Armamenti

Enciclopedia del Novecento I Supplemento (1989)

ARMAMENTI

Stefano Silvestri
Barbara Hatch Rosenberg

Armamenti di Stefano Silvestri

sommario: 1. Le spese militari. 2. Un confronto Stati Uniti-Unione Sovietica. 3. L'evoluzione degli armamenti nucleari. 4 I sistemi difensivi e la SDI. 5. I sistemi convenzionali. 6. Problemi e priorità. □ Bibliografia.

1. Le spese militari

Nell'ultimo decennio si è registrata un'imponente evoluzione qualitativa degli armamenti nucleari e di quelli convenzionali e si è confermata la tendenza al riarmo da parte dei paesi del Terzo Mondo. Stando alle cifre elaborate dal SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), un istituto specializzato nell'analisi dei fenomeni militari, nel periodo 1980-1985 il mondo ha realizzato una crescita media del Prodotto Interno Lordo (PIL) pari al 2,4% l'anno. Nello stesso periodo tuttavia le spese militari sono cresciute in ragione del 3,2% l'anno. La maggiore divaricazione si è verificata nel corso del 1982 (0,8% di crescita del PIL contro 6,1% di crescita delle spese militari), ed è largamente imputabile da un lato alla recessione mondiale, in seguito all'aumento dei prezzi del petrolio, e dall'altro alla forte crescita impressa dall'amministrazione Reagan alle spese per la Difesa. Infatti se si guarda ai dati relativi ai paesi industrializzati a economia di mercato, si vede che in quell'anno essi registrarono una diminuzione del PIL (−0,2%) e un drastico aumento delle spese per la Difesa (+6,2%).

Un altro aumento impressionante è quello registrato dai paesi in via di sviluppo, in particolare all'inizio degli anni ottanta. Nel 1981 ad esempio essi accrescevano le loro spese militari del 7,4% (mentre il PIL cresceva dell'1,6%) e nel 1982 del 12,6% (il PIL solo dello 0,5%). Ma negli anni successivi la crisi economica costringeva questi paesi a diminuire le loro spese, −0,3% nel 1983, −2,6% nel 1984 e −0,8% nel 1985. Il totale mondiale delle spese militari per il 1985, in dollari, varia a seconda delle stime e oscilla tra 674 e 762 miliardi di dollari (valutazione questa fornita da un ente governativo americano: l'Arms Control and Disarmament Agency, ACDA).

Questi dati sono necessariamente parziali, perché non è possibile conoscere con precisione il livello reale delle spese militari dei paesi del blocco socialista (URSS in testa). Secondo il SIPRI, che si basa però unicamente sui dati ufficiali forniti da quei paesi, le spese per la Difesa dei paesi a economia pianificata, nel quinquennio considerato, sarebbero cresciute solo dello 0,3% l'anno. Una tale cifra non è credibile, a fronte della quantità e della qualità delle armi effettivamente ‛acquisite', delle guerre in corso (ad esempio in Afghanistan) e degli impegni internazionali assunti da questi paesi. Tuttavia non vi è accordo, tra gli esperti occidentali, sul modo migliore per calcolare l'effettivo andamento della spesa militare di questi paesi.

La maggior parte degli osservatori occidentali ritiene che in realtà le spese militari dell'URSS (includendo tra queste tutte quelle spese che normalmente rientrano nei bilanci occidentali della Difesa, e non altre) sono contenute all'interno di una ‛forchetta' pari al 12-17% del PIL sovietico. Le cifre ufficiali sovietiche ammettono solo una spesa di 19,063 miliardi di rubli (pari a 22,26 miliardi di dollari), che equivarrebbe al 3,27% del PIL, per il 1985. Poiché questa cifra è rimasta pressoché invariata (a 17,054 miliardi di rubli) dal 1981, ed è stata ora nuovamente congelata al nuovo livello a partire dal 1985, senza tenere in alcun conto l'aumento dei costi, ammesso dagli stessi Sovietici, e l'alto numero di nuove armi entrate in servizio, bisogna necessariamente concluderne che essa non ha neppure un valore indicativo. Comunque, malgrado molte incertezze e frequenti revisioni dei calcoli (la sola Central Intelligence Agency americana, CIA, negli ultimi dieci anni ha cambiato per ben tre volte i criteri di valutazione delle spese militari sovietiche, perché insoddisfatta dei precedenti, e altrettanto hanno fatto la Defense Intelligence Agency e molti analisti indipendenti), sembrerebbe di poter concludere che il bilancio sovietico della Difesa, nell'ultimo decennio, è aumentato in media almeno del 2% l'anno, e assorbe il 15-17% del PIL (il che, nel 1985, lo farebbe oscillare tra 87 e 99 miliardi di rubli, mentre la CIA parla invece di una spesa equivalente a circa 120 miliardi di rubli).

La crescita delle spese per gli armamenti ha trasformato i rapporti di forza all'interno della stessa Alleanza Atlantica. Per comprendere questo punto basta fare riferimento alla tab. I, espressa in miliardi di dollari, a prezzi costanti del 1980 (depurati cioè dell'inflazione e di alcune variazioni del cambio).

Tabella 1

In sintesi la tab. I evidenzia che nel 1972 gli alleati europei degli Stati Uniti spendevano per la loro Difesa una cifra pari al 57,68% di quella americana. Nel 1980, alla fine della presidenza Carter, era stata raggiunta quasi la parità (le spese europee erano pari all'80,41% di quelle americane), mentre nel 1985 il divario si è addirittura accresciuto e le spese europee hanno rappresentato solo il 42,79% di quelle americane.

2. Un confronto Stati Uniti-Unione Sovietica

Negli ultimi anni si è registrata anche una significativa evoluzione nei rapporti di forza tra le due superpotenze. Lo studio più completo in materia è stato condotto da John M. Collins, per il Congressional Research Service degli Stati Uniti, nel 1985. Come ogni sforzo comparativo tra una realtà relativamente più conosciuta, come gli Stati Uniti, e una realtà molto più chiusa e misteriosa, come l'Unione Sovietica, esso può essere ampiamente criticato o rivisto, ma è comunque utile per indicare almeno alcune linee di tendenza generali.

Nel 1960 gli Stati Uniti erano largamente superiori all'URSS in campo tecnologico, ma già avevano alcuni problemi su un piano meramente quantitativo. Per quel che riguarda il personale sotto le armi, ad esempio, l'URSS manteneva in uniforme 3.623.000 uomini, contro i 2.476.000 degli Americani. Tuttavia gli Stati Uniti avevano una chiara superiorità in campo nucleare strategico, nelle forze navali e nelle forze mobili. In campo aeronautico disponevano di un maggior numero di moderni cacciabombardieri e intercettori.

Nel 1980 lo squilibrio nel numero dei soldati si era accresciuto: 4.368.000 sovietici contro 2.024.000 americani; le forze nucleari strategiche erano grosso modo in equilibrio (era l'anno immediatamente successivo all'accordo SALT II), il vantaggio statunitense in campo navale sussisteva, ma tutti gli altri erano fortemente erosi o addirittura rovesciati. Nel 1985, dopo alcuni anni di forti investimenti in campo militare, la situazione era quella sintetizzata nella tab. II.

Tabella 2

Le cifre della tab. II vanno interpretate, naturalmente, con buon senso. Gli Stati Uniti hanno una collocazione strategica molto diversa da quella sovietica, e questo spiega la loro minore enfasi sulle forze terrestri e sulle forze di difesa aerea (enfasi che peraltro tende a rovesciarsi proprio in questi anni, con la Strategic Defense Initiative - SDI, iniziativa di difesa strategica - di cui si parlerà più avanti); puntano invece sulle forze mobili e su quelle navali. Le cifre assolute spesso nascondono realtà qualitative molto diverse (ad esempio nel campo dei sottomarini d'attacco e in genere di tutte le forze aeree e navali), tutte a vantaggio degli Stati Uniti. E infine tutti questi paragoni vengono completamente rivoluzionati se invece di limitarsi a un raffronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica si guarda globalmente alle forze dell'Alleanza Atlantica e del Patto di Varsavia: la componente convenzionale delle forze europee occidentali è infatti molto notevole e importante, e se anche in alcuni casi (come ad esempio nel numero dei carri armati) non riesce a rovesciare l'equilibrio a suo vantaggio, essa è comunque tale da assicurare una certa equivalenza complessiva.

Il punto fondamentale che si deve sottolineare, tuttavia, è lo sforzo certamente imponente compiuto in questi anni da un paese relativamente ‛povero' come l'Unione Sovietica per assicurarsi, ovunque possibile, dei margini di vantaggio militare sugli Stati Uniti e per accrescerli, anche là dove già poteva vantare un forte vantaggio iniziale.

3. L'evoluzione degli armamenti nucleari

Questa tendenza è evidente nel campo degli armamenti convenzionali, ma è significativa anche per quel che riguarda gli armamenti strategico-nucleari. In questo settore l'evoluzione più impressionante è stata quella qualitativa: il numero dei vettori (missilistici o aerei) non è cresciuto di molto, mentre è cresciuto il numero delle testate che questi vettori possono portare, ed è altresì cresciuta la loro precisione. Secondo una nota formula, la capacità di una bomba nucleare di distruggere un obiettivo militare rafforzato (come ad esempio un silos che contiene un missile avversario) è espressa con la lettera K, e si determina dividendo i 2/3 della potenza esplosiva teorica della testata nucleare, espressa in megatoni, per il quadrato del CEP (errore circolare probabile, espresso in miglia marine). Il CEP è il raggio del cerchio entro il quale si presume cadano almeno il 50% delle testate lanciate. Anche questo cenno basta per comprendere come K sia influenzata più fortemente dal CEP che dalla potenza esplosiva, o almeno che, per compensare una imprecisione doppia, la potenza esplosiva dell'ordigno nucleare deve essere quanto meno quadruplicata. Ebbene, il CEP (in metri) delle principali armi missilistiche americane basate a terra (ICBM) era nel 1963 (Titan 2) pari a 1.300 e nel 1980 (Minuteman III) era sceso a 220; con il nuovo missile MX (LGM 118 Peacekeeper) scende a 100. Missili sovietici degli anni sessanta (SS 11 e SS 13) hanno CEP oscillanti fra i 1.100 e i 1.800 metri, mentre quelli più moderni (SS 18 e SS 19) scendono fino a 250. Il nuovissimo SS 25 dovrebbe arrivare a 200 circa. La stessa evoluzione hanno avuto i missili balistici lanciati da sottomarini (SLBM). Il CEP del Trident C 4 americano è inferiore ai 450 metri. I Sovietici in questo campo sono ancora abbastanza arretrati, ma sono comunque passati dai 1.500 metri degli SS N8 ai circa 900 metri degli SS N18. Tutto dipende in realtà da quello che si vuole colpire. Un CEP di circa un chilometro è del tutto irrilevante se l'obiettivo è una grande città o un altro obiettivo vulnerabile e indifeso; diviene invece un grosso problema quando si vuole distruggere un obiettivo piccolo, ben difeso e rafforzato.

Un altro aspetto essenziale dell'evoluzione degli armamenti nucleari è rappresentato dalla moltiplicazione delle testate portate da un singolo vettore. Il caso classico è quello del bombardiere, un aereo che può trasportare un certo numero di bombe e/o di missili di vario tipo. Ma anche nel caso dei missili balistici vi sono stati notevoli cambiamenti, connessi alla loro crescente precisione e ai progressi nel campo della miniaturizzazione, dei carburanti e dei materiali; tali cambiamenti hanno permesso di sostituire le vecchie e pesanti testate nucleari originarie con un ‛bus' o contenitore, in cui sono racchiuse più testate che a un certo punto, durante la traiettoria di rientro, si liberano e si indirizzano autonomamente ognuna su un diverso obiettivo. Esse sono in genere molto meno ‛potenti' delle vecchie testate singole, che arrivavano anche a 5 megatoni (e in genere oscillavano attorno a 1 megatone). Per gli Stati Uniti si parla di testate che vanno da 0,04 a 0,4 megatoni, mentre per l'URSS le potenze medie sono un po' più elevate (attorno a 0,5 megatoni): tuttavia, nel caso dei più recenti SLBM, scendono anche a 0,1 megatoni. Alla fine del 1986 la situazione nel rapporto vettori-testate, in campo strategico, è quella sintetizzata nella tab. III.

Tabella 3

Questa situazione è stata definita ‛instabile e pericolosa' da un gran numero di analisti strategici americani, e in particolare da quelli legati all'amministrazione Reagan. Il problema è costituito soprattutto dai missili ICBM: le armi più veloci (circa 30 minuti dalla partenza all'impatto) e più precise. Il fatto che abbiano testate multiple (MIRV, Multiple Independent Re-entry Vehicle) rende particolarmente efficace il loro uso come armi di ‛primo colpo', sistemi cioè destinati a essere lanciati di sorpresa per distruggere i sistemi strategici dell'avversario. Con 6.420 testate ICBM l'URSS può disporre per la distruzione di ognuno dei 1.010 sistemi ICBM americani di più di 6 testate. In realtà, se essa destinasse 3 testate ICBM per ogni obiettivo strategico-nucleare americano, potrebbe avere la quasi totale certezza di distruggere 2.140 obiettivi: quindi, oltre ai 1.010 sistemi ICBM americani, potrebbe colpire anche gli aeroporti dei bombardieri, i porti e le basi dei sottomarini con SLBM, i principali sistemi radar, di comunicazione e di comando statunitensi. Inoltre potrebbe mantenere sempre di riserva tutti i suoi sistemi nucleari di altro tipo.

