ARISTOCRAZIE ECCLESIASTICHE E LAICHE, REGNO DʼITALIA

Federiciana (2005)

ARISTOCRAZIE ECCLESIASTICHE E LAICHE, REGNO D'ITALIA

SSimone M. Collavini

Si è recentemente riconosciuto nel Duecento una fase di progressiva riduzione della mobilità sociale e di crescente selezione e potenziamento dei vertici della società urbana, un processo che portò all'emergere di un composito e strapotente ceto di magnati e alla conseguente reazione dei gruppi esclusi dal potere, che condusse a sua volta all'instaurazione dei regimi di 'popolo'. Questo movimento di assottigliamento dei vertici sociali, avviatosi dagli anni Venti del XIII sec., prese inerzia e si fece irresistibile proprio nel momento di più duro scontro politico tra Federico II e il Papato (Cammarosano, 1997). Sebbene tale interpretazione faccia in primo luogo riferimento alla società dell'Italia comunale, certe trasformazioni ‒ che paiono aver avuto una delle cause determinanti proprio nel mutare delle dinamiche sociali nel mondo rurale ‒ possono essere tranquillamente estese alle aree del Regno d'Italia che non furono egemonizzate dal comune urbano o lo furono solo in parte. Infatti nell'età di Federico II ‒ intesa qui estensivamente come corrispondente alla prima metà del XIII sec. ‒ in Italia centrosettentrionale il potere sul territorio, nelle sue dimensioni giurisdizionale, militare e fiscale, non fu appannaggio né del solo apparato dei funzionari regi né dei soli comuni cittadini. Nelle campagne, e in particolare nelle zone più marginali perché lontane dai maggiori centri urbani o perché di difficile accessibilità, accanto a questi due soggetti continuò ad operare un'ampia gamma di signori locali ecclesiastici e laici. Essi, nonostante il lungo processo di selezione delle famiglie e dei poteri locali avviatosi dalla prima metà del sec. XII e acceleratosi dopo la svolta del secolo, esercitavano ancora larga parte dei poteri pubblici sul territorio e sugli uomini. Continuavano di conseguenza a strutturare la politica nella sua dimensione locale e a costituire ineludibili interlocutori dei poteri politici di più ampi orizzonti e ambizioni: papa, imperatore, comuni cittadini, tutti impegnati nel tentativo di coordinarli e pacificarli (Cammarosano, 1996). Fra questi signori, almeno nell'Italia comunale, ebbero un ruolo preponderante le Chiese e in particolare quelle urbane che continuavano a controllare ampi settori del territorio. Anche in campagna, comunque, la prima metà del Duecento vide un'intensificazione del processo di semplificazione della mappa dei poteri locali, soprattutto, ma non solo, ad opera dei comuni urbani, anche se non si deve pensare che i poteri locali fossero ridotti ad attardate sopravvivenze.

L'aristocrazia rurale laica ed ecclesiastica però non formò soltanto, insieme alle comunità rurali, il tessuto di base dei poteri territoriali nella loro dimensione locale e puntuale. Alcune famiglie nobili e alcuni grandi prelati furono infatti attivamente impegnati nella costruzione di ampie e complesse entità politiche a partire dai poteri locali diffusi, un processo messosi in moto dopo il pieno dispiegarsi del fenomeno di frammentazione signorile tra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo. I principali protagonisti di questo processo di formazione statale furono i comuni urbani e, in maniera intensa ed efficace anche se solo saltuaria, la monarchia sveva, ma il ruolo dei principi fu anch'esso rilevante. Già durante la seconda metà del XII sec. queste stirpi e questi prelati avevano portato avanti progetti schiettamente principeschi analoghi a quelli dispiegati in area transalpina, dove furono il normale percorso di ricomposizione dei quadri politici in molti Regni dell'Europa continentale. Pur senza trascurare il fatto che tali esperienze principesche conobbero un'ampia gradazione di ambizioni, efficacia e successo, fatto che rende arduo distinguere univocamente i principati dai semplici accumuli di signorie locali, e che pertanto non è sempre facile né del tutto legittimo contrapporre le esperienze principesche al tessuto di base dei poteri locali, sarà in primo luogo a queste esperienze che si farà riferimento in seguito.

