivestite da piastre metalliche di forma quadrangolare (di minori dimensioni nella gonna); una gorgiera rigida che copre il collo lateralmente e in parte sul davanti; bracciali a lamine metalliche anulari parzialmente sovrapposte l'una all'altra e unite tramite cinghie o corde; gambali ad anelli di tipo analogo ai bracciali o composti di due piastre metalliche connesse.

Nell'armatura rinvenuta a Čirik Rabat si riscontra, tuttavia, una combinazione di placche e scaglie, queste ultime caratteristiche della tenuta achemenide e, successivamente, partica. Da placche quadrangolari è rivestita anche la corazza del cavallo raffigurato nel frammento da Khumbuz Tepe, che, dunque, denota una certa originalità rispetto ai modelli partici (peraltro noti da testimonianze iconografiche più recenti). Gli elmi rinvenuti in territorio saka (alto Irtïš, valle del Talas, Samarcanda), in bronzo, sono stati ricondotti a un gruppo di elmi restituiti da sepolture scitiche del bacino del Kuban' (Caucaso), datati al VI sec. a.C. In realtà, l'elmo «kubano» - a calotta, con tagli semicircolari in corrispondenza delle sopracciglia, fascia in rilievo al margine e protezione nasale - è attestato già tra l'XI e l'VIII sec. a.C. in Cina (seppur in regioni periferiche e in associazione con materiali centroasiatici), e intorno agli inizî del I millennio a.C. in Iran (Sefid Rud), testimonianze che rendondo del tutto convenzionale la sua definizione («kubano») e ne fanno retrocedere di alcuni secoli la cronologia.

La documentazione archeologica sugli scudi proviene soprattutto dal Pamir orientale e dagli Altai (VI-IV sec. a.C.). Solitamente di forma rettangolare (da Pazïrïk proviene però imo scudo dal margine superiore semicircolare), essi erano costituiti da canne o fascette di legno applicate verticalmente a un supporto di cuoio e unite in alto e in basso da due assicelle orizzontali. Le fasce passavano attraverso fori praticati nel cuoio, la cui disposizione rispondeva spesso a un intento decorativo (motivi geometrici). L'armatura era completata da una cintura in pelle provvista di passanti in bronzo; numerosi esemplari sono stati riportati alla luce nel Kazakhstan, negli Aitai e nel Pamir orientale.

Di tradizione iranico-centroasiatica è la tenuta militare greco-battriana, come è evidente dai resti di armatura metallica rinvenuti nell'Arsenale di Ai Khānum (metà del II sec. a.C.); essi comprendono una gambiera a lamine anulari, un paio di spalliere (a lamine anulari e a scaglie), un corsetto a scaglie e un elemento di forma quadrangolare che ha fatto pensare ai paramerìdia (cosciali, gambali) achemenidi ricordati da Senofonte (v. sopra, Iran). Dallo stesso sito provengono testimonianze di rivestimenti dipinti di scudi, evidentemente da parata, comparabili a reperti analoghi da Nisa e Dura-Europos e riconducibili a una tradizione ellenistica: due frammenti di pellicola di gesso applicata a un tessuto (andato perduto), su uno dei quali si conservano tracce del viso di un personaggio stante, mentre l'altro era decorato da bande concentriche policrome.

Ritroviamo il costume saka nella monetazione indo-scitica (Azes I e II) e indo-partica (Vonone) e, in epoca antico-kuṣāṇa (I sec. a.C.-I sec. d.C.), nel fregio scultoreo di Khalcayan: quest'ultimo comprende un gruppo di guerrieri a cavallo, alcuni dei quali arcieri in tenuta leggera, altri con corazza metallica ed elmo «kubano»; una corazza a piastre rappresentata ai piedi di un esponente della dinastia celebrata dal fregio, come probabile trofeo di guerra; una protome di cavallo con corazza a scaglie. Gli elementi caratteristici di questa armatura (bracciali e gambiere a lamine anulari, gonna a placche quadrangolari) si incontrano ancora in epoca kuṣāṇa, sia nella scultura gandharica che nella monetazione. È inoltre da citare una raffigurazione di guerriero da Qal'a-ye Mir in cui sembra potersi riconoscere la corazza trapuntata, già testimoniata per l'Iran achemenide e destinata a particolare fortuna nel Gandh kuṣāṇa ra (ν. oltre, India).

L'equipaggiamento militare centroasiatico nei secoli che precedettero la conquista islamica ci è illustrato principalmente dalla produzione artistica della Sogdiana e del Xinjiang; in quest'ultima regione la documentazione si spinge fino al IX sec. c.a (oasi di Turfan). L'armatura rigida è attestata in alcune varianti, nelle quali si fondono le tradizioni dell'Iran sasanide, dell'Asia centrale e della Cina. Sono testimoniate sia armature composte da una parte superiore (busto, braccia e collo) in maglia e da una gonna a placche quadrangolari, sia lunghe tuniche a lamelle, con o senza rinforzo in cuoio con decorazione incisa, sul petto. L'elmo è solitamente a calotta apicata, con o senza terminale alla sommità; può essere provvisto di guanciali o bande per le orecchie e di una rete metallica per la protezione del viso. A Turfan ritroviamo sia la corazza a placche quadrangolari sia quella a scaglie. L'elmo, leggermente appuntito, è provvisto di lunghe bande ricoprenti le orecchie e la nuca. In epoca uigura si afferma una sorta di corazza «a mantello» lunga fino ai piedi, formata da bande orizzontali di piccole placche quadrangolari separate da trecce di metallo o cuoio, accompagnata da un elmo appuntito da cui pende un velo che ricopre le spalle, da gambiere e bracciali in metallo e guanti rinforzati. È infine documentato un tipo di armatura a grandi piastre con panciera e gambali e dotata di spalliere in cuoio foggiate a testa di leone, di derivazione cinese. La principale arma da combattimento a distanza era l'arco, utilizzato in ambito sedentario e nomadico; intorno alla metà del I millennio a.C. l'arco semplice viene affiancato dall'arco composito di tipo scitico, costruito con elementi in diversi materiali (legno, bambù, osso, corno, tendini). Laboratori per la fabbricazione di archi compositi sono stati individuati a Gyaur Kala (Margiana) e a Toprak Kala (Chorasmia); dal palazzo del sito chorasmiano provengono inoltre frammenti di quattro archi compositi, uno dei quali quasi integro: costituito da un supporto ligneo (lungh. c.a 160 cm) assottigliato nella parte centrale e alle estremità e rinforzato da piastrine in osso. Applicazioni in osso pertinenti ad archi compositi sono state rinvenute anche in altre località della Chorasmia, nella Partia settentrionale e nel Ferghāna. Gli archi testimoniati nelle pitture e nella toreutica antico-medievale non sono dissimili dai modelli sasanidi; essi sono riposti in custodie di forma stretta e allungata, dall'estremità inferiore alquanto ricurva.

