ARMENIA

Enciclopedia Italiana (1929)

ARMENIA (Armina nelle iscrizioni degli Achemenidi; armeno Hayastan o Haykh; A. T., 73-74)

Pietro ROMANELLI
Michele GORTANI
Renato BIASUTTI
Giustino BOSON
Cirillo KOROLEVSKIJ
Renato BIASUTTI

Col nome di Armenia s'indicò nel passato e s'indica tuttora quasi tutta la regione montuosa di origine vulcanica che si estende dal 37° al 47° di longitudine orientale e dal 38° al 41° di latitudine nord. All'epoca dei Romani però si chiamò Armenia una parte dell'Asia Minore occidentale. Per differenziare le due regioni la prima fu chiamata Armenia Maggiore, l'altra Piccola Armenia.

Geografia.

Regione naturale e storica dell'Asia Anteriore. - Dal punto di vista morfologico l'Armenia è uno dei grandi altipiani che si succedono dall'Egeo all'Asia centrale. Nettamente delimitato a N. e a S. dalle depressioni pontico-transcaspica e mesopotamica, rese più accentuate dal contrasto con le sue elevate catene marginali, l'altipiano passa invece gradualmente ai due lati agli altipiani dell'Asia Minore e dell'IIrān; si sogliono prendere come limiti l'Eufrate e la conca di Urmia (v. carta).

La catena marginale settentrionale è un baluardo continuo, in cui si distinguono la catena pontica orientale, prospettante il Mar Nero con ripide pendici elevate in media 3000 m. (e fin 3700 con lo Skaro o Qashgar), dalla baia di Kīresūn a Baṭūm e al corso inferiore del Ciörök, e il Piccolo Caucaso, fra il Ciörök e l'Arasse inferiore, con cime fra 2500 e 3500 m., espandentesi a oriente dove piega a S. e SE., suddiviso in una serie di giogaie tagliate dall'Arasse ed elevate fino a 3918 m. col M. Kapugik. La catena marginale meridionale è il Tauro Armeno, decorrente dal medio Eufrate alla piana di Urmia, ripidamente elevata sul bassopiano del Tigri, con molte cime superiori ai 3000 e 3500 m., soprattutto nella sezione orientale, dove culmina col Ciukh Dagh a 3662 metri.

Fra queste catene aspre, frastagliate e nevose, spesso incise da gole profonde, l'altipiano armeno si stende come una superficie ondulata, all'altitudine media di 1500-1800 m., percorsa da fiumi piuttosto lenti, variata da lunghi dossoni calcarei, creste livellate, campi di lava, distese alluvionali o lacustri, e su cui si innalzano, isolati o più spesso in serie, vulcani anche giganteschi. Dalle cime lo sguardo spazia, attraverso l'aria secca e limpida, per estensioni grandissime su quel paesaggio per solito senz'alberi, ove domina una vegetazione steppica, che contrasta con quella delle catene marginali, particolarmente rigogliosa nel versante pontico dove le foreste si spingono fino a 2460 m. La parte maggiore dell'altipiano è occupata da una grande zona vulcanica centrale, compresa fra due lunghe serie di vulcani disposte in direzione meridiana, e di cui l'occidentale culmina col Sipan (4176 m.), l'orientale con l'Alagöz (4095 m.) e l'Ararat (v.) che è, con i suoi 5156 m., la più alta vetta armena, fra di esse e anche lateralmente ad esse altre serie secondarie si allineano, e si stendono elevati campi di lava. La parte occidentale dell'altipiano è occupata da un fascio di antichi rilievi, in direzione ENE., che sono una continuazione dell'Antitauro e che l'Oswald ha chiamati del Kelkit e del Ciörök, perché si elevano a S. di questi due fiumi, internamente alla catena pontica. Da cotesto fascio si stacca una serie di rilievi che con varî nomi (Tergian, Shatin Dagh) attraversa da O. a E. l'altipiano fino alla depressione del medio Arasse. Al di là di questa si eleva un nuovo fascio di rilievi (fascio del Daralagöz) che si dirigono a SE. e sono anch'essi interni all'arco marginale. Le più notevoli depressioni comprese fra i varî rilievi, per lo più allungate da NO. a SE., sono quelle del medio Arasse, di Gökcia, di Van (in cui ne confluiscono tre) e di Urmia. In queste sono i laghi maggiori: quello di Gökcia a 1932 m. s. mn. misura 1399 kmq. e ha il 2,10% di salinità; quello di Van (1606 m.) misura 3400 kmq. ed ha acque salate; quello di Urmia, esterno veramente all'Armenia, a 1294 m. s. m., misura 5775 kmq., è assai poco profondo (16 m.) ed ha il 22% di salinità (v.). Anche le maggiori valli sono disposte nel senso stesso delle catene, e per esse scorrono il Ciörök, i due rami concorrenti a formare l'Eufrate (Qara o Furāt Ṣū e Murād Ṣū) e lo stesso Arasse. Il Kurà invece, un altro dei grandi fiumi che hanno origine sull'altipiano armeno, taglia la catena marginale del NE. in una profonda gola di erosione (a Borjom).

L'altipiano armeno deve interpretarsi come un complesso fortemente corrugato a varie riprese fino al Miocene, indi soggetto a lunga erosione e a notevole fratturazione con forti sollevamenti e abbassamenti delle singole parti, accompagnati da intenso vulcanismo; le grandi colate laviche si stendono spesso su depositi fluviali e lacustri colmanti le depressioni. Le catene marginali sono tutte a pieghe, a eccezione della Pontica che pare dovuta a sollevamenti magmatici accompagnati da fratture e da affossamenti verso il Mar Nero. Mentre il Piccolo Caucaso fu corrugato insieme con le altre catene nel Miocene, il Tauro Armeno è invece considerato un massiccio cristallino antico.

Gli scisti cristallini, oltre che nel Tauro, compaiono pure qua e là nelle altre catene marginali e anche interne, dove nella parte orientale dell'altipiano sono ricoperte in trasgressione da terreni calcarei marini, devonici e carbonici, e presso Giulfa anche permo-triasici. Nelle catene orientali è largamente rappresentato il Giura, con prevalenti depositi tufaceo-arenacei e colate andesitiche e basaltiche; in tutti gli elementi orografici della regione è presente il Cretacico, per lo più calcareo e trasgressivo, marino. Dopo una parziale emersione, con deposizione di strati arenaceo-marnosi nelle zone marginali, si ebbe una nuova invasione marina, attestata dalla grande diffusione dei calcari eocenici a nummuliti e dei sedimenti marini del Miocene inferiore. Durante l'Eocene i parossismi eruttivi toccarono il loro massimo nell'Armenia settentrionale; nell'Oligocene cominciò e nel Miocene medio si svolse il grande corrugamento, accompagnato da eruzioni di rocce basiche serpentinizzate. Le grandi conche tettoniche interne divennero laghi di reliquato, con ingenti depositi gessosi, salini e solfiferi. ll vulcanismo pliocenico e quaternario (attivissimo e con effusione di lave acide e basiche) è ora sopito: l'ultima eruzione avvenne nel 1441 (Nimrud); il Tandurek continua in fase di solfatura; forti terremoti sono indizio della superstite attività endogena.

Le catene marginali dell'Armenia sono ricche di rame, e danno localmente anche ferro, manganese, arsenico, argento, oro e metalli rari; l'altipiano fornisce salgemma, zolfo e allume; petrolifera è la depressione transcaucasica.

Clima, flora, fauna. - Situato all'incirca fra i paralleli che passano per Napoli e Reggio di Calabria, l'altipiano subisce fortemente l'effetto della sua notevole altezza e delle catene marginali che arrestano i venti umidi del mare. Il clima è quindi caratterizzato da un inverno rigidissimo e molto lungo (ottobre-maggio) e da una grande scarsità di precipitazioni. La primavera è breve, l'estate però assai calda, specie nel sud, dove inoltre per tre mesi, salvo qualche raro temporale, manca del tutto la pioggia. Durante l'inverno l'altipiano manda gelidi venti a tutte le basseterre circostanti, ma le correnti elevate di compensazione che salgono ad esso depongono la loro umidità in nevicate sui monti periferici, e nell'interno il freddo è in generale asciutto. Il ricoprimento nevoso è quindi poco spesso e scompare, nell'estate, anche dalle cime più alte dei monti.

Dati meteorologici sicuri si hanno per pochi luoghi. Il decorso annuo della temperatura è illustrato dai dati di cui allo specchietto precedente.

L'oscillazione termica annua sale, per le tre località indicate, a 31°. Ad Erẓerūm (1880 m. s. m.), nel 1847, per tre settimane, nel gennaio, la temperatura notturna si mantenne fra −27° e −29° (Hann, Handbuch der Klimatologie. III, Stoccarda 1911, p. 175).

La quantità media annua di pioggia è di 321 mm. a Erivan (con 28 giorni di precipitazioni nevose), di 413 a Qārṣ, di 661 a Kharput: i massimi sono in primavera. Per gran parte dell'anno la chiarità dell'aria è perfetta, il cielo azzurro sino all'orizzonte; i monti lontani si profilano con nitidezza in tutti i particolari. In relazione con l'aridità del clima stanno la varia salinità dei laghi armeni e le notevoli oscillazioni di livello del loro specchio d'acqua.

Clima dunque tipicamente continentale, che poco si conviene agli alberi: infatti l'Armenia interna offre in generale il paesaggio della steppa. Alcune conifere (Picea orientalis, Pinus silvestris) superano, dal Ponto, il baluardo nord-orientale e ammantano in parte le prime pendici interne; pistacchi e ginepri sono tra le specie arboree meno rare sull'altipiano; sui fianchi dell'Ararat, meno sfavoriti al riguardo, querci e betulle salgono fino a 2550 m. Ma la vegetazione xerofila predomina dovunque, con la steppa erbacea, le distese di radi arbusti spinosi (Astragalus), i cespugli di tamerischi: essa invade anche l'alta montagna. Le salsolacee contraddistinguono, nelle depressioni più aride, i luoghi ove il suolo ha maggiore salinità.

La fauna selvatica è assai povera. In relazione col carattere steppico abbondano i roditori (Alactaga aralychensis); vi sono poi una capra selvatica (Capra aegagrus) e la iena, mentre manca lo sciacallo. Il lago di Gökcia è rinomato per l'abbondanza delle trote ed ha una specie endemica (Salmo ischchan) che si ciba della prodigiosa quantità di gamberelli (Gammarus) presente in quelle acque.

Popolazione. - Le condizioni climatiche e le qualità del suolo (in generale alcalino e, se convenientemente irrigato, molto fertile) fanno dell'Armenia una regione assai adatta alla coltura granaria. La coltivazione dei cereali è rimunerativa sino a grande altezza e nella piana ondulata di Erẓerüm il frumento è coltivato sino a 2000 m. Nelle vallate più depresse s'insinuano la vigna e gli alberi da frutta (melo, albicocco), e, per merito della calda estate, anche il riso, il tabacco, il cotone. Alla pastorizia transumante la steppa offre pascoli abbondanti e gli animali da allevamento sono molto numerosi: le pecore a coda grassa, principale ricchezza dei pastori, due razze di capra, il piccolo bue tataro dalle corna brevi, di antica domesticazione, e il grosso bue delle steppe importato dai coloni russi, il piccolo vivace cavallo orientale. Sono di introduzione più recente e limitata il bufalo, nella valle dell'Arasse, il cammello e l'asino. Peculiare è anche il grosso cane di montagna, che sembra derivare dal lupo delle steppe russe (Rikli). Poca importanza ha il maiale.

L'agricoltura e l'allevamento hanno favorito lo sviluppo di una popolazione considerevole. Su di un'area alquanto superiore a quelle della Svizzera e dell'Austria riunite, l'Armenia, nei limiti naturali già tracciati, aveva prima della guerra mondiale circa 2 milioni di ab., cioè 12-14 ab. per kmq., cifra notevole data l'altitudine media del paese. Oggi la popolazione deve essere diminuita di ¼, e la densità ridotta a 10.

La popolazione è assai eterogenea. L'altipiano sembra avere raccolto e, mercé il suo relativo isolamento, aver conservato i rappresentanti di varie ondate successive etniche e culturali. Gli Armeni, appartenenti alla stirpe indoeuropea, dominatori quasi esclusivi della regione sino all'inizio dei tempi moderni, rappresentano il più antico degli strati etnici ancor oggi riconoscibili: sono per lo più coltivatori e sedentarî, molto fedeli al loro antico cristianesimo. I Curdi, indo-europei del gruppo iranico, sono già un elemento posteriore, giunto per successivi spostamenti, in buona parte recenti, dal S. seguendo le giogaie erbose e pascolative: sono infatti in prevalenza pastori transumanti con le greggi, a seconda delle stagioni, e perciò istintivamente ostili alla popolazione agricola. Il contrasto è accentuato dalla differenza di religione e di cultura, opponendosi al cristianesimo degli Armeni l'islamismo per quanto non sempre ortodosso, dei Curdi. Il terzo elemento è venuto con le popolazioni musulmane turco-tatare, penetrate anch'esse lentamente fin nel cuore dell'altipiano: sono in prevalenza genti agricole. I Turchi (Osmanli) hanno invaso, rifluendo dall'occidente e dalla costa pontica, soprattutto la parte settentrionale della sezione politicamente turca dell'Armenia; i Tatari (Azerbaigiani), dal SE., la sezione russa (v. carta). Ultimi venuti, ma in piccolo numero, coloni russi di sette dissidenti, e Circassi.