Gli Stati Uniti non godono di un eguale vantaggio perché hanno attualmente solo 2.110 testate ICBM per colpire 1.398 sistemi ICBM sovietici, e quindi possono contare su meno di 2 testate per obiettivo, senza contare naturalmente gli altri obiettivi strategici prioritari. Quando entrerà in funzione il Peacekeeper (il nuovo ICBM americano LGM 118, noto anche come MX), esso modificherà un poco questo squilibrio, essendo in grado di portare ben 10 testate. Tuttavia si prevede l'entrata in servizio di un numero limitato di questi vettori (50, con 500 testate).

Gli Stati Uniti conservano un vantaggio sull'URSS nel campo delle testate su SLBM (circa il doppio) e in particolare nel campo dei bombardieri armati con missili di crociera a lungo raggio (ALCM, Air Launched Cruise Missile, missile di crociera lanciato da vettore aereo). Queste categorie di armi, tuttavia, non vengono considerate di ‛primo colpo' per le seguenti ragioni: a) perché gli SLBM sono in media più imprecisi degli ICBM, e quindi meno adatti a colpire e distruggere con certezza obiettivi militari (anche se la loro precisione è notevolmente aumentata nell'ultimo decennio, come si è visto); b) perché i bombardieri sono più lenti dei missili balistici (gli ALCM volano in genere a velocità subsonica e i nuovi modelli sperimentali superano di poco la velocità del suono) e concedono quindi un maggior tempo di reazione alla difesa; c) perché una quota rilevante dei bombardieri e dei sottomarini dotati di missili è in genere a terra o in porto, in condizioni quindi non immediatamente operative.

Negli ultimi anni si è quindi assistito, in particolare da parte americana, alla ricerca di formule capaci di diminuire questa instabilità strategica. Una delle proposte è stata di rinunciare ai MIRV e ritornare ai missili con una sola testata (magari montati su rampe di lancio mobili, per rendere più difficile la loro distruzione a sorpresa). Il rafforzamento progressivo dei silos e altre formule di difesa ‛passiva' (come l'addensamento degli ICBM in un'area relativamente ristretta, chiamato anche sistema dense pack, per favorire il fenomeno della ‛distruzione fratricida' delle testate attaccanti) sono invece considerati dai più come palliativi di efficacia limitata, vista la crescente precisione dei missili attaccanti.

La rinuncia pura e semplice ai missili balistici, e in particolare agli ICBM, è stata ventilata più volte ed è allo studio nei negoziati sulla riduzione delle armi strategiche in corso tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Ma la soluzione più ovvia, e che sembra raccogliere maggiori consensi, è quella che punta sullo sviluppo di sistemi difensivi antimissilistici, destinati a intercettare le testate attaccanti. Tale misura però viola il Trattato sulla limitazione dei missili antimissili (ABM), firmato nel 1972.

4. I sistemi difensivi e la SDI

Il problema di come rendere più stabile l'equilibrio strategico è stato dunque uno dei fattori che ha portato al rilancio degli studi e dell'attenzione sui sistemi di difesa antimissilistica. Un altro fattore, politico questa volta e non militare, è stato il desiderio crescente da parte del governo americano di rispondere in qualche modo al gran numero di critiche provenienti da molti settori, ma in particolare dagli ambienti religiosi e da quelli pacifisti, contro il sistema stesso della dissuasione nucleare e dell'equilibrio del terrore. A molti è sembrato che vi fosse qualcosa di intrinsecamente immorale in un equilibrio basato sulla minaccia della distruzione totale dell'avversario. Molti teologi in particolare ritengono che tale minaccia catastrofica, che potenzialmente supera persino la gravità del pericolo di un genocidio, poiché potrebbe risolversi con la scomparsa della civiltà e dell'umanità stessa, sia sproporzionata al bene che afferma di voler difendere. Tale dibattito rimette in causa quindi le fondamenta stesse del consenso civile nei paesi occidentali.

Il presidente americano Ronald Reagan ha voluto quindi far ricercare una soluzione basata sulle innovazioni tecnologiche, che rispondesse insieme all'esigenza strategica di una maggiore stabilità e a quella morale e politica della sopravvivenza. Egli ha ritenuto di averla trovata nella SDI, la Strategic Defense Initiative, o iniziativa di difesa strategica. Questa iniziativa è stata formalmente annunciata da Reagan nel marzo 1983: si trattava, a suo avviso, di utilizzare al meglio i grandi progressi e le enormi potenzialità della tecnologia difensiva americana, per costruire un sistema difensivo antimissilistico che rendesse impotenti e obsolete le armi nucleari. Ciò avrebbe permesso, secondo questa impostazione, di superare l'equilibrio basato sulle armi offensive per passare a un equilibrio basato sui sistemi difensivi (e quindi intrinsecamente più accettabile, anche sul piano morale).

Il programma SDI, della durata iniziale prevista di 5 anni, doveva servire come studio di fattibilità per l'intero progetto, così da permettere di individuare le tecnologie più opportune e le ‛architetture difensive' più consone al raggiungimento dell'obiettivo ricercato. Una successiva decisione dovrebbe permettere quindi, tra il 1989 e il 1990, il passaggio dalla fase della ricerca pura a quella della ricerca applicata e dello sviluppo, e quindi al dispiegamento dei sistemi difensivi veri e propri (previsto per la fine del secolo e l'inizio del successivo).

Numerose polemiche, importanti contrasti politici e strategici e un riesame delle tecnologie effettivamente disponibili hanno in qualche modo ridimensionato l'intero progetto, ma lo hanno anche reso più ‛credibile'. L'obiettivo iniziale di una difesa efficace al 100% di tutto il territorio americano, contro la minaccia nucleare, si è rivelato ben presto irraggiungibile, almeno nei tempi previsti. D'altro canto è sempre stato evidente che esistono vettori che possono sfuggire a qualsiasi sistema difensivo. La SDI si è quindi rapidamente concentrata sull'interdizione di un tipo soltanto di vettori nucleari: missili balistici (ICBM e SLBM). Anche i bombardieri e gli ALCM possono venire ostacolati da migliori difese antimissilistiche, ma il loro diverso profilo di volo può essere efficacemente contrastato da difese sostanzialmente diverse e separate da quelle contro i missili balistici, e più simili alle tradizionali difese antiaeree.

La SDI, inoltre, ha progressivamente ridotto le sue ambizioni anche in senso strategico e geografico. Lungi dal voler superare il concetto di dissuasione nucleare, almeno in questa prima fase, essa è ormai presentata come un sistema per ‛rafforzare' la dissuasione, impedendo il successo di attacchi di sorpresa contro i sistemi missilistici avversari. In un certo senso, quindi, la maggiore giustificazione della SDI è basata oggi sui difetti impliciti nello sviluppo tecnologico degli ICBM, da noi prima indicati. In attesa di poter eliminare questa categoria di armi, le nuove difese strategiche dovrebbero comunque rendere meno instabile l'equilibrio nucleare da esse assicurato.

Per distruggere i missili balistici, lo scudo difensivo americano ha previsto la loro intercettazione in quattro fasi distinte: a) la fase di lancio, o boost phase, quando il missile si stacca dal suolo ed è chiaramente visibile dallo spazio grazie alla grande fiammata iniziale e poi alla potente fiamma di coda (plume) che lo spinge in alto. Tale fase può variamente durare fino a 300 secondi per gli ICBM e fino a 200 secondi per gli SLBM (ma può essere ridotta fino a 50 secondi, con opportune modifiche); b) la fase di distacco dal primo stadio e di ingresso nell'atmosfera, o post-boost phase, in cui il missile è ancora visibile (grazie alla plume) e sta iniziando la curva di ingresso in orbita tra i 180 e i 750 km di altezza (da 10 a 300 secondi); c) la fase di spinta inerziale del missile in orbita, prima del rientro nell'atmosfera, mid-course phase, in cui le testate sono tutte ancora contenute nel loro ‛bus': è la fase più lunga (da 600 a 900 secondi per gli ICBM, e da 420 a 600 secondi per gli SLBM), ma è anche quella in cui il missile è difficilmente visibile e può essere accompagnato da numerosi ‛simulatori' (decoys) che viaggiano alla sua stessa velocità; d) la fase di rientro nell'atmosfera e di dispersione delle testate fino all'impatto sull'obiettivo, terminal phase, che può durare fino a 300 secondi.

I primi sistemi antimissilistici, basati sull'impiego di missili superveloci, a testata nucleare, guidati da speciali radar collegati con sistemi computerizzati di calcolo e reazione, miravano tutti all'intercettazione delle testate al momento del rientro nell'atmosfera. Tali sistemi presentano alcuni difetti sostanziali: a) il basso tempo di preavviso e di reazione li obbliga a un rendimento altissimo e poco credibile; b) vi è la possibilità di ingannare i radar per il tempo necessario a rendere inefficace il sistema; c) le testate attaccanti, che dovrebbero venire distrutte dall'esplosione di una testata nucleare difensiva ‛nelle loro vicinanze' (l'impatto diretto è infatti troppo difficile e improbabile) sono state ‛rafforzate' proprio per resistere agli effetti di tale esplosione; d) il fall out nucleare ricade comunque sul territorio del difensore; e) il sistema può essere facilmente ‛saturato' con l'invio di ondate successive di missili offensivi; f) il prezzo dei sistemi offensivi è molto inferiore al prezzo dei sistemi difensivi; g) il sistema stesso può difficilmente aspirare a proteggere un gran numero di obiettivi, ed è quindi limitato alla difesa di pochi obiettivi strategici.

Queste considerazioni avevano convinto ambedue le superpotenze, nel 1972, a rinunziare allo sviluppo indiscriminato di sistemi difensivi antimissilistici, portando così alla firma del Trattato ABM, che limita fortemente l'utilizzazione ditali sistemi (in pratica, la sola Unione Sovietica mantiene una rete difensiva di 100 sistemi ABM, continuamente rimodernati, attorno a Mosca) nonché la sperimentazione e il dispiegamento di nuovi.

È opinione prevalente del governo americano che nuove tecnologie, per lo più basate sull'uso estensivo del laser, di nuovi supercomputer e di altre tecnologie ‛esoteriche' (cannoni a particelle, ecc.), permettano la costruzione di sistemi difensivi completamente diversi, in grado di intercettare i missili balistici nelle diverse fasi del loro percorso, superando così gran parte delle carenze del vecchio sistema.

Il sistema difensivo deve comunque, nella peggiore delle ipotesi e presupponendo un numero di missili balistici attaccanti pari a quello sovietico attuale, avere la capacità di impegnare fino a 8.000 testate attaccanti (montate su più di 2.000 missili), fino a 300.000 sistemi di inganno leggeri (che quindi funzionano nella fase esoatmosferica) e fino a 150.000 sistemi di inganno pesanti (che quindi potrebbero funzionare anche nella fase iniziale di rientro). Il sistema difensivo americano attualmente allo studio è diviso in quattro aree principali di ricerca: a) sorveglianza, acquisizione, inseguimento e valutazione del danno (tracking & kill assessment): brevemente SATKA; b) armi difensive; c) architettura, sistemi complessi e gestione operativa (battle management); d) capacità di sopravvivenza, letalità e tecnologie chiave.

Il programma SATKA vuole sviluppare sistemi antimissilistici per ogni fase del volo di un missile balistico. Nella boost phase i sensori destinati a guidare il sistema saranno per lo più basati nello spazio, mentre per le altre fasi si ricorrerà prevalentemente a radar basati a terra e a radar e sensori ottici aeroportati. Gli studi riguardano sia i sistemi radar, che i laser e altri sensori ottici ‛passivi' (come quelli all'infrarosso). I sistemi radar più avanzati già in funzione sono il Cobra-Judy (installato su un mezzo navale, destinato alla sorveglianza dei test missilistici sovietici in Asia e nel Pacifico settentrionale) e il Cobra-Dane, installato sull'isola di Shemya, nell'arcipelago delle Aleutine.

Gli Americani hanno anche sperimentato con successo sistemi di acquisizione e inseguimento basati sull'uso del laser, con particolari tecniche che permettono di compensare le distorsioni create dal passaggio nell'atmosfera. Nuovi radar attualmente allo studio dovrebbero altresì permettere l'individuazione automatica di un gran numero di sistemi di inganno, grazie a nuove tecniche di misurazione degli oggetti in volo e a un affinamento delle loro ‛segnature' radar. Un radar di questo tipo (il SAR, Synthetic Aperture Radar) opera con successo da bordo del satellite americano Seasat sin dal 1978.

Lo studio dei sistemi ottici ‛passivi e volto non solo al loro miglioramento e affinamento, ma anche a una progressiva riduzione ed eliminazione di tutti i disturbi dovuti a fenomeni naturali, che oggi limitano fortemente la loro operatività. Laser e fasci di particelle sono anche tra le tecnologie di cui si può prevedere l'utilizzazione per l'acquisizione e la discriminazione nella mid-course phase. Progressi importanti sono stati compiuti nel campo dei sensori all'infrarosso, in particolare per la sorveglianza della boost phase da satelliti posti in orbita geosincronica (all'altezza di circa 36.000 km).

Le armi difensive vere e proprie sono sostanzialmente di due tipi: armi a energia diretta (DEW, Directed Energy Weapons) e armi a energia cinetica (KEW, Kinetic Energy Weapons). Le KEW sono essenzialmente missili, con un'alta velocità e una grande precisione, destinati a distruggere con l'impatto la testata attaccante, oppure cannoni elettromagnetici, in grado di accelerare enormemente particelle di materiale solido (fino a 11 km al secondo, mentre una testata può penetrare l'atmosfera a una velocità massima di circa 8 km al secondo). Grandi progressi nel campo della guida automatica, dei calcolatori di bordo e dei sensori hanno reso i missili intercettori molto più precisi di quanto lo fossero in passato. Esperimenti iniziali compiuti con i cannoni elettromagnetici hanno già permesso di accelerare ordigni metallici alle velocità desiderate: in un recente esperimento, ad esempio, un proiettile di 300 kg è stato proiettato alla velocità di 4,2 km al secondo, una velocità più che sufficiente per soddisfare l'obiettivo ricercato.

