ARISTIPPO

Enciclopedia Italiana (1929)

ARISTIPPO ('Αρίστιππος, Aristippus)

Giuseppe Zuccante

Aristippo è il fondatore della scuola cirenaica. La cronologia della sua vita è assai incerta. Non conosciamo né l'anno della sua nascita, né quello della sua morte; sappiamo tutt'al più, da alcune fonti, del resto non sicure, che viveva ancora il 3° anno della 103ª olimpiade, cioè il 366 a. C., e che s'incontrò con Platone, durante il terzo soggiorno di questo in Sicilia, che si pone nel 4° anno della 104ª olimpiade, cioè nel 351 a. C. Dalla natia Cirene, attratto dal miraggio della madre patria, si reca assai per tempo in Grecia. Assiste un giorno ai giuochi olimpici; s'incontra qui con Iscomaco, amico di Socrate, che gli parla del maestro e della sua dottrina; e il giovane ne è commosso e si reca tosto ad Atene e si ascrive al circolo dei socratici, desideroso di sapienza. Ma il discepolo di fronte al maestro si comporta con molta indipendenza di pensiero e di parola, e vuole conservare, si direbbe, una personalità sua propria: ne fanno fede specialmente certe sue conversazioni con Socrate, riferiteci da Senofonte.

Però, Aristippo aveva anche ascoltato i sofisti. Non è improbabile che una città così ricca e fiorente quale era allora Cirene fosse stata visitata dai sofisti, commessi viaggiatori della cultura del tempo, ed egli li avesse conosciuti appunto in patria e ne avesse imparato l'arte. Certo è che, al pari di essi e secondo l'uso loro, egli insegnò a pagamento; il che forse, più che qualunque altra cosa, valse a farlo considerare come sofista. E, sempre secondo l'uso dei sofisti, Aristippo andò vagando di città in città, senza dimora fissa, cittadino del mondo, più che addetto a una patria particolare. "Non mi rinchiudo in alcuna città" diceva egli "non mi lego con alcun vincolo di cittadinanza; ma vivo ospite in qualunque luogo".

Personalità interessante quella d'Aristippo: non lo persuade il precetto dell'abstine cinico; e così, rispetto al piacere, egli non fugge da esso, non lo abborre, come i cinici, anzi ne vuole usare e usare largamente, pur dominandolo; si tratta nel piacere, come in ogni altra cosa, di non finire nella schiavitù, di conservare la padronanza di sé, la libertà del proprio spirito, di sottomettere a sé le cose, non sé alle cose, come direbbe Orazio: la ἐγκράτεια, la σωϕροσύνη eroica, che Socrate avea conservata sempre anche di fronte alla morte, e che era tanta parte del suo insegnamento, aveva lasciato tracce nel pur riottoso discepolo. A. era quello che oggi si direbbe un raffinato; un raffinato, secondo la concorde testimonianza degli antichi, nella vita, nel costume, nella prudenza calcolatrice, nella cultura varia onde sapeva ornarsi, anche nell'intelligenza chiara e priva di passioni, onde esaminava e apprezzava i fatti dell'umana natura; un raffinato, altresì, nella sottigliezza delle distinzioni, nella finezza delle analisi, nel rigore delle deduzioni. Platone, appunto, allude probabilmente a lui e alla sua scuola con le parole "raffinati, più raffinati", κεμψοί, κομψότεροι, che adopera ripetutamente nel Teeteto e nel Filebo.

E specchio dell'uomo è la dottrina. A. non sa, di tutte le correnti aperte da Socrate al pensiero, che seguirne una sola: quella che riguarda la vita pratica. Vivere la vita e viverla nel modo più piacevole, ecco il problema per lui; la dottrina edonistica esce dalle sue mani in un tutto ben organato e connesso.

Di tale sistema ecco le linee generali. Noi non sappiamo se non quanto ci viene dalla sensazione, e la sensazione non è altro che uno stato, una modificazione dell'essere nostro. Solo criterio di verità, la sensazione è anche solo criterio d'azione, sola regola di condotta. La sensazione è, in ultimo, movimento, e se questo è facile e lene, dà piacere; se rude e violento, dolore, la quiete o un movimento debolissimo, impercettibile, non dà origine né a piacere né a dolore, e forma come uno stato intermedio. Il piacere è il fatto primo e fondamentale della natura umana; come tutti gli altri animali, l'uomo tende naturalmente al piacere, e da nessuna cosa tanto rifugge quanto dal suo contrario, il dolore. Bene è il piacere, adunque, male il dolore; è indifferente ciò che non ingenera né piacere, né dolore. Né può il piacere scambiarsi con la semplice assenza di dolore, come insegnerà più tardi Epicuro; né il dolore con l'assenza di piacere. Fine della nostra attività, pertanto, è non il piacere in riposo, ἡδονὴ καταστηματική, derivante dall'assenza di dolore, una specie d'imperturbabilità e d'indolenza; ma il piacere in movimento, ἡδονὴ ἐν κεινήσει, il piacere presente, solo in nostro potere. Ogni piacere, in quanto tale, è bene, anche derivando da cose turpi; non è il caso adunque di distinguere fra piaceri buoni e cattivi; non v'ha differenza di qualità fra i piaceri, v'è solo differenza di quantità; piaceri buoni e piaceri cattivi, no, adunque; piaceri più intensi e piaceri meno intensi, sì.