Fino al VI sec. a.C. le frecce hanno punte in bronzo, a due o tre alette, di forma piramidale con immanicatura o con peduncolo; esse erano fissate a un fusto ligneo o di canna misurante tra 50 e 80 cm di lunghezza. Successivamente si diffonderanno in maniera crescente le punte in ferro, in forme analoghe a quelle bronzee, le quali, tuttavia, non scompariranno che alla fine dell'epoca partica.

La lancia era l'arma principale del guerriero corazzato. La cuspide è di forma follata o romboidale, con costolatura centrale e immanicatura; anche in questo caso a partire dalla metà del I millennio a.C. si osserva il passaggio dal bronzo al ferro. La lancia è frequente attributo dei sovrani nella monetazione indo-scitica, indo-partica e kuṣāṇa.

In Asia centrale sono testimoniati diversi tipi di pugnali; a partire dal VI sec. a.C. si registra l'impiego combinato di ferro e bronzo (lama in ferro e impugnatura o alcune sue parti in bronzo) e, successivamente, solo del ferro. Dai kurgan del Pamir provengono pugnali con pomi e guardie di diverse fogge; l'impugnatura può presentare decorazioni in stile animalistico; la lama è in genere rastremata e con costolatura centrale. Nelle altre regioni centroasiatiche, l'impiego di quest'arma è testimoniato soprattutto dalle arti figurative.

La corta spada scitica (akinàkes) penetrò in Asia centrale probabilmente già nell'Età del Ferro. L'akinàkes è attestato in sepolture saka del Pamir orientale; inoltre, una decina di esemplari sono stati rinvenuti, in associazione a foderi e impugnature di spade di tipo greco, nel Tempio dell'Oxus a Takht-e Sangin (Battriana, c.a I sec. a.C.), datati, tuttavia, agli inizî dell'epoca ellenistica. Spade in ferro con lama a doppio taglio sono testimoniate a Munčak Tepe (Ustrušana) e a Taškent; da Tagisken (Chorasmia) proviene un esemplare molto lungo con fodero e impugnatura rivestiti in oro e a decorazione zoomorfa. I foderi erano solitamente in cuoio e legno; nella loro parte superiore, sul lato frontale, era applicato il dispositivo che permetteva il passaggio della larga cintura cui la spada era sospesa, diffusosi a partire dal I sec. a.C. e rimasto in uso fino al IV-V sec. d.C. circa.

In epoca alto medievale (VI-VIII sec.) le spade centroasiatiche sono assimilabili al modello sasanide; vi troviamo il sistema di sospensione costituito da due passanti collocati sul margine del fodero oppure, a forma di rosette, sul suo lato frontale. Secondo una moda già nota dall'iconografia partica, la spada e il pugnale, sospesi alla cintura, sono tipici attributi delle figure aristocratiche, dal Tokhārestān al Xinjiang. Caratteristica dei guerrieri uiguri è, infine, una corta sciabola dotata di lama molto larga e impugnatura piatta e massiccia, riposta in un fodero dalla ricca ornamentazione a bande.

L'ascia da combattimento (greco sàgaris) è testimoniata dalle fonti classiche - Erodoto ne attribuisce l'uso ai Massageti (I, 215) e ai Saci (VII, 64) - da rinvenimenti archeologici e da evidenze iconografiche. In Asia centrale era impiegata anche la mazza, probabilmente del tipo sarmatico, caratterizzato da numerose protuberanze, in questo simile al vazra descritto nell'Avesta. Infine, gli autori classici menzionano la fionda, seppure con frequenza notevolmente minore rispetto ad altre armi. In territorio centroasiatico (Margiana, Chorasmia, Ferghāna) sono stati rinvenuti proiettili per fionda, di forma biconica o ovale, in pietra o in terracotta, simili a quelli già in uso in epoca protostorica. Nella Margiana del III-I sec. a.C. compaiono proiettili in terracotta di notevole peso (da 3 a 12 kg) evidentemente lanciati da macchine paragonabili a catapulte.

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(C. Lo Muzio)

India. - Nel Rg Veda e in testi di epoca più tarda sono stati individuati riferimenti, imprecisi e frammentari, all'uso dell'armatura (kavaca), ma non sono specificati i materiali in cui essa era fabbricata; si fa menzione di corsetti, probabilmente con rivestimento metallico. Le prime testimonianze iconografiche relative all'India pre-kuṣāṇa sembrano confermare quanto tramandato da Erodoto (VII, 65) relativamente al costume degli Indiani nell'esercito achemenide, e cioè che essi indossavano vesti fatte di cotone.

All'assenza nella regione di un equipaggiamento difensivo comparabile a quello iranico o centroasiatico fa riscontro l'impiego massiccio di elefanti, che condiziona le tattiche belliche e che viene illustrato da fonti letterarie e iconografiche.

Nell'arte śuṅga sono attestati scudi rettangolari, dal margine superiore semicircolare, e triangolari, probabilmente costituiti da elementi di cuoio duro rinforzati da una carcassa lignea o metallica e piastre metalliche circolari. A Sāñcī troviamo un esemplare con decorazione vegetale stilizzata e margine perlato. Nello stesso sito sono testimoniati piccoli scudi pettorali e dorsali tenuti da cinghie incrociate, che ritroveremo nel Gandhāra.

Nell'arte del Nord-Ovest sono testimoniate armature riconducibili a diverse tradizioni. Di origine ellenistica è la corazza riproducente la muscolatura dell'addome, in metallo o cuoio, con scollatura circolare. La corazza a scaglie è probabilmente da considerare contributo iranico, sebbene gli esemplari gandharici mostrino analogie con modelli romani di epoca imperiale. Essa è rivestita da scaglie di forma triangolare o follata, con la punta volta verso l'alto o verso il basso, e presenta spesso una scollatura circolare. Dal tipo saka derivano invece le corazze a piastre quadrangolari; queste possono presentare una convessità al centro (testa di un chiodo o motivo decorativo).