Le DEW rappresentano la grande novità della SDI e comprendono essenzialmente laser ad alta energia, raggi di particelle e armi ad alta frequenza radio. Le armi a fasci di particelle, in particolare, la cui tecnologia è meno avanzata di quella delle armi laser, vengono attualmente viste essenzialmente come uno dei componenti dei sistemi di acquisizione e discriminazione nello spazio (un fascio di particelle inviato contro un gruppo di oggetti in volo nello spazio può facilmente discriminare gli oggetti più leggeri, i sistemi di inganno, da quelli più pesanti, come le testate nucleari).

I laser ad alta energia costituiscono un settore tecnologico in pieno sviluppo. Si tratta di quattro diversi tipi di laser: chimici (più tradizionali), a eccimeri (che arrivano a utilizzare una banda di luce molto più bassa), a elettroni liberi e a raggi X. Tra tutti questi i più promettenti sembrano attualmente i laser a elettroni liberi, mentre i più discussi sono i laser a raggi X (perché questi ultimi utilizzerebbero come fonte di energia primaria un'esplosione nucleare nello spazio). Il vantaggio dei laser a elettroni liberi consiste principalmente nella possibilità di installarli anche a terra, di moltiplicare il numero delle pulsioni nel tempo e di agire comunque nella regione dell'ultravioletto (che permette di mantenere il raggio laser più concentrato e quindi anche letale).

Le armi ad alta frequenza radio puntano alla distruzione dell'equipaggiamento elettronico dei missili e dei satelliti avversari, mediante l'emissione di fasci di raggi ad altissima frequenza. Anche tali sistemi possono essere basati sia a terra che nello spazio.

Un elemento essenziale del programma SDI è rappresentato infine dallo sviluppo di nuovi calcolatori superveloci (i cosiddetti calcolatori ottici, ad esempio) e di complessi programmi (software) in grado di coordinare e gestire questo sistema difensivo in condizioni operative reali.

Ci si è dilungati sul sistema SDI anche perché esso sembra raccogliere e sintetizzare un po' tutti i maggiori elementi di novità che si delineano nel campo degli armamenti. Sia che abbia pieno successo, sia che venga progressivamente ridimensionato e in qualche modo adattato a compiti meno ambiziosi di quelli originari, esso cerca di utilizzare al massimo delle potenzialità tutte le novità più rivoluzionarie offerte dalla tecnologia degli armamenti, in particolare nel campo dei nuovi materiali, delle nuove tecniche elettroniche e dell'uso di nuovi principi fisici. Questa vera e propria rivoluzione tecnologica ha tuttavia conseguenze importanti anche nel campo degli armamenti convenzionali.

5. I sistemi convenzionali

In campo convenzionale si parla essenzialmente (sin dai primi anni ottanta) di tecnologie emergenti (Emerging Technology, ET). Questo aspetto del problema è particolarmente sottolineato in campo occidentale, perché l'Alleanza Atlantica punta sul vantaggio tecnologico per cercare di compensare la sua inferiorità quantitativa nei confronti del Patto di Varsavia.

Il termine ET è usato per un ampio spettro di sviluppi tecnologici. Alcuni di essi potrebbero meglio essere definiti ‛esplorativi', nel senso che potranno in realtà venire incorporati in nuovi sistemi d'arma solo tra 15-20 anni. Altri sono invece effettivamente ‛emergenti', e potrebbero essere utilizzati già alla fine di questo decennio. Tutti possono comportare trasformazioni tattiche e strategiche di un certo rilievo.

Questa evoluzione tecnologica obbliga le forze armate a un difficile ripensamento. Le tre piattaforme tradizionali, attorno a cui ruota gran parte delle strategie operative delle tre forze armate tradizionali (Esercito, Marina e Aeronautica), e cioè il carro armato, la nave da guerra e l'aereo d'attacco, sono sottoposte alla crescente sfida delle tecnologie emergenti.

Avviene così che molte delle specifiche missioni, normalmente svolte a partire da queste piattaforme, possano essere compiute, con minore costo e a volte con maggiore efficacia, da questi nuovi sistemi d'arma. Pensiamo ad esempio a missioni quali l'interdizione vicina, il supporto anticarro, la difesa antiaerea di punto o di unità terrestri in movimento, il controllo del campo di battaglia, il pattugliamento, la sorveglianza e l'interdizione di specifici choke point terrestri o marittimi, ecc.

Nello stesso tempo le ET accrescono la vulnerabilità delle piattaforme tradizionali, sino a rendere molto sfavorevole il loro rapporto costo/efficacia. A favore delle piattaforme tradizionali restano tuttavia altri fattori, quali la versatilità e la visibilità, nonché la capacità di svolgere alcune missioni che le ET sinora non garantiscono con un alto grado di certezza (si pensi ad esempio all'interdizione lontana) o non sono designate a compiere (per esempio operazioni di proiezione della forza oltremare).

A questo punto si aprono due possibili strade per integrare le ET nei meccanismi della difesa occidentale. Due strade che non si escludono reciprocamente nel breve periodo, ma che rispondono certamente a due opposte filosofie: la prima, favorita in genere dagli Stati maggiori, consiste nel tentativo di accrescere la componente ET legata alle piattaforme tradizionali, rafforzando queste ultime contro l'accresciuta minaccia tecnologica e dotandole di maggiori capacità d'attacco grazie a sistemi d'arma ‛intelligenti'. In alcuni casi questa è una scelta obbligata: è assurdo, ad esempio, disporre di un caccia bombardiere sofisticato come il Tornado, se poi non viene dotato di quei sistemi di nuova tecnologia che lo possono rendere pienamente efficace; ugualmente, è assurdo puntare su un sistema d'arma relativamente nuovo nella battaglia terrestre, come l'elicottero, se non si dota questo mezzo dei sistemi elettronici più opportuni per permettergli di agire efficacemente, in condizioni di sicurezza, nel moderno campo di battaglia. La seconda strada possibile consiste nell'individuazione di tutta una serie di missioni che possono essere svolte meglio con sistemi ET piuttosto che con sistemi tradizionali, e nel decidere quindi di dotarsi di tali sistemi in alternativa ai sistemi tradizionali. Contemporaneamente bisognerebbe procedere però a una valutazione delle missioni che invece richiedono ancora l'utilizzazione prioritaria delle piattaforme tradizionali, stabilirne l'utilità e la priorità, e quindi procedere a un'acquisizione di piattaforme più semplificate, meno cariche di pesi operativi multiruolo, direttamente disegnate per eseguire tali compiti residui.

La NATO sta affrontando l'intera materia attraverso il cosiddetto studio del Conceptual Military Framework, e cioè la concezione militare complessiva che dovrà orientare tutte le scelte operative e di acquisizione di nuovi armamenti da parte delle forze alleate. Altrettanto tuttavia sembra stiano facendo i Sovietici. Si moltiplicano infatti gli indizi che rivelano l'esistenza di analoghe sperimentazioni sulle ET da parte dell'URSS, sia in manovre sul campo che in opere di carattere teorico (le più importanti sono quelle scritte dall'ex capo di Stato Maggiore e viceministro della Difesa dell'URSS, maresciallo Ogarkov).

Sintetizzando al massimo, i nuovi sistemi d'arma convenzionali possono essere classificati in due categorie: armi a lungo e a breve raggio (cioè armi che possono agire lontano o vicino rispetto alla linea del fronte). Questa suddivisione segue i criteri strategici fissati dalla stessa NATO, dal momento in cui ha incominciato a discutere su come utilizzare al meglio le ET. La tesi prevalente è che esse permettano una difesa più articolata, favorendo un'interdizione in profondità, oltre le prime linee attaccanti del nemico (oltre la FEBA, Forward Edge of the Battle Area, linee avanzate del fronte). Tale strategia è nota con il nome di FOFA (Follow-On Forces Attack, attacco alle forze avversarie di seconda schiera) e punta a colpire in profondità il secondo e il terzo scaglione delle forze attaccanti del nemico, mentre il primo scaglione viene fermato dalle forze di difesa avanzate della NATO (Forward Defence, difesa in avanti): gli attacchi verrebbero portati sia su obiettivi fissi (aeroporti, nodi ferroviari e stradali, ecc.) sia su obiettivi mobili (concentrazioni di forze). I sistemi d'arma a più breve raggio invece dovrebbero rendere più credibile ed efficace la difesa avanzata contro il primo scaglione avversario e la difesa delle infrastrutture NATO contro attacchi aerei e missilistici.

Tra le ET a lungo raggio si possono citare in primo luogo i ‛canestri' (o dispensers), che vengono trasportati dai cacciabombardieri: hanno un peso di varie tonnellate e vengono trasportati dall'aereo sull'area dell'attacco, dove liberano una serie di sottomunizionamenti (sub-munitions) come piccole bombe, mine, ecc., che cadono a pioggia su una larga zona di terreno. Tra i più noti, già operativo dal novembre 1984, è l'MW1 tedesco occidentale, con 112 tubi di lancio per sottomunizionamenti, studiati per essere usati contro aeroporti e formazioni corazzate. Lo sviluppo futuro di questo sistema consisterà nell'uso di sottomunizionamenti ‛intelligenti' o guidati, che si dirigano con precisione contro singoli obiettivi. Un analogo sistema britannico è il JP 233.

I sottomunizionamenti ‛intelligenti' possono essere equipaggiati, oltre che con la loro testata esplosiva, con sensori all'infrarosso o sensibili all'emissione di particolari onde radar o radio. Tra i sottomunizionamenti di questo tipo è attualmente in fase di sviluppo lo Skeet, da utilizzare per il sistema ATACMS (si veda oltre): quattro Skeet verrebbero inseriti in un contenitore cilindrico, il Sensor Fuzed Weapon (SFW). Gli SFW verrebbero lanciati sull'obiettivo e calerebbero lentamente, con un paracadute, sull'area prevista. A una certa altezza libererebbero i loro Skeet con sensori a raggi infrarossi, che inizierebbero la ricerca degli obiettivi. Una volta individuato l'obiettivo (un carro armato, un radar, ecc.), essi si dirigerebbero contro di esso esplodendo una carica ad alta penetrazione. Un sistema analogo è il SADARM, che utilizza però anche sensori a onde radar.

I sottomunizionamenti possono essere trasportati sull'obiettivo anche da vettori di tipo missilistico (ad esempio utilizzando a questo fine dei vettori normalmente usati per armi strategiche). Una tale tecnologia viene analizzata nel documento americano Counter-Air 90, che suggerisce l'uso di questi sistemi per distruggere gli aeroporti avversari. Tra i missili allo studio vi è il Tabas, conosciuto anche come Tabasco o Incredible Hulk, basato su un vettore del tipo Saturno (quelli del programma Apollo). È allo studio anche l'utilizzazione di vettori missilistici più piccoli, come i Pershing II, i Polaris, i Trident e i Minuteman. La versione convenzionale del Pershing II, nota con la sigla CAM 40, è già in fase di realizzazione. Avrebbe un raggio d'azione di circa 350 km, il che gli permetterebbe di minacciare direttamente circa il 70% delle basi aeree del Patto di Varsavia, e potrebbe essere operativo già nel 1989.

Un altro vettore potrebbe essere un missile di crociera basato a terra (GLCM, Ground Launched Cruise Missile). I GLCM sono già utilizzati dalla NATO come vettori missilistici nucleari (fanno parte dei cosiddetti euromissili, dispiegati in Germania, Gran Bretagna, Belgio, Olanda e Italia). Per non confondere i GLCM nucleari con quelli convenzionali, tuttavia, è attualmente allo studio anche l'uso di missili di crociera lanciati da aerei ALCM. Il nuovo sistema d'arma convenzionale è stato chiamato LRSOM (Long Range Stand Off Missile, missile a lungo raggio lanciato dal di fuori dell'area di difesa aerea avversaria). Il suo raggio d'azione sarebbe, anche in questo caso, molto inferiore a quello degli ALCM nucleari, e si situerebbe attorno ai 200 km, rendendolo all'incirca altrettanto letale del CAM 40. Il sistema, attualmente allo studio da parte di un consorzio americano, tedesco e britannico, potrebbe essere operativo già nel 1990.

Queste armi a lungo raggio richiedono evidentemente l'assistenza di sistemi di sorveglianza e acquisizione degli obiettivi capaci di guardare in profondità oltre le linee nemiche. La cosa è particolarmente importante per poter colpire obiettivi in movimento, ma è di rilievo anche per gli obiettivi fissi, per poterli distruggere nel momento in cui ciò può causare il massimo danno per l'avversario (ad esempio quando gli aerei avversari sono a terra, pronti al decollo, oppure quando sono sul punto di rientrare alla base, ecc.). Uno di questi sistemi è l'americano JSTARS (Joint Stars, stelle congiunte) che consiste in un radar aeroportato, che vola a circa 50 km all'interno delle retrovie, lungo la linea del fronte, ed è in grado di controllare l'area avversaria per una profondità di circa 100-150 km. Attualmente tali radar sono montati su un aereo relativamente lento e grande, come il C 18 americano, ma è allo studio la loro installazione su aerei più piccoli e maneggevoli, come il TR 1, o anche su aerei robotizzati senza pilota (drones). Il JSTARS può operare congiuntamente con il PLSS (Precision Location Strike System, sistema di individuazione di precisione per il bombardamento), in grado di individuare le emissioni radar nemiche e di guidare i sistemi d'arma direttamente su tale obiettivo. Altre informazioni analoghe possono essere raccolte da un sistema già operativo, l'aereo radar AWACS (Airborne Warning and Control System), basato su aerei Boeing del tipo Jumbo. Una rete di computer e di comunicazioni particolarmente rapida e selettiva permetterà infine la collazione di tutte le diverse informazioni provenienti da questi sensori e dalle altre fonti (satelliti, radar, ecc.) a disposizione del sistema difensivo.