Non meno complicato ‒ ma altrettanto fondamentale ‒ è poi distinguere, in un mondo aristocratico variegato, complesso e fortemente integrato come quello del primo Duecento, tra le famiglie che tra 1150 e 1250 mirarono a costruire principati territoriali e quelle che, pur disponendo di ampi e complessi aggregati signorili, mantennero (o svilupparono ex novo) un solido radicamento urbano, se non a livello di residenza, almeno quanto alle attività e agli orizzonti politici. Si tratta di famiglie, attive soprattutto in Emilia e in Veneto (come Pallavicini, Torelli, Salinguerra, San Bonifacio, Estensi, da Camino e da Romano), che si servirono delle proprie basi rurali e signorili per cercare di controllare i maggiori centri urbani, rimasti nel XII e XIII sec. la vera posta in gioco dello scontro politico. Nella prima parte del Duecento, grazie anche all'appoggio delle supreme autorità politiche e in particolare attraverso l'istituto del vicariato imperiale, queste famiglie mantennero un orizzonte regionale, per poi ridurre i propri obiettivi al controllo di una o dell'altra delle maggiori città della regione (Varanini, La Marca, 1994; Id., L'organizzazione, 1994).

L'ampio ricorso da parte di Federico II a esponenti della maggiore aristocrazia del Regno d'Italia per le cariche di vicari, rettori e capitani generali non è del resto fenomeno tipico solo del Veneto e dell'Emilia e favorì, specialmente all'indomani della sua scomparsa improvvisa, la formazione di ampi e complessi aggregati signorili ad opera di suoi fedeli, come Ezzelino da Romano o Uberto Pallavicini. Nonostante includessero signorie rurali e centri semiurbani, si trattava di dominati basati sostanzialmente sulle città e dunque del tutto diversi dai principati al centro del nostro interesse, che avevano invece una base e una struttura essenzialmente rurali. Nel caso dei membri di schiatte principesche come Savoia, Biandrate e Guidi, invece, le cariche imperiali ‒ come anche quelle podestarili più volte ricoperte ‒, per quanto rilevanti su un piano politico generale e personalmente remunerative, non paiono aver avuto ricadute particolarmente efficaci nei progetti di costruzione statuale.

Caratteristiche nettamente diverse dalle grandi famiglie signorili 'cittadine', su cui ci si è soffermati, ebbero alcune stirpi piemontesi o appenniniche, impegnate con varia fortuna a formare aggregati territoriali autonomi e alternativi ai contadi cittadini, o presuli come i vescovi di Trento e di Bressanone o il patriarca di Aquileia, che trasformarono le circoscrizioni pubbliche loro affidate nell'XI sec. in principati a base signorile e feudale. In Italia centrosettentrionale nel pieno e tardo Medioevo furono proprio questi principati laici e queste signorie ecclesiastiche la più importante alternativa agli stati cittadini, anche per l'intermittenza e la sostanziale debolezza del potere imperiale e per l'assenza di efficaci forme di coordinamento di tipo comunitario. Essi costituivano un'effettiva alternativa (più che una variante, come furono in sostanza le signorie cittadine) al modello dello stato cittadino, perché si basavano su forme di potere tradizionali, a base verticale e signorile, a differenza delle esperienze comunali e perché la stessa innovativa ricomposizione dei poteri locali da essi compiuta avvenne lungo linee specifiche e diverse dal processo di comitatinanza sia quanto ai mezzi impiegati (con un ruolo preponderante degli strumenti feudo-vassallatici), sia quanto agli assetti territoriali creati ‒ assai più decentrati e frammentati di quelli tipici dei contadi urbani.