È da citare inoltre la corazza trapuntata, diffusamente testimoniata nel mondo greco-romano e iranico (e, come sembra, anche in Battriana), foggiata a reticolo di quadrati in diagonale, con scollatura circolare o triangolare, manicata o meno. Nei rilievi gandharici si incontrano inoltre corazze combinate, con scaglie nella parte superiore e con piastre o una fascia di cuoio o una protezione trapuntata sull'addome. Le cosce erano difese da una sorta di gonna, il cui rivestimento, solitamente diverso da quello della corazza, poteva essere a piastre o scaglie metalliche (talvolta combinate), di misura e disposizione variabili, oppure, secondo un modo ellenistico, a bandelle di cuoio o tessuto sovrapposte. Troviamo inoltre nel Gandhāra la coppia di piastre metalliche (pettorale e dorsale), già attestate a Sāñcī, e un'egida a forma di stella a quattro punte rivestita da scaglie e ricoprente il petto, le spalle e la schiena. Le gambe, semplicemente coperte dalla veste (paridhāna) indossata al di sotto dell'armatura, non presentano elementi protettivi specifici, mentre il bracciale a lamine anulari, assente nell'iconografia, è testimoniato da un esemplare rinvenuto a Taxi- la (Sirkap, I sec. d.C.).

Anche le tipologie degli elmi, talvolta celati da turbanti, confermano una notevole varietà di influssi. Elmi di forma conica sono probabilmente da porre in relazione con il mondo iranico. Essi erano costituiti da un telaio in fasce metalliche rivestito da piastre o da elementi di cuoio e provvisti di tagli sopracciliari, oppure, nel caso dei sovrani kuṣāṇa, ricoperto da placchette circolari o scaglie. Di origine partica sono gli elmi di forma emisferica o semiovale, costituiti da due metà unite da fasce metalliche inchiodate lungo il margine e lungo l'asse verticale, muniti di paraorecchie e, a volte, di un elemento sferico alla sommità; a differenza del modello partico, non presentano lo schiacciamento laterale nella parte alta. Sono attestati anche elmi compositi, a calotta quasi conica, composta da strette piastre verticali unite in basso da una fascia metallica, e muniti di protezione lamellare per la nuca. Frammenti di un elmo riconducibile a questo tipo sono stati rinvenuti a Šaikhān Dherī. La tradizione greco-romana è rappresentata da elmi a calotta emisferica, leggermente schiacciata sui lati (a volte con sommità ricurva in avanti), di solito con falde inclinate, con visiera a punta sul davanti, con o senza decorazione a volute sui lati.

Il tipo di scudo più diffusamente rappresentato nell'iconografia gandharica è quello di forma circolare; probabilmente costituito da un supporto ligneo rivestito di cuoio o lamine metalliche, di dimensioni abbastanza contenute (dalla spalla alla coscia). La sua superficie convessa mostra talvolta la rappresentazione di un volto umano, con indubbia funzione apotropaica. Alla stessa tipologia, di origine greca ma ampiamente attestata nella fanteria romana, sono da riportare scudi circolari dalla superficie molto convessa, probabilmente costituiti da un supporto in vimini o pelle rivestito di metallo; questi possono presentare un umbone circolare, mentre l'eventuale decorazione - reticolo obliquo o rosetta - è da considerare apporto locale. Più rari sono gli scudi ovali, alti dalla spalla al ginocchio e con costolatura verticale, oppure di minori dimensioni, con due piccoli incavi ai lati e rappresentazione di volto umano.; Infine, un richiamo al mondo saka e xiongnu è costituito da piccoli scudi con margine inferiore rettilineo e superiore a cuspide o semicircolare, formati da una fila di canne unite da fasce di pelle incrociate; una variante di questo tipo, di maggiori dimensioni, presenta il margine superiore di forma lobata.

Secondo la classificazione proposta dalla Auboyer, nell'iconografia indiana sono attestati tre principali tipi di arco: a) l'arco diritto, documentato dal I sec. d.C. (Sāñcī, Udayagiri) fino all'VIII sec. (Pāhārpur, Elura, ecc.), del quale, tuttavia, non è possibile stabilire l'appartenenza al tipo semplice o composito in base alle testimonianze figurative; b) l'arco riflesso a una sola curvatura, attestato già a Bhārhut (I sec. a.C.), ma nelle epoche successive meno frequente rispetto al tipo diritto, e sempre nelle mani di guerrieri e cacciatori; c) l'arco riflesso a doppia curvatura, rappresentato per la prima volta a Bhājā (I sec. a.C.); di forma massiccia e di altezza pari a quella dell'arciere nelle sue più antiche rappresentazioni, diverrà via via più snello e sinuoso. Tutti i suddetti tipi di arco sono testimoniati simultaneamente a partire dall'epoca śuṅga e resteranno in uso anche in epoca medievale. Quanto ai materiali utilizzati per la loro fabbricazione, i testi fanno riferimento a legno, bambù, osso e corno; l'Agnipurāṇa li suddivide in tre classi a seconda della loro altezza (1,80 m, 1,58 m, 1,35 m). Le frecce sono di lunghezza notevolmente variabile a seconda dei siti e delle epoche (molto corte a Bhārhut ed Elura, lunghe e sottili ad Ajaṇṭā). Le punte di freccia rinvenute a Taxila erano destinate a supporti di canna, cui erano fissate mediante un codolo dalla caratteristica forma composita (spesso e svasato nella parte alta, sottile e rastremato nella parte inferiore); secondo il Marshall queste punte di freccia deriverebbero dai tipi provvisti di immanicatura alla cui base sarebbe stato aggiunto un codolo lungo e sottile; questa elaborazione avrebbe avuto luogo nella Battriana greca. Le punte sono di forma follata o triangolare, a sezione triangolare, quadrata, romboidale; nel I sec. a.C.-I sec. d.C. compaiono punte di forma conica e punte a tre alette. Queste ultime, con ogni probabilità introdotte a Taxila dai Saka, saranno attestate, seppure in percentuale esigua, anche a Kauśāmbī; tuttavia, in questo sito, come nel resto della valle gangetica, predominano le punte di forma romboidale, follata o triangolare; vi sono inoltre documentate punte in osso, corno e avorio. I testi tramandano l'uso di frecce avvelenate (testimoniate a Kauśāmbī), frecce infiammabili e frecce dorate; queste ultime recavano sul fusto il nome del proprietario o del capo per cui l'arciere combatteva o un monogramma, al fine di poter essere recuperate, ed eventualmente raddrizzate e reimpiegate. Le frecce erano riposte in una o due faretre, di forma cilindrica svasata nella parte alta e portate sulla schiena, oppure tenute in mano a fascio.

