ARISTOTELISMO

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)

ARISTOTELISMO

C. Gentili

Di un'influenza aristotelica nelle concezioni medievali dell'arte non si può parlare prima del sec. 13°, quando ha grande rilievo - in rapporto al modo di concepire l'opera d'arte - la figura del domenicano Guglielmo di Moerbeke (nato nel 1215 ca.) e in particolare la sua traduzione del libro XI della Metaphysica, sino a quel momento non ancora tradotto integralmente. Rivedendo criticamente le parziali versioni precedenti (la più antica delle quali era conosciuta nel sec. 12°), Guglielmo diede infatti una lettura rigorosa e completa di quell'opera che, con i concetti di materia e forma, doveva essere il fondamento delle teorie sull'arte professate da s. Tommaso e poi da Dante. Del 1278, inoltre, è la sua nuova traduzione della Poetica, di cui già nel 1210 era conosciuta una versione dal greco. A lui si deve anche una traduzione latina della Rhetorica, nonché la traduzione integrale della Politica, il cui libro VIII, nel trattare dell'educazione, contiene un vero e proprio sommario di estetica, soprattutto musicale, mentre nel VII si trova una trattazione urbanistica che prende in considerazione la città anche dal punto di vista estetico. Di Guglielmo di Moerbeke è anche la revisione critica dell'Ethica Nicomachea, la cui traduzione dal greco era stata ultimata nel 1245 (correggendo i libri di cui si avevano traduzioni precedenti) dal vescovo di Lincoln, Roberto Grossatesta (m. nel 1253), che nella duplice veste di teorizzatore e di committente ebbe parte non piccola nella storia dell'estetica medievale. Per quanto riguarda la rilevanza dell'Ethica Nicomachea in relazione alle teorie del bello e dell'arte, si può concordare con De Bruyne (1946, p. 74), quando sottolinea la fondamentalità del cap. 10 del libro III di quest'opera aristotelica (è il capitolo in cui si tratta della temperanza) per la formazione di un nuovo concetto, psicologico e non più mistico come presso i teorici dei secoli precedenti, del godimento estetico in quanto tale.Nel testo di Aristotele (Ethica Nicomachea, III, 1117b-1118a) è detto infatti che, al pari dei piaceri dell'anima (come quello che il sapere dà a chi lo ama), i piaceri della vista e dell'udito sono sì corporei, ma non comportano temperanza né intemperanza, benché di essi si possa godere non solo "come si deve, ma anche in eccesso o in difetto". Esemplificando, Aristotele fa esplicita menzione della pittura: "La temperanza dovrebbe dunque riguardare i piaceri del corpo, e neppure tutti questi: coloro, infatti, che godono di ciò che percepiamo mediante la vista [per es. dei colori e dei disegni, cioè della pittura] non vengono chiamati né temperanti né intemperanti". Il godimento che procura la contemplazione delle opere d'arte figurale è pertanto corporeo, perché procurato dal senso della vista, ma, a differenza dei piaceri propriamente fisici, come quelli trasmessi dal tatto e dal gusto (Aristotele li chiama servili e bestiali), è un piacere che oggi si direbbe libero, perché non asservito a bisogni fisiologici, come l'appetito o il desiderio carnale, ed è proprio dell'uomo in quanto tale, non dell'uomo per quello che ha in comune con gli animali (ivi, 1118b). Si tratta di un godimento fisico, ma della stessa natura di quelli che Aristotele chiama piaceri dell'anima, come, appunto, l'amore del sapere in cui "si gode di ciò che si ama, senza che il corpo provi nulla, ma è pittosto la mente che prova piacere" (ivi, 1117a). De Bruyne (1946) fa rilevare come a questa concezione aristotelica risponda la definizione del bello formulata da Guglielmo d'Alvernia (1180-1249) nel suo Tractatus de bono et malo, scritto intorno al 1210, il cui riferimento aristotelico, essendo esso anteriore alla revisione effettuata da Roberto Grossatesta, è da intendersi fondato sulla traduzione anonima dei libri II e III dell'Ethica Nicomachea, detta Ethica vetus, nota sin dall'Alto Medioevo e poi confluita nella Ethica nova, dopo che verso la metà del sec. 12° vi fu aggiunta una traduzione del libro I.La definizione che del bello dà Gugliemo d'Alvernia