Sistemi missilistici per l'attacco a distanza di obiettivi fissi e mobili sono inoltre gli americani T 16 (sviluppato dal missile tattico Lance) e T 22 (sviluppato dal missile antiaereo Patriot). Il primo verrebbe lanciato da terra e il secondo da aerei. Anch'essi possono venire equipaggiati con sottomunizionamenti, anche ‛intelligenti' o teleguidati, e accoppiati, nel caso del T 22, con il sistema JSTARS. È inoltre allo studio un nuovo missile tattico dell'esercito (ATACMS, Army Tactical Missile System), dal raggio d'azione di 200-300 km, che potrebbe venire montato in gruppi di 4 su un sistema mobile di lanciarazzi multiplo (di quelli che normalmente contengono 12 razzi). È infine allo studio un nuovo tipo di missile di crociera lanciato da aerei capaci di utilizzare la tecnologia Stealth, di invisibilità ai radar, già impiegata per accrescere le capacità di penetrazione dei nuovi bombardieri e cacciabombardieri americani.

Gli aerei robot, senza pilota (drones), possono anch'essi divenire sistemi d'arma ET. In Germania occidentale, ad esempio, è allo studio un aereo robot da utilizzare contro i radar della difesa antiaerea avversaria. Studi analoghi sono condotti in Gran Bretagna. Un altro aereo robot tedesco occidentale, il Panzer-Abwehr-Drohne, avrebbe funzioni anticarro. Il vantaggio degli aerei robot sui missili consiste nella loro capacità di individuare autonomamente il bersaglio ricercato, all'interno di un'area più vasta.

Tutte queste armi intelligenti usano una combinazione di sensori e di programmi preinseriti all'interno di computer di bordo. Un sistema analogo che però serve solo per la guida del missile, è il Tercom americano (Terrain Following Computer), montato su missili di crociera con testate nucleari: il radar di bordo segue il profilo del terreno su cui vola il missile, lo confronta con una carta computerizzata inserita nel calcolatore e quindi dirige il missile secondo il percorso prefissato. In questi altri sistemi, invece, il missile o l'aereo robot riconoscono l'area di intervento prefissata e quindi iniziano una sorta di pattugliamento sistematico dell'area fino a che i loro sensori non individuano il profilo o la segnatura di un obiettivo ‛pagante', contro il quale si dirigono. I sensori possono essere di vario tipo, oltre che radar, e possono agire in combinazione tra loro. Tra gli altri si possono ricordare i sensori acustici, a raggi infrarossi, per l'individuazione di onde radar o radio avversarie, ecc.

Tra i sistemi a breve raggio la NATO ha individuato nove progetti prioritari (molto simili in alcuni casi a quelli dei sistemi a lungo raggio): il LOCPOD (Low Cost Powered Submunition Dispenser), un ‛distributore' di sottomunizionamenti per colpire obiettivi fissi a circa 35 km di distanza, a basso costo; lo SRARM (Short Range Anti-Radiation Missile), missile a breve raggio per distruggere i radar campali del nemico e per l'autodifesa degli aerei e degli elicotteri; le ESM (Electronic Support Mission), equipaggiamenti elettronici per la detezione passiva di aerei e veicoli avversari; gli RPV (Remotely Piloted Vehicles), aerei teleguidati; sottomunizionamenti a guida terminale da utilizzare con i lanciarazzi multipli della NATO (MLRS); proiettili da 155 mm, calibro standard NATO, a guida terminale; il nuovo elicottero anticarro della NATO (NH 90), la nuova fregata della NATO (NFR 90) e il nuovo sistema di identificazione NATO, IFF (Identification Friend or Foe, sistema di identificazione dell'amico e del nemico).

6. Problemi e priorità

La NATO si trova oggi di fronte a due alternative radicalmente diverse: 1) un congelamento delle armi nucleari tattiche (magari favorito da un forte rafforzamento qualitativo dei sistemi convenzionali) per scelta degli stessi Americani, o per reazione a una crescente opposizione e diffidenza interna in alcuni paesi chiave dell'Alleanza in Europa; 2) un'accentuazione del decoupling tra guerra sul territorio europeo e guerra sul territorio delle due superpotenze, con disastrose conseguenze per gli alleati europei, in ambedue i blocchi, in caso di guerra nucleare o convenzionale. Il vertice di Reykjavik, tra Stati Uniti e Unione Sovietica, alla fine del 1986, ha ulteriormente complicato questo quadro, aprendo a breve termine una prospettiva di ‛opzione zero', cioè di un ritiro dall'Europa degli euromissili della NATO, le uniche armi nucleari con basi sul territorio europeo effettivamente in grado di portare con un sufficiente grado di credibilità la minaccia sul territorio sovietico.

Questa nuova situazione potrebbe portare a due conseguenze negative per gli europei: a) una proliferazione sul territorio europeo, a Est e a Ovest, di sistemi nucleari di teatro a breve raggio, o del campo di battaglia, con testate sia nucleari che convenzionali o chimiche, che utilizzino vettori non balistici; b) una maggiore difficoltà americana ad attaccare l'Unione Sovietica in modo selettivo, con sistemi balistici intercontinentali, per difendere l'Europa. (Questa particolare tendenza potrebbe essere accentuata dallo sviluppo di sistemi difensivi antimissilistici da parte di ambedue le superpotenze.)

Queste considerazioni accrescono il rischio di decoupling (e cioè di separazione tra dissuasione americana, per la difesa del territorio degli Stati Uniti, e dissuasione NATO per la difesa dell'Europa occidentale) e accrescono anche i dubbi sulla credibilità della strategia alleata per quel che riguarda le armi nucleari tattiche presenti in Europa (la loro attuale giustificazione dottrinale, infatti, è che tali armi assicurano la continuità della deterrenza alleata). Se tale credibilità venisse a essere messa in dubbio, a queste armi resterebbe unicamente il ruolo di warfighting, con conseguenze chiaramente inaccettabili per gli europei. Inoltre, questo potrebbe significare (ove i paesi europei volessero modificare una tale situazione di pericolo) la fine della difesa on the cheap: poco costosa perché incentrata, appunto, sulle armi nucleari americane.

In realtà i negoziati tra Americani e Sovietici, a Ginevra, all'inizio del 1987, hanno cercato di tenere nel debito conto anche questo problema. Infatti, oltre a ricercare l'eliminazione concordata degli euromissili dal territorio europeo (la cosiddetta ‛opzione zero-zero'), essi prevedono anche un negoziato sui missili di teatro a più breve raggio (SRINF, Shorter Range Intermediate Nuclear Forces, forze nucleari di teatro a più breve raggio). Si tratta in pratica di circa 500 missili nucleari sovietici con una gittata variabile dai 400 ai 1.000 chilometri, in grado di minacciare la maggior parte dell'Europa occidentale, e di un centinaio di missili Pershing 1 americani in Germania occidentale, con un raggio d'azione che permette loro di colpire obiettivi in Europa orientale, ma non sul territorio sovietico. L'esistenza di questi missili crea un doppio squilibrio: evidente è quello numerico (500 contro 100), ma forse più importante è quello strategico. Tali armi infatti minacciano direttamente l'Europa occidentale mentre non minacciano il territorio sovietico (bensì solo quello degli alleati europei del Patto di Varsavia). L'idea della NATO è che all'eliminazione degli euromissili a più lungo raggio (INF, Intermediate Nuclear Forces, forze nucleari di teatro: in pratica gli SS 20 sovietici e i Pershing 2 e i Cruise GLCM nucleari della NATO) corrisponda anche una forte diminuzione delle SRINF sovietiche, e un loro arretramento più in profondità, nel territorio sovietico, in zone da dove non potrebbero facilmente raggiungere obiettivi strategici in Europa senza venire spostate in avanti. (Queste considerazioni sono state formulate prima dell'accordo di Washington, nel dicembre 1987, tra Reagan e Gorbačëv, sullo smantellamento degli euromissili. È evidente che in seguito a tale accordo si è determinata una situazione profondamente nuova, i cui sviluppi, non ancora interamente prevedibili, sono destinati a condizionare fortemente il prossimo futuro).

Recentemente si sono aperte prospettive negoziali anche per le armi convenzionali. Esse sono state inizialmente discusse nell'ambito della CSCE (Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), e in particolare in una Conferenza speciale sul Disarmo in Europa (CDE) conclusasi a Stoccolma nel 1986, con l'approvazione di un accordo sulle ‟misure di controllo militare per accrescere la fiducia reciproca" (chiamate in gergo CBM: Confidence Building Measures). Queste misure stabiliscono alcune regole per la notifica delle manovre militari e anche per assicurare la presenza di osservatori di paesi terzi a tali manovre. Ora è sul tavolo la proposta di ampliare e proseguire tali lavori, nell'ambito della CSCE, creando uno speciale gruppo negoziale bilaterale tra la NATO e il Patto di Varsavia, per arrivare, se possibile, a vere e proprie riduzioni bilanciate di alcune forze convenzionali, o quantomeno per studiare CBM con un maggiore significato militare: ad esempio misure che limitino fortemente la libertà di movimento delle forze militari e impediscano quindi la preparazione di guerre o attacchi di sorpresa da una parte come dall'altra. Questi negoziati dovrebbero in pratica esautorare e sostituire i negoziati MBFR (Mutual and Balanced Force's Reductions, riduzione mutua e bilanciata delle forze) in corso a Vienna da più di 13 anni, che non hanno ancora raggiunto alcun risultato e che comunque limitavano la loro attenzione alle sole forze presenti in Europa centrale.

La nuova difesa convenzionale (e quindi anche la possibilità di gestire l'evoluzione verso un ruolo decrescente delle armi nucleari tattiche del campo di battaglia) dipende pertanto dalle conclusioni cui arriverà il dibattito strategico in corso. Quand'anche questo dibattito andasse nel senso previsto dalla dottrina FOFA (sopra accennata) e cioè nel senso di una crescente ‛convenzionalizzazione' del campo di battaglia, resterebbero sempre il problema industriale e quello tecnologico. Le scelte sin qui compiute sono infatti insufficienti e andrebbero ampliate e moltiplicate; ciò comporterebbe nuove spese e quindi anche un importante aumento dei bilanci della Difesa dei paesi europei occidentali. Studi compiuti da vari istituti occidentali parlano di spese aggiuntive globali, per i paesi dell'Europa occidentale, che oscillano tra un minimo di 30 miliardi di dollari, per sette anni, e un massimo di circa 300, per lo stesso periodo. Fonti NATO parlano della necessità di accrescere i bilanci nazionali della Difesa di circa il 7% l'anno in termini reali (e cioè oltre l'inflazione). Evidentemente tali scelte saranno a loro volta influenzate dalle richieste e dai concetti operativi prescelti dai singoli Stati Maggiori. Ma in questo caso l'importanza delle scelte da compiere e l'ampiezza dei mutamenti necessari sono tali da imporre una serie di decisioni ‛di quadro', che sono essenzialmente politiche e non tecniche.

È chiaro, ad esempio, come sia una scelta in primo luogo politica, e non tecnica, quella di decidere se tali sviluppi debbano aver luogo nell'ambito di una più stretta collaborazione europea, oppure ognuno per sé e tutti con gli Stati Uniti. Una volta fatta questa scelta, però, ne derivano alcune conseguenze tecnologiche, industriali e di bilancio che non possono che definire i limiti della libertà di movimento e delle richieste delle istanze tecniche e militari. Purtroppo, nelle more delle decisioni non prese, dei rinvii e dei compromessi insoddisfacenti, che troppo spesso caratterizzano l'iniziativa politica europea, i singoli Stati compiono una serie di scelte settoriali, destinate ad allontanare, a loro volta, l'obiettivo di un mutamento collettivo e coordinato da parte dei paesi europei.

Questo vizio di fondo della cooperazione europea viene in qualche modo ridimensionato dalle crescenti difficoltà obiettive che si incontrano nell'adottare in questo settore decisioni che si limitino a un ambito strettamente nazionale. È una realtà che è già stata verificata per l'European Fighter Aircraft (EFA), ma che vale anche in molti altri casi (dagli elicotteri anticarro a quelli ASW, dai missili anticarro e antiaerei fire and forget al carro armato di III generazione, ecc.). Tali forme di cooperazione europea, quando finalmente vengono poste in essere, si limitano di solito a pochi paesi (talora si assiste addirittura alla formazione di due o più gruppi europei in concorrenza tra loro). Sarebbe invece opportuno che in futuro gli europei passassero da queste cooperazioni ad hoc, secondo il principio del juste retour, alla creazione di veri e propri consorzi industriali europei, in grado di gareggiare alla pari con i concorrenti americani e, nel prossimo futuro, giapponesi. (Per fare un solo esempio, è assurdo che l'impostazione dell'EFA sia dovuta passare attraverso progetti elaborati dalle singole industrie nazionali, quando già era stato creato il consorzio europeo Panavia per la costruzione del cacciabombardiere Tornado).

