ARCHITETTURA EFFIMERA

XXI Secolo (2010)

Architettura effimera

Maurizio Unali

In questo inizio di 21° sec., soprattutto nella parte economicamente sviluppata del pianeta, la poetica dell’effimero, una delle dimensioni più feconde e antiche del progetto, può essere considerata fra i principali ‘alimenti’ culturali dell’architettura contemporanea. Le relazioni tra il pensiero architettonico e la sfera dell’effimero sono all’origine, infatti, di un complesso repertorio di argomenti e di significative creatività di natura interdisciplinare, generative di multiformi mutazioni spaziali, che aprono nuovi scenari elaborativi, ponendo una serie di sfide e di riflessioni, strettamente interconnesse con la vita quotidiana. È proprio a partire dal presente che si può direttamente cogliere la trasversalità, la pervasività, il senso delle creazioni effimere contemporanee, esperibili, dal reale al virtuale, nei vari contesti che oggi dominano ogni rappresentazione dello spazio: abitate nella familiare dimensione urbana; attraversate nella sospensione dei nuovi luoghi extraurbani (alcuni dei quali itineranti); fruite nel web.

In questo quadro le occasioni per intercettare l’effimero sono molteplici – artistiche, culturali, ludiche, istituzionali, commerciali, sociali, politiche, religiose ecc. – e, anche se possono apparire frammentarie, mostrandosi in un caleidoscopio di forme e di successive declinazioni tematiche, disegnano un unicum esistenziale, tanto mutevole quanto inafferrabile. Come una nuvola: sensazione fuggevole, sostanza effimera per eccellenza, metafora prediletta dai progettisti; essa viene fermata in una delle sue infinite apparizioni sul parabrezza di un’auto in uno spot pubblicitario del 2001 dal veloce tratto di Massimiliano Fuksas, che poi l’ha esposta come anima pulsante della trasparente teca del Centro congressi Italia all’EUR (concorso 1998-2000); o come il Blur Building, la scenografica ‘nuvola’ di Diller+Scofidio (padiglione per l’Expo 2002, a Yverdon-les-Bains in Svizzera), una tra le opere simbolo della contemporaneità, sia in quanto espressiva performance della creatività effimera sia in quanto mediatico paradigma della spettacolarizzazione dell’architettura di questo inizio di secolo.

Superando passate categorie estetico-scalari, il progetto effimero, dal domestico all’urbano, sembra costituire una dimensione esistenziale e metalinguistica intrinseca alla contemporaneità; un’empatica pulsione creativa, diffusa e pluridisciplinare, positivamente e, allo stesso tempo, pericolosamente ‘totalizzante’; un concetto permanente nella transitorietà dell’esperienza. Questa visione unitaria e metaprogettuale dell’azione effimera – per molti aspetti anticipata dalla ‘metatecnologia’ del nostro tempo – delinea un processo elabo-rativo che si può definire anticlassico, mostrando uno dei primi elementi di discontinuità con l’effimero mo-derno – di natura analogica, tra il meccanico e l’elettrico – che procede, invece, per successivi piani tematici.

Dall’industrial design all’urbanistica, dal cucchiaio alla città, per richiamare alcuni concetti legati al secolo scorso, il progetto effimero contemporaneo è liquida sostanza performativa, rintracciabile come segno artificiale o naturale in tutto ciò che è modificazione temporanea dello spazio, al di là di ogni ‘matericità’ e tassonomia stilistica.

Lo spazio dell’effimero contemporaneo è uno solo: quello della nostra mente e delle sue libere rappresentazioni; è l’attualizzazione della scenografica idea-mito della caverna di Platone. Da Ground Zero a New York, con Tribute in light (marzo-aprile 2002), simbolica ricostruzione luminosa delle Twin Towers – due colonne di luce proiettate nel cielo di Manhattan per ricordare le vittime dell’11 settembre 2001 (light architecture di Julian LaVerdiere e Paul Myoda) –, alla sala delle Cariatidi nel Palazzo reale di Milano (2008), con Peter Greenaway L’ultima cena di Leonardo (aprile-maggio 2008), metafisica ‘clonazione’ artistica del celebre quadro allestita dal regista inglese – che, grazie a virtuose combinazioni tra digitale e light design, proietta effetti di tempo e di luce su di una copia in scala 1:1 del capolavoro leonardesco, ricostruito anche nel suo spazio architettonico –, dalla Lapponia svedese, con l’IceHotel a Jukkasjärvi (dal 1990) – che si invera ogni dicembre per sciogliersi in primavera –, fino al Black Rock Desert del Nevada, con Uchronia (2006), performance del visionario designer Arne Quinze – una grande scultura lignea con il suo rituale rogo finale, radicale azione effimera che azzera il tempo dell’allestimento. Rappresentazioni che, oltre al momento della loro prima manifestazione, vivono ancor di più nel ricordo: come libera reinvenzione, al di là del vero, in uno spazio a-geografico e pluridimensionale disegnato dalla nostra mente. Fuggevoli sensazioni tra il sogno e la fantasia, a volte trasparenti ed eteree, altre volte forti ed estroverse, persino invadenti e rumorose, le forme dell’effimero sono presenze costanti, che conformano in più modi l’esperienza del tempo e dello spazio, sia nella dimensione più innovativa, progressista, multidisciplinare e sperimentale, sia in quella più ambigua e destabilizzante, legata alle istanze della società dell’entertainment globale, evoluzione mediatica e consumistica di modelli già preannunciati nello scorso secolo (Walter Benjamin, Guy Debord, Marshall McLuhan), che spesso genera allestimenti ‘senza qualità’, alimentando quella deriva inutilmente trash, che destina l’effimero al solo profitto, legittimando il titolo-monito della 7a Mostra internazionale di architettura di Venezia (2000) che ha aperto il nuovo secolo: Less aesthetics, more ethics.