palesemente rimanda alla concezione aristotelica secondo la quale il piacere della vista è, in chi contempli pitture, un godimento fisico non condizionato, si potrebbe dire, biologicamente e in se stesso finalizzato, come il piacere dell'anima, che, per chi ami il sapere, è piacere dell'apprendimento fine a se stesso. Scrive infatti l'Alverniate nel Tractatus: "Pulchrum visu dicimus quod est natum per se ipsum placere spectantibus et delectare secundum visum". È una definizione che anticipa quella che, a distanza di una generazione, si sarebbe letta nella Summa theologica dell'Aquinate: "bonum proprie respicit appetitum: est enim bonum quod omnia appetunt. Et ideo habet rationem finis: nam appetitus est quasi quidam motus ad rem. Pulchrum autem respicit vim cognoscitivam: pulchra enim dicuntur quae visa placent" (Summa theol., I, 5, 4). E se De Bruyne (1946, p. 75), commentando la definizione del bello data da Guglielmo d'Alvernia, ha trovato in essa motivi che furono poi sviluppati da Shaftesbury, di questa definizione del bello formulata dall'Aquinate si può dire che, avendo radici aristoteliche (proprio nell'accenno alla pittura che si legge nell'Ethica Nicomachea), essa gettò un seme che fruttificò poi nella Interesselosigkeit caratterizzante la definizione kantiana del bello come ciò che per la sua forma piace nella pura e semplice rappresentazione, scevra da ogni 'interesse' all'oggetto, cioè da quel desiderio che Tommaso aveva chiamato appetitus.Con le definizioni del bello esposte da Tommaso e prima di lui da Guglielmo d'Alvernia, ha pertanto inizio l'influenza della filosofia di Aristotele sulla cultura artistica tardomedievale, da esse derivando le precisazioni di Tommaso sulla perfezione delle immagini, consistente in integritas sive perfectio, claritas e debita proportio, in quella chiarezza rappresentativa, cioè, che con la diffusione della filosofia tomistica doveva gradualmente orientare le preferenze dei committenti e del loro pubblico verso una pittura realistica, giacché la bellezza dell'arte figurante è da considerarsi, secondo l'a. tomista, una perfetta mimesi conoscitiva che porta a godere esteticamente l'oggetto raffigurato. Bellezza come contemplabilità del vero, dunque, giacché, come scrive lo stesso Tommaso, tre sono i requisiti dell'immagine: in primo luogo "quod nichil sibi prorsus desit cuius est ymago; secundum quod nichil sibi assit penitus alienum eius cuius est ymago. Tercium est quod sit formalis expressio illius, et non tantum effectus" (Expositio libri sapientiae, I). In termini di critica d'arte trecentesca, è quel portare l'arte di dipingere 'di greco in latino' (filosoficamente: dalla fondazione mistico-neoplatonica a una fondazione realistico-aristotelica), che consiste appunto nell'esservi nell'immagine tutto quello che v'è in ciò di cui è immagine, senza nulla aggiungere in essa che non si convenga al suo modello; a condizione, peraltro, che l'immagine non si riduca a una pedissequa riproduzione (effectus) di quel reale di cui ha da essere raffigurazione espressiva, formalis expressio.Se questo vale per le arti figuranti, analoga è, in Tommaso, quella che ai nostri giorni si chiamerebbe estetica dell'architettura, pur essa di origine aristotelica: bellezza come dilettosità contemplativa, nella conoscenza di quel vero che in architettura è rispondenza all'ufficio cui il fabbricato è destinato, e vicendevole congruenza, oltre che debita proporzione, delle parti, null'altro dovendo prefiggersi il costruttore se non il fabbricare una casa che sia tale. Ed è anche questa una concezione che si può dire aristotelica. A differenza dell'ideale estetico delle cattedrali francesi e renane, fondato sulla sproporzione e avente una neoplatonica suggestività ascensionale, che artisticamente risponde alla mistica di Ugo e Riccardo da San Vittore e poi del maestro Eckhart di Hochheim, l'ideale estetico soggiacente alla definizione tomista dell'architettura identifica infatti la bellezza degli edifici nella contemplabilità della funzionalità loro e, in ognuno, nella vicendevole rispondenza di tutte le sue parti; il che corrisponde poi a