Questo discorso è valido a maggior ragione per l'Italia, che non ha le capacità finanziarie e industriali dei suoi più forti partners europei. È quindi segno di miopia e scarsa lungimiranza voler puntare alla creazione di una sorta di ‛linea italiana' degli armamenti, del tutto autonoma da quella degli alleati europei, nell'ideazione, nello sviluppo e nell'acquisizione di nuovi sistemi d'arma (anche se tale scelta è motivata dalla scarsa volontà di cooperazione dei partners europei). Inoltre, l'illusione di compensare l'assenza di cooperazione europea con un'aliquota relativamente elevata di vendite all'estero tende sempre più a rivelarsi appunto come un'illusione il problema più grave dell'industria italiana degli armamenti, oggi, è proprio quello di essere sin troppo dipendente dal mercato delle esportazioni (che rappresentano circa il 60% del fatturato complessivo della nostra industria, contro il 41% della Gran Bretagna e il 36% della Francia). Per di più tali esportazioni si dirigono per oltre il 90% verso il Terzo Mondo (per il 55% circa verso i paesi OPEC) e la crisi finanziaria di questi paesi non è certo tale da alimentare la speranza di grosse commesse. Solo la creazione di un vero e proprio ‛Mercato comune degli armamenti' potrebbe facilitare, almeno in parte, la soluzione di tali problemi, il cui superamento dipende tuttavia in primo luogo dal perseguimento di una maggiore chiarezza nelle scelte tecnologiche e strategiche compiute a livello collettivo.

bibliografia

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Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), World armaments and disarmament. SIPRI yearbook 1986, London 1986.

The International Institute for Strategic Studies, The military balance 1986-1987, London 1986.

Armi biologiche di Barbara Hatch Rosenberg

sommario: 1. Introduzione. 2. Armi biologiche e armi chimiche.  3. Il Protocollo di Ginevra del 1925. 4. La seconda guerra mondiale e il periodo postbellico. 5. La rinuncia alle armi biologiche. 6. La Convenzione sulle armi biologiche del 1972. 7. Le armi chimiche e i negoziati in corso. 8. Presunte violazioni della Convenzione. 9. L'impatto delle biotecnologie. 10. Offesa e difesa. 11. Potere deterrente, rischi e proliferazione. 12. Attività militari e sospetti reciproci. 13. Prospettive. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il potenziamento degli armamenti, teso alla realizzazione di ordigni capaci di conseguire distruzioni di massa, costituisce un processo chiave del XX secolo, inseparabile dalla rapida crescita delle conoscenze scientifiche. Dal canto loro la chimica, la fisica e la biologia sono maturate, in questo secolo, passando da una fase di descrizione superficiale dei fenomeni a una fase di comprensione approfondita e analitica, fino a diventare strumenti per la manipolazione della natura. Questi potenti strumenti sono tutti a doppio taglio: cercando di curare una disfunzione, si impara anche a causarla. Di pari passo con le conquiste scientifiche e tecnologiche, anche le minacce conseguenti ai progressi compiuti si sono sviluppate su vasta scala, mentre l'abilità dell'uomo nel maneggiare gli strumenti realizzati non ha fatto progressi.

La guerra biologica non è una novità. L'idea di buttar giù dai bastioni cadaveri infetti o di gettarli nei pozzi per avvelenare i rifornimenti d'acqua è vecchia di millenni. Ma negli ultimi 100 anni c'è stato un progresso esplosivo nell'affinamento delle armi biologiche. Microbiologi e virologi hanno isolato una grande varietà di agenti patogeni - attivi contro piante, animali ed esseri umani - che possono essere usati a scopo offensivo per procurare danni di diversa entità, da un leggero fastidio all'inabilitazione temporanea, alla morte. Certi agenti sono contagiosi, altri sono tossici solo per esposizione diretta. Alcuni possono essere diffusi da insetti vettori, per altri sono stati elaborati dei metodi di diffusione sotto forma di aerosol. Le recenti biotecnologie rendono possibile la produzione di questi agenti in grandi quantità, tuttavia le armi biologiche non sono state impiegate, nei tempi moderni, su scala significativa.

2. Armi biologiche e armi chimiche

Il mancato ricorso alle armi biologiche dipende, fra l'altro, anche dal fatto che nell'opinione pubblica queste armi sono associate alle armi chimiche. L'impiego di gas tossici nella prima guerra mondiale causò più di un milione di morti e terrorizzò la popolazione civile di entrambe le parti belligeranti a causa dell'azione lenta e straziante dei gas usati. Questa esperienza facilitò il consolidarsi di una repulsione culturale contro le armi biologiche e quelle chimiche, le une e le altre ritenute causa di sofferenze non necessarie, in quanto agenti invasivi e persistenti che contaminano l'ambiente ed estendono i loro effetti al di là del campo di battaglia e dei combattenti, spesso in maniera incontrollabile e imprevedibile. Specialmente nel caso degli agenti biologici è come se gli esseri umani, nell'antica lotta contro le avverse forze della natura, fossero passati dalla parte del nemico

Nella prima guerra mondiale le armi chimiche furono usate dagli eserciti meglio equipaggiati di tutte le parti in conflitto e si rivelarono mortali, ma non decisive. Da allora non sono state più impiegate in questa maniera, in una lotta ‛alla pari', ma, in virtù del loro effetto deterrente, sono state usate soprattutto da forze tecnologicamente superiori contro avversari scarsamente equipaggiati. L'uso dell'iprite e dell'agente nervino Tabun da parte dell'Iraq contro l'Iran fu confermato unanimemente nel 1984 da un gruppo di esperti mandati nella zona di guerra, su richiesta dell'Iran, dal Segretario Generale delle Nazioni Unite. Gas tossici furono usati anche dall'Italia in Etiopia (1935-1936) e dal Giappone in Cina (1937-1945). In tutti questi casi i nemici non furono in grado di rispondere allo stesso modo.

3. Il Protocollo di Ginevra del 1925

L'uso delle armi chimiche ‟è stato giustamente condannato dall'opinione pubblica del mondo civile", secondo le parole del Protocollo di Ginevra del 1925. Il Protocollo fu redatto come risultato dell'esperienza della prima guerra mondiale e di parecchi tentativi precedenti di bandire l'uso di proiettili contenenti sostanze infiammabili o gas nocivi. Tutte le grandi potenze e la maggior parte delle altre nazioni hanno ora ratificato il Protocollo di Ginevra per la proibizione dell'uso in guerra di gas asfissianti, tossici e simili (e di tutti gli analoghi prodotti liquidi o di altra natura) e dei metodi di guerra batteriologici. Intento dichiarato degli estensori del Protocollo era che questa proibizione venisse ‟in seguito accettata universalmente come parte di una legge internazionale vincolante sia la coscienza che il comportamento delle nazioni". Molti dei firmatari, tuttavia, si riservarono esplicitamente il diritto di rispondere a un eventuale attacco ‛chimico' con le stesse armi, e altri hanno implicitamente assunto la stessa posizione, mantenendo riserve di armi chimiche come deterrente. Il Protocollo è pertanto generalmente considerato alla stregua di un accordo che vieta l'uso delle armi suddette se non per ritorsione.

Sono sorte controversie sulla sua applicabilità in casi specifici. Sebbene le armi incendiarie fossero concordemente assimilate ai gas tossici, il loro vasto impiego nella seconda guerra mondiale ne ha legittimato l'uso. Il prodotto incendiario napalm, che causa la morte per asfissia, è stato ampiamente usato, insieme con altri mezzi, dagli Stati Uniti nella guerra del Vietnam durante gli anni sessanta e all'inizio degli anni settanta. Non è stato raggiunto un accordo generale per porre fuori legge simili armi, nonostante i numerosi tentativi fatti in sede di Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel Vietnam gli Stati Uniti impiegarono anche erbicidi chimici e gas lacrimogeni, e continuano tuttora a sostenere che questi strumenti di guerra non sono contemplati dal Protocollo di Ginevra. Della stessa opinione è, nel caso dei lacrimogeni, la Gran Bretagna, mentre una risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del dicembre 1969 ha stabilito che il Protocollo di Ginevra si applica a qualsiasi agente chimico di guerra impiegato per il suo effetto tossico diretto sull'uomo, sugli animali e sulle piante, e a qualsiasi agente biologico di guerra, o a qualsiasi materiale infettivo da esso derivato, avente lo scopo di provocare una malattia o la morte dell'uomo, di animali o di piante.

4. La seconda guerra mondiale e il periodo postbellico

Nella seconda guerra mondiale non si fece uso di armi biologiche o chimiche, ma ciò non fu dovuto primariamente alle proibizioni imposte dal Protocollo. Entrambe le parti belligeranti immagazzinarono grandi quantità di armi chimiche; i Tedeschi misero a punto segretamente gas nervini, ma furono riluttanti a usarli per il timore, peraltro infondato, che anche gli Alleati ne possedessero. La guerra dette impulso anche alla preparazione di armi biologiche, che furono immagazzinate dagli Alleati, nella convinzione che solo la minaccia di una rappresaglia dello stesso tipo fosse un valido deterrente contro l'uso di queste armi. Nel 1941-1942 gli Inglesi sperimentarono bombe contenenti batteri del carbonchio (malattia batterica altamente letale per gli animali e per l'uomo) in un'isola al largo delle coste scozzesi. Quarant'anni dopo l'isola era ancora inabitabile, così come lo sarebbero state probabilmente Berlino e le altre principali città della Germania che si era progettato di colpire, nel caso si fosse deciso di usare le bombe al carbonchio. Vi furono dei momenti, durante la guerra, in cui gli Alleati presero in considerazione la possibilità di usare le armi chimiche o biologiche, ma prevalse la sensazione che non se ne sarebbe ottenuto alcun decisivo vantaggio militare.

Dopo la guerra si venne a sapere che il Giappone aveva condotto vasti esperimenti sull'uomo con potenziali armi biologiche, servendosi di prigionieri di guerra, soprattutto cinesi e russi, ma anche alcuni americani. Più di 3.000 prigionieri finirono uccisi per esposizione a malattie quali la peste, la tsutsugamushi, il tifo, la dissenteria, la cancrena gassosa, la febbre emorragica, la febbre tifoide, la morva, il colera, la turalemia, la brucellosi, il carbonchio, il vaiolo e altre. Questi esperimenti fornirono informazioni, di norma inaccessibili, sul dosaggio e sulla contagiosità, sulla letalità, sulla rapidità e sul decorso delle malattie considerate: informazioni di valore incalcolabile per lo sviluppo delle armi biologiche. Alla fine della guerra si scopri che il Giappone aveva riserve di armi biologiche di gran lunga superiori a quelle di qualsiasi altra nazione. Gli Stati Uniti seppero di questi esperimenti e segretamente concessero l'immunità da procedimenti giudiziari in cambio di informazioni scientifiche particolareggiate, bloccando così gli sforzi russi di condannare i Giapponesi per queste atrocità. Questi fatti furono resi noti all'opinione pubblica solo alla fine degli anni settanta.

Durante la guerra di Corea inspiegabili focolai di peste, carbonchio, vaiolo, colera e di malattie delle piante indussero la Corea del Nord e la Cina ad accusare gli Stati Uniti di impiegare armi biologiche. L'accusa fu respinta e il fatto non fu mai provato.

Lo sviluppo e la sperimentazione delle armi biologiche continuarono negli anni cinquanta e sessanta, probabilmente da parte di quasi tutte le grandi potenze, benché la Gran Bretagna fin dal 1955 avesse incominciato a interrompere la produzione delle armi biologiche e a distruggeme le riserve. Descriveremo in breve gli esperimenti americani, perché le informazioni sull'argomento sono più facilmente accessibili negli Stati Uniti che nelle altre grandi potenze.

Durante il periodo in esame l'esercito statunitense diffuse segretamente ceppi batterici ‛innocui' su vaste aree, fra cui la zona della baia di San Francisco, la metropolitana di New York, l'aeroporto nazionale di Washington, ecc., allo scopo di studiare la diffusione di questi agenti e l'immunizzazione di massa contro di essi. Risultò che i viaggiatori potevano diffondere germi patogeni molto prima che in essi si potesse diagnosticare la relativa malattia. Sembra che intere città e forse intere nazioni potrebbero così essere colpite. Benché si fossero usati germi non patogeni, si registrarono casi di infezione e anche di morte in una piccola percentuale di soggetti esposti.

Nello stesso periodo l'esercito americano sperimentò sul campo anche autentiche armi biologiche, quali gli agenti della tularemia, della febbre delle Montagne Rocciose, della peste e della febbre Q. Furono messi in circolazione animali infetti e insetti vettori e sembra ci sia stata anche una diffusione di germi patogeni al di fuori dell'area contaminata, in un posto a 87 miglia da Salt Lake City. Fu elaborato un piano, con l'aiuto dell'Università dello Utah, per la diffusione di malattie fra gli animali selvatici, allo scopo di ottenere importanti dati sulla trasmissione di malattie dagli animali selvatici all'uomo e agli animali domestici. I risultati di questi esperimenti non sono mai stati resi pubblici e la loro esistenza venne alla luce solo nel 1968, dopo che un incidente verificatosi durante un esperimento con gas nervino condotto nella stessa zona ebbe ucciso 6.000 pecore delle vicine fattorie.

5. La rinuncia alle armi biologiche

Una svolta nella storia delle armi biologiche si ebbe nel 1969, quando il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, dopo un approfondito esame della politica statunitense per le armi chimiche e biologiche, rinunciò unilateralmente a tutti i metodi di guerra biologica e dichiarò che non avrebbe fatto uso per primo di armi chimiche letali o invalidanti, affermando che ‟il genere umano già detiene nelle sue mani troppi semi della propria distruzione": la ricerca biologica sarebbe stata limitata a misure difensive. Parecchi mesi dopo Nixon fece una simile rinuncia all'impiego bellico di tossine. Le riserve americane di armi biologiche furono distrutte negli anni 1971-1972 e nel 1975 gli Stati Uniti ratificarono il Protocollo di Ginevra, sulla base delle seguenti motivazioni: ‟Le armi biologiche hanno conseguenze di massa imprevedibili e potenzialmente incontrollabili; possono produrre epidemie mondiali e compromettere la salute delle generazioni future"; inoltre esse ‟non possono distruggere gli arsenali militari nemici - carri armati, aeroplani, artiglierie"; pertanto ‟una rappresaglia dello stesso tipo non sarebbe la migliore risposta militare a un attacco biologico".