Alla fine del secolo scorso (1890) gli accurati calcoli del Lynch davano, per l'intera regione naturale (in base alle aree amministrative e perciò con l'inclusione di alcuni distretti periferici), la seguente percentuale dei varî elementi etnici: Armeni 37,4; Turchi 20,0; Curdi 19,6; Tatari 16,6; altri 6,4%. Vale a dire che gli Armeni (907.000 su 2.348.000, nell'Armenia), sebbene ancora più numerosi di ogni altra gente, presi da soli, si trovavano già in minoranza di fronte al blocco musulmano. In realtà le condizioni effettive locali erano anche meno favorevoli, perché la rilevante proporzione di cittadini e di borghesi fra gli Armeni e la loro forte disseminazione, facevano sì che in ben pochi distretti essi rappresentassero la maggioranza della popolazione rurale (v. A. Supan, in Petermanns Mitt., 1896). Questa condizione pericolosa, non compensata dalla presenza di forti nuclei armeni distaccati nelle altre provincie della Turchia e della Caucasia, si aveva dunque alla vigilia dei massacri, delle deportazioni, degli esodi che richiamarono l'attenzione dell'Europa sulla "questione armena" (v. oltre, nella parte storica), dal 1895 al 1909. Tuttavia, alla vigilia della guerra mondiale, le proporzioni dei varî gruppi etnici dell'Armenia non dovevano essere molto mutate. Sulle condizioni etniche attuali mancano informazioni esatte, ma la misura e la rapidità con le quali il governo turco procedette, nei primi anni della guerra, all'annientamento della nazione armena possono essere illustrate da questo unico dato: nell'intero territorio della Turchia, gli Armeni, che contavano nel 1913 all'incirca un milione e mezzo d'individui, non sono oggi più di 100.000! È aumentata in compenso notevolmente, per immigrazione, la popolazione armena della Transcaucasia, della Siria e della stessa Armenia russa: ma in quella turca essa ha praticamente cessato di esistere. L'indicazione delle sedi principali ove gli Armeni ancora resistevano, alla fine del secolo scorso, con maggioranze o con forti minoranze locali, ha dunque un interesse puramente storico (v. carta).

L'abitazione rurale sull'altipiano armeno, per essere il clima dominato dal duro lunghissimo inverno e per la scarsità di combustibile, assume, presso tutte le genti, forme simili: è bassa, terminata a terrazza, costituita sovente da un unico vano e, in molte regioni, insinuata parzialmente nel terreno in pendio. L'unica porta serve anche per la luce e per l'uscita del fumo. I villaggi sono sempre accentrati, non vedendosi case isolate che nei pressi immediati delle città, e sono costituiti di solito da un unico elemento etnico, omogeneo. Appaiono distribuiti specialmente nelle conche più depresse e lungo i corsi d'acqua, ove, d'inverno, si raccolgono anche le genti nomadi. Nei centri maggiori, in gran parte di antica origine, la popolazione è più eterogenea e gli Armeni rappresentavano quasi dovunque la maggioranza della classe cittadina e borghese. La distribuzione dei centri maggiori, un tempo in gran parte fortificati, è in relazione con le aree più favorevoli all'agricoltura e con le maggiori vie di comunicazione e di transito. Così nel bacino superiore dell'Arasse, Erivan (v.), centro intellettuale della nazione armena, e ora capitale della repubblica armena transcaucasica, Alexandropol, ora Leninakan (v.), e Qārṣ (v.) hanno preso il posto di Ani, la metropoli medievale (v.); Ardahan e Baiburt nelle piane più settentrionali, Bitlīs (v.) e Vān sul lago che ne ha preso il nome, Mush (v.) e Kharput (v.) nella valle del Murād, sono soprattutto centri agricoli; Erzingian (v.) ed Erẓerūm (v.), la chiave strategica e commerciale dell'altipiano, si trovano sulle tradizionali vie che vi giungono dal mare o dall'Anatolia. L'Armenia infatti è ancora una delle regioni principali di passaggio fra il Mediterraneo e la Persia. La via che da Trebisonda sale faticosamente ad Erẓerūm e poi, attraverso piani ondulati (Pasin, Alashkert, Bāyazīd), giunge a Tabrīz, aperta nel Medioevo dai mercanti genovesi, è ancora percorsa dalle carovane. Ad Erẓerūm sbocca pure la strada anatolica da Sīvās per Erzingian, che collegava, prima che si sviluppasse la navigazione a vapore sul Mar Nero, l'Armenia a Smirne e a Costantinopoli. Un'altra via (per Khinis e Malāzkert) collega Erẓerūm a Vān. Meno battute sono le comunicazioni, attraverso il Tauro Armeno, con la regione pedemontana meridionale.

Linee ferroviarie vi sono ora, oltre le vecchie carreggiabili e carovaniere. La principale è la Tiflis-Leninakan-Erivan-NakhičevanTabrīz: da Leninakan si stacca il tronco turco a scartamento ridotto per Qārṣ (Kara-Urgan e Hassan-Kala) ed Erẓerūm, che dovrà proseguire da Mama Khātūn, termine odierno, verso Erzingian e Sīvās; da Shakhtakli un altro tronco, per Maqu e Bāyazīd va verso Alashkert. È pure in esercizio un tratto della Bāyazīd-Vān.

Col fallimento della grande Armenia progettata dal trattato di Sèvres, col ritorno del distretto di Qārṣ alla Turchia, con la tragica soppressione della nazione armena nel territorio turco la maggior parte dell'Armenia storica e naturale a malapena ha ancora diritto a tal nome; come già le più antiche rovine, soltanto la chiese e i monasteri abbandonati saranno, finché resistono al tempo e agli uomini, i testimoni del passato dominio della stirpe e della cultura armena: e il nucleo principale di queste è ormai costituito dall'Armenia sovietica, il cui territorio è in non piccola parte fuori dei limiti dell'altipiano.

Bibl.: Per la geologia v.: H. Abich, Geol. Forschungen in den Kaukasischen Ländern, Vienna 1878-1887; A. Oswald, A treatise on the geology of Armenia, Boston 1906; id., Armenien, in Handb. d. Region. Geol., V, 3, 10, Heidelberg 1912; id., Geol. map of Armenia, Londra 1907. Opere fondamentali di viaggio o di descrizione regionale sono: H. F. Tozer, Turkish Armenia and Eastern Asia Minor, Londra 1881; H. F. B. Lynch, Armenia, Londra 1901, voll. 2 (con abbondante bibliografia); P. Rohrbach, Von Kaukasus zum Mittelmeer, Lipsia 1903; C. F. Lehmann-Haupt, Armenien einst und jetzt, Berlino 1910; P. Rohrbach, Armenien, Stoccarda 1919 (raccolta di brevi monografie di varî autori); M. Rikli, Natur- und Kulturbilder aus den Kaukasusländern und Hocharmenien, Zurigo 1914 (specialmente botanico, con bibliografia).

Di relazioni italiane, dopo quelle di M. Polo, Oderico da Pordenone, dell'Anonimo veneziano (in Ramusio, II) e di C. F. Gemelli Careri, v. F. de Vecchi e G. Osculati, Giornale di viaggio nell'A., Persia e Arabia, Milano 1847; A. de Bianchi, Viaggi in A., Kurdistàn e Lazistan, Milano 1863.

Storia.

La fase urartiana. - Il nome di Armenia appare dato per la prima volta alla regione montuosa che va dal 37° al 47° E. nelle iscrizioni cuneiformi degli Achemenidi. Prima essa è chiamata dai Babilonesi-Assiri col nome di Urartu (donde Ararat). Dai Greci (Erodoto) i suoi abitanti sono denominati 'Αλαρόδιοι, cioè Alarodi.

Queste denominazioni sono però posteriori al 1500 a. C. Ariteriormente la regione era chiamata Subartu ed era una delle quattro regioni del mondo conosciute dai Sumero-Accadiani; essa si suddivideva in molti distretti di cui si conosce solo qualche nome.

L'età neolitica è rappresentata in Armenia. Fra l'altro, sulla collina di Shamiram-Altī, vicino al lago di Vān, negli strati più profondi del terreno si sono trovati sepolcreti preurartiani, preistorici, che risalgono al periodo neolitico. Non è improbabile che gli scavi che si faranno sotto la direzione della Commissione archeologica armena mettano in luce oggetti della stessa epoca.

Appartenenti alla storia primitiva, anteriore cioè a monumenti scritti locali decifrati, si sono trovate iscrizioni nelle quali prevale l'elemento pittografico. Secondo le scarse notizie che si son potute avere finora, il disegno della capra appare frequentemente in questa scrittura. L'avvenire ci dirà se queste iscrizioni siano identiche alle protohittite, non ancora decifrate neppur esse. Non si sa, così, quale stirpe umana ebbe la sua sede fra queste montagne tra il 3000 e il 1500 a. C. Che s'abbia da supporre un popolo proto-caldaico, imparentato con i proto-elamiti ad E. e i proto-hittiti ad O.?

Le sole fonti, ed esse pure scarsissime, che accennano a queste regioni o alla parte meridionale di esse sono le fonti sumero-accadiane-babilonesi. È dubbio se Lugalzaggisi di Uruk (2709-2685), che si dice conquistatore dei paesi tra il golfo Persico e il Mediterraneo, sia penetrato molto lontano a N. mentre alcuni re della dinastia di Akkad, Šarrukin (2684-2630), Rimuš (2629-2615) e Maništušu (2614-2605) raccontano di aver guerreggiato con i popoli di Subartu e di averli sottomessi. Naram-Sin (2594-2551) continuò queste conquiste e il suo ricordo fu perpetuato in una stele che egli fece collocare a Pīr Ḥusein, vicino al lago di Van. Šulgi (2278-2229) della 3ª dinastia di Ūr, sumero, dice di essersi avvicinato, nelle sue conquiste, al lago di Urmia. Intanto nell'Assiria quasi assoggettata alla Babilonia sorgeva un principe, Šarrukin (2000-1982), che fu conosciuto nelle vicinanze della futura Armenia poiché a Ganeš (Gül Tepe) fu trovata una tavoletta con il suo sigillo.

Ḫammurabi, il re babilonese della dinastia di Amurru (2057-2044), collocò a Diyār Bekir una stele. Quindi si può supporre che le sue conquiste siano giunte sino a quella regione.

Quando gli Hittiti sorsero a potenza rivale dell'Egitto e Ramses II fu costretto a fare con Ḫattusil un trattato offensivo e difensivo, è probabile che la capitale Ḫa-at-ti (Bōghāz Köi) vicina al confine della futura Armenia, tenesse in soggezione le popolazioni colà dimoranti.

Però le iscrizioni hittite (kanesite) non hanno svelato l'estensione di dominio di questo temibile oppositore della forza faraonica.

Quando la potenza mitanni-hittita s'indebolisce e il nuovo regno assiro con sede ad Assur si è affermato soppiantando il principato di Mitanni, le conquiste dei re assiri sono precise e ci parlano di queste popolazioni abitanti del paese, sede futura degli Armeni. Salmanassar I (1280-1261) è il primo re assiro che le iscrizioni sinora note ci dicono aver conquistato il paese Kirki. Questo nome indica il territorio a occidente dei paesi Nairi e del paese chiamato poscia Urarṭu. Comprende la pianura a N. del Tigri occidentale e il terreno montagnoso a occidente di Diyār Bekir e dell'Eufrate. Una estensione di questo paese verso S. è esclusa e quando i successori di Salmanassar conquisteranno Kirki sino al grande mare, questo mare non è che il Mar Nero e quindi il paese Kirki si suppone avesse un prolungamento a N.

Salmanassar I fece tre campagne contro le popolazioni nord-occidentali e sottomise i paesi di Melitene e Hanigalbat (territorio dell'Armenia Maggiore dei Romani). Ed è questa penetrazione duratura che spiega la fondazione di colonie nella Cappadocia del N. sino sulle rive del Mar Nero. Le quali colonie si possono credere anche delle basi di operazioni militari contro il confinante "paese di Nairi". Colonie che poi, specialmente quelle più lontane a nord-est, quale Sinope sul Mar Nero, furono separate dalla madre patria per intromissione di correnti immigratorie nuove, specie traciche, che avevano già qualche secolo prima servito a respingere verso S. la potenza hittita. Tukulti-Ninurta di Assiria (1260-1232) proseguì la penetrazione nei paesi nord-orientali.