quelle condizioni di universale felicità di cui, dopo essersi anche esteticamente occupato della città, Aristotele aveva scritto, nella Politica (VII, 1331b), che consistono nella rettitudine dello scopo e nella scelta dei mezzi per raggiungerlo.Ancora aristotelica, nella teoria dell'arte professata da Tommaso d'Aquino, è la concezione del rapporto tra materia e forma, che nettamente si differenzia dal neoplatonismo di Scoto Eriugena (810-877 ca.), che considerava la materia un riflesso della luce divina, filosoficamente legittimando il gusto per cui le differenti materie, secondo il colore, la luminosità, la consistenza tattile, erano più o meno belle di per sé, già prima che fossero modellate dall'artefice: si ricordi l'enumerazione delle pietre preziose nel ritmo cassinese in onore dell'abate Desiderio e ancora, in epoca assai più tarda, gli zoccoli di variopinti cristalli semipreziosi in uso in certe costruzioni gotiche della Boemia, come le parti originali del duomo di Praga e la cappella del castello di Karlštejn. Per l'aristotelico Tommaso, invece, la bellezza di un manufatto, e quindi anche delle opere d'arte, non è data mai dalla materia in quanto tale, ma dalla forma che a essa dà la mano dell'artefice, in relazione allo scopo cui l'oggetto deve servire. Famoso è in proposito l'esempio della sega di vetro, la cui materia, sebbene più splendente del ferro, non risponderebbe all'ufficio di una sega, che è quello di segare il legno (Summa theol., I, 3). È così che Tommaso legittima il ricorso a materie povere o rozze, quando ciò sia richiesto, o anche solo consentito, dalla funzione del manufatto o dalla destinazione dell'opera d'arte, perché, contrariamente a quanto pensavano i neoplatonici, da Scoto Eriugena in poi, "forma non perficitur per materiam", ma "materia perficitur per formam" (Summa theol., I, 7, 1). Si tratta di concetti che hanno le loro radici nel libro VII della Metaphysica, in cui Aristotele dice che la forma è la causa in virtù della quale la materia è qualcosa di determinato (1041b), dopo aver in precedenza asserito che, se materia è il bronzo e forma la figura rappresentata, la statua è il 'sinolo', composto di materia e forma (1029a); né si può dire che una statua è generata da un pezzo di legno, o che una casa è generata dai mattoni (1033a), il legno essendo parte della statua in quanto questa è 'sinolo', ma non della statua considerata come forma: sicché si può chiamare oggetto individuale la forma, e l'oggetto stesso (la statua) in quanto ha la forma, ma non si può mai chiamare oggetto individuale l'elemento materiale di per sé (1035b).Tutti questi concetti dell'a. estetico medievale, che ebbe in Tommaso d'Aquino il massimo suo teorizzatore, passarono poi in Dante, il quale più volte si soffermò sulla concezione dell'opera d'arte come unità di materia e di forma; non senza sottolineare, nel De vulgari eloquentia (II, VII), la matericità delle parole, che vanno scelte, secondo che esse siano ruvide o lisce, ispide o pettinate, in relazione a quello che con esse si vuol significare; ed è un riferimento all'arte letteraria, fabbrilmente intesa ("fabricatio verborum armonizatorum", ivi, II, VIII, 5), del concetto aristotelico esposto da Tommaso nell'argomento della sega di vetro e della sega di ferro. Un concetto pur esso aristotelico si legge nel Convivio (II, I, 10), dove Dante dice che non si può fare opera alcuna se prima non si è approntata la materia adatta alla forma che essa deve ricevere: "in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere a la forma, sanza prima essere disposto lo subietto, sopra che la forma dee stare: sì come impossibile la forma de l'oro è venire, se la materia, cioè lo suo subietto, non è digesta e apparecchiata; e la forma de l'arca venire, se la materia, cioè lo legno, non è prima disposta e apparecchiata". E sulla resistenza che a volte la materia oppone all'intenzionalità formatrice dell'artefice Dante insiste anche in una famosissima terzina del Paradiso (I, vv. 127-129): "Vero è che, come forma non s'accorda / molte fïate a l'intenzion de l'arte, / perch'a risponder la materia è sorda".