L’effimero come segnale dei tempi

L’architettura effimera è un efficace medium per leggere il presente in una prospettiva storica, per comprendere problemi e processi in corso e, infine, per ipotizzare futuri scenari. Nell’interpretazione dei rapidi e continui mutamenti progettuali propri del nostro tempo, l’effimero, a differenza del ‘duraturo’, può essere considerato tra i primi segnali da ascoltare per interpretare i mutamenti progettuali che il nuovo secolo, con le dinamiche della globalizzazione e del confronto di civiltà, pone alla coscienza d’oggi, e questo per almeno due ragioni.

La prima, di natura teorica e sovratemporale, è riconducibile a ciò che il critico Gillo Dorfles ha definito la ‘coscienza dell’effimero’, ovvero quella nota vocazione dell’effimero che permette al progettista di proporre forme difficilmente ipotizzabili sul versante dell’architettura permanente. Con modi e tempi diversi dall’architettura intesa nella sua espressione più convenzionale, l’effimero può, in poco tempo, allestire spazi sensibili, sperimentare forme e temi, senza il fardello della durabilità. Del resto avrebbe dovuto essere un’architettura temporanea anche il padiglione tedesco presentato all’Esposizione internazionale di Barcellona nel 1929, progettato da Ludwig Mies van der Rohe e divenuto in seguito uno dei manifesti-simbolo del Movimento moderno.

Dal punto di vista teorico questo carattere sperimentale è una sorta di invariante storica del progetto effimero, che registra in ‘tempo reale’ fenomeni culturali, economici, mutazioni estetiche, esigenze generazionali ecc., in un modo così diretto da divenire, appunto, un significativo indicatore del tempo che lega, in una prospettiva storica, passato, presente e futuro. Oggi questa ‘coscienza dell’effimero’, ampliata dalle nuove dinamiche socioculturali e dalle continue innovazioni tecnologiche, risulta particolarmente stimolata dalla spiccata dimensione massmediatica della contemporaneità e, in particolare, da un nuovo valore dell’informazione e della comunicazione, che contribuisce a estendere ulteriormente i territori dell’architettura verso scenari ibridi e spettacolari.

La seconda ragione è di tipo contingente e riflette le caratteristiche specifiche della nostra società; in particolare, la struttura dell’esperienza antropologica dello spazio e del tempo, oggi particolarmente affine a tali poetiche. In altre parole, l’attualità del progetto effimero è anche l’espressione di una sorta di modus vivendi: dall’insostenibile incertezza degli abitanti del mondo liquido, come direbbe il sociologo Zygmunt Bauman (2007), alla crisi delle ideologie, fino alla mancanza di utopie condivise. Nella popolare percezione di massa gli esempi sono molti e toccano le varie dimensioni della vita associata. Fra questi si ricordano le paure in rete di fine secolo, come lo scampato collasso del millennium bug, le immagini televisive dell’epocale, drammatico cambiamento provocato dai fatti dell’11 settembre, i quotidiani rimbalzi mediatici degli innumerevoli eventi globali.

In questo nuovo scenario, l’idea di spazio e di tempo elaborata e percepita dall’uomo sembra quindi favorire e ampliare l’energia contenuta nel concetto stesso di effimero: potente collante transculturale; luogo di rappresentazione di paure, sogni e speranze di più generazioni; spazio elaborativo all’insegna del cosmopolitismo e dell’universalismo; sostanza reale e virtuale, luogo familiare e impalpabile, dimensione dell’esperienza individuale e della società.

Si deve inoltre considerare che il pensiero contemporaneo sembra percepire ed elaborare l’estensione dello spazio e la contrazione del tempo, esplorando concetti quali interattività, immaterialità, evento, spostando così sempre oltre la soglia del reale il limite dell’esperienza materiale. È uno dei passaggi obbligati dalla fase ‘solida’ a quella definita ‘liquida’ della modernità; dalla replicabile sicurezza dello spazio-tempo dell’architettura moderna, alla fluida esperienza performativa del progetto contemporaneo. Da un altro punto di vista, si ha anche la sensazione opposta che lo spazio del globo si restringa paradossalmente, per gli stessi motivi. Si pensi, per es., a fenomeni come la mobilità e la spettacolarizzazione del tempo libero oppure all’ampliamento della sensazione di ubiquità provocato dalla tecnologia.

Le elaborazioni progettuali direttamente e/o indirettamente correlate a queste vocazioni effimere della cultura contemporanea compongono una vasta costellazione di segni che modellano, a molteplici livelli, lo spazio-tempo della nostra esistenza, delineando un filo rosso che lega molti fenomeni. Il carattere innovativo delle poetiche dell’effimero nel primo decennio del 21° sec. risiede principalmente nella trasversalità dei temi trattati e nella visione globalizzante e fortemente interdisciplinare del progetto; laboratorio che tiene insieme, collegandoli, i differenti campi della ricerca e i diversi contesti geografici, linguistici e culturali. Tutti elementi riscontrabili in molte opere contemporanee, in cui i generi si mescolano e vivono nel reciproco dialogo, richiedendo anche una diversa figura di progettista che conosca i new media e le strategie della comunicazione; un progettista altamente specializzato, ma anche capace di dialogare su temi multidisciplinari e, soprattutto, in grado di saper ‘tenere la regia’ di fenomeni complessi. La possibilità di comprendere il mix progettuale dell’evento e di decifrarne gli elementi espressivi, analizzando al contempo la dimensione multimediale della rappresentazione, consente di entrare in quella poetica dimensione del progetto effimero che, sia nell’arte sia nell’architettura, genera svolte epocali, amplia linguaggi e configura nuove ipotesi di spazi. Architetture temporanee, a volte itineranti, progettate come ambienti multisensoriali che mettono in scena, in un interessante mixage elaborativo, diversi segni figurativi. Si tratta di un processo progettuale e di un esito rappresentativo situato tra arte e scienza che utilizzano, amplificandole e deformandole, le strategie di diverse discipline per ottenere il massimo effetto espressivo. Progetti che, se ascoltati, narrano i momenti in cui l’architettura amplia l’orizzonte svelando conquiste di senso che tracciano nuove spazialità, territori da abitare per future avventure.