Qveste conquiste dovevano poi invogliare un Tiglatpileser (1115-1103) a completarle e così vediamo che le conquiste di questo monarca assiro, oltre che da molte iscrizioni trovate in Assiria, sono celebrate anche in un'iscrizione sita nello stesso territorio armeno e cioè nella pianura di Melazkert vicino al lago di Vān.

L'iscrizione esalta Tiglatpileser, "il re potente, il re della terra, il re di Assur, il re delle quattro parti del mondo, il conquistatore dei paesi di Nairi, da Tummi sino a Daiani, il conquistatore del paese Kirki sino al mare grande".

Fase chaldo-urartiana. - Il duro giogo assiro, le crudeltà del vincitore suscitarono nei fieri abitanti di quelle montagne il desiderio della liberazione. Entra in scena un popolo nuovo: i Chaldi-Urarṭu, i quali con a capo i loro principi e re lotteranno senza tregua contro l'invasione straniera.

I Chaldi non provengono dall'Araxe, come fa supporre il confronto etimologico Araxes-Ararat-Urarṭu, poiché solo dopo quasi un secolo essi conquistarono questa parte di territorio. Alcune loro manifestazioni ed imprestiti culturali, comuni con i popoli dell'Asia Minore, indicano il loro passaggio in queste regioni e si può tracciare la loro corrente migratoria da occidente ad oriente attraverso Malatia (Melitene) ed il vilāyet di Diyār Bekir. Sembra però sicura la loro identità con i Calibi o Chaldi del Ponto.

La dinastia urartiana durò oltre tre secoli. Ecco il quadro riassuntivo dato dal Lehmann-Haupt, Armenien einst und jetzt, II, p. 24:

Si noti che altri scrittori, quali il Thureau-Dangin, dànno un po' diversamente la serie di questi re urartiani. Le ragioni portate dal Lehmann-Haupt rendono preferibile il suo punto di vista.

Con Sardur I, del quale si hanno iscrizioni in caratteri e lingua assira, la potenza urartiana si afferma. Assurnaṣirpal, il conquistatore assiro, violento e crudele, riesce bensì a percorrere e a sottomettere gran parte dei paesi a S. di Vān; ma la resistenza urartiana fu singolarmente efficace poiché Sardur I osa proclamarsi: "figlio di Lutipris, il re potente, il re della totalità (titolo che si davano solo i re e monarchi assiri), il re di Nairi" (Corp. Inscr. Ch., n. 3).

Nella stessa iscrizione questo principe si vanta d'aver portato blocchi enormi di pietra e di aver costruito il castello di Vankalah (Vān). La pietra è completamente diversa dalle rocce che formano il massiccio di Vān e non è impossibile ch'essa provenga da Melazkert.

Aram e Sardur II furono gli avversari di Salmanassar III. Tra Assiria e Urarṭu continua una lotta di 30 anni. I principi urarṭiani cercarono di estendere il loro potere e di compiere l'unità nazionale, ma il monarca assiro portò la guerra nei loro stessi paesi in cinque campagne successive, al fine di arginare e reprimere l'espansionismo dei Chaldi. Salmanassar III non riuscì ad abbattere questi avversarî agguerriti, e Menuas, successore di suo padre Ispuinis sul trono di Urarṭu, riuscì a dare al paese la sua costituzione definitiva e a condurlo all'apogeo della sua potenza, con l'annessione di parte dei paesi confinanti con l'Urarṭu. La dominazione di Menuas si estese a sud-ovest sino al di là del lago di Urmia e a sud-est sino all'Eufrate vicino a Melitene, togliendo agli Hittiti questa parte di territorio e venendo a contatto con la potenza assira. A N. di Urarṭu Menuas si spinse sino alle pianure di Erivan a N. dell'Arasse, e a nord-est egli sottomise i paesi del corso superiore del Murād Ciāi sino alle fonti dell'Eufrate e, più in là ancora, il territorio di Diaus (Dayaeni). Le vicende del nuovo regno si mantengono inalterate o quasi sotto Argistis I che porta la guerra nei paesi dei Ḫatti, e sotto l'inizio del regno di Sardur III. La fine di questo regno segna però un tramonto dell'astro chaldo-urartiano. L'anno 735 a. C., l'undecimo di regno di Tiglatpileser III (secondo Lehmann-Haupt, IV), i Chaldi subirono una disfatta senza pari davanti alla loro stessa capitale fortificata, Tušpa (Vankalah). Questa disfatta, benché la piazza forte abbia resistito, condusse a un indebolimento della dinastia, e Rusas I, figlio di Sardur, dovette "riconquistare il regno con i suoi due cavalli ed il suo cocchiere".

Rusas si è mostrato un valoroso rappresentante della dinastia e un attivo difensore della libertà e dell'indipendenza urartiana contro i re assiri. Abile diplomatico, egli, dopo avere restaurato la sua residenza reale a Toprāq Qal‛eh, riebbe sotto la sua protezione il piccolo regno di Man nel bacino del fiume Zab a occidente del lago d'Urmia e affermò il suo dominio sopra questo territorio, ristabilendo un posto di osservazione ed un santuario del dio Chaldi a Muṣaṣir. Questo espansionismo del re urartiano indispose Sargon II (722-706) di Assiria, che nel 714 con una mossa rapida piombò nell'Urarṭu, sbaragliò le truppe coalizzate di tutti questi paesi nordici, le vinse, e ridusse il paese tributario dell'Assiria. Così lo sforzo di un ventennio di Rusas I era infranto. Che altri nemici, quali i Cimbri, siano apparsi a N. del lago di Vān e abbiano distolto parte della difesa dal fronte assiro?

Rusas II, figlio di Argistis II, riprenderà il Muṣaṣir, e sotto di lui e i successori, durante un secolo, il regno dei Chaldi conserverà una certa indipendenza e una certa potenza.

In quest'epoca, dove avvennero delle grandi migrazioni e spinte di popoli: Moschi, Tibareni, ecc., circa il 700-650, si ha da collocare anche la penetrazione degli armeni indo-europei nell'Urartu.

Chaldi-Armeni. - Senofonte nella Ciropedia ci narra come i Chaldi fossero respinti dagli Armeni nelle parti montagnose più elevate e come essi fossero per qualche tempo loro avversarî e come poscia per mezzo di trattati si siano riappacificati ed i Chaldi-Armeni abbian costituito una specie di unità nazionale.

Ma la storia precipita. Nelle regioni del Nord-ovest i Cimbri, gli Sciti, i Medi, popoli irrequieti, con l'aiuto anche dei Babilonesi (regno neobabilonese) si schierano contro il temibile e odiato Impero assiro. Cade Ninive nel 612, e cadrà più tardi nel 536 anche Babilonia. che vede sorgere l'achemenide Dario il quale riunirà sotto il suo scettro tutto il mondo civile orientale allora conosciuto.

Anche l'Armenia non può resistere a questo conquistatore e il figlio di Dario, Serse I, collocherà un'iscrizione trilingue a Īč Qal‛eh sulle rocce di Vān nel centro dell'Armenia per indicare la fine dell'indipendenza chaldo-urarṭiana. Così i Chaldi-Armeni diventano soggetti della dinastia persiana. Per la civiltà, v. urarṭu.

Bibl.: E. Meyer, Geschichte des Altertums, 3ª ed., Berlino 1913; J. Sandalian, Les inscriptions cunéiformes urartiques, Venezia 1900; id., Histoire documentaire de l'Arménie des âges du paganisme (1410 av. - 305 apr. J.-C.), Roma 1917; Lehmann-Haupt, Materialien zur alten Geschichte Armeniens und Mesopotamiens, Berlino 1907; id., Armenien einst und jetzt, II, Berlino 1926; Thureau-Dangin, Inscriptions de Sumer et d'Accad, Parigi 1906; id., La huitième campagne de Sargon, Parigi 1912; Keilinschriftliche Bibliothek (Annali dei re assiri e babilonesi), i-ii, Berlino 1889-90; King, History of Sumer and Accad., Londra 1912; Marr e Orbeli, Arkehologičeskaja Ekspedicija 1916, Pietrogrado 1922; Sayce, Urartu, cap. VIII del vol. III della Cambridge Ancient History, Cambridge 1924-1925; il Lehmann-Haupt pubblicherà fra poco, il Corpus Inscriptionum Chaldicarum e Die Herkunft der Chaldäer.

L'età greco-romana. - Nell'impero degli Achemenidi l'Armenia fu governata da un satrapo. Il possesso di essa in principio non fu senza difficoltà: al tempo della rivolta della Media sotto Dario anche l'Armenia si ribellò e Dario inviò contro di essa un esercito al comando del persiano Vaumisa. Gli Armeni mossero incontro ai Persiani e furono battuti nel gennaio del 521 a. C., a Izzila in Assiria, e quattro mesi dopo a Autiyāra in Armenia. Tuttavia essi non s'arresero e fu necessario l'invio di un altro esercito al comando di Dādarshi, un Armeno al servizio di Dario, perché dopo una guerra durata circa un anno la rivolta fosse domata. D'allora in poi l'Armenia rimase fedele ai re Achemenidi, ma, pur essendo governata da un satrapo, dovette godere di una certa indipendenza se è vero che i diecimila di Senofonte, nel 401 a. C., attraversando l'Armenia, non vennero molestati in cambio della promessa che si sarebbero astenuti dal recar danno.

Le notizie sulla storia dell'Armenia sino alla conquista di Alessandro sono in complesso molto scarse; quelle raccolte nella tradizione indigena prive di fondamento. Da Alessandro fu posto nel 331 al governo di essa un Mitrine che già era stato al servizio degli Achemenidi; al tempo della battaglia di Gaugamela ne era satrapo un Oronte. Sfuggita l'Armenia alla divisione dell'eredità d'Alessandro, Eumene con l'esibizione di una falsa lettera di Oronte (Diod., XIX, 23) riuscì ad accampare diritti su di essa. Dei re che successivamente regnarono sull'Armenia (alcuni, a quanto pare, della discendenza di Oronte), si conosce soltanto qualche nome. Con Antioco III l'Armenia fu attratta nella sfera d'influenza dei Seleucidi e in tale epoca due generali, Artaxia e Zariadre, se ne divisero il dominio come στρατηγοί di Antioco. Dopo la sconfitta di Antioco per opera dei Romani, essi si resero indipendenti.

Le guerre dei Romani in Armenia. - Quando al principio del sec. I a. C., a causa delle guerre contro Mitridate, re del Ponto, i Romani vennero ai primi contatti con l'Armenia, questa, che per l'innanzi, sotto la sovranità dei Seleucidi o dei re Parti, aveva costantemente mantenuto due satrapie divise, l'una, quella dell'Armenia maior, a oriente del corso superiore dell'Eufrate fino alle regioni del Caucaso, l'altra, l'Armenia minor, ad occidente dello stesso fiume, fra esso e il Ponto e la Cappadocia, era invece allora tutta riunita sotto l'unico comando del re Tigrane. Questi infatti, traendo profitto dall'annullamento della Siria in seguito alla sconfitta del re Antioco, e dalla decadenza della dinastia partica, non solo si era sottratto alla clientela dell'una e dell'altra, ma aveva unito in un sol regno le due regioni dell'Armenia e, ancora non pago, aveva allargato le sue conquiste ad oriente, a mezzogiorno e ad occidente, riducendo in suo potere, oltre ai paesi compresi fra il suo territorio e quello dei Parti, il settentrione della Mesopotamia, la Commagene e fin la Cilicia orientale e la Siria. Segno e conseguenza della raggiunta potenza era stata la fondazione di una nuova capitale, Tigranocerta, che Tigrane aveva voluto stabilire assai più a mezzogiorno, e in territorio più piano e facilmente accessibile della vecchia residenza di Artaxata, perduta nel lontano settentrione, nel cuore di una regione montuosa ed impervia.

Inevitabilmente nelle sue conquiste egli doveva prima o poi trovarsi di fronte all'ostilità di Roma: di qui la sua alleanza con Mitridate, col quale per di più aveva stretto vincoli di parentela, sposandone la figlia.