Bibl.:

Fonti. - Aristotelis Metaphysica, a cura di W. Jaeger, Oxford 1957 (trad. it. Metafisica, a cura di A. Russo, Bari 1971); Aristotelis Etica Nicomachea, a cura di I. Bywater, Oxford 1894 (trad. it. Ethica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Milano 1979); Aristotelis Politica, a cura di W.D. Ross, Oxford 1957 (trad. it. Politica, a cura di V. Costanzi, Bari 1925); Guglielmo d'Alvernia, Tractatus de bono et malo (testi da un ms. oxoniense), in W. Tatarkiewicz, History of Aesthetics, II, Medieval Aesthetics, Den Haag-Paris-Warszawa 1970, pp. 221-223 (trad. it. Storia dell'estetica, II, L'estetica medievale, Torino 1979, pp. 248-252); Tommaso d'Aquino, Opera omnia iussu Leonis XII P.M. edita, 48 voll., Roma 1882-1971; id., La Somma Teologica, 35 voll., Firenze 1949-1975; Dante Alighieri, Convivio, De Monarchia, De vulgari eloquentia, Epistole, in Tutte le opere, a cura di L. Blasucci, Firenze 1965; id., La Commedia secondo l'antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, 4 voll., Milano 1966-1967.

Letteratura critica. - W. Seiferth, Zur Kunstlehre Dantes (II), AKultG 18, 1928, pp. 148-167; E. De Bruyne, Etudes d'esthétique médiévale, III, Le XIIIe siècle, Bruges 1946; U. Eco, Il problema estetico in S. Tommaso, Torino 1956; F.J. Kovach, Die Aesthetik des Thomas von Aquin, Berlin 1961; M.C. De Matteis, s.v. Aristotele, in ED, I, 1970, pp. 372-377; R. Assunto, s.v. Estetica, ivi, II, 1970, pp. 750-752; id., s.v. Poetica, ivi, IV, 1973, pp. 568-571.R. Assunto

Diffusione dei testi di Aristotele in Occidente

Per seguire la penetrazione, la diffusione e la ricezione del pensiero di Aristotele nei secoli del Medioevo sono a disposizione due vie maestre: lo sviluppo delle traduzioni latine e il diffondersi in Occidente del pensiero arabo. Si tratta, in realtà, di percorsi che spesso si sovrappongono e giungono a confondersi, dato che la conoscenza dei filosofi arabi è essa stessa mediata da traduzioni e dato che l'opera di trasposizione dall'arabo e dal greco è compiuta in anni non troppo lontani tra loro, talvolta per opera dei medesimi traduttori, che quasi sempre appartengono ad ambiti culturali comuni.L'accostarsi delle due vie è già rivelatore di quello che deve considerarsi il tratto fondamentale dell'a. medievale, una filosofia che, se conserva dell'autore a cui si ispira molte caratteristiche fondamentali, si è poi evoluta secondo esigenze autonome, inglobando elementi non secondari di altri autori e di altre filosofie. In questo senso, tanto la filosofia araba quanto quella cristiana dei primi secoli esercitarono la loro riflessione entro un ambito problematico assolutamente estraneo alla speculazione aristotelica: la conciliazione tra verità di fede e verità razionale, la questione del primato dell'una o dell'altra, la necessità di giustificare la conoscenza empirica alla luce di una conoscenza superiore e 'innata'. Un tipo di questioni, come si vede, che trovava riferimento nella filosofia platonica e, ancor più, in quella neoplatonica.Si è voluto vedere nella filosofia araba un tramite per il quale il 'nocciolo' delle teorie aristoteliche sarebbe giunto 'puro' nel cuore di un Medioevo cristiano 'platonizzante'; va invece sottolineato come proprio quella filosofia contenesse fin dagli esordi elementi platonici e neoplatonici essenziali, che ne segnarono in modo originale lo sviluppo. Soltanto in questo modo, d'altro canto, trovano una spiegazione non casuale le commistioni e gli errori di attribuzione che, in sede di traduzione, vennero compiuti tanto sul fronte cristiano quanto su quello arabo.Quando, nel 529 d.C., l'imperatore Giustiniano decretò la chiusura delle scuole filosofiche di Atene, il pensiero greco intraprese definitivamente la sua migrazione verso Oriente, trovando soprattutto nelle scuole siriache - come quella di Edessa, fondata nel 563 da Efrem di Nisibi - il suo ambito di accoglienza. Gli autori