Sostanze effimere

Osservando le più significative elaborazioni progettuali del primo decennio del 21° sec. e ricordando gli spettacolari eventi architettonici che le hanno precedute – tra tutti si cita l’icona mediatica del Guggenheim Museum (1997) di Bilbao di Frank O. Gehry, peraltro, fin dagli anni Sessanta del 20° sec. protagonista dell’‘iperrealismo effimero’, con le sue note poetiche del non finito, del provvisorio e del riscatto dello scarto –, l’effimero sembra essere una delle ‘sostanze’ ricorrenti anche in opere dal carattere permanente. Sostanza non da ‘mescolare’ con le altre, ma sentimento del tempo, espressione dell’epoca.

Nel contesto del modus vivendi precedentemente rilevato, sulla spinta del nuovo valore economico dell’informazione e della comunicazione, sconfitti molti degli stereotipi del moderno, relegata al solo ambito accademico la discussione tra ‘temporaneo’ e ‘duraturo’ – oggetto nel secolo passato di molte speculazioni teoriche –, il progetto effimero è parte attiva dell’estetica contemporanea, è forma visibile dello spirito del nostro tempo, i cui mobili confini sono disegnati e diluiti nella globalità: veloci rappresentazioni di informazioni, oggetti ed eventi; modelli spaziotemporali fluidi, alla ricerca di un’ideale leggerezza immateriale improntata a una forte multisensorialità; ambienti sensibili da consumare nel presente, da fruire in tempo reale e ridisegnare all’infinito nel ricordo.

Viene alla mente un brano scritto da Marc Augé in cui l’antropologo francese sottolinea che l’architettura contemporanea «non mira all’eternità ma al presente: un presente, tuttavia, insuperabile. Essa non anela all’eternità di un sogno di pietra, ma a un presente ‘sostituibile’ all’infinito»; di conseguenza anche l’idea di città muta, divenendo ‘eterno presente’: «edifici sostituibili gli uni con gli altri ed eventi architettonici, ‘singolarità’ che sono anche avvenimenti artistici concepiti per attirare visitatori da tutto il mondo» (2003; trad. it. 2004, p. 92).

Sia nella dimensione tattile e materiale degli oggetti e delle opere realizzate sia in quella virtuale e immateriale della comunicazione e dell’informazione, non sembrano esserci dubbi sul fatto che la cultura progettuale contemporanea esperisce l’effimero in modo nuovo rispetto al passato e che, nella progettualità più sperimentale di inizio secolo, l’effimero non si contrappone al permanente, almeno non nei modi e nella misura propri del moderno.

Gli esempi di sostanze effimere nell’architettura permanente di oggi sono molti. Dalle variabili conformazioni della ‘pelle’ multimediale degli edifici, alle opere che ospitano, generano e che sono esse stesse evento, le molteplici progettualità riferibili alla poetica dell’effimero contribuiscono a disegnare nuove estetiche, ancora da decifrare nella loro interezza, certamente importanti segnali del passaggio da un secolo all’altro. Si pensi al ruolo spettacolare e mediatico di accumulatore di informazioni espresso dall’ampliamento della Kunsthaus (2003) a Graz di Peter Cook e Colin Fournier: uno spazio meccanico (la preesistenza è rimasta all’interno dell’edificio, mostrando la tecnologia industriale dei primi prefabbricati in ghisa) ed elettronico, ‘macchinolatria’ (come avrebbe detto Manfredo Tafuri) digitale dalla pelle camaleontica generata da flussi di informazioni cromatiche e visive. Se si analizzano, poi, anche alcuni piccoli segnali effimeri presenti in opere dal carattere ‘duraturo’, è possibile decifrare ulteriormente il fenomeno. Alcune architetture realizzate dallo studio SANAA di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, per esempio, contengono interessanti segni effimeri, sia nel trattamento delle superfici sia nei volumi: nella sede Dior (2003) di Omotesando a Tokyo, le doppie lastre in vetro che la racchiudono consentono internamente di allestire pannelli rimovibili in acrilico semitrasparente disegnati da morbide immagini, rendendo le facciate eteree e mutevoli, dalla raffinata trasparenza diurna all’attraente effetto lanterna della notte; nel New Museum of Contemporary Art (2007) di New York, l’astratta ambiguità compositiva della volumetria, composta da una pila di ‘scatole’ apparentemente instabili, sembra far muovere e vibrare l’opera, effetto cui contribuiscono anche i materiali scelti per il rivestimento, un avvolgente reticolo metallico che fa trasparire l’anima bianca della struttura. All’insegna della dinamicità si segnala anche la Dynamic (o Rotating) Tower a Dubai, progettata nel 2007 da David Fisher, un grattacielo ‘girevole’ che, grazie a un meccanismo che consente a ogni piano di ruotare in modo autonomo, cambia continuamente forma, ridisegnando ogni volta per i suoi abitanti il panorama e gli effetti di luce.

La sostanza effimera dell’architettura contemporanea emerge anche in riferimento al rinnovato valore del concetto di durata dell’opera. Oggi la vita di un edificio e dei suoi materiali può essere meglio precisata, essendo sempre più determinata da una consapevole scelta progettuale che può anche prevedere processi di sostituzione parziale e/o totale (una sorta di ‘obsolescenza pianificata’). Come nel caso dell’immenso tendone da circo high tech del Millennium Dome (2000, Londra), poi ribattezzato The O2, progettato da Richard Rogers: un’opera dall’aspetto itinerante, ma ‘immobile a tempo’, la cui struttura è stata progettata per una durata di almeno 25 anni, per poi essere sostituita. Oppure si pensi al futuro dei materiali scelti per alcune recenti opere, e alla loro mutevolezza, come nel caso della vasta gamma di opportunità formali e tecnologiche offerte dalle plastiche, dai pannelli di facciata, dalle membrane o dai cuscini pneumatici. Gli esempi sono molti: la Hall 7 del Parc d’expositions Paris Nord (2007), progettata dallo studio Lacaton & Vassal, definita da facciate a doppio strato in pannelli ondulati di policarbonato; l’onirica, bianca Acrylic House (2007) nella prefettura di Yamanashi disegnata da Takeshi Hosaka e modellata da una leggera pelle climatica realizzata con nastri in materiale acrilico (FRP, Fiber Reinforced Polymer); la Wall House (2007) a Santiago del Cile, dello studio FAR Frohn & Rojas, con la caratteristica seconda copertura-tenda in tessuto di poliammide, che riflette fino al 70% dell’energia solare; l’affascinante stadio Allianz Arena (2005) a Monaco di Baviera, dello studio Herzog & de Meuron, con la sua soffice membrana-involucro tenuta in tensione dalla pressione, la cui superficie, grazie a un particolare sistema di illuminazione, trasmette i colori delle bandiere delle squadre che si incontrano; il design ecosostenibile del National Aquatics Center di Pechino, progettato per le Olimpiadi del 2008 dallo studio PTW architects, originale struttura rivestita da leggere bolle luminose, un water cube (così è stato soprannominato) dalle superfici fatte di un particolare tipo di plastica (etilene tetrafluoroetilene, ETFE) che, interagendo con l’ambiente, muta il proprio aspetto, consentendo anche di catturare il 20% dell’energia solare.