6. La Convenzione sulle armi biologiche del 1972

Al tempo della decisione di Nixon il Regno Unito aveva già presentato una bozza di convenzione sul bando delle armi biologiche. Nell'atmosfera di distensione che allora prevaleva si raggiunsero diversi accordi sul controllo delle armi e si fecero anche rapidi progressi verso una Convenzione sul divieto di sviluppare, produrre e immagazzinare armi batteriologiche (biologiche) o a base di tossine, e sulla loro distruzione (Convenzione sulle armi biologiche). Questa Convenzione, come già il Trattato per la parziale messa al bando degli esperimenti nucleari negoziato precedentemente, quando era presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, costituisce un caso esemplare di accordo internazionale sul controllo delle armi conseguente a un'azione unilaterale. La Convenzione fu firmata nel 1972 ed entrò in vigore nel 1975, dopo la sua ratifica da parte degli Stati Uniti, del Regno Unito, dell'Unione Sovietica e della maggior parte delle altre potenze militari. Fra gli Stati che non hanno ratificato la Convenzione - fino al 1986 - ci sono Israele, la Siria, l'Egitto e l'Iraq.

La Convenzione sulle armi biologiche fu attuata come parte di uno sforzo teso a realizzare la completa eliminazione di ogni tipo di arma capace di causare distruzioni di massa. Le parti contraenti si impegnavano, per un tempo illimitato, a non progettare, produrre o procurarsi in altro modo, accumulare, vendere, indurre altri a fabbricare o ad acquistare: 1) ‟agenti microbici o altri agenti biologici o tossine di qualsiasi origine e comunque ottenuti, di tipo e in quantità tali da non poter essere giustificati con scopi pacifici (profilattici, protettivi o di altro genere)"; 2) armi, dispositivi o mezzi di propagazione destinati all'impiego degli agenti o delle tossine di cui sopra per scopi ostili o in conflitti armati. Le parti firmatarie della Convenzione si impegnavano anche a distruggere, o a destinare a scopi pacifici, tutti i suddetti agenti - tossine, ordigni, ecc. - in loro possesso.

La Convenzione confermava il Protocollo di Ginevra, che proibiva l'uso delle armi biologiche e chimiche, e riconosceva che l'accordo sulle armi biologiche rappresentava ‟un primo possibile passo verso il raggiungimento di un accordo su efficaci misure per proibire anche [...] le armi chimiche". I firmatari si impegnavano a continuare i negoziati in buona fede per elaborare una convenzione analoga sulle armi chimiche.

Nella storia del controllo degli armanenti la Convenzione sulle armi biologiche costituisce un risultato di importanza unica, in quanto mette fuori legge non solo l'uso, ma anche il possesso e perfino la progettazione di armi biologiche. I negoziatori riconobbero che le proibizioni del semplice uso non sono molto efficaci in tempi di crisi, se esistono scorte di armi, mentre lo sviluppo, la produzione e l'impiego massiccio di nuove armi, in simili frangenti, generalmente non sono vantaggiosi. Se lo spirito della Convenzione sulle armi biologiche fosse seguito in tempo di pace, la Convenzione porterebbe probabilmente ‟a escludere completamente la possibilità che vengano usati come armi agenti batteriologici (biologici) o tossine" in una guerra, come era nelle intenzioni degli estensori della Convenzione. Per esempio, il fatto che gli Inglesi non abbiano usato le bombe al carbonchio durante la seconda guerra mondiale è da attribuire probabilmente alla non completa messa a punto e disponibilità di tali armi nel momento in cui sarebbero servite.

La Convenzione prevede riunioni di ‟consultazione e cooperazione" per risolvere ogni problema che dovesse sorgere. I reclami possono essere presentati al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (nel quale le maggiori potenze hanno il diritto di veto). Riconoscendo che la verifica dell'osservanza della Convenzione sarebbe stata difficile e avrebbe costituito un atto di intromissione, i negoziatori optarono per una rapida conclusione del trattato, senza clausole di verifica, rinunciando a percorrere il lungo e tormentoso cammino per pervenire a un accordo sulle verifiche. Questa decisione si spiega alla luce del fatto che, a quell'epoca, tutti concordavano nel giudicare inutili le armi biologiche.

7. Le armi chimiche e i negoziati in corso

Benché i negoziati fossero stati avviati nell'intento di considerare sia le armi biologiche sia quelle chimiche, fu necessario, per poter progredire, scinderli nei due settori. Le armi chimiche, dopo tutto, avevano raggiunto un notevole sviluppo e si erano dimostrate utili, almeno fino a un certo punto. Esse sono per loro natura più controllabili delle armi biologiche; inoltre, - e questa è forse la cosa più importante - si ritiene che esse abbiano un valore deterrente, che non verrebbe meno senza un'adeguata assicurazione contro una rottura del trattato. La minaccia di una ritorsione dello stesso tipo viene considerata essenziale, perché costringerebbe l'aggressore a combattere protetto dallo stesso equipaggiamento ingombrante necessario al nemico e a intraprendere procedimenti di decontaminazione che sottrarrebbero risorse al combattimento. Se queste considerazioni siano tuttora importanti, in un'era di missili e di armamenti che si comandano con un bottone, è una questione che resta aperta, mentre il problema delle verifiche rappresenta ancora il punto cruciale in un trattato sulle armi chimiche.

Per le armi chimiche, allo stato attuale, la verifica è più praticabile che per le armi biologiche. Dato che le prime vengono diffuse come gas ed esercitano i loro effetti per contatto o per inalazione, se ne richiedono quantità enormi, che vanno da circa 20.000 a 10 mg/metro cubo al minuto (parecchi milioni di tonnellate di gas tossici furono immagazzinati dagli Alleati durante la seconda guerra mondiale). Quantitativi così ingenti potrebbero, in teoria, essere scoperti e tenuti sotto controllo assai più facilmente di quelli molto meno consistenti richiesti per le armi biologiche (l'inalazione di appena un migliaio di batteri o l'ingestione di solo un centinaio possono già causare una malattia).

Anche diverse tossine sono efficaci in dosi di gran lunga inferiori a quelle di un qualsiasi composto chimico sintetico. Le tossine sono sostanze chimiche prodotte biologicamente, sono solide e verrebbero presumibilmente spruzzate in forma di aerosol per contaminare l'aria, gli alimenti e le riserve idriche. A causa della loro elevata tossicità, della loro rapidità di azione e della loro incapacità di moltiplicarsi (donde una maggiore controllabilità), sono considerate i più convenienti agenti ‛biologici' da usare a scopo bellico. È interessante che siano state incluse nella Convenzione sulle armi biologiche, sebbene siano sostanze chimiche più che agenti infettivi. Il fatto è che, per quel che riguarda i dosaggi letali, i metodi di preparazione e di diffusione e la difficoltà di controllarne la produzione e lo stoccaggio, esse appartengono propriamente agli agenti biologici.

Sono già stati fatti notevoli progressi verso una convenzione sulle armi chimiche: il trattato è in via di discussione in seno al Comitato ad hoc per le armi chimiche della Conferenza delle Nazioni Unite sul disarmo, di cui fanno parte le principali nazioni. È stata delineata una bozza dettagliata per una convenzione particolarmente esaustiva, che prevede divieti simili a quelli della Convenzione sulle armi biologiche, nonché la distruzione delle riserve esistenti di armi chimiche e delle attrezzature per la loro produzione.

Rispetto alla Convenzione sulle armi biologiche, questo abbozzo di convenzione impone condizioni molto più puntuali e specifiche, richiedendo un gran numero di dichiarazioni sullo statu quo e di piani particolareggiati per tutte le fasi di applicazione delle sue clausole. In linea di principio è prevista anche la verifica dell'osservanza di tali clausole, ma i dettagli della sua attuazione pratica non sono ancora stati specificati in riferimento a ciascuna fase. La produzione di armi chimiche a scopo difensivo è consentita su piccola scala e in un solo impianto, e nel documento definitivo verrà stabilito un limite massimo alla quantità di sostanze producibili. Si è anche raggiunto un accordo che prevede la compilazione di rapporti annuali completi di dati e l'attuazione di ispezioni sistematiche in loco. Saranno sottoposte a un controllo continuo e accurato le sostanze chimiche fondamentali che servono alla sintesi delle armi chimiche. Sarà costituito un comitato consultivo, nel quale saranno rappresentati tutti i firmatari, che dovrà dirigere o promuovere l'aggiornamento della convenzione ed effettuare le verifiche di adempimento, ivi comprese le ispezioni in loco. Esso controllerà le dichiarazioni sullo statu quo, passerà in rassegna i nuovi sviluppi scientifici e tecnici che potrebbero riguardare la convenzione e prenderà in considerazione le richieste di indagine su sospette violazioni. Sarà anche istituita una segreteria tecnica di supporto al comitato consultivo.

Il disaccordo riguarda soprattutto la questione delle ispezioni su denuncia; in particolare resta da decidere se queste ispezioni debbano essere obbligatorie, quale debba essere il grado di certezza per chiedere un'ispezione e quanto tempo debba intercorrere fra la denuncia e l'ispezione. Nonostante queste difficoltà, l'aver fissato un accordo di principio sulle verifiche e sulle ispezioni in loco rappresenta un enorme passo avanti. Comunque, una volta eliminate le armi chimiche e i relativi impianti di produzione, sarà compito non facile controllare in continuazione la gigantesca industria chimica in tutto il mondo per evitare abusi. Verificare che vengano osservati i divieti sulle armi biologiche sarebbe più semplice, poiché gli agenti che costituiscono queste armi hanno scarsi impieghi commerciali (se si eccettuano certi pesticidi). D'altra parte, il fatto che di armi biologiche bastino quantitativi molto inferiori, renderebbe più difficile scoprirne la produzione e l'immagazzinamento.

Queste differenze fra armi chimiche e armi biologiche possono essere transitorie: in futuro potrebbero essere elaborate a scopo bellico, oltre alle tossine, complesse sostanze chimiche di origine biologica, molto potenti, e le moderne biotecnologie potrebbero consentirne la produzione in grandi quantità. Ormoni a rapida azione, normali o modificati, sostanze allucinogene, ecc. potrebbero un giorno sostituire i gas tossici e i gas nervini come armi chimiche e, qualora ciò accadesse, la convenzione sulle armi chimiche ora in discussione risulterebbe disperatamente inadeguata. Già lo stanziamento richiesto dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti per l'esercizio finanziario 1987 comprende 12 milioni di dollari per iniziare ricerche ‟su composti letali e invalidanti", allo scopo di produrre una nuova generazione di armi chimiche, prima ancora che sia cominciata la produzione dei nuovi gas nervini binari. Ora si tratta di decidere se allargare la bozza di convenzione per includervi tali agenti e gli agenti biologici, o se concludere la convenzione sui gas il più rapidamente possibile e trattare gli altri argomenti separatamente, in un secondo tempo. Se i negoziati continueranno lungo la seconda direttiva, è probabile che ci saranno nuovi pericolosi sviluppi prima che sia stato fatto qualche tentativo per controllarli. D'altra parte, allargare l'obiettivo comporterebbe un aumento dei problemi di verifica e rallenterebbe i negoziati; però renderebbe possibile l'inclusione delle armi biologiche in un regime più strutturato che, anche se non offrisse la possibilità di complete verifiche dell'ottemperanza (e molti ritengono che simili verifiche nel caso delle armi biologiche e biochimiche siano sostanzialmente impossibili), richiederebbe almeno la rivelazione di molte informazioni importanti e fornirebbe i meccanismi per esaminare i nuovi sviluppi e per trattare i reclami. Come la Convenzione sulle armi biologiche rappresenta un'estensione del Protocollo di Ginevra, così la convenzione sulla quale si sta ora negoziando potrebbe essere un'estensione dei due precedenti trattati.

8. Presunte violazioni della Convenzione

Migliori disposizioni per verificare e trattare i reclami sarebbero state molto utili nell'affrontare le numerose denunce di violazione della Convenzione sulle armi biologiche presentate fin dal 1975, anno in cui la Convenzione entrò in vigore. All'incirca in quel periodo si seppe che la CIA (Central Intelligence Agency) non aveva ottemperato all'ordine del presidente Nixon di distruggere le riserve di tossine destinate a un impiego dichiaratamente ‛offensivo' in occulte attività destabilizzatrici. Non c'è alcun motivo per ritenere che il modo di pensare e di agire della CIA non si possa riscontrare anche nei servizi segreti di altri paesi, che potrebbero continuare a far uso di armi biologiche, benché proibite, nelle loro operazioni segrete, delle quali non devono rendere conto a nessuno.

Successivamente, Cuba accusò gli Stati Uniti di aver introdotto nell'isola il virus della febbre suina africana, rendendo necessaria la distruzione di un gran numero di maiali per tenere sotto controllo la malattia. La febbre suina africana, una grave malattia che colpisce molti animali domestici, era in precedenza sconosciuta nell'emisfero occidentale.