greci - Ippocrate, Aristotele, Teofrasto, Alessandro di Afrodisia, Tolomeo, Galeno, ecc. - vi venivano letti e tradotti insieme ai testi dei primi Padri della Chiesa, all'Antico e al Nuovo Testamento, in un contesto, dunque, eminentemente sincretistico. Per questa ragione, già nell'eredità che la Siria consegnò agli Arabi - eredità di cui la filosofia di Aristotele costituisce senza dubbio il tratto caratterizzante - si trova compiuta quella commistione di elementi e testi aristotelici e neoplatonici destinata a segnare lo sviluppo filosofico dei secoli a venire. Esemplare ed essenziale è il caso di due scritti - la c.d. Theologia Aristotelis e il Liber de causis - che la tradizione siriaco-araba consegnò all'Occidente cristiano come testi dello Stagirita e che corrispondono, invece, rispettivamente ai libri IV-VI delle Enneadi di Plotino e alla Elementatio theologica di Proclo. Dunque, già "il pensiero arabo pose sotto l'autorità di Aristotele una sintesi dell'a. e del neoplatonismo sulla quale dovette in seguito necessariamente esercitarsi la riflessione e la critica dei teologi del 13° secolo" (Gilson, 1952, trad. it. p. 417). A documentare in modo esauriente la natura dell'a. medievale basterebbe forse da sola proprio la vicenda del Liber de causis, che ancora nel sec. 12° Gherardo da Cremona (1114-1187) - il maggior traduttore dall'arabo di quel secolo - tradusse come testo aristotelico accanto agli Analytica posteriora, alla Physica, al De caelo, al De generatione e ai Meteorologica.Non meno significativo è il fatto che la prima conoscenza, sia pure parziale, di Aristotele si ebbe in Occidente nel sec. 6° attraverso l'opera di traduzione di Severino Boezio (470-525 ca.), di un filosofo, cioè, di forte ispirazione platonica. Coerentemente con l'impegno, che egli si assunse, di fornire una mediazione tra il mondo greco e quello latino, Boezio si propose di tradurre integralmente Aristotele e Platone per mostrarne il fondamentale accordo e costruire, su questa base, i presupposti per lo sviluppo di una filosofia autenticamente cristiana. Del suo ambizioso disegno egli non poté portare a compimento che una parte minima, dai risultati tuttavia filosoficamente significativi: accanto a due commenti e a una ritraduzione dell'Isagoge di Porfirio (il commento che il filosofo neoplatonico aveva redatto delle Categoriae di Aristotele), gli si devono una traduzione e un commento delle Categoriae e una traduzione e due commenti del De interpretatione di Aristotele, mentre la traduzione degli Analytica priora e degli Analytica posteriora, dei Sophistici elenchi e dei Topica, a lungo attribuitagli, è stata in questo secolo riconosciuta opera dell'umanista Giovanni Argiropulo (m. nel 1486; Grabmann, 1909-1911, II). Per eccellenza 'autorità logica' del suo tempo, fu ancora sull'opera di Boezio quale filosofo e traduttore che, nel sec. 12°, si esercitò un'altra 'autorità logica', quella di Pietro Abelardo (1079-1142).Dopo Boezio, la traduzione e, con essa, la diffusione di Aristotele conobbero un lungo arresto. La ripresa coincise di fatto con l'affermazione e lo sviluppo della Scolastica. Il sec. 12° conobbe le traduzioni dal greco di Giacomo da Venezia (ca. 1128-1155) - Topica, Analytica priora e Analytica posteriora, Sophistici elenchi, Logica nova, Physica vetus, De anima, De intelligentia, il libro I della Metaphysica e gran parte dei Parva naturalia - e quelle dall'arabo del già ricordato Gherardo da Cremona, con le quali venne messo a disposizione della cultura dell'epoca l'intero Organon. Questo evento conferì ad Aristotele quella fisionomia riconosciuta come specificamente medievale, che lo caratterizzò essenzialmente come un logico. Così Aristotele appare nei primi autori che mostrarono ampia conoscenza della sua opera: Teodorico di Chartres, che nel suo Heptateuchon, composto tra gli anni 1135-1141 ca., enumerò tutti i trattati dell'Organon con la sola