La pace di Silla, seguita alla prima guerra mitridatica, non l'aveva tuttavia toccato, né sembrava che i Romani si occupassero per allora di lui e della sua ambiziosa espansione verso occidente. Ma entrato di nuovo Mitridate in guerra nell'anno 74 a. C., anche Tigrane fu necessariamente trascinato nella lotta. Sconfitto e ridotto all'impotenza il re del Ponto, Lucullo, che aveva allora il comando delle legioni romane nell'Asia, mosse nella primavera del 69 contro l'Armenia. L'impresa si presentava invero né facile né troppo allettante: l'esiguità delle truppe di cui Lucullo disponeva, la malavoglia con cui esse si apprestavano a seguirlo in un paese lontano, sconosciuto ed impervio, l'esercito assai più numeroso di Tigrane facevano apparire il disegno del generale romano, che non aveva consenziente nemmeno il senato, come un ardito e avventurato colpo di testa. Lucullo passò l'Eufrate a Melitene, quindi il Tigri a monte di Amida, e minacciò di tagliare al re, che si trovava allora presso Tigranocerta, la ritirata verso il nord, verso l'antica e ben munita capitale Artaxata: poi, sconfitte le prime truppe mossegli contro, e distaccata una parte dei suoi soldati ad inseguire il re, volse invece con il nucleo maggiore delle sue forze all'assedio di Tigranocerta. Qui lo raggiunse il grande esercito del re, condotto da un capo già felicemente provato, la cui sola cavalleria era assai più numerosa di tutto il corpo di spedizione romano: tuttavia l'abilità e la prontezza del generale valsero più del numero di cui disponeva il nemico: ché, prevenuta e accerchiata con rapida mossa proprio la cavalleria, su cui quello maggiormente contava, tutto l'esercito armeno venne sconfitto e disperso. La vittoria (ottobre 69), che può giustamente considerarsi fra le più grandi e le più brillanti della storia di Roma, ebbe per effetto di far perdere d'un tratto a Tigrane tutte le conquiste che egli aveva fatto ad occidente del regno: ché non solo esse si trovarono a mancare di ogni difesa di fronte all'esercito romano, ma, come è naturale, bastò l'annuncio della vittoria riportata perché popoli e città e sovrani si affrettassero ad inviare messi a Lucullo offrendo la loro soggezione.

Non s'indusse invece alla pace Tigrane, soprattutto per gli incitamenti di Mitridate, che, non avendo ormai più nulla da perdere per sé, ma tutto sperando da un estremo tentativo di resistenza, cercò di sollevare contro Roma tutti i popoli dell'Oriente traendone aiuto di uomini.

D'altro lato Lucullo non era uomo da cedere, neppur di fronte alle difficoltà più gravi: poiché il nemico non piegava, egli pensò di assalirlo nel cuore del suo stesso territorio, spingendo le sue truppe, nonostante che fossero ancor più scarse e più stanche, verso Artaxata, attraverso un terreno dove la marcia era dura, e quando la stagione propizia per una campagna militare era assai breve.

E infatti la marcia (anno 68), quantunque poco ostacolata dal nemico, riuscì vana: ché il sopravvenire dell'inverno, prima che le legioni fossero giunte alla meta, obbligò Lucullo a retrocedere e a ridiscendere al piano, dove, certo più per dare ai soldati un argomento di soddisfazione che per utilità strategica, si volse all'assalto e alla conquista di Niṣībīn, capitale della Mesopotamia armena, città ricca di bottino e tale da offrire comoda residenza per i quartieri invernali. Ormai la speranza di raccogliere più larghi frutti da una guerra contro l'Amenia poteva dirsi perduta: d'altronde nella primavera del 67 la necessità di difendere il Ponto dal vittorioso ritorno di Mitridate, l'arrivo del nuovo console mandato da Roma a sostituirlo, e il congedo accordato dal senato ad una parte delle sue truppe, costrinsero Lucullo a ripiegare verso occidente e a ripassare sulla destra dell'Eufrate nell'Armenia Minore: l'ardita e geniale campagna di Lucullo, se pur fu, anche più tardi, celebrata nell'elogio posto sotto la sua immagine nel foro di Augusto a Roma (Corp. Inscr. Lat., I, 2ª ed., p. 196, XXI: L. Licinius L. f. Lucullus.... triumphavit de rege Ponti Mitridate et de rege Armeniae e (sic) Tigrane magnis utriusque regis copiis, conpluribus proelis terra marique superatis, etc.), rimase così senza effetti nei riguardi della conquista territoriale e della pacificazione dell'Oriente.

Il piano di Lucullo fu pertanto ripreso da Pompeo, dopo che a questo fu conferito, in virtù della legge Manilia, il supremo comando della guerra nell'Asia. Nel 66, dopo avere definitivamente battuto il re del Ponto, Pompeo entrò nell'Armenia, giungendo, quasi senza incontrare alcuna resistenza, fino a poche miglia da Artaxata: quivi venne a fargli atto di sottomissione e ad implorare la pace Tigrane, cui la sconfitta di Mitridate, la ribellione del figlio e l'inimicizia dei Parti non davano più alcuna speranza di riscossa. Pompeo l'accolse benevolmente e gli mantenne la corona di Armenia, obbligandolo tuttavia non solo a riconoscere, come già aveva fatto, l'alta sovranità di Roma, ma altresì a cedere, oltre alle terre precedentemente perdute, il territorio dell'Armenia Minore a occidente dell'Eufrate.

Il vincolo di clientela del regno di Armenia verso Roma veniva così da questo momento definitivamente stabilito: se non che la giacitura stessa del regno fra l'impero di Roma e lo stato dei Parti, l'uno contro l'altro costantemente in lotta, per insanabile rivalità politica e di razza, l'essere esso stato per l'innanzi un'investitura partica e il non avere, d'altra parte, in sé sufficiente forza di coesione per costituirsi a vera e salda unità e indipendenza, fecero sì che esso fosse l'oggetto e il teatro di continue guerre tra Roma e i Parti, e che la sovranità dell'una venisse di tempo in tempo sostituita da quella degli altri, o che per lo meno si limitasse talvolta ad atti puramente formali; d'altronde, come in tutti gli stati asiatici, il trono era sempre anche in Armenia alla mercé degli intrighi e delle rivalità di famiglie e di partiti.

Già dopo la sconfitta di Carre l'Armenia era tornata nella clientela dei Parti; tuttavia nel 36, quando Antonio, padrone dell'Oriente, muove contro di essi, il re di Armenia Artavasde, figlio del Tigrane contro cui avevano combattuto Lucullo e Pompeo, è suo alleato, e gli fornisce aiuto soprattutto di cavalleria: ma fu questo un aiuto vano e forse non sincero: ché, sconfitto Antonio sotto le mura di Praaspa, l'Armeno lo abbandonò, ritraendosi nel suo territorio, dove tuttavia accolse amichevolmente il Romano che batteva in ritirata, incalzato dal nemico e stretto dalle difficoltà della stagione invernale e del paese montuoso. Onde Antonio, a torto o a ragione, riversò su di lui la colpa del fallimento della spedizione, e per punirlo tornò due anni dopo ad Artaxata: quivi lo fece prigioniero e condottolo ad Alessandria lo uccise, mettendo in sua vece sul trono il figlio avuto da Cleopatra, Alessandro.

La guerra, scoppiata di lì a poco fra Ottaviano e Antonio, costrinse questo a richiamare le truppe che aveva in Armenia; ne approfittarono i Parti per riprendere il sopravvento e riportare sul trono il figlio dell'ucciso Artavasde, Artaxe, il quale, appena padrone del regno, volle trar vendetta del padre, e, rinnovando la ferocia di Mitridate del Ponto, ordinò di trucidare quanti Romani si trovassero nel suo territorio.

Rimasto Ottaviano Augusto solo signore dell'Impero, e voltosi alla sistemazione dell'Oriente, dove s'imponeva la necessità di rialzare e di consolidare la potenza romana, la situazione dell'Armenia fu naturalmente presa in esame: secondo quanto Augusto stesso ci dice nel suo testamento, poiché Artaxe era morto violentemente nel 20, egli avrebbe potuto fare del paese una nuova provincia dell'Impero; preferì invece, e nella sua decisione pesarono forse considerazioni d'immediata opportunità, continuare a tenere il regno nella primiera condizione di stato cliente; volle tuttavia che la sovranità di Roma venisse solennemente e pubblicamente riaffermata, e a tale scopo inviò in Oriente il figliastro Tiberio; questi investì del regno Tigrane, fratello di Artaxe, e costrinse i Parti a restituire le conquistate insegne di Crasso e di Antonio, piegando in tal modo di nuovo la stato armeno alla soggezione di Roma. Ma l'Armenia non era paese di pace: alla morte di Tigrane, nuove discordie sorsero fra i membri della famiglia reale, e il conseguente intervento dei Parti consigliò ad Augusto l'invio di una spedizione militare, che, per il rifiuto di Tiberio, fu affidata al giovane figlio adottivo dell'imperatore, Caio Cesare (1 a. C.): Armeniam maiorem interfecto rege eius Artaxe c[u]m possem facere provinciam, malui maiorum nostrorum exemplo regn[u]m id Tigrani regis Artavasdis filio, nepoti autem Tigranis regis, per T[i. Ne]ronem trad[er]e, qui tum mihi priv[ig]nus erat. Et eandem gentem postea d[esc]iscentem et rebellantem domit[a]m per Gaium filium meum regi Ario[barz]ani reġis Medorum Artaba[zi] filio regendam tradidi et post e[ius] mortem filio eius Artavasdi. Quo [inte]rfecto [Tigra]ne (per Tigranem) qui erat ex regio genere Armeniorum oriundus, in id re[gnum] misi (Mon. ancyr., 5, 24; Corpus, III, p. 796). L'egemonia romana fu ancora imposta a Parti ed Armeni, ma in un combattimento contro i ribelli sotto il castello di Artagira il principe imperiale fu ferito (2 d. C.), e la ferita lo condusse dopo qualche mese alla morte (Corpus Inscr. Lat., IX, 5290).

Con immutato ritmo la storia dell'Armenia segna ancora fra l'anno 2 e il 58 d. C. nuove lotte di pretendenti, che per due volte richiedono l'intervento di Roma; nel 18 fu, dall'imperatore Tiberio, inviato in Oriente Germanico, nel 37 Lucio Vitellio, padre del futuro imperatore. Nel 51 una tragedia domestica, cui non rimase estraneo il comandante della guarnigione romana, Celio Pollione, portò al potere Rhadamisto, ma contro di lui i Parti sostennero e riuscirono ad imporre un fratello del loro re, Tiridate (Tacito, Ann., XII, 44 segg.). Dal 54 regnava Tiridate, quando, rifiutandosi egli di chiedere all'Impero la regolare investitura del trono, Nerone s'indusse ad affidare ad uno dei suoi più valenti ufficiali, Domizio Corbulone, l'incarico di ridurre lui all'obbedienza, e nello stesso tempo di rialzare di fronte ai Parti il prestigio dell'Impero, alquanto scosso ormai da troppi anni di assenza. Corbulone invero, non nascondendosi le difficoltà di un'impresa militare veramente conclusiva, tentò dapprima di risolvere la situazione con amichevoli trattative con il re dei Parti; ma poiché Tiridate, non uniformandosi a queste, persisteva nel suo atteggiamento di ostilità verso Roma, egli si decise nell'estate dell'anno 58 ad invadere l'Armenia. Passato l'Eufrate, svernò nel territorio nemico, quindi con la primavera del 59 riprese l'offensiva marciando contro Artaxata, e quivi, sotto le mura della città, sconfisse Tiridate che riparò presso i Parti. Trascorso ancora un altro inverno nella città conquistata, discese l'anno seguente verso mezzogiorno, per impadronirsi della seconda capitale del regno, Tigranocerta, la quale gli aprì volontariamente le porte. Alla fine dell'estate del 60 tutta l'Armenia era in potere dei Romani; e Corbulone, dichiarando deposto Tiridate, dava il regno, che fu tuttavia decurtato di alcune terre di confine cedute agli stati vicini, a Tigrane, un principe armeno, pronipote di Erode il Grande, educato a Roma e quindi strumento fedele dell'Impero.

Ma la sconfitta di Tiridate indusse il re dei Parti a riprendere le armi contro Roma; e Corbulone, sempre più convinto delle difficoltà e soprattutto della vanità della guerra, aveva accettato il ritorno di Tiridate sul trono, a patto che egli ne chiedesse l'investitura all'imperatore, quando il governo centrale sconfessò le sue trattative e gli mandò un successore nel governo della Cappadocia e nel comando della guerra contro Parti ed Armeni.

Questo successore, L. Cesennio Peto, era tuttavia uomo di scarso valore militare e politico: ripresa nell'estate del 61 la campagna contro l'Armenia, egli si accampò, per il sopraggiungere dell'inverno, presso il castello di Rhandeia. Quivi fu assalito nella primavera del 62 dall'esercito dei Parti, e prima che Corbulone, che aveva conservato il comando della Siria, potesse, poiché si era mosso in ritardo, giungere in suo aiuto, fu costretto ad arrendersi, accettando i patti imposti dal vincitore, che del resto quasi per nulla differivano da quelli proposti l'anno innanzi.