Nella primavera del 1979 si verificò un'epidemia di carbonchio a Sverdlovsk, in Unione Sovietica. Un emigrato politico russo scrisse in un articolo che in uno stabilimento militare era avvenuta un'esplosione, che aveva causato la fuoriuscita di riserve di bacilli del carbonchio. Quando gli Stati Uniti chiesero una spiegazione all'Unione Sovietica, questa rispose che il carbonchio non era stato mai completamente sradicato da quella zona e che l'epidemia era stata causata dalla vendita non autorizzata di carne contaminata. Gli Stati Uniti non hanno mai accettato questa spiegazione, né quella alternativa proposta da un ben noto scienziato russo dissidente, il quale aveva suggerito l'ipotesi che l'incidente si fosse verificato in un laboratorio per la produzione di un vaccino contro il carbonchio, nel quale si dovevano coltivare bacilli del carbonchio vivi. Siccome non ci fu nessuna ispezione indipendente in loco, non si è mai potuta ottenere una prova definitiva in un senso o nell'altro.

La denuncia di violazione del trattato che ebbe maggior risonanza fu quella originata dalla storia della pioggia gialla. Dal 1982 al 1984 gli Stati Uniti ritennero di avere prove dell'uso bellico di tossine nel Sud-Est asiatico e anche in Afghanistan. Si era scoperto che alcune gocce di ‛pioggia gialla', di consistenza vischiosa, provenienti da zone di combattimento nel Sud-Est asiatico, contenevano piccole quantità di tricoteceni, tossine prodotte da parecchi tipi di funghi. Queste tossine furono trovate anche in alcuni campioni di sangue prelevati da soggetti provenienti dalle zone di attacco. Basandosi su queste prove e su quanto riferito dai rifugiati in merito agli ‛attacchi' di pioggia gialla, gli Stati Uniti affermarono che l'Unione Sovietica stava fornendo al Vietnam tossine da usare come armi nel Laos e in Cambogia. Non fu presentata, però, alcuna prova materiale del coinvolgimento sovietico. Successivamente il laboratorio chimico dell'esercito americano non riuscì a trovare tossine in nessuno degli 80 campioni di pioggia gialla esaminati, fra i quali ce n'era uno che era risultato positivo in un altro laboratorio. Si scoprì invece che i campioni contenevano particelle di polline (che non sembra possano fungere da armi) di diversi tipi. Attraverso un brillante lavoro di indagine scientifica M. Meselson della Harvard University e i suoi colleghi giunsero alla conclusione che la pioggia gialla poteva consistere di escrementi di api della giungla, eliminati in gruppo nel corso di ‛voli di purificazione', gialli per la presenza di granuli di polline digeriti. Questi di quando in quando potevano ammuffire: si spiegava così la presenza occasionale di tossine fungine. In seguito il governo canadese trovò tossine in alcuni campioni di sangue prelevati da soggetti provenienti da zone prossime alla Tailandia - al di fuori delle aree di combattimento - quasi sicuramente assunte tramite l'ingestione di alimenti contaminati da funghi. Ciò ha dimostrato che queste tossine, velenose per l'uomo, nel Sud-Est asiatico sono diffuse da vettori naturali. Pertanto, benché sia impossibile escludere con sicurezza che siano state impiegate armi biologiche, la spiegazione più plausibile del singolare fenomeno della pioggia gialla resta quella fornita da Meselson.

La prova materiale dell'uso bellico di tossine in Afghanistan era insufficiente. Sfortunatamente, investigatori imparziali, nominati dal Segretario generale delle Nazioni Unite su richiesta dell'Assemblea generale, non poterono analizzare i materiali se non dopo molto tempo dai fatti denunciati e non ebbero mai accesso diretto ai posti dove effettivamente si sarebbero verificati i lamentati attacchi in Afghanistan, nel Laos o in Cambogia; quindi non poterono raccogliere di persona dati probanti. Di conseguenza gli esperti delle Nazioni Unite, disponendo di indizi poco attendibili sui fatti denunciati, non furono in grado di giungere a conclusioni definitive né in un senso né nell'altro.

9. L'impatto delle biotecnologie

Mentre le denunce di presunte violazioni della Convenzione sulle armi biologiche cominciavano a incrinare la fiducia nella Convenzione stessa, si è andata profilando una minaccia ancora più sinistra, risultato delle ultime scoperte biotecnologiche. In un passato ancora recente sono state le ricerche, di per sé innocue, sugli ormoni vegetali che hanno portato allo sviluppo dei defolianti, così come le ricerche sugli insetticidi hanno portato alla produzione di gas nervini; senza dubbio le ricerche in corso per trovare una cura contro gli effetti di questi gas condurranno alla scoperta di metodi per vanificare ogni terapia adottabile contro agenti nervini peraltro sempre più micidiali.

Proprio mentre si stava procedendo alla firma della Convenzione sulle armi biologiche, nel campo dell'ingegneria genetica si verificò uno straordinario passo in avanti, destinato a sconvolgere la nuova Convenzione. L'avvento della tecnologia del DNA ricombinante, che permette di legare fra loro tratti genetici di diversa origine per creare nuovi organismi, e di altre nuove biotecnologie, che facilitano la produzione su grande scala, la concentrazione e la purificazione di virus, microrganismi, tossine e prodotti biochimici, ha rivoluzionato le idee sulle armi biologiche.

Concettualmente oggi è possibile progettare svariati agenti per armi biologiche del tutto inimmaginabili precedentemente. Gli agenti infettivi naturali possono essere resi più virulenti (per esempio inserendo in essi nuovi geni che codificano per tossine), resistenti al trattamento con antibiotici e insensibili ai vaccini tradizionali e ai normali fattori immunologici (per esempio alterandone gli antigeni di superficie). L'alterazione degli antigeni interferirebbe anche con l'identificazione dell'agente microbico, che viene fatta abitualmente con metodi sierologici. In linea di principio è possibile conferire all'agente microbico una maggiore o minore stabilità, ivi compresa la resistenza all'inattivazione da parte dei trattamenti (esposizione alla luce, essiccamento, nebulizzazione, ecc.) cui è sottoposto quando viene usato come arma.

È possibile inserire geni nocivi in microrganismi di per sé innocui (come quelli che costituiscono la normale flora batterica dell'intestino umano o di particolari animali domestici), presenti naturalmente in determinati ambienti dove, una volta trasformati, possono diffondersi rapidamente e senza incontrare resistenza, in quanto vengono riconosciuti come ‛normali'. Perfino la specificità nei confronti degli organismi ospiti può essere alterata e ciò comporta la possibilità di confezionare armi ‛etniche'. Tentativi di trovare agenti del genere erano già in corso molto prima che si disponesse della tecnologia del DNA ricombinante.

A tutt'oggi non si sa se manipolazioni genetiche di questo tipo possano o no condurre allo sviluppo di nuove armi biologiche realmente ‛utili', cioè tali da poter essere controllate adeguatamente, senza pericolo, dall'utilizzatore. La biotecnologia è ancora giovane, l'esperienza in questo campo è limitata e progetti realizzabili in teoria potrebbero all'atto pratico andare incontro a grosse difficoltà. Le misure protettive, anche se attuabili in linea di principio, potrebbero essere impraticabili su larga scala. Il pericolo attuale sta nella tentazione di ‛gingillarsi' per scoprire tutto quello che è possibile realizzare. Non c'è dubbio che si possano produrre nuovi pericolosissimi agenti, e alcuni anche con relativa facilità: la difficoltà sta nel loro controllo. La creazione di nuovi agenti nocivi negli stadi sperimentali della ricerca, prima che siano stati adeguatamente studiati i mezzi di controllo, comporterebbe il rischio di fughe accidentali o di furti da parte, per esempio, di terroristi. Questo tipo di rischio, che non può mai essere completamente eliminato, costituirebbe una minaccia per tutto il mondo.

Oltre che la creazione di nuovi agenti patogeni, le nuove biotecnologie hanno reso possibile la produzione, in grandi quantità e secondo semplici procedimenti, di agenti biologici e biochimici, comprese le tossine, in impianti miniaturizzati. Un rapporto del Dipartimento della Difesa americano, indirizzato al Congresso (maggio 1986), afferma: ‟I processi produttivi biotecnologici sono talmente progrediti che permettono di produrre rapidamente ed economicamente, in piccole fabbriche, grandi quantitativi di tossine e agenti di origine biologica da usare come armi. Verrà presto il momento in cui il maggior fattore limitante sarà lo spazio per l'immagazzinamento dei prodotti. In taluni casi non ci sarà neanche bisogno di immagazzinamento, data la possibilità di produrre molto rapidamente ingenti quantità di armi biologiche in impianti clandestini". Tutto ciò è stato reso possibile da metodi come la tecnologia delle fibre cave, la tecnologia dei fermentatori a flusso continuo, le nuove tecniche di coltura di cellule di mammifero, la tecnologia degli ibridomi (anticorpi monoclonali), ecc. Il rapporto continua: ‟Modificando il DNA di determinati microrganismi si potrebbe indurli a sintetizzare tossine proteiche presenti in natura. In tal modo si potrebbero produrre enormi quantitativi di tossine vegetali e/o fungine.

Sarebbe difficile accusare della loro esistenza un eventuale nemico, dato che esse sono già presenti nell'ambiente, sebbene a basse concentrazioni". I microrganismi ricombinanti contenenti geni per la sintesi di tossine ‟potrebbero essere impiegati o direttamente come agenti bellici o indirettamente per produrre tossine da estrarre e concentrare". Inoltre ‟è possibile produrre artificialmente le sostanze biologiche naturali che esercitano potenti effetti regolatori sul corpo. Queste sostanze sono normalmente presenti nell'organismo in piccolissime quantità e controllano gli stati mentali, l'umore e le emozioni, l'attività percettiva, il funzionamento, l'accrescimento e la riparazione degli organi, la temperatura e altri processi che si svolgono nell'organismo. Esse non sono considerate tossiche e sono ritenute indispensabili per il normale funzionamento del corpo umano, ma anche piccoli squilibri nel loro dosaggio possono produrre gravi effetti fisiologici, portando all'invalidità e perfino alla morte [...]. Lo sviluppo di questi agenti può essere mimetizzato fra le ricerche farmacologiche - e quindi sottratto a ogni controllo - a causa del loro duplice possibile uso: come potenti agenti bellici e come prodotti farmaceutici".

In linea di principio qualsiasi sostanza naturale può essere sintetizzata in gran quantità inserendo un gene appropriato in un microrganismo che può essere facilmente fatto proliferare su larga scala.

È probabile che questa nuova possibilità costituisca una forte tentazione per i militari. Le conoscenze sulle armi biologiche che portarono alla Convenzione del 1972 erano già superate quando la Convenzione entrò in vigore, nel 1975. Prima di allora i possibili agenti bellici biologici erano pochi, noti a tutti, e le loro proprietà erano fisse. Attualmente può essere progettato e prodotto un numero illimitato di nuovi agenti (le cui possibilità di impiego pratico sono ancora ignote) ai quali l'avversario sarebbe totalmente impreparato. Inoltre è sempre più facile preparare agenti offensivi senza essere scoperti e compiere il passo critico - l'elaborazione di nuovi agenti - senza neanche violare la lettera della Convenzione sulle armi biologiche.

10. Offesa e difesa

La Convenzione sulle armi biologiche non dice nulla sull'attività di ricerca e permette lo sviluppo di agenti biologici e di tossine dei tipi e nei quantitativi necessari per approntare misure difensive. Indubbiamente le ‛misure difensive' contemplate si limitavano a metodi di rivelazione, procedimenti di decontaminazione, equipaggiamenti protettivi e vaccini contro gli agenti biologici conosciuti. Ma ora la ‛valutazione della minaccia' a fini difensivi può essere articolata in modo da includere lo sviluppo di nuovi agenti offensivi (se si sospetta che il nemico li stia sperimentando), allo scopo di determinare le loro proprietà, i possibili metodi di rivelazione e i mezzi di difesa da impiegare contro di essi. Il Dipartimento della Difesa americano afferma: ‟Ovviamente la valutazione di una potenziale minaccia richiede l'impiego dell'agente che costituisce la minaccia. [...] La minaccia rappresentata da nuovi agenti biologici deve essere determinata col maggior grado possibile di certezza. Questo alto grado di certezza deve essere ottenuto anche per quel che riguarda le informazioni sulle ramificazioni delle nuove tecnologie produttive e di lavorazione, applicate agli agenti bellici biologici convenzionali e nuovi. Fra gli strumenti indispensabili alla difesa biologica c'è l'attrezzatura per saggiare agenti noti o sospettati [...]. Le caratteristiche degli agenti tradizionali sono conosciute abbastanza bene, mentre non abbiamo simili informazioni critiche su quelli in via di sviluppo. Abbiamo bisogno di maggiori informazioni soprattutto sulle difese adottabili contro nuovi agenti".

L'impiego offensivo di nuovi agenti elaborati a scopo difensivo è una pura questione di scelta. La comunità scientifica è pressoché unanime nel ritenere che i preparati difensivi e quelli offensivi siano sostanzialmente gli stessi. È da notare che l'impiego offensivo delle armi biologiche e chimiche richiede assolutamente un buon sistema di difesa, altrimenti è probabile che si ritorcerebbe contro chi vi facesse ricorso. Così, l'adozione di un programma di difesa, specialmente se segreto, sarebbe probabilmente considerata come un preparativo per sferrare il primo attacco - argomentazione simile a quella che portò al trattato contro i missili antibalistici, per proibire la difesa contro i missili nucleari. L'argomentazione è avvalorata dal fatto che, come conseguenza del potenziale pressoché illimitato dell'ingegneria genetica, non c'è modo di prevedere che cosa potrebbe escogitare un nemico. È perciò sostanzialmente impossibile che sia veramente affidabile un sistema puramente difensivo.

Tuttavia i progressi biotecnologici hanno riacceso l'interesse dei militari per gli allestimenti difensivi contro le armi biologiche. In effetti la prospettiva di una guerra biologica è più che mai paurosa, ma, data l'ambiguità inerente, almeno per ora, al concetto di difesa contro le armi biologiche, tutti i preparativi segreti, difensivi od offensivi, devono essere considerati indistinguibili ed equivalenti. Con ogni probabilità, i tentativi di difesa susciteranno, paradossalmente, dei sospetti che alimenteranno la corsa allo sviluppo di armi biologiche di offesa.