eccezione degli Analytica posteriora e dimostrò in tal modo quanto di aristotelico vi fosse alla base dell'insegnamento della logica alla scuola di Chartres, e soprattutto il vescovo Ottone di Frisinga, che riconobbe ad Aristotele, princeps et inventor della logica, il merito dell'invenzione e costruzione del sillogismo.Resta da indagare quali furono le ragioni che determinarono l'orizzonte d'attesa della ricezione aristotelica nel 12° secolo. Vi sono motivi inerenti allo sviluppo filosofico generale, quali la già ricordata affermazione della filosofia scolastica, e vi sono, anche, motivi che riguardano la trasmissione della cultura. Merita di essere ricordata a questo proposito la tesi di Grabmann (1909-1911) secondo la quale proprio a Giacomo da Venezia spetterebbe il merito di aver portato, per primo, Aristotele in Occidente. A lungo residente, insieme ad altri intellettuali italiani, presso la corte di Bisanzio, con ogni probabilità egli ebbe modo di frequentare la scuola di Michele Psello, filosofo di formazione platonica i cui allievi, tra i quali Michele di Efeso, Eustrazio di Nicea e Giovanni Italo, redassero però numerosi commenti a opere di Aristotele, in particolare alle Categoriae e al De interpretatione. Fu questa atmosfera piuttosto intensa di studi aristotelici che Giacomo portò con sé al suo ritorno in Occidente.È comunque il sec. 13° quello che vide il più massiccio lavoro di traduzione. A esso si accompagnava ormai un puntiglioso lavoro di interpretazione ed elaborazione filosofica, evidentemente connesso con l'attività delle grandi personalità della Scolastica: Alberto Magno e Tommaso d'Aquino su tutti. I traduttori aristotelici del Duecento o furono essi stessi personalità filosofiche di rilievo, come Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln, o fecero parte di grandi centri di elaborazione e diffusione culturale, come Bartolomeo da Messina, che operò alla corte di re Manfredi, oppure ancora lavorarono a stretto contatto o addirittura su ordinazione dei maggiori maestri di pensiero. È questo il caso del più grande, per la qualità e la quantità dell'opera svolta, dei traduttori medievali di Aristotele, quel Guglielmo di Moerbeke che fornì a Tommaso d'Aquino la maggior parte dei testi sui quali egli lavorò (Bréhier, 1937; Grabmann, 1946; Minio-Paluello, 1947; Gilson, 1952; Verbeke, 1955; Franceschini, 1957).Di importanza fondamentale risultano, sempre nello stesso secolo, le traduzioni dall'arabo: accanto ai testi aristotelici vengono tradotti da Michele Scoto (m. nel 1235 ca.), Guglielmo de Luna, Ermanno il Tedesco (Ermanno Alemanno, m. nel 1272) anche i commenti di Averroè (Franceschini, 1957), che introducono nel dibattito occidentale un indirizzo interpretativo sul quale verté a lungo la polemica filosofica.I modi e i tempi con i quali i testi aristotelici entrarono nelle biblioteche dei filosofi occidentali non sono naturalmente estranei alle modalità interpretative cui Aristotele venne sottoposto; anzi non sono estranei a quella sorta di spaccatura che venne a un certo punto operata sull'integrità dell'insegnamento del filosofo greco. Si può, con buona approssimazione, delineare uno sviluppo di questo tipo: se, come già si è detto, la traduzione dell'Organon segnalò alla 'prima' Scolastica un Aristotele essenzialmente logico, la traduzione dell'opera aristotelica nel suo complesso compiuta nel sec. 13° (con particolare riguardo a Physica, Metaphysica, De anima, ecc.) offrì alla meditazione della 'seconda' Scolastica un Aristotele studioso della natura, dell'ordine cosmico e della psicologia. E, ancora in questo senso, fu la tarda traduzione delle opere di carattere estetico (Rhetorica e Poetica) che può spiegare, almeno parzialmente, il disinteresse di parte della Scolastica per il mondo concreto della produzione artistica. È inoltre soprattutto sotto la spinta determinata dall'arrivo dei commenti di Averroè che il sec. 