L'India conobbe due tipi fondamentali di spada. La prima, di origine locale, ha lama a doppio taglio di forma follata, strozzata alla base e più larga nella parte centrale, impugnatura con pomo circolare piatto e guardia ad anello, talvolta sfaccettato. Questa predomina nell'iconografia del subcontinente a partire da epoca śuṅga, tuttavia è documentata anche nel Gandhāra. Essa conobbe in epoca gupta un notevole raffinamento tecnico ed estetico; le testimonianze pala denotano invece un certo regresso: la spada assume forma tozza e massiccia, mentre si afferma una tendenza all'elaborazione decorativa non funzionale. Il secondo tipo, da porre in relazione con il mondo romano e iranico, presenta lama a due tagli rettilinei e paralleli, con costolatura centrale; l'impugnatura presenta pomo schiacciato e guardia diritta. Il fodero è di forma rettangolare, munito sul lato frontale di un passante per lo scorrimento del cinturone cui l'arma era sospesa (lo stesso dispositivo è utilizzato per le spade del primo tipo). A tale tipo di spada, particolarmente diffuso nell'iconografia del Nord-Ovest, ma non assente in località di altre regioni del Subcontinente, appartengono alcuni esemplari rinvenuti a Taxila. Nel Gandhāra sono inoltre attestati pugnali e daghe riconducibili a tipologie centroasiatiche; a Sāñcī troviamo un modello dalla lama triangolare e dal grosso pomo circolare.

La lancia, con cuspide di forma triangolare o follata, è diffusamente rappresentata nell'iconografia indiana, impiegata sia da guerrieri sia da cacciatori. L'esemplare raffigurato in un rilievo di Bhājā, con elemento sferico alla base del fusto, si può confrontare alle lance delle guardie regali achemenidi. Il tridente, sorta di lancia a tre punte destinata a divenire attributo del dio Śiva, è inizialmente arma tipica di figure demoniache (p.es. l'Assalto di Mara). Oltre alla mazza, cui erano attribuiti specifici valori simbolici, e alla spada, nell'iconografia dinastica dei kuṣāṇa figurano con particolare frequenza sia la lancia sia il tridente. In un recente studio, M.-A. Newid identifica il pattisa delle fonti sanscrite con una lancia (o un tridente) alla cui parte superiore (o inferiore, nel caso del tridente) è fissata la lama di un'ascia da combattimento; lo stesso autore propone inoltre due possibili interpretazioni per il termine šataghnī, che designerebbe o una macchina difensiva foggiata a pilastro e munita di punte in ferro, fissata in posizione orizzontale al di sopra della porta della città, o un grosso proiettile lanciato con le mani.

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(C. Lo Muzio)

Estremo Oriente. - La maggior parte delle armi dell'Estremo Oriente vede la luce in Cina, a volte ispirandosi a modelli già in uso presso le popolazioni limitrofe, come nel caso delle spade, che sono simili agli akinàkai scitici. Successivamente le tipologie assumono caratteri diversificati a seconda della nazione in cui sono pervenute. Le incursioni delle popolazioni nomadi in territorio cinese, specialmente quelle dei Xiongnu, che utilizzano particolari tattiche e i cui guerrieri sono in grado di tirare da cavallo con l'arco all'indietro, costringono i cinesi a introdurre delle innovazioni nel proprio equipaggiamento militare. Si abbandona l'uso del carro da guerra, si introducono la balestra e la balestra a ripetizione (divenuta d'uso corrente con gli Han).

L'esclusività e l'originalità dell'armamento cinese vengono meno quando, prima della caduta dell'impero Han, la minore sorveglianza sulle zone di frontiera porta in mano ai nomadi un gran numero di armi. All'inizio dell'era cristiana, inoltre, le tecniche di fusione vengono introdotte anche altrove, mentre in Corea e in Giappone già da tempo si producevano armi. Il Giappone si specializzerà in produzioni particolari, p.es. le spade, che diventeranno poi l'elemento caratterizzante della nazione.

Per quanto riguarda le armature, inizialmente se ne diffondono in tutta l'Asia orientale due tipi principali: quella a piastre e quella a lamelle. In seguito, la maggiore mobilità permessa dalla seconda ne fa preferire in generale il modello. Anche in questo caso la foggia degli abiti dei cavalieri nomadi, con casacca allacciata e pantaloni, adatti a cavalcare, influenza enormemente il gusto asiatico e arriva fino al Giappone, dove viene adottata dai guerrieri dell'epoca Kōfun.

Cina. - Anche se la tradizione leggendaria cinese attribuisce l'invenzione delle armi ora a questo ora a quel personaggio mitico, i primi manufatti litici atti a sferrare colpi appaiono in realtà con il Pithecanthropus pekinensis nell'area di Zhoukoudian. Nel Paleolitico vengono prodotte punte e lame litiche; nel Mesolitico si fabbricano microliti. Le armi neolitiche sono più da caccia che da guerra, anche se alcuni resti di mura fortificate di un villaggio vicino a Chengziyai, centro della cultura di Longshan, suggeriscono l'idea di una popolazione che pensa già a difendersi.

L'ascia-pugnale (ge), rinvenuta già tra i bronzi di Erlitou (XXII-XXI - XVII-XVI sec. a.C.), avrà una grande diffusione sia in periodo Shang (XVI-XII sec. a.C.) che Zhou (XI sec. - 256 a.C.), rimanendo presente nella cultura cinese all'incirca dal II millennio a.C. ai primi secoli a.C. Quest'arma era a forma di triangolo molto allungato; presentava a volte una costolatura centrale e una base espansa, con un codolo per la giunzione al manico. A partire dal X sec. a.C. subì delle modifiche. La base per l'immanicatura venne allungata e il lato interno diventò concavo; inoltre si iniziò ad accoppiarla alla punta di lancia, fondendone talora i pezzi assieme.

Asce da guerra a lama convessa acuminata che possiamo ricondurre a due tipi principali, distinti dal sistema di innesto all'asta (che poteva essere a cannone o a codolo) venivano impiegate in epoca Shang nei combattimenti a terra. I due tipi ricorrono anche nei primi secoli della dinastia Zhou.

In epoca Shang erano in uso lance a forma di foglia lanceolata con innesto a cannone,; la cui immanicatura era facilitata da due orecchiette poste ai lati. Altre lance avevano, al contrario, i fili della lama allungati fino all'imboccatura del manicotto. Questi due tipi di lancia erano inizialmente comparsi in ambiente siberiano ed ebbero grande diffusione in tutta l'Asia orientale.