Infine è interessante valutare come in alcuni casi l’architettura effimera assuma sempre più un aspetto duraturo, con materiali degradati per simulare l’azione del tempo. Si pensi al metafisico centro espositivo Monolithe progettato da Jean Nouvel per la citata Expo svizzera del 2002: un relitto ‘arrugginito’ proveniente da un altro tempo, come abbandonato alla deriva nelle calme acque del Lago di Morat.

Anche se tali vocazioni dell’effimero sono variamente riscontrabili nella storia dell’architettura, nel primo decennio del 21° sec. il fenomeno risulta particolarmente vitale, soprattutto rispetto ad alcuni ambiti elaborativi che, come sin qui riscontrabile, si distaccano profondamente dalle classiche suddivisioni tipologiche del fenomeno nate nell’alveo del moderno; classificazioni tipologiche e specificazioni in generi che, per evidenziare le nuove direzioni dell’effimero e approfondire le originali interconnessioni con le altre creatività, appaiono ormai superate da alcuni ambiti elaborativi interdisciplinari in grado di mostrare interessanti novità estetiche complessive, facendo anche prevedere ulteriori e fecondi sviluppi.

Effimero urbano

Le aree urbane sono i luoghi ideali per intercettare la multiforme presenza del progetto effimero contemporaneo. Da Tokyo a New York fino a Dubai, l’effimero appare come fluida dimensione universale che unisce; si evidenzia come un laboratorio della connettività a scala urbana, e rappresenta, fra l’altro, una tra le più evidenti trasformazioni nell’era elettronica del villaggio globale delineato da McLuhan (Understanding media, 1964).

Le città sono il palcoscenico su cui l’effimero globale e quello portatore di significati e identità locali si toccano. Così come le persone che in luoghi diversi si sarebbero dovute ‘incontrare’ grazie agli schermi del Global Village Square, un progetto del sociologo Derrick de Kerckhove presentato all’Expo 2000 di Hannover; o al Telectroscope di Paul St. George (maggio-giungo 2008), un sistema (basato su telecamere digitali e collegamenti Internet) tramite il quale hanno potuto reciprocamente osservarsi persone che si trovavano rispettivamente presso il Tower Bridge a Londra e presso il Brooklyn Bridge a New York. L’azione effimera, supportata dal digitale e amplificata dai media, è un’interfaccia che unisce, invera temporanee e simboliche interconnessioni, mettendo insieme individui, comunità, culture e luoghi diversi.

Nella quotidianità metropolitana, l’effimero appare in varie forme. È il network della comunicazione e dell’informazione continua, in ogni luogo: i media build-ings e le facciate interattive, i megaschermi e i videowalls; ma anche i cartelloni pubblicitari extra-large e le insegne dei grandi magazzini, i flagship stores per la moda, i pop-up stores e le vending machines, le serigrafie in scala 1:1 dei prospetti sui teli dei ponteggi metallici dei cantieri. Anche le superfici dei tetti degli edifici (il cosiddetto quinto prospetto), grazie alla popolarità di Google Earth, sono diventati supporti per messaggi e pubblicità, come gli autobus, i taxi e la metropolitana. Le ambigue incursioni urbane dei writers ci hanno ormai da tempo abituati a confrontarci con l’utilizzo delle superfici fisse o mobili; potenziali supporti per vandaliche profanazioni o interfacce per creative e avventurose rappresentazioni. Come i billboards nei film di Wim Wenders, o come quelli allestiti per la mostra genovese Arti & architettura 1900-2000 (2004-05), curata da Germano Celant: fugaci e subliminali comunicazioni visive in 50 cartelloni pubblicitari (6×3 m2) disseminati nell’intera città, e ideati, tra gli altri, da Vito Acconci, Archizoom associati, Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Arduino Cantafora, Mimmo Jodice, Luisa Lambri, Franco Purini, Massimo Scolari, Ettore Sottsass, Superstudio (Adolfo Natalini) e Grazia Toderi.

Tra queste caleidoscopiche estetiche dello spettacolare effimero urbano, il cui elenco potrebbe continuare, è interessante approfondire ancora le continue interconnessioni con le diverse declinazioni del progetto di architettura, evidenziando i più interessanti laboratori creativi della contemporaneità. Come quello innescato dall’internazionale e tecnologico media build-ing (manifesto-attualizzazione di Architettura come mass medium, felice intuizione del 1967 di Renato De Fusco), con le sue camaleontiche facciate multimediali, superfici-schermo che veicolano comunicazioni e informazioni (dai messaggi pubblicitari all’arte, dalle condizioni climatiche alle oscillazioni dei titoli del Nasdaq): come nel megaschermo del grattacielo 4 Times Square di New York (1999, Fox & Fowle architects), scenografica icona sulla più conosciuta piazza-palcoscenico dell’effimero urbano globale.