La caratteristica peculiare di questi principati, che li differenzia da altri pur ampi aggregati signorili, è la capacità dei loro signori di proporsi in spazi piuttosto ampi come poli di coordinamento di forze politiche locali complesse e articolate: non solo dipendenti contadini, notabili locali e istituzioni comunitarie ‒ come nel caso delle normali signorie rurali ‒, ma anche aristocratici di rango medio e alto e comunità semiurbane (se non addirittura urbane). Fondamentale importanza in questo processo di affermazione di superiorità, di sottomissione e di coordinamento ebbero la creazione di reti di ufficiali locali (soprattutto nelle signorie direttamente controllate) e il sistematico ricorso al 'feudo di signoria' per sottomettere i signori locali medi e minori (Settia, 1991; Provero, 1992; Collavini, 1998). Crescente rilievo nei rapporti con le comunità di maggior peso assunsero franchigie e altre pattuizioni che, senza intaccare la superiore sovranità del principe, riconoscevano margini di autonomia politica e amministrativa alle élites locali e regolavano con precisione diritti giurisdizionali e fiscali del principe: esse segnavano il definitivo passaggio delle maggiori signorie da una dimensione prevalentemente patrimoniale a una pienamente politica (e quindi al principato). Nella creazione di questi potentati ebbe notevole importanza la capacità di affermare un crescente controllo su alcune rilevanti fonti di reddito (risorse naturali, cespiti fiscali, monetazione, pedaggi) che si caratterizzavano localmente come pubbliche; come anche la definizione di più stabili confini politici con i potentati circostanti (altri principati o stati cittadini) per ragioni militari, di ordine pubblico o per controllare la mobilità dei contadini. Va infine sottolineata la massiccia politica di fondazione (o rifondazione) di castelli e centri semiurbani che caratterizza l'attività di alcune di queste famiglie: essa, pur ponendosi per molti versi in continuità con la precedente opera d'incastellamento e di spostamento della popolazione, tipica di tutta l'esperienza signorile, sviluppò nella seconda metà del XII sec. caratteri nuovi, allorché le nuove fondazioni assunsero caratteristiche economiche sociali e monumentali che le avvicinavano sempre più al modello urbano; caratteristiche che derivavano a queste nuove fondazioni dalla potenza e dalle ambizioni, non più locali ma regionali, delle dinastie principesche. La maturità politica raggiunta da questi dominati appare del tutto evidente in occasione delle pacificazioni regionali o della costituzione di leghe, quando ai dominati delle maggiori famiglie aristocratiche è riconosciuta pari dignità rispetto ai comuni cittadini. Carattere eccezionale e rapsodico, almeno in età federiciana, ebbero invece interventi politici di maggior respiro come la promulgazione di leggi generali, lo sviluppo di assemblee rappresentative (come il consilium feudale del patriarca di Aquileia) e l'imposizione di prelievi fiscali unitarie centralizzati che obliterassero la semplice sommatoria degli oneri signorili locali. Si tratta di esperienze tipiche piuttosto della fine del Duecento e del primo Trecento e dei maggiori principati, quelli sopravvissuti e rafforzatisi nel contesto dell'ulteriore processo di selezione dei poteri territoriali che investì la penisola nei decenni precedenti.

Vediamo ora da vicino quali sono i più importanti principati e qual è la loro area di diffusione, per cercare di valutare infine il ruolo di Federico II nella loro evoluzione istituzionale.

È stato notato che al di fuori dell'area padana centrale e della Toscana settentrionale gli stati cittadini, pur restando spesso dominanti per il peso di singoli centri egemoni o per il loro numero complessivo, non costituiscono l'unica forma di ricomposizione di entità statuali. In queste zone infatti principi e vescovi si mossero su di un piano di parità, se non di superiorità, rispetto alle città nello sforzo di coordinare e governare i poteri locali (Chittolini, 1994). Il fenomeno è particolarmente evidente nell'area nordoccidentale dove, nonostante la presenza di importanti e potenti centri urbani, giocarono un ruolo preminente alcune dinastie laiche: innanzitutto i Savoia, collocati geograficamente e istituzionalmente a cavallo fra Regno d'Italia e realtà transalpine, ma anche le diramazioni della stirpe dei marchesi Aleramici (in primo luogo i Monferrato e i Saluzzo). Non mancarono neppure aree di scarsa gerarchizzazione dei poteri, nelle quali né le città vescovili né i principi seppero coordinare efficacemente i poteri locali, ruolo svolto piuttosto da alcune grandi comunità rurali, destinate comunque a soccombere durante il XIII sec. di fronte all'espansione delle maggiori famiglie principesche o dei comuni urbani (Guglielmotti, 1995). I principati piemontesi giunsero a piena maturazione solo nella seconda metà del XIII sec., ma affondavano le proprie radici nel secolo precedente, quando Savoia, Monferrato e Saluzzo riorganizzarono i propri patrimoni fondiari e i propri dispersi poteri signorili, sfruttando appieno i suggerimenti in senso pubblicistico derivanti dalla lunga consuetudine con l'esercizio dei poteri pubblici all'interno della gerarchia di matrice carolingia. In area piemontese, inoltre, continuavano ad avere un ruolo importante, sottomesse e coordinate da questi principi o dai maggiori comuni urbani, alcune famiglie di tradizione comitale e marchionale o di più modesta origine, parte delle quali nel XII sec. aveva apparentemente intrapreso progetti principeschi precocemente abortiti per la concorrenza di avversari troppo potenti: pare questo il caso dei conti di Biandrate che, nonostante l'appoggio dei sovrani svevi, non resistettero al convergente attacco delle ambizioni dei comuni urbani e dell'affermazione della superiorità feudale dei Monferrato.