Gli archi erano a doppia curvatura, generalmente ricurvi in alto verso l'esterno e seguivano la forma degli archi compositi, anch'essi diffusi in tutta l'Asia orientale. Utilizzati sia dai soldati sui carri da guerra sia da quelli appiedati, solo verso la fine del I millennio a.C. furono dati in dotazione alle truppe a cavallo. Le frecce utilizzate erano in osso o in bronzo.

L'arma d'assalto più importante degli Shang, usata anche durante l'epoca Zhou e parzialmente anche nel periodo Han (206 a.C. - 220 d.C.), era però il carro da guerra mentre la cavalleria aveva conquistato il posto che poi occupò nell'armata Han già al tempo di Qin Shi Huang- di (246-210 a.C.).

Durante l'epoca Zhou si iniziò a impiegare la balestra, arma a lunga gittata che aveva un'asta e un archetto di legno ed era dotata di un meccanismo a grilletto. Essa acquistò grande importanza e divenne l'arma difensiva per eccellenza, in dotazione delle truppe a guardia delle mura unite poi da Qin Shi Huangdi nella Grande Muraglia. Al tempo di Wudi (140-87 a.C.) venne ulteriormente perfezionata.

Intorno al VI sec. a.C. apparvero le spade. Alcune erano corte, con costolatura centrale e un codolo con fori. Altre avevano un'elsa tubolare con due cerchi in rilievo che permettevano di fissare meglio la corda arrotolata attorno all'impugnatura per migliorarne la presa. Le lame, a due taglienti, erano a sezione romboidale. Else e lame venivano fuse insieme. Tra la fine del V e il IV sec. a.C. venne introdotto l'uso del ferro, già noto precedentemente. Per un certo periodo coesistettero spade sia di bronzo sia di ferro. Poi le seconde, più lunghe, robuste e maneggevoli presero il sopravvento. In periodo Qin (221-206 a.C.) e all'inizio del periodo Han, esse erano riservate agli ufficiali, ai combattenti dei carri e ai cavalieri.

Elmi a forma di casco, con protezioni per guance e collo e un piccolo cilindro sulla sommità del capo, si trovavano fin dal tempo degli Shang, mentre sembra che nella prima Età del Bronzo le armature fossero del tipo a lamelle. Nello Shujing («Classico dei Documenti») si afferma che prima dei Qin si usavano solo armature ed elmi in cuoio, ma gli scavi archeologici hanno dimostrato il contrario.

La scoperta presso il mausoleo di Qin Shi Huangdi a Lintong, nella provincia di Shaanxi, delle migliaia di statue di guerrieri, armi, carri da guerra ha permesso di ricostruire con esattezza l'armamento Qin, rimasto in uso anche all'inizio del periodo Han e più precisamente dal 206 al 130 a.C.

I cavalieri-arcieri portavano dei pantaloni e una tunica sui cui indossavano un corto giaco senza spallacci. I conduttori di carri avevano abiti al polpaccio su pantaloni e un'armatura che copriva busto e parte superiore di braccia e mani.

I fanti indossavano una veste al ginocchio, mollettiere, sandali a punta quadrata e un'armatura che riparava la parte superiore delle braccia e il busto. Gli ufficiali portavano pantaloni e una doppia veste che arrivava alle ginocchia. La loro armatura, con spallacci, nella parte posteriore si arrestava alla vita e sul davanti continuava in una sorta di grembiule.

L'armatura tipica della fine del III sec. a.C. combinava ferro e cuoio ed era costituita da placche rettangolari o quadrate sovrapposte, fissate da chiodi ribaditi. Con Wudi l'armatura a placche di ferro si perfeziona. Le piastrine vengono rimpicciolite e combinate con dischi a forma di scaglie, formando in questo modo un giaco che copre quasi tutto il busto e le spalle. Nel I sec. d.C. l'armatura a dischi sostituisce sempre di più quella a placche. Essa diventa una specie di corazza con le maniche attaccate (liangdangkai).

Altra arma difensiva era lo scudo (gan), che nei testi cinesi viene in genere menzionato assieme alla lancia. Anticamente esso presentava una struttura lignea rivestita di cuoio fissato con chiodi metallici. La superficie anteriore era decorata con tarsìe dorate e argentate. Nel corso dei secoli lo scudo assume le forme più varie, rettangolari, circolari, semisferiche. Di solito quelli rettangolari erano in dotazione ai fanti mentre quelli circolari ai combattenti dei carri da guerra e ai cavalieri. Le stesse tipologie ricorrono anche successivamente, p.es. in epoca Sui (581- 618 d.C.), quando si trovano grandi scudi rettangolari con piccole borchie lungo tutto il bordo e la superficie anteriore variamente decorata.

In epoca Tang (618-906 d.C.) viene introdotta la corazza a maglie, di derivazione persiana, i cui primi esemplari sarebbero stati inviati alla Cina come tributo da Samarcanda.

Essa non ebbe la fortuna che arrise alla nikai o armatura del leone, un'armatura a lamine di ferro trattate con particolari sostanze, che le credenze dicevano assicurasse l'immortalità e che, in pratica, era la corazza indossata dai Quattro Re Celesti.

Sempre all'epoca Tang risalirebbe la creazione della corazza di carta, formata da molteplici strati di carta sovrapposta, resistente alle frecce, di largo uso durante l'impero Song (960-1279 d.C.).

Corea. - I primi insediamenti abitativi coreani risalgono al 5000 a.C. e sono caratterizzati dà una cultura con utensili litici in scisto e quarzite e da asce a mano, punte e lame.

Nella prima metà del I millennio a.C. si usavano asce arcuate ad angolo retto rispetto al manico e coltelli a mezzaluna, simili a quelli delle culture neolitiche cinesi; e ancora, punte di lancia, falcetti di pietra, punte di freccia di vario genere, con o senza codolo, le cui forme sono in alcuni casi derivati dai tipi in bronzo.