L’idea di rendere sensibili, mutevoli e ipermediali gli spazi e la pelle degli edifici rimanda a un’avvincente ricerca che, com’è noto, trova una prima efficace sintesi nel Centre Georges Pompidou (1977) di Parigi, progettato da Renzo Piano e Richard Rogers. Nel progetto presentato al concorso (1971), il prospetto principale (poi cambiato in fase esecutiva) era un medium di rappresentazione di immagini e informazioni da tutto il mondo, trasmesse ai cittadini attraverso un grande schermo che disegnava la facciata. Quasi trent’anni dopo, con la KPN Telecom Office Tower (2000, Rotterdam), Piano ha attualizzato l’idea, realizzando un immenso prospetto-interfaccia ‘a pixel’, in grado di visualizzare animazioni, messaggi grafici e informazioni varie, visibili fino a 2 km di distanza. Un altro protagonista di questa ricerca è Nouvel, che ha saputo manipolare il tema in modo personale, offrendo interessanti idee sul disegno mutevole delle superfici, pensate come sensibili sensori. Dal noto prospetto-diaframma che controlla l’intensità della luce dell’Institut du monde arabe (1987) di Parigi, agli interni animati per l’albergo The Hotel (2000) di Lucerna – 25 stanze ‘palcoscenico’ sul cui soffitto sono proiettate scene sensuali o poetiche tratte da film celebri, comodamente fruibili dagli ospiti dell’albergo e, grazie alle finestre volutamente libere da tende e imposte, visibili di notte dall’esterno a tutti coloro che passeggiano sulla strada –, dalla Mediapark Tower (2001) di Colonia all’Andel Building (2001) a Praga, dalla torre Agbar (2005) a Barcellona alla Concert House Danish Radio (2009) a Copenaghen, le superfici degli edifici sono variabili elementi scenici della vita urbana. Questa ricerca passa poi per altre opere, tra cui spiccano le innovative sperimentazioni di Toyo Ito, che disegna oggetti sensibili dalle superfici fenomeniche. A iniziare dalla celebre Tower of Winds (1986, oggi demolita) nei pressi della stazione di Yokohama – tra le prime architetture ‘sensibili’ dell’era elettronica, che cambiava aspetto in funzione della direzione e forza del vento ma anche dell’intensità sonora del traffico –, passando per l’Egg of Winds (1990), volume ellittico sospeso sopra l’ingresso al parcheggio del complesso residenziale Okawabata Rivercity 21, nell’area di Tokyo, ‘uovo mediatico’, icona dell’idea di città rappresentata in Blade runner (1982, di Ridley Scott), fino alle multisensoriali installazioni temporanee come Vision of Japan (1991, Londra, Victoria and Albert Museum) e Health futures (Expo 2000 di Hannover), o l’allestimento per Toyo Ito architetto, la sua mostra antologica del 2001 alla Basilica Palladiana di Vicenza, e l’effimero suolo allestito in occasione della mostra Berlin-Tokyo/Tokyo-Berlin. The art of two cities (2006) all’interno della Neue Nationalgalerie (1968) di Mies van der Rohe. È un ricchissimo repertorio che traccia un ponte da un’epoca all’altra, al quale si devono poi aggiungere almeno altre due opere: il padiglione temporaneo per la Serpentine Gallery a Londra (2002, con Cecil Balmond) e il negozio per la marca Tod’s (2004) nel quartiere Ginza di Tokyo.

Quest’ultimo introduce un altro interessante tema-laboratorio nei territori urbani dell’effimero, ossia il fenomeno dei flagship stores. Si tratta di negozi-immagine, architetture del glamour che mettono in scena le contingenti esigenze del mercato della moda. Progettati per i grandi stilisti dai più noti architetti del globo, superano il concetto di punto vendita a favore di allestimenti mutevoli, dal forte carattere scenografico, che permettono di vivere un’esperienza plurisensoriale in linea con la ‘filosofia’ dell’azienda. Tra messaggi subliminali e forti e dirette immagini-slogan, frutto di precise scelte imposte dal marketing, i progetti realizzati negli ultimi anni rappresentano interessanti esempi che consentono di verificare come una tra le più evidenti forme di spettacolarizzazione dell’architettura utilizzi e inventi nuove estetiche dell’effimero per mettere in scena le specifiche caratteristiche del marchio e dei prodotti proposti, ma anche per utilizzare, a sua volta, il grande medium comunicativo della moda. Pure in questo settore l’approccio di Rem Koolhaas e dei suoi collaboratori è significativo, in quanto riesce a coniugare con successo ricerca, professione, media e mercato, come testimoniano sia Kool world, numero monografico della rivista «Wired» dedicato al nuovo secolo e curato nel giugno 2003 dallo stesso Koolhaas – in cui, tra l’altro, sono contenuti studi sull’evoluzione urbana globale e riflessioni sulle nuove estetiche degli ‘spazi spazzatura’ (junkspaces) e della civiltà dello shopping – sia la realizzazione dei Prada Epicenter (2001) a New York e a Los Angeles (2004). Quest’ultimo, situato a Beverly Hills lungo la lussuosa North Rodeo Drive, utilizza molti effetti comunicativo-spettacolari per evidenziare elementi effimeri: dall’idea di dissolvere interno-esterno abolendo le porte d’ingresso, sostituite da lame d’aria, fino alle varie trovate tecnologiche per provare gli abiti (grazie a un computer, si può cambiarne il colore o ci si può vedere da differenti punti di vista), oppure ai camerini che, spingendo un tasto, diventano trasparenti e consentono al cliente di relazionarsi con il commesso. L’idea dell’architettura come oggetto stabile della scena urbana, delle superfici come riferimento estetico permanente del suo linguaggio e dell’allestimento come spazio funzionale ‘al presentare’ sta così velocemente mutando. È soprattutto il tempo spettacolare dell’evento, nella sua inesorabile scansione, che sembra mettere in discussione l’antica regola della ‘durabilità’ (illusione di ‘permanenza’ che è propria dell’idea stessa di architettura nella tradizione storica), incrinando la solidità della firmitas classica.