Ma il governo di Roma insistette nel rifiutare tali patti, e Corbulone, investito di nuovo della suprema condotta della guerra, dovette riprendere nel 63 le armi e condurre di nuovo le legioni al di là dell'Eufrate; la campagna fu tuttavia breve e non segnata da fatti importanti: Corbulone, tenendosi alla linea di condotta già prima seguita, accettò presto le nuove condizioni offerte dal nemico; per esse Tiridate avrebbe conservato il regno, purché, umiliandosi dinanzi al generale romano, avesse deposto nelle sue mani la corona reale, che sarebbe poi venuto a ricevere a Roma dall'imperatore in persona (Tac., Ann., XIII, 34-41; XIV, 23-26; XV, 1-17; 24-31).

Così la pace fu conclusa; tre anni dopo, nel 66, Tiridate giungeva a Roma con lungo e numeroso stuolo di cavalieri partici e di nobili armeni, e nel foro, sui rostri, con cerimonia che per la sua novità e magnificenza attirò la curiosità di tutta la capitale, Nerone lo incoronava di nuovo re dell'Armenia (Svet., Ner., 13; Dio Cass., XLIII, 49). Se in tal modo questa, almeno formalmente, vedeva riaffermata la sua dipendenza dall'Impero, d'altro lato è pur vero che di fatto il regno rimaneva affidato ad un principe partico, fratello del re stesso dei Parti.

Per qualche decennio né la storia interna dell'Armenia segnò alcun fatto notevole, né le relazioni fra Roma e il regno dei Parti subirono alcun mutamento: ma quando, sorta di nuovo discordia fra i due stati circa il re cui affidare l'Armenia, Traiano mosse in guerra contro i Parti, con il più vasto disegno di ampliare verso oriente i confini dell'Impero, l'Armenia fu nel 114 invasa dall'esercito condotto personalmente dall'imperatore; e sul suolo stesso d'Armenia il regno fu dichiarato soppresso, e la regione ordinata a provincia romana (Dio Cass., LXVIII, 17 segg.; R. Paribeni, Optimus princeps, II, Messina 1928, p. 291 segg.).

La vita della provincia fu tuttavia di brevissima durata: di appena tre anni, dal 114 al 117. Un solo governatore ne ebbe il governo, C. Atilio L. Cuspio Giuliano Cl. Rufino, ricordato in una iscrizione di Anzio (Corpus Inscr. Lat., X, 8291), il quale fu nello stesso tempo legatus pro praetore della Cappadocia e delle due Armenie, minore e maggiore.

La riunione del governo dell'Armenia a quello, già prima costituito, della Cappadocia fu probabilmente un provvedimento dettato da opportunità contingenti, e destinato più tardi, se la provincia avesse avuto più lunga esistenza, ad essere sostituito con la nomina di un governatore separato per ciascuna delle due provincie. Certo anche la nuova unità creata da Traiano ebbe fin d'allora in altro campo più netta e distinta autonomia: così per l'amministrazione finanziaria, alla quale era stato preposto un procurator che è detto esclusivamente Armeniae maioris (Corpus Inscr. Lat., XI, 5212-5213).

Morto Traiano, prima che la sistemazione e la pacificazione dell'Oriente fossero state compiute secondo il programma che egli aveva in animo, Adriano iniziò, contrariamente al suo predecessore, una politica che potremmo dire di ripiegamento, e, rinunciando al governo diretto dell'Armenia, ricostituì o permise che si ricostituisse in essa il regno cliente di Roma sotto la vecchia dinastia degli Arsacidi, pur lasciandovi tuttavia di presidio alcune guarnigioni romane: Armeniis regem haoere permisit, cum sub Traiano legatum habuissent, dice il biografo (Spart., Vit. Hadr., 21).

Col ritorno alle condizioni anteriori a Traiano era inevitabile si tornasse di nuovo presto o tardi ai contrasti fra l'Impero e il regno dei Parti. La guerra, evitata da Adriano e da Antonino Pio, scoppiò, appena morto quest'ultimo, sotto Marco Aurelio. Nel 161 il re dei Parti volle imporre con la forza sul trono di Armenia il suo protetto Pacoro; il governatore della Cappadocia, Elio Severiano, mosse contro l'esercito parto, passando l'Eufrate, ma fu sconfitto presso Elegeia, e si uccise (Dio. Cass., LXXI, 2). Il comando della spedizione fu allora (162) affidato a L. Vero, il quale tuttavia non ebbe di essa che la direzione nominale; di fatto essa fu condotta e vittoriosamente, da tre valenti generali, quali erano i due governatori succedutisi in quegli anni (162-164) nella Cappadocia, Stazio Prisco e Marzio Vero, e il governatore della Siria, Avidio Cassio (Dio Cass., loc. cit.; Iul. Capit., Vit. Veri, 7). Rioccupata l'Armenia e riconquistata da Stazio Prisco la capitale Artaxata, fu fondata e stabilmente presidiata non lungi da essa una nuova capitale, Kainepolis (in armeno Vałaršapat, oggi Eǧmiadzin): in luogo di Pacoro il regno fu dato a Soemo, suddito e senatore romano. In ricordo delle vittorie riportate, gl'imperatori presero il titolo di Armeniaco.

Sotto Settimio Severo, riarsa la guerra fra l'Impero e i Parti, anche per l'aiuto che questi avevano dato allo sconfitto pretendente, Pescennio Nigro, l'Armenia fu dapprima, in un primo tentativo di pace, decurtata di una parte, ceduta ai Parti; ma più tardi, nel 199, dopo la seconda campagna orientale di Severo, fu invece ricostituita per intero nella condizione primitiva di stato cliente di Roma (Dio Cass., LXXV, 9; Herodian., V, 9, 2).

Nel 212 Caracalla riprende, con animo e forze di gran lunga inferiori, il disegno di Traiano, di ridurre in diretta soggezione dell'Impero tutto l'Oriente: chiama a sé perciò, e dichiara deposto il re dell'Armenia; ma poiché questa insorge e proclama, in luogo del re detronizzato, Tiridate, l'imperatore compare in Oriente a capo di un esercito (214): i Parti, presso i quali Tiridate si è rifugiato al primo giungere dei Romani, non esitano a consegnarlo a Caracalla (Dio Cass., LXXVII, 21). Tuttavia la guerra non fu evitata per ulteriori e più dure richieste di Caracalla, e se questi non poté continuarla, per essere stato nel frattempo ucciso dai suoi ufficiali ad Edessa, essa fu ripresa dal successore Macrino; infelicemente invero, ché l'esercito romano fu sconfitto presso Nisibi; nella pace che ne segui (218), Tiridate fu ricollocato sul trono di Armenia, e riconosciuto come feudatario di Roma (Dio Cass., LXXVIIl, 27; Herodian., IV, 15).

Frattanto alla vecchia dinastia degli Arsacidi si sostituiva nel regno dei Parti quella dei Sāsānidi di Persia, che, sia per più fiero sentimento di razza e di nazionalità, sia per l'ormai accelerato moto di decadenza dell'Impero, travagliato dalle lotte dinastiche, riprende contro di questo con maggior vigore la lotta secolare. Anche l'Armenia, al tempo di Valeriano, diviene persiana, e tale rimane fino a Diocleziano, quando, ad istigazione di questi, l'arsacida Tiridate, che si era rifugiato in Roma, ritorna in patria e rioccupa il trono. Fu questa, insieme con altre, la causa di una guerra tra Roma e i Persiani, che Diocleziano affidò particolarmente alla condotta del suo Cesare, Galerio Massimiano, e che terminò con la sconfitta degli Orientali. Alla conclusione della pace, nell'anno 298, una parte dell'Armenia, e cioè la regione meridionale di essa, a sud del Thospitis lacus (lago di Vān), passò in diretto dominio dei Romani che vi fondarono, di lì a poco, la fortezza di Amida (Diyār Bekir); il resto continuò ad essere regno feudatario sotto l'arsacida Tiridate (Amm. Marc., XXV, 7 e 9).

Quanto si è narrato fin qui riguarda la parte dell'Armenia posta ad oriente dell'Eufrate, cioè l'Armenia maggiore. Dell'Armenia minore, a occidente dell'Eufrate, si è già detto in principio come Pompeo obbligasse il re Tigrane a cederne il possesso ai Romani. I quali da parte loro la cedettero da allora, a volta a volta, a questo o quello dei regni confinanti: alla Galazia, al Ponto, alla Cappadocia, oppure la costituirono temporaneamente in piccolo stato indipendente. Fino a che negli ultimi decennî del primo secolo, fra il tempo di Nerone e quello di Vespasiano, essa fu posta sotto la diretta sovranità dell'Impero, e annessa alla provincia di Cappadocia; Melitene (Malāṭiah) e Satala (Sadagh) furono in essa le due città più importanti, sede ognuna di una legione: la posizione della provincia, e il compito che ad essa spettava di proteggere il confine dell'Impero e il vicino regno cliente dell'Armenia maggiore, fanno facilmente comprendere il perché di così notevole presidio militare.

Dopo la divisione dell'impero, tuttavia forse non subito con essa, ma soltanto sulla fine del sec. IV, l'Armenia minore fu spartita in due provincie, l'Armenia prima, o settentrionale, e l'Armenia secunda, o meridionale, rette ognuna da un praeses e poste ambedue sotto un dux alla dipendenza della dioecesis Pontica. L'Armenia maggiore continuò invece a rimanere ancora per oltre due secoli nelle condizioni di stato feudatario, cioè fino a quando Giustiniano la riportò, come già Traiano, sotto la diretta sovranità dell'Impero: in quell'occasione egli modificò la divisione già stabilita precedentemente, facendo di tutto intero il territorio armeno quattro provincie, indicate con i numeri da uno a quattro, e tale ordinamento durò fin quasi alla vigilia dell'invasione araba, e al conseguente distacco dell'Armenia dall'impero di Costantinopoli.

Bibl.: E. De Ruggiero, Dizion. epigrafico, I, Roma 1895, s. v.; Th. Mommsen, Le provincie romane (trad. di E. De Ruggiero), 2ª ed., Torino-Roma s. a., p. 355 segg.; A. Abbruzzese, Le relazioni politiche fra l'impero romano e l'Armenia da Claudio a Traiano, in Bessarione, 1910, p. 389 segg.; J. Asdurian, Relazioni politiche fra l'Armenia e Roma dal 190 a. C. fino al 428 d. C., testo armeno, Venezia 1912; trad. ted., Friburgo 1911; K. Eckhardt, Die Armenischen Feldzüge des Lukullus, in Klio, IX (1909), p. 400 segg.; X (1910), pp. 72 segg., 192 segg.; id., Feldzug (di Corbulone), in Armenien, in Untersuchungen z. röm. Kaisergeschichte di M. Büdinger, I, Lipsia 1868, p. 267 segg.; W. Schur, Die Orientpolitik des Kaisers Nero, Lipsia 1923.

L'Armenia dalla conquista araba alla perdita completa dell'indipendenza (639-1375). - 1. L'Armenia sotto i governatori musulmani. - Nel 636, con la vittoria di Qādisiyyah, gli Arabi avevano posto fine all'impero dei Sāsānidi della Persia; tre anni dopo, 18.000 di essi fecero irruzione nella regione di Tarōn e del lago di Vān. Nel 642, Duin (Dvin) fu presa. L'imperatore bizantino Costanzo II (641-668) si sforzò di mettere un argine all'invasione, che andava minacciando i confini dell'impero dalla parte del Ponto, ma il suo luogotenente Sembat, non credendosi forte abbastanza, fece atto di sottomissione al califfo ‛Omar. Gli Arabi continuarono allora la loro avanzata verso l'attuale Caucaso russo senza riuscire tuttavia a insediarvisi stabilmente. E mentre Costanzo II e Giustiniano II (685-695) cercavano, sia con la forza delle armi sia per mezzo di trattative, di ricondurre l'Armenia bizantina sotto il loro dominio, gli Arabi ne proseguivano la conquista. Il paese da loro sottomesso era dapprima governato da un musulmano; ma nel 744 il califfo Marwān diede quella carica ad un Armeno, Ašot, della famiglia dei Bagratidi. Sennonché invece di unirsi, gli Armeni, eccitati per le tasse troppo gravose imposte dai successori di Marwān, ne resero Ašot responsabile e si sollevarono contro di lui; tornarono pertanto i governatori musulmani, e con loro le violenze e le crudeltà.