Introdotto dalla Cina del Nord, il bronzo era arrivato in Corea intorno al I millennio a.C. e rimase in uso fino al I sec. a.C., anche se in alcune zone (Kimhae, Ungch'òn) fu utilizzato sino al I sec. della nostra èra. Assieme al bronzo fu importato il c.d. pugnale di Liaoning, o pugnale a forma di «violino», di cui uno dei più antichi esemplari è conservato presso il Museo Nazionale di Seul. Rientranze concave su entrambi i lati, nella parte bassa della lama, costituiscono una delle caratteristiche peculiari di questo genere di pugnale, che aveva inoltre spigoli con protuberanze, queste ultime limitate alla sola area coreana. Esso aveva anche una costolatura centrale che non oltrepassava la protuberanza. Nell'elaborazione coreana il pugnale divenne più stretto e la protuberanza si spostò sempre più verso l'impugnatura. Cambiamenti affini si registrarono anche nei pugnali cinesi, che ebbero le forme più pronunciate al tempo dei Zhou occidentali mentre il tipo più tardo comparve all'inizio della dinastia Han. Pugnali analoghi si trovano anche nei dolmen giapponesi dell'epoca Yayoi.

Intorno al VII sec. a.C. vengono prodotte le prime copie di pietra dei pugnali in bronzo. Nella tarda Età del Bronzo compare un genere di pugnale litico che presenta la parte superiore dell'impugnatura e l'elsa sviluppate in modo abnorme. Lo stadio terminale della sua evoluzione è rappresentato da un estremo allargamento dell'impugnatura, riscontrato peraltro solo nel Sud del paese.

L'alabarda di bronzo o ascia-pugnale compare nella cultura coreana nella tarda Età del Bronzo, associata a manufatti di ferro. Dapprima (IV-III sec. a.C.) appare assieme alla spada corta, o forma moderna del pugnale di Liaoning, quando quest'ultima ha assunto la sua forma più assottigliata. Più tardi, tra il III e il II sec. a.C., la protuberanza centrale e le incavature laterali che l'alabarda presentava nel tipo antico si allargano. La silhouette finale, ovvero quella cerimoniale, aveva la punta larga e arrotondata.

All'Età del Bronzo si può far risalire il pugnale c.d. ad antenna, al sommo della cui impugnatura erano attaccate due «antenne» simili a quelle degli insetti. Lama, impugnatura e parte superiore di quest'ultima erano fuse separatamente. In Giappone questo tipo venne semplificato.

Quanto alle armature, in ambito coreano se ne indossavano i due tipi comuni nel continente asiatico: quella a piastre e quella a lamelle. Nel primo caso si trattava in genere di corazze in ferro a fasce orizzontali chiodate, divise in due parti sul davanti, che si aprivano anteriormente a destra ed erano complete di pettorali. La loro fabbricazione prevedeva che su una base di tre lastre rettangolari, una superiore curva e una inferiore, venissero inchiodate, dopo essere state sovrapposte a livello mediano, altre due fasce in modo da avere all'esterno sette piani sovrapposti. Una lastra di ferro piegata sia all'interno che all'esterno ne costituiva i margini. Il pettorale di solito constava di quattro elementi in ferro. Da un solo pezzo di ferro incurvato a U si ricavava il collare, che poi veniva rialzato attorno alla gola. In altre corazze invece, la parte posteriore presentava al centro una sottile lastra rettangolare, rinforzata rispettivamente a destra e a sinistra da quattro piccole fasce verticali, inchiodate orizzontalmente. Esemplari del genere sono stati trovati nelle tombe Kaya (42-562 d.C.). Nell'Età del Ferro era in uso anche la corazza a lamelle.

Nel periodo dei Tre Regni (I sec. a.C.-VII sec. d.C.) si utilizzavano elmi di vario genere in ferro. Alcuni presentavano una costolatura centrale decorata su una calotta a fasce chiodate a cui era attaccata una gronda; altri aggiungevano una fascia protettiva per gli occhi. Il tipo più interessante era quello «a forma di vaso mongolo», la cui base era costituita da sottili fasce verticali in ferro che si stringevano sulla sommità del capo elevandosi di qualche centimetro da essa. Legate tra loro da stringhe di cuoio, le fasce erano sormontate in alto da una minuscola calottina con un foro. La forma presentava quindi una strozzatura che ricordava un vaso rovesciato con un lungo piedistallo. La fronte veniva lasciata scoperta attraverso il taglio delle lamelle mentre a protezione della nuca c'erano due bande orizzontali costituite da minuscole lamelle verticali.

Durante i combattimenti venivano protetti anche i cavalli, come si vede dai frontali in ferro trovati nelle tombe Kaya e nelle scene di battaglia dei dipinti murali Koguryŏ. La stessa produzione ceramica ci mostra cavalli bardati con paludamenti e gualdrappe a lamelle.

Giappone. - L'evoluzione storica giapponese è stata caratterizzata dalla costante supremazia assunta nel corso dei secoli dall'organizzazione militare. Non sorprende che il Giappone sia la nazione asiatica che ha prodotto le armi tecnicamente più avanzate dell'epoca pre-moderna. Già nel Kojiki («Cronache delle Antiche Cose»), scritto nel 712 d.C., si favoleggia attorno a lance e spade. La spada è uno dei simboli del potere imperiale, dono di Amaterasu, dea del Sole, alla famiglia imperiale; la tradizione ritiene che questo simbolo divino venga tuttora conservato nel tempio di Atsuta (provincia di Owari).

Anche in Giappone si ebbe comunque una graduale evoluzione tecnica, innanzitutto delle armi litiche. Nel periodo Jōmon (ν. giapponese, arte) si usarono inizialmente utensili litici del tipo chopper, ovvero asce a mano e punte simili a quelle delle industrie paleolitiche dell'Asia meridionale e sud-orientale. A questa fase seguì quella lamellare e poi quella con schegge e punte. L'evoluzione venne completata da un'ultima fase in cui si produssero utensili microlitici.

I lunghi archi laccati di oltre un metro, avvolti in strisce di cryptomeria (cedro giapponese), in uso durante il periodo Jōmon furono sostituiti in epoca Yayoi da altri più piccoli, ugualmente di legno legato con corteccia.

Con gli Yayoi, provenienti dall'Asia continentale e arrivati nel Kyushu tra il IV e III sec. a.C., venne introdotta la risicoltura e si diffusero i metalli lavorati. Nel Medio Yayoi si registrò una notevole importazione dalla Cina Han, attraverso la penisola coreana, di alabarde, giavellotti, daghe, asce, punte di frecce, e vennero importate anche le tecniche di fusione. A quel tempo fu introdotto nel Kantō anche il ferro, che acquistò un'importanza sempre maggiore. La fabbricazione nell'arcipelago di numerose armi in rame, eseguite da artigiani coreani, non ne fece però diminuire l'afflusso dal continente.