13° si trovò costretto a dover prendere posizione sull'Aristotele 'fisico' e 'naturalista'. Il trionfo dell'a. medievale è legato, almeno in un primo momento, alla sua natura di "tecnica filosofica" (Gilson, 1952, trad. it. p. 624) cui tutti poterono attingere per la 'messa in ordine' (che per i logici medievali è anche, automaticamente, la soluzione) dei problemi. La conoscenza della Physica, che giunse oltretutto nel contesto di un'interpretazione araba in cui furono determinanti gli elementi neoplatonici di origine avicenniana, scisse in due parti contrapposte l'insegnamento del maestro greco.L'atteggiamento dei grandi centri culturali nei confronti di Aristotele. fu duplice, spesso ambiguo. Se alla diffusione delle sue dottrine, e in particolare del metodo logico, concorsero in modo determinante i grandi ordini religiosi come i Domenicani e i Francescani, che andavano assumendo proprio in quegli anni del sec. 13° importanza e potenza, e le università - Parigi prima, Oxford e Tolosa poi - che pure conobbero in questo secolo il loro sviluppo, fu d'altronde all'interno di queste stesse istituzioni che l'a. incontrò le più ostinate resistenze. Nel 1210 il concilio provinciale di Parigi, presieduto dall'arcivescovo di Sens Pietro di Corbeil, minacciò di scomunica chiunque, pubblicamente o privatamente, insegnasse le opere di filosofia naturale di Aristotele. E negli stessi statuti dell'università di Parigi, sanzionati nel 1215 da Roberto di Courçon, se restò autorizzato l'insegnamento dell'Organon, vennero proibiti la Metaphysica e i libri di fisica e scienza naturale (Gilson, 1952, trad. it. p. 468). Ben presto, tuttavia, sarebbe stata proprio l'esigenza di allontanare l'insegnamento del maestro greco dall'interpretazione averroistica e di combattere in tal modo l'ispirazione panteistica che ne derivava, a riportare direttamente l'attenzione sui testi fisici e naturalistici. Si giunse così al decreto del 13 aprile 1231 con il quale papa Gregorio IX, pur conservando il divieto all'insegnamento della Physica, ne limitava tuttavia la validità al caso in cui il testo non fosse stato 'purgato' ed emendato dei suoi 'errori'. A tal fine venne nominata una commissione, della quale faceva parte l'aristotelico Guglielmo d'Alvernia, che ebbe come compito quello di rendere nuovamente utilizzabile la filosofia naturale di Aristotele. D'altro canto, lo stesso rinascente agostinismo dei Francescani, che ebbe in Bonaventura da Bagnoregio il suo più alto rappresentante, si vide costretto, per combattere il panteismo, a fare ricorso "alle nozioni aristoteliche che rendono possibile la distinzione più netta tra l'uomo e Dio" (Gilson, 1952, trad. it. p. 470).Il frutto più cospicuo di questo recupero della totalità dell'insegnamento aristotelico venne colto nell'opera di Tommaso d'Aquino, mentre non va dimenticato che l'accettazione piena dell'interpretazione averroistica venne rivendicata da un indirizzo culturale che, incurante delle reprimende delle autorità ecclesiastiche, accettò di porsi al di fuori dell'ortodossia, rinunciando alla conciliazione di filosofia e religione; tale indirizzo ebbe in Sigieri di Brabante il suo esponente di maggior spicco. Va infine ricordato che un'interpretazione più radicale delle tesi di Aristotele 'fisico' e 'naturalista' è alla base dell'insegnamento di Ruggero Bacone e della scuola di Oxford, che, separando la fisica dalla metafisica aristotelica, fondarono quei presupposti che, molto più tardi, avrebbero avuto il loro sviluppo nella filosofia di Francesco Bacone e dell'empirismo inglese.

Bibl.:

Fonti. - Aristoteles Latinus, I-II, Codices, a cura di G. Lacombe, A. Birkenmayer, M. Dulong, E. Franceschini, L. Minio-Paluello, Roma-Cambridge 1939-1955; De arte poetica, Guillelmo de Moerbeke interprete, a cura di M. Valgimigli, E. Franceschini, L. Minio-Paluello, Bruges-Paris 1953.

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