Il peso predominante delle grandi stirpi principesche nel processo di costruzione di entità statali trova riscontro lungo la dorsale appenninica (Appennino ligure e tosco-emiliano), disegnando così una fascia continua di aree caratterizzate da una forte presenza signorile e principesca. Anche queste sono famiglie che, pur appoggiandosi su di un'ininterrotta tradizione di esercizio dei poteri pubblici come rappresentanti locali dell'Impero ‒ tradizione spesso risalente addirittura all'Alto Medioevo ‒, avevano come base reale del proprio potere grandi patrimoni fondiari, un insieme di signorie rurali e assai vaste clientele armate. Infatti nei secoli centrali del Medioevo i loro dominati avevano poco a che fare per dimensioni e distribuzione spaziale con le circoscrizioni precedentemente amministrate. È questo il caso, per seguire il percorso che dal Piemonte conduce all'Italia centrale lungo la dorsale appenninica, dei Gavi-Parodi, dei Malaspina, dei marchesi di Massa, dei Pallavicini, dei Guidi, per non citare che le stirpi più importanti, quelle che seppero creare dominati importanti o almeno tentarono coerentemente di farlo. Le famiglie di questa zona, però, attive in aree sì marginali, ma di proiezione di grandi comuni come Genova, Piacenza, Parma, Bologna, Pisa e Firenze, subirono una dura concorrenza da parte dei comuni urbani. I loro dominati risultano dunque meno strutturati ‒ alla nostra altezza cronologica ‒ e comunque furono spesso destinati a soccombere nel corso dell'ulteriore processo di selezione delle entità politiche, avviatosi nel primo Duecento e protrattosi per tutto il secolo: Gavi-Parodi e Guidi, per esempio, nel XII sec. avevano percorso molti passi verso la costituzione di ampi e ambiziosi dominati, che però andarono in crisi nel XIII secolo. Altre famiglie invece seppero resistere alla fase di più intensa pressione urbana nei decenni centrali del Duecento e diedero poi vita a piccoli dominati, come quelli dei Malaspina o dei Pallavicini, destinati a una certa fortuna e durata (anche se inseriti in unità politiche più ampie).

In nessun caso comunque ‒ almeno allo stato attuale degli studi ‒ questi dominati appenninici si risolsero in qualcosa di paragonabile per dimensioni, grado di autonomia e compiutezza, nonché per destini successivi, al marchesato di Monferrato (per non parlare poi del ducato di Savoia).