Si rafforzano così alcune linee di ricerca sul tema dell’evento, come le elaborazioni di Bernard Tschumi e, in particolare, l’idea di sostituire alla nota triade vitruviana i concetti di spazio, evento e movimento. Concetti rintracciabili nell’estetica dell’effimero contemporaneo, soprattutto negli spazi temporanei allestiti per eventi artistici: dalle variegate performances della public art – come la scena dei tre fantocci-bambini in cera penzolanti da un albero nella trafficata piazza XXIV maggio a Milano, una installazione en plein air del 2004 di Maurizio Cattelan – ai padiglioni espositivi temporanei; dalle installazioni multimediali ciclicamente allestite da alcune gallerie private o dai musei, fino agli allestimenti di scenografie per spettacoli, firmati anche da noti architetti. Fra gli altri si ricordano: Zaha Hadid, per il balletto Metapolis (Charleroi, 2000), con la compagnia Charleroi Danses e la coreografia di Frédéric Flamand, e per il tour mondiale dei Pet Shop Boys (1999-2000); Daniel Libeskind, per l’opera teatrale The architect di David Greig (Oslo, 1996) e l’opera lirica di Richard Wagner Tristano e Isotta (Saarbrücken, 2001), regia di Christian Pöppelreiter; Coop Himmelb(l)au, per Penthesilea di Heinrich von Kleist (Hannover, 2001), regia di Anselm Weber. Nella vita metropolitana queste rappresentazioni si moltiplicano, sono sempre più spettacolari e generano nuove sperimentalità che contribuiscono, grazie al grande risalto mediatico, ad attrarre l’attenzione: blobs gonfiabili nei parchi e nelle piazze, nebulizzazioni e giochi d’acqua come in The crown fountain (2004) di Jaume Plensa nel Millennium Park di Chicago – un grande pannello di diodi a emissione luminosa (LED) che ogni 12 minuti cambia immagine e getta un robusto flusso d’acqua verso il pubblico incuriosito –, monumenti ridisegnati dalle luci d’artista, light shows urbani, magari sulle sponde del fiume, fino agli architectural light shows focalizzati su singole opere o eventi.

Londra è un ottimo centro per verificare alcune di queste progettualità. Dalle molteplici spazialità temporanee allestite all’interno del Millennium Dome di Rogers – come la Mind Zone (2000) di Hadid e lo show OVO (2000) di Peter Gabriel e Mark Fisher – alle varie installazioni nella Turbine Hall della Tate Modern – come Marsyas (2002-03) di Anish Kapoor e The weather project (2003-04) di Olafur Eliasson – fino ai padiglioni temporanei che dal 2000, ogni anno, nel parco di Kensington, la Serpentine Gallery (tra le più apprezzate gallerie di arte moderna e contemporanea) affida alla creatività di architetti e artisti di fama internazionale. Oltre a quello già citato di Ito e Balmond del 2002, si segnala anche il padiglione del 2007 ideato dall’architetto Kjetil Thorsen e dall’artista O. Eliasson, una sorta di dinamica lanterna girevole, ideale oggetto-meta per attraenti percorsi cittadini. Come quelli tracciati dalle installazioni posizionate in varie zone di Genova per la già citata mostra Arti & architettura: la ricostruzione ‘a terra’ del Teatro del Mondo (1979, Venezia) di Aldo Rossi (a cura di Gianni Braghieri e Francesco Saverio Fera) in piazza Caricamento; Ginger and Fred, Rasin Building, ricostruzione del celebre edificio di Gehry (1994, Praga), in piazza San Lorenzo; la Torre del filosofo di Alessandro Mendini a piazza Matteotti; Igloo di Mario Merz, Architect’s handkerchief di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen e Wave UFO di Mariko Mori nel Palazzo ducale; il Chiosco per Genova 2004 di Gaetano Pesce in piazza De Ferrari; The golden calf di Hans Hollein in piazza Fontane Marose; il gonfiabile Togok towers di Koolhaas a Palazzo Lomellino; l’installazione Giardini di vetro di Andrea Branzi a Palazzo Tursi.

Approfondendo ancora le più interessanti progettualità di spazi temporanei, si rileva che gli esempi più sperimentali sono quelli che tentano di superare l’idea del tradizionale allestimento artistico a favore di oggetti effimeri dal carattere fluido, pensati come laboratori in cui inverare interazioni fra artista, opera e pubblico, in uno spazio appositamente creato. Molti gli sviluppi di tale linea nei primi anni del 21° sec. nel solco tracciato dalle sperimentazioni della fine del secolo scorso, tra cui si ricordano due progettualità sul versante più architettonico del tema, come il Saltwater Pavilion di Kas Oosterhuis e il Freshwater Pavilion dello studio NOX, realizzati a Neeltje Jans (Paesi Bassi) nel 1997. Rafael Lozano-Hemmer allestisce e ridisegna spazi attraverso l’uso delle tecnologie digitali e dei media, lasciando che interagiscano con il visitatore (interfacce custom-made, installazioni robotiche, computer, video proiezioni, sensori, luci e suoni); lo psicologo Paul Verschure, in ADA – The intelligent space (allestito in occasione dell’Expo svizzera del 2002) ha realizzato un vero e proprio ambiente immersivo, un padiglione interattivo in grado di percepire ciò che accade al suo intorno e reagire. Ambienti sensibili, come quelli allestiti da Jeffrey Shaw o dallo Studio azzurro, luoghi delle emozioni, laboratori ideali anche per sperimentare sinestesie, nelle molteplici declinazioni che tale pratica consente e, seguendo la sollecitazione dell’Esposizione internazionale d’arte di Venezia del 2007, «pensando con i sensi sentendo con la mente».

Analoghe considerazioni è possibile sviluppare nella sfera dello show design, soprattutto nella declinazione live della cultura rock, tra le più significative dimensioni della contemporaneità, per percepire e sperimentare l’essenza spettacolare della poetica dell’ef-fimero. Questi popolari ambienti multisensoriali, macchine sceniche itineranti o set tematici allestiti per singoli eventi, sono attivi in contesti diversi, dalla dimensione urbana a quella extraurbana, mostrando le spiccate attitudini del progetto effimero a inventare e modificare i luoghi del nostro presente. Trattandosi di architetture mobili, da un lato sono strutture autonome e autosufficienti; dall’altro, la dimensione artistica del progetto permette di riallestire spazi esistenti, sperimentandone potenzialità e ampliandone le vocazioni: dalla città storica, di cui vengono esaltate le naturali doti scenografiche dei luoghi che diventano set, alle periferie, fino ai nuovi luoghi extraurbani. Sono progettualità che propongono e sperimentano una trasformazione graduale, un potente effetto morph-ing, capace di svelare inaspettate e improvvise riconfigurazioni ambientali che ampliano il tradizionale rapporto tra luogo ed evento, tra la dimensione permanente dello spazio e la sua risemantizzazione in senso effimero. Si tratta, inoltre, di popolari e coinvolgenti attrattori mediatici che sollecitano e liberano i nostri sensi attraverso un linguaggio espressivo universale; colossali architetture mobili che proseguono e inverano alcune progettualità radical rinnovate dall’arte visiva contemporanea e dalla tecnocultura digitale; esperienze estetiche pop per un pubblico di milioni di spettatori che, sempre più spesso, assumono il ruolo di ‘protagonisti’. Almeno per quei 15 minuti di notorietà cui, come sostenuto da Andy Warhol, tutti hanno diritto nella vita.