Sennonché i piaceri sono di rado puri; spesso son commisti al dolore; e ciò, in generale, per le conseguenze dell'azione. Di qui la convenienza di tener conto, appunto, di queste conseguenze.

La distinzione fra bene e male, non applicabile all'azione, è applicabile alle sue conseguenze; la legge appunto e la pubblica opinione condannano alcune azioni per le loro conseguenze, perché il bene e il male non sono per natura, ψύσει, ma per legge e costume, νόμῳ καὶ ἔϑει. L'intelligenza adunque, o, meglio, la ψρόνησις, prudenza, che è l'intelligenza stessa in quanto è diretta a uno scopo pratico, ha un gran posto nell'azione; essa non soltanto sa calcolare il valore e le conseguenze d'ogni piacere, ma ci procura buone disposizioni di spirito e ci assicura quella libertà interiore e quella piena padronanza di sè che è tanta parte di felicità. Un gran bene, perciò, la cultura, e soprattutto la filosofia. "I sapienti", diceva in questo senso A. a un suo interlocutore, "differiscono dagli ignoranti, come i cavalli domati dagl'indomiti", e soggiungeva poi: "meglio essere un mendíco che un ignorante, poiché quello manca di denaro, questo di umanità"; e diceva anche che, a differenza degli altri uomini, infermi nello spirito, il sapiente si può considerare come un medico, o come un libero di fronte a schiavi. Parole riguardo alla superiorità del sapiente, e alla sua condizione di privilegio nell'attuare egli solo l'humanitas, che fanno pensare a ciò che scriveva, nello stesso senso, tanti secoli dopo, un grande edonista, un utilitario, come si chiamava, lo Stuart Mill, anch'egli non contento del solo criterio della quantità nel piacere e aspirante egli pure per l'uomo a una vita elevata, superiore, consistente soprattutto nei piaceri dell'intelletto.

La dottrina edonistica, fin qui esposta, e tratta in gran parte dall'estratto, del resto assai magro, di Diogene Laerzio, era veramente propria di A.? Non è facile sostenerlo. Quell'estratto mostra un'ampia discussione dei principî fondamentali, un atteggiamento di difesa di fronte alle obiezioni degli avversarî, una limitazione prudente di alcune proposizioni: ora tutto ciò non è molto consentaneo a una dottrina che esce, a dir così, per la prima volta alla luce; i cui procedimenti sono anzi, d'ordinario, più spicci, più sbrigativi, più dogmatici anche; le discussioni, le difese, le limitazioni sono più proprie d'un periodo di elaborazione e di ricostruzione. Perciò potrebbe darsi che l'estratto fosse dedotto non da opere di A., ma da quelle dei suoi successori. A., è noto, aveva legato la sua dottrina alla propria figlia, Arete, e questa, dal canto suo, aveva fatto di suo figlio, Aristippo il giovane, un filosofo: ora appunto da questi legatarî potrebbe la dottrina aver ricevuta la sua forma definitiva. Ipotesi che sembra avere la sua conferma dal fatto che là dove Aristotele combatte nella Nicomachea la dottrina edonistica, non fa il nome di A., bensì quello di Eudosso, un matematico e un astronomo che, agli altri suoi meriti, aggiunse anche quello di costruire un sistema di morale assai analogo a quello dei Cirenaici.

Del resto, sull'attività letteraria di Aristippo regna un'oscurità che non è sperabile si possa dissipare. Certo è, in ogni mod0, che molte opere gli vennero attribuite a torto per uno scopo tendenzioso.

Bibl.: Senofonte, Memorabili, II, i; III, 8; Diogene Laerzio, II, 8; A. Wendt, De philosophia cyrenaica, Gottinga 1841; H. De Stein, De philos. Cyrenaica, I: De vita Aristippi, Gottinga 1855; Mullach, Fragm. phil. Graec., II, pp. 397-438; C. M. Wieland, Aristipp und einige seiner Zeitgenossen, Lipsia 1800-1802, voll. 4; H. Ritter e L. Preller, Historia philosophiae grecae, 7ª ed., Gotha 1888, pp. 207-215; E. Zeller, Zu ARistipp, in Archiv für Gesch. d. Phil., I (1888), pp. 207-215; E. Zeller, Zu Aristipp, in Archiv für Gesch. d. Phil., I (1888), pp. 172-177; F. Dümmler, Zu Aristipp und zur Geschichte der Hedonik und des Sensualismus, in Akademica, Giessen 1889, pp. 116-188; G. Zuccante, I Cirenaici, in Pubblicazioni di Atene e Roma, Milano 1916; id., Aristippo di Cirene nei Dialoghi di Platone, in Miscellanea di studî della R. Accademia Scientifico-Letteraria, Milano 1912; G. B. Lorenzo Colosio, Aristippo di Cirene, Torino 1925, ecc. Da vedere anche, nella parte che riguarda Aristippo e i Cirenaici, le note opere generali: G. Grote, Plato and the other Companions of Socrates, Londra 1875; E. Zeller, Philosophie der Griechen, II, i, 4ª ed., Lipsia 1889; Th. Gomperz, Griechische Denker, Lipsia 1909-1912.

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