Proseguendo nel nostro percorso lungo la dorsale appenninica, vanno ricordati i grandi casati umbri dei conti di Coccorano e dei marchesi del Colle, anch'essi protagonisti di notevoli costruzioni signorili nel XII sec., ma incapaci di resistere nella prima metà del XIII sec. alla congiunta pressione dovuta all'espansione dei comuni cittadini (in primo luogo Perugia) e al venir meno della loro capacità di coordinare e controllare le stirpi signorili locali e le comunità rurali. Lasciando l'Appennino, sul versante occidentale, quello toscano, verso il quale convergevano anche le signorie dei Guidi e dei marchesi del Colle, incontriamo uno fra i pochi principati territoriali di grandi dimensioni sopravvissuti in pieno Duecento: quello dei conti Aldobrandeschi, la potenza egemone della Maremma toscana. Era questa un'area caratterizzata, come quella piemontese, dalla labilità del tessuto urbano e dall'assoluto predominio delle forze signorili che gli Aldobrandeschi, anch'essi una stirpe di antichi funzionari pubblici, seppero inserire in un nuovo principato a base schiettamente signorile e feudale. In Toscana accarezzarono disegni principeschi anche altri potentati attivi nelle aree meno egemonizzate dai maggiori centri urbani (del resto in questa regione, come in Piemonte, solo in parte degli antichi centri diocesani altomedievali nacquero forti comuni cittadini). Però nessuno di questi potentati, né quelli dei signori laici (come Alberti, Gherardeschi o Pannocchieschi) né quelli degli ecclesiastici (come i vescovi di Luni e di Volterra), seppe percorrere compiutamente la strada della costruzione di un principato. Le cause vanno ricercate non solo nell'attiva concorrenza delle città maggiori e delle altre dinastie, ma anche nella forte capacità di attrazione della vita urbana per le maggiori famiglie nobili: Gherardeschi e Alberti conclusero a un certo momento che era più pagante trasferirsi in città e partecipare al gioco politico del comune, anziché cercare di sviluppare dei dominati autonomi e alternativi rispetto ai contadi cittadini. Assumevano così caratteristiche che abbiamo visto essere tipiche dei maggiori casati signorili del Veneto, tipiche cioè di aree nelle quali l'impetuoso sviluppo dei poteri signorili non aveva mai cancellato la centralità politica ‒ se non giurisdizionale ‒ delle città.

Un panorama più frammentato, almeno allo stato degli studi, sembra caratteristico del versante appenninico orientale, quello romagnolo e marchigiano. Tra Romagna e Marche si ebbe sì una forte presenza di nuclei signorili, ma tranne che nel caso dei Guidi, dei Montefeltro e forse, per le Marche, di dominati come quello di Fildesmino da Mogliano o del presule di Fermo, non sembrano emergere nuclei di coordinamento veramente efficaci. Lo stesso sembra potersi affermare anche per quanto riguarda le comunità urbane: tranne poche eccezioni non ci furono notevoli affermazioni territoriali dei comuni cittadini. La Romagna e, ancor più, le Marche paiono dunque caratterizzarsi per la presenza di un fitto tessuto di piccole città, grandi comunità rurali e signori zonali o locali. La mancata affermazione di forze capaci di coordinare anche soltanto a livello subregionale i poteri locali pare aver favorito, nel corso della prima metà del Duecento, un controllo particolarmente saldo sulla regione alternativamente da parte dell'Impero o del Papato. Furono perciò queste due alte potestà le principali protagoniste dei processi di ricomposizione politica. Un trend destinato del resto a durare anche in seguito in entrambe le regioni (Chittolini, 1994; Maire Vigueur, 1996).