Come nel Vertigo tour (2005-06) degli U2 che, nella versione indoor, ha offerto nuove ipotesi di allestimento, in particolare nell’evoluzione del tipo di palcoscenico in the round (show director Willie Williams, architetto M. Fisher), ulteriormente evoluto in The claw, l’ultimo palco per The U2 360° tour (2009-10).

Tra i migliori set di questi ultimi anni, nel segno della continuità, vanno ricordati quelli dei Rolling Stones progettati da Fisher: Licks (2002) – light design-er Patrick Woodroffe, video director Williams – e A bigger bang (2005-06) – light designer Woodroffe –, di cui si segnala in particolare la messinscena del 2006 sulla spiaggia di Copacabana a Rio de Janeiro, a cui parteciparono oltre un milione e mezzo di persone (più tutti quelli collegati in streaming). Si ricordano, inoltre, altre due produzioni: Growing up tour (2002-03) di P. Gabriel, allestito insieme al regista Robert Lepage, e lo spazio multisensoriale indoor del poema-concerto itinerante messo in scena dalla poliedrica artista Laurie Anderson nello show Homeland (2007).

Continuando a esplorare le molteplici estetiche dell’effimero, si arriva alla forma forse più popolare di tali progettualità, l’antico rito dell’allestimento della ‘grande festa’, come direbbe l’antropologo Vittorio Lanternari; importanti progettualità che riguardano anche la sfera sociale, l’etnografia, l’antropologia culturale, il costume e ogni possibile manipolazione del fenomeno. In questa storica estensione dell’effimero si registrano le più frequentate forme di allestimento scenico dei nostri tempi, dalle tradizionali luminarie del Sud, ai ‘fochi di gioia e d’allegrezza’ realizzati dalla compagnia di Valerio Festi, fino ai festeggiamenti che le varie municipalità organizzano per la fine dell’anno, o le spettacolari cerimonie inaugurali, come i Giochi olimpici tenutisi in Cina nel 2008, o gli appuntamenti di grande aggregazione sociale, come gli spettacoli, le manifestazioni e gli eventi in programma durante le varienotti bianche’, in cui il centro storico e i monumenti delle città diventano quinte sceniche per happenings e performances. In generale si tratta di progettualità che attualizzano l’antica dimensione dell’effimero in grado di generare un senso di appartenenza alla comunità e disegnare quel popolare folclore che rende ancora locale un fenomeno sempre più globale. Prodotti regionali, musica della tradizione popolare, balli, maschere e i sempre graditi giochi pirotecnici completano la scena. Dalle grandi metropoli ai piccoli paesi, lo spettacolo si ripete con arcaici riti che uniscono comunità e rinnovano la leggenda. L’evento ‘sacrale’ è soprattutto la notte di Capodanno: un momento simbolico speciale, da condividere con grandi artisti per festeggiare l’inizio del nuovo anno. Se la festa coincide anche con il passaggio di secolo, allora tutto è amplificato: il nuovo millennio è stato inaugurato dall’esplosiva notte del Capodanno 2000, che ha registrato un record assoluto di eventi, con le più diverse idee sceniche e locations, dagli spazi urbani, come quello ideato dal light designer Gert Hof a Berlino intorno alla Porta di Brandeburgo (con più di 750.000 persone), agli ambiti extraurbani, come lo show The twelve dreams of the Sun, messo in scena da Jean-Michel Jarre nell’area archeologica di Giza in Egitto.

Effimero extraurbano

Osservando le evoluzioni dell’organismo urbano e, in particolare, le politiche di espansione e di uso delle fasce periferiche e dei sistemi territoriali, l’effimero sembra essere una delle tendenze più attive anche nei processi di modificazione dei paesaggi extraurbani; forti presenze oggettuali fondate sui consumi, megaeventi d’interesse globale, spettacolari itineranti instant city, temporanei autonomi itinerari di esplorazione territoriale – esperienze in continuità con le TAZ (Temporary Autonomous Zones) auspicate sin dal 1985 dal poeta Hakim Bey – e poetici segni local ancora indistinti, di sapore ‘situazionista’, dove anche l’Homo ludens vive in libertà, trasformando costantemente l’uso dello spazio e del tempo.