Anche in Giappone, data la scarsità di metallo, si riproducevano copie litiche di armi d'importazione in bronzo. Queste ultime si dividevano in quattro categorie: un tipo includeva spade a doppio taglio, con lama sottile e impugnatura stretta, di sicura origine continentale. Spade analoghe si trovano sia in Cina che in Manciuria. In questo gruppo vanno collocate anche le spade con impugnatura «ad antenna», il cui modello dalla Cina Han passò prima in Corea e successivamente in Giappone.

La seconda categoria comprendeva lame di alabarda o asce-pugnali immanicate ad angolo retto o quasi retto. Le lame prettamente giapponesi si diversificavano da quelle cinesi per la maggiore larghezza. Infine si trovavano punte di lancia aguzze e punte di lancia a peduncolo. Le prime avevano uno spigolo affilato che correva lungo tutta la lama oppure scanalature verticali, derivate da modelli coreani. Il secondo tipo di punta aveva inizialmente una lama corta che divenne man mano sempre più piatta, espansa, leggera, fino a essere letteralmente inservibile per usi pratici e che veniva usata simbolicamente.

L'importazione di armi continentali si esaurì intorno al 50 d.C., ma già dagli ultimi anni del I sec. a.C. c'erano in Giappone artigiani, indigeni o immigrati, che forgiavano le armi. Essi le produssero fino alla fine del II sec. d.C.

Nel periodo Kōfun si diffuse la spada di ferro a un solo tagliente. Si trattava della tachi primitiva, anticipatrice della tachi curva e pertanto della lama moderna detta katana. Essa aveva un'impugnatura terminante in un grosso pomello.

La spada diritta a due trancianti detta ken sembrerebbe invece essere stata conosciuta solo intorno all'VIII secolo.

La tsurugi, che si allarga verso la punta, ne è la versione giapponese. Di quest'ultima erano armati gli dei e i personaggi leggendari, anche se spesso i due nomi venivano usati indifferentemente per designare spade dalle lame completamente diverse.

La nascita della katana va ascritta al VII o VIII secolo. Da allora in poi la lama subì modifiche solo nella lunghezza e di conseguenza nella larghezza. La spada del periodo Nara (645-794 d.C.) era molto lunga, con una leggera curvatura, a un solo taglio, conservata in un fodero che si appendeva alla cintura in vario modo. Di essa si conoscevano due versioni: quella cerimoniale o tachi, rimasta pressoché immutata nel corso dei secoli, e quella da combattimento, che però poteva essere ben usata solo da chi era a cavallo. Intorno al VII sec. si cominciò a firmare le lame. Un editto dell'VIII sec. obbligò gli spadai a firmare e datare le loro opere, anche se la norma venne spesso disattesa. Parti integranti della produzione di spade giapponesi erano le else (tsuba). Già attestate nelle tombe del IV-VI sec., le più antiche erano ovoidali, in rame o bronzo dorato, con fori trapezoidali o rettangolari. La tachi aveva un'elsa di tipo shitogi, con forma simile ai dolci di riso che si consumavano nei templi shintoisti durante le feste. Poiché però questo genere di tsuba non proteggeva completamente la mano, vennero aggiunte due anse di metallo. La tipologia dell'elsa da combattimento era quella detta aoi, a foglia di malva, che presentava una decorazione simmetrica, secondo i dettami di un gusto che rimase prevalente anche in epoca Heian (794-1185 d.C.).

Durante il periodo Nara entrarono in uso due punte di lancia, la hoko, diritta, a due taglienti, e la naginata, a lama curva a forma di falce che serviva per abbattere i cavalieri.

Nel periodo Kōfun sono ben documentate le armature. All'interno delle enormi tombe a forma di «toppa di serratura» veniva posto un ricco corredo funerario che comprendeva anche corazze, elmi, faretre, frecce, archi, spade, scudi, punte di lancia. A volte le armi venivano dipinte sulle pareti, come nelle tombe di Ōtsuka e Gōroyama, nel Fukuoka. Nei dipinti delle tombe di Tadaika, tra Kashiwara e Kokubu (prefettura di Osaka), si vedono guerrieri che indossano il caratteristico abito dei nomadi delle steppe in voga sul continente e giunto anche in Giappone. Nelle tombe sono state trovate molte corazze e haniwa raffiguranti guerrieri e i loro equipaggiamenti.

Le armature erano di due tipi: la tankō e la keikō. La prima era formata da una corazza a piastre di ferro giustapposte orizzontalmente, con chiodi ribaditi e strisce di ferro sovrapposte verticalmente lungo i lati. A essa veniva collegato un «gonnellino» dello stesso genere. Di solito la si completava con spallacci. Le fonti la chiamavano kōra o corazza a tartaruga. La keikō era la corazza a lamelle. In essa lamine rettangolari erano fittamente raccordate le une alle altre. Completa anch'essa di protezione per cosce e gambe, si allacciava nella parte anteriore. Data la sua flessibilità veniva utilizzata dai guerrieri a cavallo. La particolare forma delle lamelle ha suggerito l'ipotesi che si tratti della kawara delle fonti scritte, armatura con lamelle a forma di tegole. Durante il VII e VIII sec. il tipo keikō si perfezionò sempre più. I vari elementi furono collegati da cerniere e legacci in modo da consentire la massima agibilità di movimento. Pian piano questa tipologia prese il sopravvento e soppiantò la tankō. Su di essa si elaborarono in seguito le più note armature dei periodi successivi.

Alle corazze si accompagnavano elmi dalle forme più svariate: emisferici, con visiera, conici, a falde laminate, spesso con protezioni per guance e nuca. Le tipologie più ricorrenti erano due: elmi ovali con bordi anteriori assottigliati, crestati, ed elmi circolari con visiera e portapennacchi, tutti chiodati. Il materiale utilizzato per la loro fabbricazione era di solito il ferro. Copricapi di cuoio dovevano invece far parte della dotazione delle truppe appiedate, insieme con corsaletti di cuoio e scudi di cuoio, di legno laccato e verniciato.

Non mancavano grandi scudi di ferro realizzati con bande di ferro tagliate ad angolo acuto e saldate in strati sovrapposti.

Si utilizzavano anche faretre portatili di grandi dimensioni in cui la punta delle frecce era rivolta verso l'alto.

Dall'evoluzione di questo equipaggiamento nacque il tipo moderno a noi noto.