Siamo giunti così all'estremo meridionale dell'area in esame sulla quale, nonostante il tradizionale inserimento nel Regno d'Italia, andava affermandosi la sovranità pontificia. Il quadro delle aree del Regno segnate dall'esperienza principesca è però ancora incompleto; va infatti considerato il quadrante nordo-rientale, finora trascurato non solo per l'ordine espositivo seguito, ma anche perché dotato di una propria specificità istituzionale. Si è già detto delle caratteristiche peculiari della nobiltà rurale veneta: potenti famiglie signorili pienamente inserite nella vita politica comunale. A nord e a est di Treviso, Padova e Vicenza, però, il panorama dei poteri territoriali presentava caratteristiche diverse e simili a quelle delle aree già prese in esame: debolezza dei centri urbani, prevalenza delle aristocrazie laiche ed ecclesiastiche, peso del fenomeno signorile, presenza di principati. A differenza del Piemonte e dell'area appenninica i grandi principati del Nordest erano in mano a potenti ecclesiastici: i vescovi di Feltre e Belluno, quelli di Trento e Bressanone e, soprattutto, il patriarca di Aquileia. Nella regione, soprattutto nel settore occidentale, erano poi importanti le presenze signorili delle maggiori stirpi venete; non mancavano, infine, neppure dominati laici locali, come quelli dei conti di Gorizia o di quelli di Tirolo, ma un loro inserimento nel panorama italiano è difficoltoso sia perché si tratta di stirpi tedesche, sia perché le aree da loro dominate rientravano in larga parte nel Regno di Germania. Lo stesso può dirsi anche di alcuni dei principati ecclesiastici situati in quest'area di confine, come quello di Bressanone. Del resto il peso del modello delle esperienze maturate nel Regno di Germania è molto forte in tutta la zona: non solo perché durante l'Alto e il pieno Medioevo ampie parti del Nordest furono inserite a più riprese in aggregati territoriali che scavalcavano le Alpi ed erano affidati al governo di grandi nobili tedeschi, ma soprattutto perché molti dei prelati che condussero l'opera di costruzione e potenziamento dei principati ecclesiastici erano di nascita ed educazione tedesche. Le differenze rispetto ai principati sui quali ci si è soffermati in precedenza non si limitavano, però, al fatto di avere al proprio vertice degli ecclesiastici, anziché dei laici, e di essere quindi soggetti al principio elettivo e alla concorrenza sia tra il Papato e l'Impero sia tra le dinastie egemoni della regione (che riuscirono a più riprese a occupare con diversi loro esponenti le sedi vescovili e le cariche comitali e avvocaziali da esse dipendenti). Se infatti tutti i principati territoriali del primo Duecento affondavano le proprie origini nella tradizione dell'amministrazione pubblica, nel caso dei principati vescovili queste radici erano molto meno remote e ben più salde. Quasi tutte queste signorie nascevano infatti da concessioni imperiali in piena proprietà di circoscrizioni e poteri pubblici, avvenute nel corso dell'XI secolo. Nel Nordest dunque i vescovi erano i diretti eredi della tradizionale amministrazione pubblica, mentre i loro eventuali poteri signorili, ormai rilevanti nell'età di Federico II, avevano un ruolo secondario. Del resto l'affermazione di un'aristocrazia locale strutturata e di poteri signorili significativi era avvenuta nel Trentino, nel Friuli e in area giuliana e istriana con significativo ritardo rispetto al Regno d'Italia, il che aveva consentito ai vescovi, forti delle deleghe imperiali, delle fortune famigliari, dei legami parentali con le grandi dinastie laiche circonvicine, del prestigio politico personale e dei grandi patrimoni fondiari, di rimanere il principale potere pubblico della regione. Quando poi durante il XII sec. le aristocrazie locali si erano consolidate e radicate, i vescovi avevano saputo mantenere il loro controllo su di esse, facendo ampio e sistematico ricorso allo strumento feudale, usato non solo e non tanto per riconoscere e subordinare le signorie locali, quanto per far circolare ogni tipo di bene e diritto e soprattutto per ribadire la fedeltà al potere vescovile (nonché per affermare lo status di quanti ricevevano i feudi). Nella prima metà del Duecento, però, questa tradizione principesca di natura schiettamente pubblicistica era ormai in crisi e anche i grandi principati ecclesiastici del Nordest furono costretti a ridisegnare i propri assetti, riducendo gli spazi geografici di esercizio del proprio potere a quelli nei quali avevano un'effettiva base patrimoniale e signorile e riconoscendo maggior spazio alle famiglie laiche che avevano percorso pienamente la strada dello sviluppo signorile, garantendo più sicure e solide basi alla propria potenza. Il fenomeno è evidente sia nel 'friulanizzarsi' del patriarcato di Aquileia, sia nel ridursi dei domini del vescovo di Trento. E furono in effetti proprio le nuove grandi famiglie signorili ‒ specialmente attraverso il controllo dell'avvocazia ‒, oltre ai grandi comuni veneti, i veri protagonisti della storia politica della regione nel Basso Medioevo. Ciò non impedì tuttavia una lunga, o addirittura lunghissima (come nel caso di Trento), sopravvivenza di questi principati ecclesiastici nei secoli successivi.