2. I Bagratidi di Ani. - Un Armeno, Mušel Mamikonian, alzò la bandiera della rivolta verso il 780; e la sua azione fu proseguita dal figlio Ašot, con la fortificazione di Ani, quasi inespugnabile per quei tempi. Per due secoli, i dinasti armeni, forti di questo baluardo, mantennero una relativa indipendenza. I califfi, principalmente Hārūn ar-Rashīd (786-809), capirono l'opportunità di trattare meglio gli Armeni; infatti al-Mutawakkil (847-861) nominò il principe bagratida Ašot governatore generale col titolo di amīr al-umarā', ossia principe dei principi (859). In questo tempo i signorotti armeni si vennero fabbricando castelli che, in caso di invasione, potevano servire di rifugio alla popolazione, iniziando così la feudalità armena, anche prima dell'epoca delle Crociate. Il katholikos Gevorg II (878-888) riuscì per un momento a calmare le ambizioni singole, dei vescovi e dei principi, i quali chiesero la corona reale per Ašot a Bisanzio e a Baghdād (885). Così principiò la dinastia dei Bagratidi. Non per questo tornò subito la tranquillità: anzi Ašot I (885-890) e i suoi successori Sembat I (890-914), Ašot II (914-929), Abas (929-953), Ašot III (953-977) ebbero da lottare tanto contro i governatori musulmani, vicini troppo intraprendenti, quanto contro i signori armeni. Così Ašot III tollerò che il proprio fratello Mušel prendesse il titolo di re per la provincia del Qārṣ (962), mentre il Vaspurakan era già dal 914 quasi del tutto indipendente. Ben presto l'Armenia fu divisa in sette reami, senza contare i territorî dei signorotti minori. La parte settentrionale del paese riconosceva l'alto dominio di Bisanzio e pagava il tributo all'imperatore greco, la parte meridionale al califfo di Baghdād. Nondimeno sopravvisse, pur indebolita, la dinastia dei Bagratidi di Ani con Sembat II (977-989), Gagik I (989-1020), sotto il quale il regno di Ani arrivò a un alto grado di prosperità culturale e materiale. Sotto Sembat III (1020-1042) ricominciarono le divisioni interne, e sopravvenne un nuovo nemico: i Turchi selgiuchidi, dalle pianure dell'Asia centrale. Incapace di resistere, Sembat abbandonò i suoi stati all'imperatore bizantino Basilio II il Bulgaroctono e ricevette in cambio la città di Sebaste (Sīvās) con il relativo territorio fino all'Eufrate.

L'Impero bizantino, risollevatosi da un'effimera decadenza, e abbastanza potente per opporsi all'avanzata selgiuchida, non poteva dimenticare che l'Armenia era stata in buona parte una provincia sua; onde, partito Sembat III e continuando ad Ani la dinastia dei Bagratidi con Gagik II (1042-1045), Costantino IX Monomaco volle avere tutto il principato armeno. Gagik, vinti i Turchi, cercò di resistere, ma, abbandonato dai feudatari guadagnati a prezzo d'oro, dovette rassegnarsi nel 1045 e accettare vasti possedimenti nei pressi di Cesarea, un palazzo sul Bosforo ed una pensione. Cercò poi di riconquistare il proprio regno, ma venne ucciso a tradimento nel 1079. Fu la fine della dinastia dei Bagratidi, se non della famiglia stessa. Gli attacchi dei Selgiuchidi, crudelissimi, non cessarono né sotto Ṭoghrul Beg né sotto il suo nipote Alp Arslān, accompagnati da immense stragi di cristiani Armeni e Greci. Finalmente, nel 1064, Alp Arslān prese Ani d'assalto, la saccheggiò e ne massacrò buona parte della popolazione. Non soltanto la bella capitale dei Bagratidi, con le sue mille chiese, alcune di purissimo stile armeno, era danneggiata senza speranza di rinascita, ma dopo varie invasioni e guerre di Curdi, di Georgiani, di Tartari e di Persiani, fu abbattuta nel 1320 da un terremoto. Gli abitanti emigrarono nel Caucaso, nella Crimea, nella Moldavia e fino in Polonia: le chiese armene della Moldavia e la cattedrale armena di Leopoli in Polonia sono imitazioni assai felici della cattedrale di Ani. La Grande Armenia, paese di montagne, con un feudalismo molto sviluppato, e diviso da interne discordie, troppo esposta alle incursioni dei musulmani, andò in rovina, rivelando nel suo carattere nazionale un particolarismo e uno spirito di divisione eccessivi.

3. I Rupenidi della Cilicia. - Tra i signori che avevano accompagnato Gagik II nella sua nuova residenza presso Cesarea si trovava un tale Rupen (Ruben), di stirpe nobile e forse imparentato con la famiglia reale dei Bagratidi. Vagheggiava l'idea di ristabilire l'indipendenza armena, non più ad Ani, cosa impossibile, ma nella Cilicia, provincia nella quale molti altri signori avevano formato feudi sotto l'alto dominio di Bisanzio. Spopolata dalle guerre continue, la Cilicia era nondimeno il baluardo dell'impero bizantino verso il Mezzogiorno, e perciò i sovrani di Costantinopoli vi incoraggiavano la formazione di staterelli tributarî i cui capi portavano il nome armeno di naxarar. Da uno di questi, Ošin, Rupen ottenne direttamente (1080) un piccolo feudo a titolo ereditario, la città di Lampron (Nimrūd Qal‛eh, allo sbocco delle Porte di Cilicia). Per quella gola passavano le carovane che portavano nell'interno dell'Asia Minore le merci sbarcate ad Ayās e in altri porti del Mediterraneo. I successori di Rupen, Costantino I (1095-1099) e Thoros (Teodoro) I (1099-1129) ingrandirono il piccolo dominio con l'aiuto di altri Armeni e a danno dei Bizantini. Nel 1098 vennero a passare per la Cilicia i Crociati di Goffredo di Buglione e Costantino comprese subito i grandissimi vantaggi politici e religiosi d'una sincera collaborazione con gli Occidentali. Costantino ricevette il titolo di conte, ma venne chiamato più spesso barone. Con l'aiuto dei Franchi, Thoros s'impadronì di quasi tutta la Cilicia e, vinto Malik Shāh, sultano selgiuchida di Iconio (Qōniyah), intraprese a sua volta la conquista del paese. Sotto Leone I (1129-1137) la lotta con i Selgiuchidi continuò e vi furono attriti anche con i Franchi di Antiochia, a causa di alcune città fortificate e della costa vicina al golfo di Alessandretta. L'imperatore Giovanni II Comneno invase allora la Cilicia, Leone fu vinto, condotto a Costantinopoli e il suo figlio primogenito Rupen accecato e finalmente ucciso. Dal 1137 al 1145 la Cilicia ritornò sotto il dominio bizantino, ma nel 1145 un altro figlio di Leone, Thoros II, educato a Bisanzio, fuggì in Cilicia, dove si fece conoscere. Ben presto, con l'aiuto dei suoi fratelli Stefano e Mleh, sollevò tutta la provincia, poté sottrarsi all'alto dominio di Mas‛ūd, sultano di Iconio, sobillato dai Bizantini, resistette alle spedizioni di Rinaldo di Châtillon, principe di Antiochia, e nel 1169 lasciò il baronato ad un figlio giovanissimo. Mleh, per dispetto, abbracciò l'islāmismo e con l'aiuto dell'emiro Nūr ad-Dīn di Aleppo, s'impossessò dell'eredità del fratello (1170-1175), ma fu ucciso dai proprî soldati a Sīs e sostituito dai signori armeni con un figlio di Stefano, Rupen II (1175-1187). Questi, stanco di lottare contro il sultano selgiuchida Qīlìǵ Arslān II, contro Boemondo III principe di Antiochia, e contro Hethum signore di Lampron sobillato dall'imperatore Manuele Comneno, si fece monaco e lasciò la signoria al fratello Leone II (1187-1196). Dopoché nel 1187 Saladino, sultano d'Egitto, ebbe conquistata Gerusalemme, la terza crociata, condotta dall'imperatore Federico Barbarossa, attraversò la Cilicia. Leone strinse alleanza con Federico, e, desideroso tanto di salvare il proprio stato quanto di ottenere la corona reale, iniziò trattative col papa, allora considerato come il supremo signore dell'Occidente, e con la corte di Bisanzio. Una cooperazione politica poteva fondarsi solo sull'accordo religioso: i Bizantini, al loro solito, si dimostrarono intransigenti, mentre Celestino III fu più condiscendente e, probabilmente il 6 gennaio 1199, Leone ricevette dalle mani del cardinale Corrado di Wittelsbach, arcivescovo di Magonza, la corona reale nella chiesa di S. Sofia di Tarso. Leone accettò, almeno in apparenza, tutte le condizioni imposte e si dichiarò vassallo dell'imperatore Enrico VI. Così ebbe principio il regno della Nuova Armenia o di Cilicia.

Leone II (1199-1219) fu il più illustre dei sovrani del nuovo regno. Fece ogni sforzo per domare la turbolenta nobiltà, senza riuscirvi del tutto; organizzò il regno sul modello dei principati franchi d'Oriente, ed introdusse la legislazione franca di Antiochia conosciuta sotto il nome di Assise d'Antiochia, che fece tradurre in armeno. Il commercio ebbe una ripresa, ed i primi ad approfittarne, con trattamento di favore, furono i Genovesi e i Veneziani. Alla sua morte, Leone lasciò il trono alla figlia Isabella, in tenerissima età, sotto la reggenza del bailo Costantino, signore di Lampron, il quale procurò il matrimonio di Isabella col proprio figlio Hethum, che nel 1226, salì al trono tenendolo fino al 1270. Costretto ad accettare l'alto dominio del sultano selgiuchida di Iconio, fece dapprima alleanza con tutti i principi dell'Asia Minore contro i Mongoli capitanati da Ginghīz Khān, ma, dopo la morte di quest'ultimo, allorché il di lui figlio e successore Oktai Khān invase il Caucaso e l'Asia Minore, Hethum, persuaso dell'inutilità di una resistenza, decise di sottomettersi ai Mongoli e si recò fino a Karakorum per prestare omaggio a Mangū Khān. Così poté essere risparmiato dall'invasione di Hūlāgū Khān (1257-1258); ma, partiti i Mongoli, il sultano mamelucco di Egitto, Baībars, ne approfittò per distruggere man mano tutti i principati latini d'Oriente. Nel 1268 Antiochia cadde e fu saccheggiata. Hethum ottenne la pace a condizioni molto dure e, stanco di regnare, si fece monaco.

Sotto il figlio e successore Leone III (1270-1289) continuarono, ad onta della pace giurata, i saccheggi degli emiri di Baibars nella Cilicia. La morte di Baibars (1277) non ricondusse la pace, ma, non ostante la sconfitta di Ḥomṣ (1281), Leone III ottenne una tregua di dieci anni, durante i quali il commercio e la cultura scientifica rifiorirono. Il regno di Hethum II (1289-1293) fu tutto occupato dalle guerre con i sultani d'Egitto. Scoraggiato, abdicò in favore del fratello Thoros (1293-1295), il quale strinse legami di amicizia con i Mongoli e anche con i Bizantini. Mentre Hethum era a Costantinopoli, scoppiò una rivoluzione di palazzo: Sembat, fratello di Thoros, usurpò la corona (1296-1298), uccise Thoros e più tardi acciecò Hethum. Uno dei principi reali, Costantino, che dapprima aveva appoggiato Sembat, s'impadronì a sua volta del potere (1298-1299), mise Hethum in libertà e si fece proclamare re. La cecità di Hethum era parziale: passati alcuni mesi, ricuperò la vista, e i nobili armeni lo pregarono di riassumere il potere, ciò ch'egli fece. Costantino e Sembat morirono in esilio a Costantinopoli. Una nuova invasione dei Mamelucchi d'Egitto venne respinta a Ḥomṣ (1299) con l'aiuto dei Mongoli, ma, quattro anni dopo, gli alleati furono vinti alla loro volta (1303). Nel 1305, Hethum lasciò il potere in modo definitivo, dopo aver fatto proclamare re il proprio nipote Leone IV (1303-1307). Sotto Leone IV fu celelebrato il concilio unionista di Sīs (1307-1308) per l'unione della chiesa armena con la romana, ma gli avversarî sobillarono i Mongoli e fecero uccidere Leone a tradimento. Ošin, fratello di Hethum, cacciò i Mongoli ormai indeboliti e venne proclamato re (1308-1320); parteggiava per l'unione con Roma e di fronte all'opposizione degli avversarî fece ricorso alla forza (1309-1310).