11. Potere deterrente, rischi e proliferazione

Da quanto esposto finora si potrebbe trarre l'erronea conclusione che la miglior difesa sia una buona offesa, intesa come capacità di attuare una ritorsione con lo stesso tipo di armi. Ci sono invece parecchie ragioni per cui ciò non è vero. Una è la possibilità di furti, sabotaggi o incidenti; una volta prodotto un nuovo agente molto virulento, la sua stessa esistenza rappresenta un grave pericolo: prima o poi può sfuggire o cadere nelle mani di terroristi. Un'altra ragione è il fatto che le armi esistenti tendono a essere usate, e in tale campo non sempre prevale la logica. La possibilità di un contagio incontrollabile o di eventi imprevedibili, come il verificarsi di una mutazione dopo il rilascio, potrebbe un giorno o l'altro venire dimenticata nel fervore della battaglia. In terzo luogo, la detenzione di armi biologiche, per esercitare un effetto deterrente, dovrebbe essere nota o almeno sospettata; ma ciò svuoterebbe del suo contenuto la Convenzione sulle armi biologiche e favorirebbe una corsa internazionale a questo tipo di armi. Solo osservando scrupolosamente la Convenzione si potrà impedire una diffusa proliferazione delle armi biologiche, anche adesso che la relativa facilità ed economicità con cui si possono produrre clandestinamente queste armi, modificando le fabbriche esistenti di prodotti farmaceutici, può ben indurre le nazioni più deboli a procurarsi quella che è stata chiamata ‛la bomba atomica dei poveri'.

Nel caso delle grandi potenze che, in un primo tempo, sarebbero probabilmente le uniche a produrre nuove armi biologiche, il deterrente nucleare, con il suo supporto di armi convenzionali, dovrebbe essere sufficiente. Un ulteriore agente distruttivo di massa non è necessario come deterrente e non sarebbe la migliore risposta militare a un attacco biologico; questa argomentazione è ancor più vera oggi di quando fu enunciata per la prima volta dal presidente Nixon. Il segretario di Stato americano G. Shultz presumibilmente aveva in mente questo quando disse nel 1986 che, se si fosse trovato un accordo per eliminare completamente le armi nucleari, sarebbero sorte questioni su argomenti come le armi chimiche e biologiche.

Il ricorso a nuovi agenti biologici da parte delle grandi potenze sarebbe ancora meno indicato se, anziché a scopo deterrente, fosse fatto a scopo offensivo. In conflitti regionali o in azioni segrete nel Terzo Mondo gli agenti biologici convenzionali sarebbero oggi altrettanto efficaci quanto quelli nuovi; per un impiego strategico contro un nemico probabilmente dotato di armi simili, nonché di armi nucleari, nuovi agenti sarebbero proprio troppo pericolosi. In effetti le armi biologiche sono in generale troppo lente, inaffidabili e rischiose per un uso su scala strategica, e troppo facilmente provocherebbero un'escalation.

12. Attività militari e sospetti reciproci

Da quanto esposto nel capitolo precedente risulta evidente che le grandi potenze avrebbero tutto l'interesse, in un'ottica lungimirante, a evitare qualsiasi attività attinente alle armi biologiche e a promuovere l'osservanza dello spirito, oltre che della lettera, del Protocollo di Ginevra e della Convenzione sulle armi biologiche, allo scopo di tenere le armi biologiche fuori della portata delle altre nazioni e dei terroristi. Viceversa è prevalsa finora un'ottica miope, e la produzione di armi biologiche viene usata come un elemento in più nella competizione fra le superpotenze. Nel 1985 gli Stati Uniti dichiararono di essere a conoscenza del fatto che l'Unione Sovietica possedeva un arsenale di armi biologiche, in violazione della Convenzione, e stava preparando un programma di sviluppo di armi di offesa utilizzando l'ingegneria genetica. Quest'accusa non è mai stata dimostrata né ha avuto seguito, se si eccettuano clamorosi articoli apparsi sulla stampa popolare, nei quali anonimi emigrati sovietici facevano illazioni su attività e scopi di scienziati sovietici e avanzavano l'ipotesi che il gene per il veleno di cobra venisse inserito nel virus dell'influenza (una delle peggiori scelte possibili per un'arma biologica, poiché questo virus è così mutevole che i Sovietici non sarebbero in grado di proteggersi da esso). Queste denunce sono state usate dagli Stati Uniti per giustificare l'aumento degli stanziamenti militari per la difesa contro le armi biologiche. In effetti, fra il 1980 e il 1984, i finanziamenti federali destinati alla ricerca universitaria nel settore delle scienze biologiche sono diminuiti complessivamente dell'1%, mentre i finanziamenti a favore del Dipartimento della Difesa (erogati sotto forma di contratti con imprese civili) sono aumentati del 50% e il numero dei progetti militari non classificati, basati sulla tecnologia del DNA ricombinante e degli ibridomi, è salito da 0 a oltre 100. Si è così dato l'avvio a un processo di dirottamento della ricerca biologica e delle biotecnologie verso scopi militari.

Nel 1985 fra i progetti non classificati basati sulla tecnologia del DNA ricombinante, sovvenzionati dal Dipartimento della Difesa, figurava la donazione di geni, ottenuti da diversi agenti patogeni, da usare come vaccini o per la produzione di sonde a DNA diagnostiche per l'ibridazione specie-specifica e per altri metodi di identificazione rapida.

Sono stati studiati numerosi virus esotici, fra cui quelli dell'Hantaan, del Chikungunya, dell'O'Nyong-nyong, del Mayaro, del Ross River, della febbre della Rift Valley, della dengue-1, -2 e -3, dell'encefalite giapponese, della Bunya e della coriomeningite linfocitica. Sono stati donati i geni di veleni di serpente, il gene della tossina del tipo Shigella e di altre tossine, nonché i geni della rodopsina e di altre proteine dell'apparato della vista.

La clonazione dei geni implica il loro trasferimento in altri organismi e rende anche possibile la produzione su larga scala della proteina prodotta dal gene, la quale può essere una tossina, impiegabile come arma biologica, o un antigene innocuo, che può essere usato come vaccino contro l'agente patogeno originario oppure per produrre grandi quantità di anticorpi mediante la tecnologia degli ibridomi. Gli anticorpi a loro volta possono essere impiegati in tecniche di rivelazione e di identificazione per purificare proteine specifiche, fra cui le tossine, oppure per effettuare un'immunizzazione passiva.

L'interesse che i progetti citati suscitano nelle autorità militari dipende dal fatto che queste ricerche permettono di elaborare diversi prodotti da destinare a un impiego bellico, quali: tossine, nuovi organismi patogeni, agenti chimici capaci di attaccare i pigmenti della retina e quindi di accecare, reattivi rivelatori e vaccini per individuare e neutralizzare gli agenti patogeni sia in caso di attacco nemico sia nell'eventualità di una propria offensiva a base di armi biologiche.

Un modo per dimostrare che non si nutrono intenti offensivi consiste nel rinunciare a possedere impianti, ad alto potere deterrente, destinati al collaudo di agenti suscettibili di fungere da armi biologiche, preparati nella forma usata a scopi bellici. Alla fine del 1984 gli Stati Uniti non disponevano di impianti per il collaudo degli aerosol; l'esercito, quindi, decise di attuare un'oscura manovra allo scopo di ottenere i fondi per la costruzione di un impianto del genere senza la consueta supervisione del Congresso. Ciò scatenò una reazione furibonda da parte dell'opinione pubblica e la costruzione dell'impianto per il collaudo degli aerosol fu bloccata mediante un'azione legale per almeno due anni.

Questo episodio portò alla ribalta la questione delle armi biologiche. Si apprese che l'impianto avrebbe permesso studi su ingenti quantitativi di virus estremamente pericolosi e su altri biomateriali ridotti ad aerosol e sarebbe stato impiegato per sperimentare misure difensive. Almeno parte del lavoro ivi eseguito sarebbe stato segreto e nulla garantiva che non sarebbero stati effettuati esperimenti di ingegneria genetica. Indipendentemente dalle intenzioni dell'esercito, l'impianto in questione avrebbe chiaramente offerto l'opportunità di sviluppare armi biologiche e avrebbe sicuramente dato origine a sospetti e a timori che avrebbero probabilmente catalizzato, in qualche parte del mondo, una risposta del tipo peggiore. Forse l'intervento dell'opinione pubblica riuscirà a impedire che tutto ciò accada: essa può esercitare infatti un potente effetto moderatore, costringendo i responsabili del settore all'osservanza dei divieti concernenti le armi biologiche e contribuendo a dissipare i sospetti che minano gli accordi internazionali.

Quanto detto fin qui facendo riferimento agli Stati Uniti, dove le informazioni sono più accessibili, potrebbe valere anche per altre nazioni; quel che è certo è che la segretezza alimenta i sospetti: sin dall'avvento delle biotecnologie la segretezza ha scosso la fiducia nell'efficacia dei divieti riguardanti le armi biologiche. Se si vuol ripristinare questa fiducia bisogna: a) rimuovere il segreto militare che copre le attività di sviluppo e di collaudo dei mezzi di difesa non specifici (come gli indumenti protettivi) e di quelli specifici contro agenti convenzionali, compresi i rivelatori; b) trovare il modo di rassicurare le nazioni non impegnate in queste ricerche che non sono in via di elaborazione nuovi agenti.

13. Prospettive

Nel 1980 si è tenuta la prima Conferenza per la revisione della Convenzione sulle armi biologiche e tutti i partecipanti si sono trovati d'accordo sul fatto che anche i nuovi agenti prodotti mediante ingegneria genetica andrebbero annoverati fra le armi biologiche contemplate dal trattato.

La seconda Conferenza per la revisione è stata tenuta nel settembre del 1986; in quest'occasione tutti i partecipanti hanno espresso la loro preoccupazione per la mancanza di adeguate procedure per l'effettuazione di controlli e per la valutazione dei reclami e hanno manifestato l'esigenza di una maggiore trasparenza delle operazioni difensive, per mitigare i sospetti generati dalle nuove biotecnologie.

L'atmosfera di cooperazione che ha caratterizzato la Conferenza del 1986 è stata decisamente migliore di quella che si respirava negli anni precedenti, se si pensa che un tentativo intrapreso dagli Svedesi, nel 1982, di convocare una conferenza speciale dei firmatari della Convenzione allo scopo di elaborare una procedura di controllo attendibile e imparziale, restò infruttuoso e infine dovette essere abbandonato. Alla seconda Conferenza per la revisione si è fatto qualche progresso nella determinazione di procedure per trattare i reclami e si è stabilito che le parti interessate si scambino particolari informazioni scientifiche e mediche onde poter appurare il carattere offensivo o difensivo di specifiche misure. Tutte queste iniziative rientrano nell'ambito della Convenzione. È stata anche presa in considerazione la possibilità di estendere la Convenzione stessa, e ciò potrà avvenire in futuro, specie se si raggiungerà un accordo sulle armi chimiche. Può darsi che opportunità di ulteriori progressi vadano oggi cercate al di fuori della Convenzione; lo spirito costruttivo della Conferenza per la revisione può contribuire a realizzarle.

Ciò di cui si ha maggiormente bisogno è un insieme di misure rassicuranti atte a prevenire i sospetti. Gli sviluppi della biologia e delle altre scienze devono essere tenuti d'occhio continuamente, data la loro rilevanza ai fini della realizzazione di nuove armi; bisogna proporre specifiche misure restrittive, precisando anche i mezzi per dimostrarne pubblicamente l'osservanza. Tra i mezzi in questione potrebbe figurare, per esempio, un rapporto annuale contenente una serie di informazioni cruciali non facilmente ottenibili altrimenti, quali: l'ubicazione, gli scopi e le caratteristiche degli impianti ad alto potere deterrente e delle zone riservate agli esperimenti, il tipo di lavoro ivi svolto e il grado di segretezza relativo; le caratteristiche tipologiche e la consistenza numerica degli agenti biologici e delle tossine immagazzinati o impiegati; i dati sui controlli sanitari del personale dei suddetti impianti; i dati sull'insorgenza di malattie insolite o esotiche e sulla relativa epidemiologia; un elenco dei vaccini messi a punto e dei programmi di vaccinazione intrapresi.

Un programma di questo genere potrebbe integrare efficacemente i trattati esistenti e rafforzare la determinazione a rispettarli. Infine c'è da sperare che un tale programma, insieme con clausole specifiche che prescrivano le modalità di attuazione di ispezioni e mediazioni, venga incluso nella convenzione sulle armi chimiche, o in un trattato o in un protocollo separati. Nel frattempo esso potrebbe essere adottato non ufficialmente, sotto la spinta dell'opinione pubblica, da un organismo internazionale indipendente di grande prestigio.

A lungo andare le leggi internazionali perdono la loro cogenza e le procedure di verifica non possono risolvere i conflitti, a meno che non si faccia uno sforzo comune di buona volontà nella consapevolezza che la proibizione delle armi biologiche è nell'interesse di ogni nazione e di ogni essere umano. Se le armi biologiche veramente ripugnano alla coscienza dell'umanità, è l'umanità stessa, e non i governi, che deve accertarsi della loro eliminazione. Oli uomini, specialmente gli esperti del settore, dovranno insistere per indurre i governi ad agire in modo da creare fiducia anziché sospetti. I valori umani, più che le decisioni politiche, sono l'unica base solida su cui fondare le leggi internazionali; il pericolo di una distruzione di massa sarà evitato solo tramite un impegno collettivo.

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