All'aprirsi del XIII sec. quasi nessuno dei principati italiani era già compiutamente maturo e stabilizzato, pertanto il gioco degli schieramenti politici e l'azione imperiale nel corso dei successivi cinquanta anni ebbero non poco peso nei destini dei singoli principati. Del resto aggregati di dimensioni ingenti, come erano ormai tutti questi principati, erano fatalmente destinati a richiamare l'attenzione delle massime autorità e a risentire delle loro scelte politiche. I primi contatti con il giovane Federico paiono essere stati nel complesso all'insegna di un sostanziale favore, manifestato soprattutto attraverso 'privilegi constatativi' che confermavano precedenti concessioni dei sovrani svevi e/o venivano incontro a specifiche richieste dei principi. Privilegi del genere sono conservati, per non fare che qualche esempio, per gli Aldobrandeschi, gli Estensi, i Guidi, il patriarca di Aquileia e il vescovo di Bressanone. Nella prima parte del suo regno Federico sembra dunque essere stato in linea di massima favorevole a soluzioni istituzionali come quelle principesche che riducevano a pochi grandi elementi, meglio inquadrabili in una teorica piramide feudale e più facilmente controllabili politicamente, le frammentate istanze politiche locali. Una linea politica che del resto ha chiari riscontri nel Regno di Germania. Ciononostante, soprattutto a partire dall'apertura dello scontro frontale con il Papato al tempo di Gregorio IX, le necessità della contrapposizione politica tra fazioni e la logica degli schieramenti locali fecero sì che in più di un caso si innescassero tensioni sempre più gravi tra imperatore e principi, che, proprio in ragione della precedente affermazione della nozione della derivazione feudale dei principati, portarono all'appropriazione da parte dell'Impero di tutti i poteri principeschi. È però significativo della forza e maturità raggiunta da questi principati il fatto che i funzionari imperiali ad essi preposti ex novo continuassero ad amministrarli come unità a sé stanti, anziché dissolverli nel complesso del patrimonio fiscale delle aree loro affidate. Così in più di un caso (come per la contea aldobrandesca o per i principati vescovili di Trento e di Bressanone) fu proprio un intervento ostile di Federico II ad avviare gravissime crisi interne dei principati, addirittura foriere di definitivi declini. Anche in assenza di scontri aperti tra imperatore e principi, però, le crescenti richieste di mezzi finanziari e di sostegno militare da parte di Federico, cui non facevano riscontro concessioni di pari peso e importanza, logorarono nel corso degli anni rapporti avviatisi nel migliore dei modi (come nel caso del patriarcato di Aquileia), portando a clamorosi voltafaccia politici. Alla base di questi esiti apparentemente contraddittori stavano gli stessi meccanismi che portarono il governo imperiale a pesare più gravemente (soprattutto dal punto di vista fiscale) sulle città di provata fedeltà che su quelle tiepide o francamente infedeli. Vi si aggiungevano fenomeni di concorrenza tra principi ‒ larga parte dei cui patrimoni aveva origine fiscale ‒ e ufficiali imperiali locali che cercavano proprio nei beni di tradizione fiscale il proprio sostentamento. Nel caso dei principati vescovili poi, per i quali proventi ecclesiastici e diritti di nomina del clero restavano economicamente e politicamente rilevanti, si aggiungeva il peso del crescente controllo papale sulla materia ecclesiastica in sede locale: un'arma di ricatto che Gregorio IX e Innocenzo IV seppero sfruttare appieno. Non stupisce quindi che, nei pieni anni Quaranta, alcune delle maggiori dinastie principesche e alcuni grandi signori ecclesiastici fossero ormai passati allo schieramento romano. Più stabile fedeltà all'Impero, nonostante gli occasionali tentennamenti, mostrarono invece le famiglie che, cumulando ai poteri principeschi stabilizzati o in via di stabilizzazione nuove importanti cariche politiche come quelle di vicari o di capitani generali ‒ in aree più ampie o anche diverse da quelle di radicamento ‒, ebbero non solo importanti occasioni di potenziamento e arricchimento personale, ma anche un surplus di legittimazione per i loro disegni dinastici. È il caso delle maggiori dinastie piemontesi ‒ Savoia e Monferrato ‒ del resto nello scacchiere padano tradizionalmente inserite nello schieramento imperiale. Queste famiglie, rimaste fedeli a Federico II nei momenti più difficili, ottennero importanti privilegi che ne ampliarono notevolmente i poteri (come quelli per Tommaso di Savoia, per Ezzelino da Romano o i due per Uberto Pallavicini); va però sottolineato che tali concessioni ‒ come anche le cariche pubbliche ricoperte ‒ nel rapido tramonto del potere imperiale seguito alla scomparsa di Federico si ridussero a semplici suggerimenti e spunti di iniziativa politica, piuttosto che a vere concessioni di diritti e di poteri dotate di immediata efficacia.

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