Dilaniato dalle discordie religiose e politiche, esposto continuamente alle incursioni dei sultani d'Iconio e dei Mamelucchi d'Egitto, il regno di Cilicia non aveva altro appoggio se non in quello di Cipro, l'unico principato latino rimasto in Oriente. Invano i papi eccitavano i principi occidentali ad una nuova crociata: nessuno in Occidente s'interessava del regno armeno di Cilicia, e di più il giovane figlio di Ošin, Leone V (1320-1342), era perverso e crudele. Assassinato a trentadue anni, non lasciava eredi diretti: la corona passò al parente più prossimo, Guido di Lusignano, il quale prese il nome di Costantino II (1342-1344). Ma Guido Costantino di Lusignano era Latino: aveva accettato il trono di Armenia a malincuore, lo difese bene contro i musulmani, ma volle rafforzare l'unione con Roma e con ciò irritò quei signori che già parteggiavano per una pace condizionata con i Selgiuchidi e con i Mamelucchi. Fu ucciso, e a suo successore venne eletto Costantino III (1344-1363) che aveva con la dinastia reale solo lontana parentela. Continuò le trattative con Roma per l'unione e radunò un nuovo concilio a Sīs (1345) in cui furono discussi centodiciassette errori attribuiti agli Armeni: in realtà, erano in buona parte o del tutto immaginarî, o prettamente locali, o erano divergenze disciplinari senza importanza. D'altra parte, i domenicani armeni o unitarî (v.) distruggevano il rito nazionale armeno per sostituirvi quello del loro ordine. Tutto questo rendeva l'unione poco simpatica, anzi odiata, e complicava la questione politica. Il modo con cui fu condotta l'unione, l'opposizione che suscitò, sono da annoverare fra le cause della rovina del regno di Cilicia.

Nel 1363, Costantino IV morì senza prole. Una parte degli Armeni si rivolse al papa Urbano V, il quale designò Leone di Lusignano, stretto parente del re di Cipro, Pietro. Ma un altro partito armeno proclamò Costantino IV (1365-1373), figlio di Hethum. Nell'interesse comune, Pietro di Cipro accettò il fatto compiuto e fece tutto il possibile per soccorrere gli Armeni, recandosi a questo scopo in Europa. Non ottenne nulla né da Venezia, né da Genova, né dagli Aragonesi, preoccupati unicamente degl'interessi rivali del loro commercio con i musulmani. E fu assassinato al suo ritorno in Cipro prima di aver potuto passare in Cilicia. Alla sua volta, Costantino IV venne ucciso da sudditi ribelli, e al suo posto salì al trono Leone VI di Lusignano (1374-1375), lo stesso che era stato già proposto da Urbano V, e che era stato educato a Cipro e vi abitava. Con grandissime difficoltà riuscì a sbarcare e ad impossessarsi di Sīs, unica città rimasta, insieme con Anazarba e con alcuni castelli nelle vicinanze, libera dal dominio musulmano dei sultani d'Egitto e degli emiri turcomanni. Leone VI fu l'ultimo re di Cilicia; dapprima volle assolutamente essere incoronato secondo il rito romano, poi soltanto secondo il rito armeno: fatto che suscitò molti malcontenti. Il katholikos Boghos (Pōłos) (1374-1378) vide in questo fatto e nelle disposizioni dell'infelice sovrano la certa rovina della chiesa armena e fu il principale capo di una congiura che doveva consegnare Sīs ai Turcomanni e all'emiro di Aleppo, più o meno dipendenti dai Mamelucchi. Il tradimento era dappertutto: la città fu presa, Leone VI ferito; rifugiatosi nel castello, dovette arrendersi e fu condotto prigione al Cairo (1375). Rimase al Cairo trattato umanamente fino al 1382: in quell'anno, avendo potuto mandare in Europa un francescano francese che gli procurò il riscatto dai re di Castiglia e Aragona, lasciò l'Egitto, venne in Europa, fu pensionato da più sovrani e morì a Parigi il 29 novembre 1393.

L'Armenia dopo la perdita dell'indipendenza (1375-1929). - Caduti gli ultimi baluardi dell'indipendenza armena, Ani e il regno di Cilicia, il popolo armeno non ha più avuto esistenza politica se non attraverso la sua chiesa, e quindi la sua storia civile si confonde con quella religiosa. Nondimeno alcuni fatti salienti sono da mettersi in rilievo.

I Selgiuchidi si erano impadroniti di Ani e di tutta la Grande Armenia: caddero a loro volta sotto il dominio effimero dei Mongoli di Ginghīz Khān dal 1206, e di Tīmūr Leng (Tamerlano) dal 1387. Nel 1473 vennero i Turchi Osmanli con Maometto II. Durante tutto il sec. XVII o quasi, l'Armenia fu disputata tra Turchi e Persiani, e nel 1605 Shāh ‛Abbās di Persia fondò vicino ad Ispahān un sobborgo intieramente popolato da Armeni colà trasportati a forza, la Nuova Giulfā. Benevolo verso gli Armeni, affidò il governo delle provincie strappate ai Turchi, a governatori armeni chiamati melik "re", designazione d'origine araba rimasta poi in uso col senso sinonimo di primario.

I successori di Shāh ‛Abbās non ebbero verso gli Armeni i medesimi sentimenti, ed allora si fece strada nella nazione oppressa il desiderio dell'indipendenza. Nel 1678 il katholikos di Eǧmiadzin Hakob IV radunò in segreto una assemblea di melik armeni e si convenne di mandare in Europa una deputazione per implorare l'aiuto di diversi principi, cominciando dal papa. Il katholikos stesso doveva recarsi a Roma. Morì durante il viaggio, a Costantinopoli: gli altri si scoraggiarono e solo un giovane di diciannove anni, di nome Ori, continuò il viaggio per conto proprio: passò a Venezia, poi in Francia, e finalmente in Germania, abboccandosi (1698) con Giovanni Guglielmo, principe elettore del Palatinato (1690-1716). Tornato in Oriente, ricevette una nuova missione. Il papa Innocenzo XII (1691-1700) non poté far nulla per gli Armeni, e Giovanni Guglielmo rimandò i delegati all'imperatore Leopoldo I, il quale diede il consiglio di rivolgersi allo zar, allora Pietro il Grande. Ori, incaricato da parte dello zar di una missione presso lo scià, morì ad Astrakhan senza aver concluso nulla (1711). Allora i melik si sollevarono sotto il comando di David Beg, il quale ebbe per alcuni anni un principato semi-indipendente sotto l'alto dominio della Persia. Ma alla sua morte il suo luogotenente Mechitar (Mxithar) venne ucciso dagli Armeni stessi (1730). Durante la prima metà del sec. XVIII continuarono le guerre fra Turchi e Persiani per il possesso dell'Armenia. Nel 1768 scoppiò la guerra tra Persiani e Russi, dapprima senza risultati per gli Armeni, ma nel 1797 tutto il tratto di paese all'ovest del Mar Caspio passò sotto il dominio russo, e l'occupazione di fatto diventò regolare con la pace del Gulistān (1813). Dopo una nuova guerra con la Persia, il trattato di Turkman Ciāi (1828) diede alla Russia i distretti di Ani e di Erivan, quindi Eǧmiadzin. Il generale Paskevič era andato molto più oltre nell'Asia Minore, ma il trattato di Adrianopoli (1829), imposto dalle potenze europee, contrarie ad un troppo rapido indebolimento dell'Impero ottomano, ritardarono la liberazione del resto dell'Armenia. Dopo la guerra del 1877, il trattato di Santo Stefano (1878) lasciò alla Russia i nuovi distretti di Kars (Qārṣ) e di Batum (Baṭūm).

In Turchia, riforme furono promesse da ‛Abd ul-Megīd (v.) col khaṭṭ-i sherīf di Gül-khāneh (1839) e diedero inizio al periodo conosciuto sotto il nome di tanẓīmāt, cioè "riforme", sempre più teoretiche che pratiche. Il khaṭṭ-i humāyūn del 1856, proclamato dallo stesso ‛Abd ul-Megīd e nel medesimo senso, fu applicato meglio. Qualche miglioramento venne anche dalla nuova organizzazione dell'impero in vilāyet o governatorati generali, ma sempre con preponderanza dell'elemento musulmano, anche là dove i cristiani erano la maggioranza (1864). Nel 1863, sempre in conseguenza del medesimo movimento di riforme, vennero approvati dal sultano ‛Abd ul-‛Azīz i Regolamenti generali del Patriarcato armeno di Costantinopoli, cioè lo statuto civile e personale della comunità gregoriana.

Gli Armeni abitavano principalmente i sei vilāyet di Erẓerūm, Bitlīs, Vān, Sīvās, Ma‛mūret ul-‛Azīz e Diyār Bekir, e la questione delle riforme in questi vilāyet occupò la diplomazia durante tutto l'ultimo quarto del sec. XIX, senza grandi risultati perché il nuovo sultano ‛Abd ul-Ḥamīd II (v.) aveva per sistema di promettere sempre e non mantenere mai. Uno dei consiglieri di Miḍhat Pascià, l'ispiratore della costituzione ottomana del 1876, era l'armeno Grigor Odian, ma la costituzione non venne applicata se non in modo effimero. Nel 1860, gli Armeni delle montagne del Zeitūn, che avevano conservato sempre più o meno la loro indipendenza, si erano sollevati di nuovo: ci volle una decina di anni per ridurli all'obbedienza. Tante promesse, non mai eseguite, avevano irritato al sommo il sentimento nazionale armeno, che man mano andava sviluppandosi al contatto dell'Occidente. Nel 1887-1890 furono fondati comitati rivoluzionarî modellati sui comitati nihilisti russi: Hnčak ("la campana", nome del famoso Kolokol di Herzen) e Dašnakc̣uthiwn "la federazione". Sarebbe stato meglio aspettare l'immancabile evoluzione delle idee: alla violenza rispose la violenza. ‛Abd ul-Ḥamīd organizzò i Curdi in battaglioni speciali col compito di inquietare e di vessare gli Armeni, e nell'agosto-settembre 1894 avvenne un primo massacro. La Francia, l'Inghilterra e la Russia avendo chiesto per mezzo di una precisa nota diplomatica riforme serie per i sei vilāyet armeni, il sultano cercò di sottrarsi: ne seguì una manifestazione a Costantinopoli, alla quale rispose un altro massacro, ben presto seguito da stragi generali che durarono due anni (1895-1896). Quasi centomila Armeni furono massacrati dopo l'attentato degli Hinčakisti contro la Banca ottomana a Costantinopoli (agosto 1896). L'altro comitato rivoluzionario, il Dašnakc̣uthiwn, si mise d'accordo con i Giovani Turchi per assicurare il ripristino della costituzione del 1876 (1908), ma, vincitori, i Giovani Turchi risposero con i massacri di Adana (1909). Durante le guerre balcaniche, i comitati rivoluzionari rimasero tranquilli, ma gli Armeni credettero venuto il momento per domandare ufficialmente, per mezzo di una delegazione, serie riforme presso le potenze. Già decisi a fare della Turchia uno stato unicamente turco, i Giovani Turchi ne presero pretesto per preparare una strage in massa del popolo armeno che poté svolgersi durante la guerra mondiale (1915-1920). Tanto da una parte quanto dall'altra le cifre delle vittime sono state esagerate sia in più, sia in meno: tuttavia si può dire che un terzo della popolazione armena di Turchia, ossia 600.000 persone, è stato massacrato, un altro terzo deportato, ciò che significa spesse volte la morte per cattivi trattamenti, malattie, carestia, e l'ultimo terzo ha potuto fuggire ed emigrare un po' dappertutto. Lo scopo dei Giovani Turchi era di sbarazzarsi dei due popoli cristiani dell'Asia Minore: i Greci e gli Armeni: vi sono riusciti. Però, un nucleo ancora importante di Greci e di Armeni è rimasto a Costantinopoli e nelle vicinanze. Aboliti tutti i privilegi delle comunità cristiane, sono cittadini turchi come i Turchi stessi, ma le amministrazioni fanno tutto il possibile per eliminarli alla spicciolata. L'avvenire dirà se la Turchia è capace di sviluppo senza l'aiuto delle due razze che attraverso i secoli hanno assunto la cura del commercio, e talvolta hanno dato un numeroso stuolo di funzionarî subalterni che i Turchi erano incapaci di trovare nelle proprie file.

In Russia, lo sfacelo dell'impero degli zar portò alla fondazione, nell'aprile 1918, di una Federazione transcaucasica, ben presto divisa in repubbliche sovietiche. Quella di Armenia fu riconosciuta da Mosca il 13 ottobre 1921 e fa parte della "Repubblica socialista federale del Transcaucaso". Ha per capitale Erivan, ma è piccolissima di estensione ed è costretta a seguire tuite le vicissitudini dell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche.

L'emigrazione armena, che è stata sempre grande, si è ancora intensificata dopo tanti sconvolgimenti. Gli Armeni sono numerosi in Siria, in Egitto, in Grecia, in Bulgaria, in Romania, in Francia, in Inghilterra, nelle due Americhe, nelle Indie, a Giava; in Italia però sono pochi, quasi tutti studenti, chierici, orfani ed orfane.