Bibl.: La maggior parte delle recenti ricerche effettuate da studiosi cinesi è apparsa sulle riviste Kaogu, Kaogu Xuebao, Kaogu yu Wenwu, e Wenwu. Per quanto riguarda la Corea le ultime scoperte sono state pubblicate su Yujok Palgul Fogo e sui periodici Kogo Minsok e Munwa Yusan. Per il Giappone esistono periodici specializzati quali Tōken to rekishi e Tōken Bijutsu. Lo Shin- tei Zōho Kojitsu Sōsho, in 39 volumi, è un'ampia bibliografia sui costumi militari, armi, armature e simili. Importantissimo è lo Honchō Gunkiko, scritto nel XVIII sec. da Arai Hakuseki, in cui si identificano le antiche tipologie e gli equipaggiamenti militari. - Cina: E. T. C. Werner, Chinese Weapons, Shangai 1932; W. Eberhard, Typen Chinesischer Volksmarchen, Helsinki 1937; id., Volksmarchen aus Sud-Ost China, Helsinki 1941; R. des Rotours, Traité des fonctionnaires et traité de l'armée, 2 voll., Leida 1947; M. Loher, The Earliest Chinese Sword and the Akinakes, in Oriental Art, III, 1948, pp. 132- 142; id., Ordos Daggers and Knives, in ArtAs, XII, 1949, pp. 23-83; XIV, 1951, pp. 77-162; L. Lanciotti, Sword Casting and Related Legends in China, in East- West, V, 1955, 2, pp. 106-114; VI, 1956, 4, pp. 316-322; M. Loher, Chinese Bronze Age Weapons, Ann Arbor 1956; M. Loewe, Military Operations in the Han Period, Londra 1961; Ν. Barnard, Bronze Casting and Bronze Alloys in Ancient China (Monumenta Serica, Monograph XIV), Tokyo 1961; G. Vianello, Armi in Oriente, Milano 1966; L. Lanciotti, Armi e Armature Cinesi, in Armi e Armature Asiatiche, Milano 1974, pp. 143-152; M. Pirazzoli t'Serstevens, La Chine des Han, Friburgo 1982; H. Rubin e altri, Studies Related to the Black Passive Oxide Film on Bronze Arrowheads Unearthed with the Terracotta Warriors near the Tomb of the First Emperor of Qin (210 BC), in Studies in the History of Natural Sciences, IV 1983, pp. 295-302; AA.VV., Chugoku Toyo no Bi («La bellezza delle figure cinesi in terracotta») (cat.), s.l. 1984 (la maggior parte delle statuette raffigura i guerrieri cinesi di varie epoche); X. Lin, Zhonguo Gudai Bingqi Tu («Libro di disegni di armi dell'antica Cina») (Yishu Wenxian Congshu, I), Pechino 1986; E. L. Shaughnessy, Historical Perspectives on the Introduction of the Chariot into China, in Harvard Journal of Asiatic Studies, I, 1988, pp. 189-237. - Corea: J. L. Boots, Korean Weapons and Armour, Seul 1934; J. H. Kim, Kankoku no Kōkogaku («Archeologia Coreana»), Tokyo 1972; Κ. U. Kim, Kankoku Kōdai no Katcha («Armature ed elmetti dell'antica Corea»), in Shiragi Sennen Bi Kankoku Kōdai Bunka Ten («Le meraviglie di 1000 anni di Silla - Mostra sulla cultura dell'antica Corea»), Tokyo 1983, pp. 117-118; C. W. Chung, Κ. C. Shin, Dongrae Bockcheongdong Gobun Kun I («Un gruppo di antiche tombe a Bockcheongdong, Dongrae»), 2 voll., Pusan 1982-83; Κ. Tamura, Chōsen Hantō Shutsudo no Masei Sekken ni tsuite («A proposito delle spade di pietra levigata venute alla luce nella penisola coreana»), in Museum (Tokyo), 452, 1988, pp. 4-14. - Giappone: Y. Kuwabara, Chōkinka Nenpyō Shuei («Cronologia dei metalli lavorati»), Tokyo 1905; J. Homma, Kokuhō Tōken Zufu («Catalogo illustrato delle spade registrate come tesori nazionali»), 16 voll., Tokyo 1936-38; G. C. Stone, A Glossary of the Construction, Decoration and Use of Arms and Armors, New York 1961; G. Vianello, op.cit.·, AA.VV., Maisō Bunkazai - Hakkutsu Chōsa no Tebiki («Beni culturali sepolti - Dizionario degli scavi di ricerca»), Tokyo 1967; H. R. Robinson, Japanese Arms and Armour, Londra 1969; A. Dobrée, Japanese Sword Blades, Londra 1974; F. V. Weber, in Κō Ji Hō Ten, Dictionnaire à l'usage des amateurs et collectionneurs d'objets d'art japonais et chinois, New York 1975 (rist.), s. v. flèches japonaises, lames de sabre japonaises, sabres et poignards japonais·, K. Naoki e altri (ed.), Shinpojūmu - Tekken no Nazo to Kōdai Nippon («Simposio - L'antico Giappone e il mistero delle spade di ferro»), Tokyo 1978; C. Blair, in Enciclopedia ragionata delle armi, Milano 1979, s. v. dokyū, ebira, hoko, katana, keikō, lama giapponese, spada in oriente, tsuba, T. Yanagida, R. Kanaizuka, R. Harashima, Tekken o dashita Kuni («Il paese in cui sono state rinvenute le spade di ferro»), Tokyo 1980; T. Murata e altri, Inariyama Tekken Hyōmen Sabi no Kaisei («Analisi della patina superficiale della spada di ferro rinvenuta nell'antica tomba di Inariyama»), in Museum (Tokyo), 378, 1982, pp. 4-10; M. Ishii, Inariyama Tekken no Nazo («L'enigma della spada di ferro rinvenuta a Inariyama»), in Tōken Bijutsu, 312, 1983, pp. 24-31; T. Furuya, Kyōto Fu Kurumazuka Kōfun Shutsudo no Katchū-Iwayuru «Ichimai Jigoro» no Teiki suru Mondai («Armature ed elmetti dell'antico tumulo di Kutsukawa Kurumazuka nella prefettura di Kyoto; il problema sollevato dal cosiddetto tipo di «Ichimai Jigoro»»), in Museum (Tokyo), 445, 1983, pp. 4-17; Y. Inoue, Arima le Shozo Akagane Hoko ni tsuite («Sulla hoko di bronzo di proprietà della famiglia Arima»), ibid., 462, 1989, pp. 29-84.

(L. Di Mattia)