Tra questi laboratori della contemporaneità, le recenti concentrazioni sospese dei luoghi extraurbani, evoluzione dei globalizzanti ‘non luoghi’ degli anni Ottanta del 20° sec. (come li hanno definiti Augé e l’urbanista Melvin Webber), relativamente ad alcuni ‘super luoghi’ – un concetto in corso di definizione – o ‘anticittà’ (in opposizione alla cultura urbana storica) sembrano essere i nuovi spazi ideologici per praticare le politiche dell’effimero contemporaneo: acquafan, outlet, megacentri commerciali ad alta frequentazione, snodi terziari dell’interscambio, aeroporti, stazioni ferroviarie, fashion districts, stadi, parchi tematici, discoteche e rave parties, villaggi turistici e così via. Queste spazialità polifunzionali (prevalentemente di carattere terziario, ludico e d’intrattenimento), oltre a essere catalizzatori di flussi locali e regionali, sono diventate centri familiari per politiche di sviluppo economico e sociale (localizzati secondo precise strategie di marketing). Sia nella popolare società del low cost sia in quella glamour e d’élite, nei grandi ambiti terziari, produttivi, logistici, commerciali e per l’intrattenimento di massa – si pensi a Heron City (2001) a Barcellona, al Millennium Park (2004) a Chicago, ma anche ai vari Disney World, a ‘ideali’ città letterarie come Eden-Olympia, il complesso residenziale con caratteristiche paradisiache descritto nel 2000 da James G. Ballard in Super-Cannes – il protagonista è l’uomo nomade, in transito perenne per lavoro, tempo libero o vacanza. Com’è noto, il nomadismo costituisce un ulteriore aspetto della società di oggi che il progetto effimero, dall’arte all’architettura, registra e soprattutto rappresenta, teorizzando sempre più l’idea di un ambiente caratterizzato da spazi mobili, ricollocabili, rimovibili, fluidi, ecologici: come il Corpo in transito di Didier Fiuza Faustino (7a Mostra internazionale di architettura, Venezia 2000); i Refuge wears di Lucy Orta (1993-1998); il LoftCube (Berlino, 2003) di Werner Aisslinger, un’unità abitativa mobile di 36 m2, da collocare sui tetti degli edifici; fino ai vari luoghi allestiti temporaneamente, come il Nomadic Museum di Shigeru Ban (dal 2002), centocinquanta container navali, un tetto e una struttura interna in tubi di cartone in viaggio per il mondo.

In questo scenario va ricordato il fenomeno delle grandi concentrazioni temporanee, interessanti esempi di riconfigurazione del territorio: dalle Expo – storiche occasioni per verificare l’eccellenza del progetto effimero – ai grandi raduni di massa, spesso di carattere religioso – si pensi al XXIV Congresso eucaristico nazionale (Bari, maggio 2005), con il grande palco papale (largo più di 100 m, profondo 30 e alto 20) davanti al quale si sono raccolti oltre 300.000 fedeli –, o dai concerti rock – che dai grandi raduni degli anni Sessanta e Settanta del 20° sec. sono arrivati alla dimensione globale dei vari live aid –, fino alle ‘città per un giorno’, come Black rock city, la città effimera ideata da Rod Garrett e allestita a partire dal 1991 nel Black Rock Desert del Nevada, che, nella settimana del labor day, è popolata dai partecipanti al Burning man project, festival artistico basato sul principio della radical self expression and self-reliance, tra i più rappresentativi eventi della controcultura americana: i suoi temporanei abitanti sono passati dai 250 del 1991 ai 49.600 del 2008. Questa ‘super-city’, che nel 2008 è stata per una settimana l’undicesimo centro urbano del Nevada per popolazione, è fondata essenzialmente sulla creatività, e spinge i suoi provvisori cittadini a partecipare e a generare l’evento, attraverso perform-ances, happenings e installazioni.

Effimero digitale

Tra gli spazi praticati dal progetto effimero, quello digitale appare tra i più promettenti e flessibili: nella sua essenza virtuale, esso è intrinsecamente e trasversalmente effimero, oltre che utopico e ideale.

Da quanto sin qui analizzato, sono infatti evidenti le multiformi relazioni tra architettura effimera e tecnocultura digitale. Relazioni generative di nuove spazialità, alimentate da una rete di fitte interconnessioni (progettuali, rappresentative, cognitive, tecniche, estetiche ecc.) che investono più ambiti e che tendono alla fusione di generi, all’ibridazione di significati, riproponendo anche il tema dello ‘sconfinamento’, pratica vitale per rinnovare il valore della ricerca, il senso ludico della scoperta, l’utopia, la creatività, il confronto con l’altro. Del resto, l’effimero e l’architettura, come la storia testimonia, sono forma-pensiero dal valore e dal significato plurale: espressione di sintesi dello spirito del tempo; e quindi teorie e progetti che riflettono società e culture diverse, tecniche e modi di vita, scienza e arte, filosofia e quant’altro sia in grado di generare processi intellettuali rappresentabili come spazi da abitare.

Nell’ambito di questi orientamenti è interessante rilevare che il digitale agisce nell’architettura effimera soprattutto rispetto a due laboratori teorico-operativi tendenti in alcuni casi a sovrapporsi. Nel primo, che si può definire estetico-costruttivo, il digitale è declinato principalmente in quanto potente ‘metatecnologia’ (com’è stata identificata dal teorico Giuseppe O. Longo) attuativa, in continuo dialogo con il processo compositivo, dalla fase d’ideazione a quella di realizzazione. In quest’ambito, come più volte si è riscontrato nei progetti fin qui citati, l’architettura sperimenta e applica le potenzialità digitali direttamente sul proprio organismo, nello spazio reale. Nel secondo laboratorio teorico-operativo, che si può definire utopico-ideale, il digitale è considerato un ulteriore spazio da ‘abitare’: luogo ‘altro’ per allestire creatività effimere; progetti che esistono soltanto nella dimensione virtuale e che, quindi, possono liberarsi anche del fardello del ‘fattibile’.

Se nel primo caso il progetto effimero prosegue una storica relazione con le più avanzate tecnologie del tempo in cui opera – nel moderno, per es., si ricordi la pionieristica ‘multimedialità analogica’ del padiglione Philips di Le Corbusier, allestito per l’Esposizione universale di Bruxelles del 1958 con la collaborazione di Iannis Xenakis, che ospitava il Poème électronique di Edgar Varèse –, nel secondo si assiste a una svolta epocale: la conquista di un nuovo spazio. Semplificando molto, da un lato la ‘città reale’ con i suoi tecnologici allestimenti multimediali, dall’altro la ‘città virtuale’, da Active Worlds a Second life, esperibile nel web; dalle variabili superfici dei media build-ings urbani, alle hypersurfaces (teorizzate soprattutto dall’artista-architetto Marcos Novak) del ciberspazio, ipersuperfici interattive di comunicazione e informazione, conformabili in tempo reale, che esprimono una tra le nuove ‘sostanze’ della ‘transmodernità’. Ne deriva un viaggio nei mondi dell’effimero, un’avventura delle idee che attraverso la rappresentazione documenta i percorsi immaginifici dell’intelletto umano.

Bibliografia

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