Bibl.: Gli Armeni hanno pubblicato molto per il proprio uso e nella propria lingua, ma si sono poco curati di farsi conoscere agli altri popoli, compresi gl'Italiani, pur avendo a Venezia nell'isola di S. Lazzaro uno dei loro principali centri culturali. Inoltre la conoscenza della lingua armena è indispensabile a chi voglia intraprendere un qualsiasi studio basato sulle fonti originali, tutto non essendo stato ancora tradotto. Del resto, al di fuori di missionarî come Piromalli, Galano, e nel sec. XIX il sacerdote veneziano Cappelletti, gli studiosi italiani di cose armene sono ben pochi, e non esiste affatto una letteratura; quindi è necessario attingere a pubblicazioni estere.

Un manuale completo di storia armena molto ben fatto, salvo qualche inesattezza riguardo alle cose religiose anche armene, abbiamo in J. de Morgan, Histoire du peuple arménien, Parigi-Nancy 1919, che contiene preziose tavole cronologiche. La grande Storia armena (in armeno) del mechitarista veneziano Michele Ǧamǵean, che va fino al 1784, e fu pubblicata il medesimo anno a Venezia in tre grossi volumi, è stata compendiata e tradotta in inglese da J. Avdall, History of Armenia from B. C. 2247 to the year of Christ 1780, voll. 2, Calcutta 1827; antiquata in molte cose, è nondimeno ancora da consultarsi. - Il gesuita francese F. Tournebize ha pubblicato sotto il titolo di Histoire politique et religieuse de l'Arménie depuis les origines des Arméniens jusqu'à la mort de leur dernier roi (l'an 1393), Parigi, s. a. (circa 1900) un saggio di storia generale della nazione che non può venire negletto. - L'opera di K. J. Basmadijan, Histoire moderne des Arméniens depuis la chute du royaume jusqu'à nous jours (1375-1916), Parigi 1923, è buona, ma non oltrepassa la mole di un manualetto. - Ottima monografia quella di J. Laurent, L'Arménie entre Byzance et l'Islam, in Bibliothèque des Écoles françaises d'Athènes et de Rome, 117, Parigi 1919; va dalla conquista araba fino all'anno 886.

Per il periodo trattato, una collezione di traduzioni degli storici armeni era stata iniziata a Parigi nel 1858 da Edouard Dulaurier (morto nel 1881): Bibliothèque historique arménienne ou choix des principaux historiens arméniens traduits en français. Il vol. I soltanto è comparso: contiene Matteo di Edessa (962-1136) ed il suo continuatore Gregorio Erēc̣ (1136-1162), con note numerosissime. - Similmente M. F. Brosset ha pubblicato a Pietrogrado nel 1874-1876 una Collection d'historiens arméniens in due voll. - Per la storia dei Rupenidi di Cilicia, buona parte delle fonti sono raccolte da E. Dulaurier nei due volumi di Documents arméniens del Recueil des Historiens des Croisades pubblicato dall'Istituto di Francia, Parigi 1869 e 1906. - Una bibliografia abbastanza completa degli storici armeni tradotti in lingue europee si trova nell'opera di H. F. B. Lynch, Armenia, travels and studies, Londra 1901, II, pp. 488-491, con la relativa letteratura. La bibliografia generale della medesima opera, pp. 471-496, non è esauriente. - Si può ancora consultare con profitto F. Nève, L'Arménie chrétienne et sa littérature, Lovanio 1886. L'Essai d'une notice bibliographique sur la question d'Orient, di Georges Bengesco, Parigi-Bruxelles 1897, abbraccia soltanto l'Oriente europeo e non parla se non per incidenza di opere riguardanti gli Armeni. Molti libri recensiti e monografie varie nei volumi della Revue des Études arméniennes, Parigi dal 1920. In italiano, occorre indicare la monografia di Anatolio Latino (pseudonimo del console Errico Vitto), Gli Armeni e Zeitun, Firenze 1897: narrazione degli avvenimenti del Zeitūn dal 1860. - V. anche Oriente moderno, dal 1921 in poi.

Le operazioni in Armenia durante la guerra mondiale.

Nell'ottobre-novembre 1914 i Russi (generale Judenič) avanzarono su Erẓerūm. Nel dicembre i Turchi (Kiāmil Pascià) respinsero i Russi, i quali però, ricevuti rinforzi, sconfissero il IX corpo d'armata ad Ardahan e l'XI a Sari Qamish. La guerra per tutto il 1915 entrò in un periodo di stasi. In Mesopotamia però il generale inglese Townshend era battuto dai Turchi (comandati dal maresciallo tedesco von der Goltz) a Ctesifonte (22 novembre 1915). Gl'Inglesi furono costretti a rinchiudersi a Kut-el-Amara (100 chilometri a sud di Baghdād). Nel gennaio 1916 il granduca Nicola Nikolaevič, nominato sin dal settembre comandante nel Caucaso, dopo accurati preparativi, fece riprendere l'offensiva, sorprendendo i Turchi. I Russi si impadronirono rapidamente del campo trincerato di Erẓerūm (16 febbraio), di Trebisonda e oltrepassando la catena del Tauro si spinsero sino all'alto Tigri. Più ad est intanto altre forze russe (generale Baratov) invadevano la Persia, giungendo sino a Khāneqīn (150 chilometri a nord est di Baghdād). Forze inglesi risalivano il Tigri, in soccorso del Townshend; esse nel marzo giunsero a 10 chilometri da Kut-el-Amara, ma non riuscirono a superare la resistenza dei Turchi, talché il generale Townshend dovette arrendersi per fame a Kut-el-Amara (13 mila prigionieri). Intanto la Turchia aveva potuto, dopo che l'intesa abbandonò l'impresa dei Dardanelli (dicembre 1915), rinforzare la sua fronte in Asia, e mentre il Baratov doveva ripiegare di oltre 200 km. (sino a N. di Hamadān), le forze russe in Armenia ripassavano il Tauro, stabilendosi sulla linea: lago di Vān, ovest di Trebisonda. Mentre nel 1917 una nuova spedizione inglese (generale Maude) batteva i Turchi ed occupava Baghdād (25 febbraio), in Armenia le forze avversarie non intrapresero operazioni, paralizzati i Turchi dalla mancanza di viveri, i Russi dalla rivoluzione.

Nel 1918 il trattato di Brest-Litovsk assegnava ai Turchi Baṭūm, Ardahan e Qārṣ che furono da essi occupate. I Turchi però, guidati da Nūrī, fratello di Enver bey, cercarono di estendere la loro supremazia anche sulla Georgia e sul paese e sui territorî della Persia limitrofi al Caspio, ricacciando un tentativo di sbarco a Bākū intrapreso dagl'Inglesi con truppe imbarcate ad Enzeli (estremità sud-occidentale del Caspio). Le mire turche sulla stessa regione si urtarono con quelle della Germania, la quale inviò nell'estate in sostegno della nuova repubblica della Georgia, insidiata dai bolscevichi e dai Turchi, una divisione rinforzata che la situazione militare obbligò però a richiamare alla fine di settembre.

Gl'Inglesi (guidati dal generale Marshall, successo a Maude morto nel novembre 1917), risalirono vittoriosamente prima l'Eufrate poi il Tigri, entrando a Mossul il 31 ottobre, il giorno dopo che la Turchia era stata costretta a capitolare a Mūdros.

Piccola Armenia.

Designazione medievale (v. p. es., Marco Polo), ancora usata talvolta, di quella parte dell'Anatolia sud-occidentale che formò sotto la dinastia dei Rubenidi il regno cristiano di tal nome (secoli XI-XIV). A distinguerlo dall'Armenia minor degli antichi, comprendente la regione situata ad occidente dell'altipiano armeno, fra l'Eufrate e il Ponto, si preferisce da qualche autore dare allo stato medievale il nome di Nuova Armenia o Armenia inferiore. Corrispondeva all'attuale vilāyet d'Adana (Cilicia) e a parte dei distretti di Malāṭiah e Mar‛ash (Commagene). Risultato e testimonianza del dominio armeno, oltre ai molti residui architettonici, erano, sino alla vigilia della guerra mondiale, le numerose colonie armene a Tarso, Adana e specialmente intorno a Sīs (l'ultima roccaforte del regno cristiano), Hācīn, Zeitūn, e fino alla confluenza del Murād con l'Eufrate. Già nel 1890 il Bent (in Verhandl. d. Berliner Ges. f. Erdkunde) notava che i gruppi meridionali erano in gran parte snazionalizzati: il nucleo di Zeitūn si manteneva invece assai bene e aveva conservato persino una certa autonomia politica. Si ignora in quali condizioni si trovino le colonie dopo i massacri e le deportazioni avvenute nei primi anni della guerra.

L'Armenia repubblica sovietica.

Solo una piccola parte del territorio che etnograficamente e storicamente formava l'antica Armenia, è oggi costituito in repubblica sovietica socialista autonoma (Hayastan), che fa parte della repubblica federativa sovietica della Transcaucasia. Alla prima dichiarazione di indipendenza (22 aprile 1918), seguì l'unione provvisoria con la Georgia e l'Azerbaigian, e nel 1922 la costituzione attuale entro la grande federazione sovietica della Russia interna. Col trattato di Mosca, del 1921, il nuovo stato cedeva alla Turchia i distretti di Qārṣ e Ardahan. Dopo tale cessione esso comprende le due elevate conche contigue di Erivan e del lago Gökcia (Sevan), parte dei declivî montani digradanti a N. verso la valle del Kurà, e una striscia di territorio (valli superiori del Bāzār Ciāi e del Chaundur) conducente, fra i territorî politicamente autonomi del Nachičevan (Naxǧuan) e del Qarah Bāgh, alla bassa valle dell'Arasse. L'area è calcolata a circa 34.000 kmq., la popolazione a 876.000 ab. (25,8 ab. per kmq.).

Il territorio della repubblica è costituito in prevalenza dì terre elevate e i suoi principali prodotti sono dati dalla cerealicoltura (frumento, orzo, segale, avena) e dall'allevamento. Le statistiche della delegazione della repubblica armena dei sovieti (1926) assegnano il 32% del suolo ai terreni incolti, il 10% alle foreste, il 40% ai pascoli alpestri e il 18% alle coltivazioni: l'85% di questa ultima area è occupato dalle colture granarie. Nella valle dell'Arasse e nelle porzioni più fertili della conca di Erivan si coltivano inoltre il cotone (800.000 pudi annui), riso di ottima qualità, la vite. La raccolta dell'uva si calcola a 87.000 tonn. e alimenta numerose grandi distillerie di acquavite (kamarlu). Un certo sviluppo ha pure la sericoltura (15.000 kg. di seta greggia esportata). Rinomata è una qualità di meloni, detta dutna, che compete per aroma e dolcezza col melone di Ciārgiū (Turkestān).

Il bestiame, principale ricchezza del paese, conta quasi 3 milioni di capi. Agli ovini sono dedicate le cure maggiori: essi comprendono la pecora siriana (localmente detta caucasica), la razza russa e anche meticci merinos a coda grassa. Il montone indigeno è rustico, resistente al freddo e pesa in media 16 kg., senza il cuscinetto adiposo. I bovini sono tutti importati dalla Russia. I cammelli, allevati dai Tatari, appaiono di forme piuttosto scadenti. I cavalli appartengono per lo più alla celebre razza "di Qarah Bāgh", dal corpo armonioso e dal mantello di colore giallo cupo, scintillante all'estremità del pelo, onde il nome di cavalli "dorati".

Le sole industrie che abbiano, per ora, qualche sviluppo, sono quelle alimentari e tessili. Prodotti minerali (rame, manganese, piombo argentifero) suscettibili di sfruttamento sono segnalati in varî punti del territorio.

I centri maggiori sono: Erivan, la capitale, sede del Comitato esecutivo centrale (90 membri eletti dal Congresso sovietico), del Consiglio dei commissarî del popolo e della nuova università (1921); Eğmiadzin, a 22 km. a O. della capitale, centro religioso ed educativo degli Armeni, sede del katholikos; Leninakan (Alexandropol, Gumri); Nuova Bajazid presso il lago Gökcia.

Da Tiflis la ferrovia, costruita dai Russi nel 1900, entra nel territorio armeno risalendo la valle del Borchala, affluente del Kurà, e sbocca poco a N. di Leninakan: di qui segue le valli dell'Arpah Ciāi e dell'Arasse, con diramazione per Erivan, sino a Nachičevan e al confine persiano.

La popolazione del nuovo stato è assai omogenea, risultando costituita in massima parte da Armeni (86%) con poco rilevanti minoranze di Tatari (9,8%), Russi (2,4%) e altre nazionalità (1,8%).

V. anche transcaucasia e la bibl. ivi riportata.

TAG

Unione delle repubbliche socialiste sovietiche

Basilio ii il bulgaroctono

Trattato di brest-litovsk

Trattato di santo stefano

Costantino ix monomaco