Arbitrato nelle controversie individuali di lavoro [dir. proc. civ.]

Diritto on line (2019)

Salvatore Boccagna

Abstract

Vengono illustrate l’evoluzione dell’istituto arbitrale nel settore delle controversie individuali di lavoro nonché l’attuale disciplina, frutto del d.lgs. n. 40/2006 (per l’arbitrato rituale) e della l. n. 183/2010 (per l’arbitrato irrituale).

Evoluzione normativa

Dalle origini all’avvento del fascismo

Le prime esperienze di arbitrato del lavoro in Italia si collocano nella seconda metà del XIX secolo, parallelamente all’affermarsi del nuovo modo di produzione industriale. In questa fase, l’arbitrato si caratterizza essenzialmente come mezzo di composizione del nascente conflitto collettivo, configurandosi pertanto più come arbitraggio del contratto collettivo che come strumento di risoluzione di una controversia giuridica. Elementi di giudizio sono peraltro presenti negli arbitrati previsti dagli statuti di alcune società operaie, come quello della società operaia di Mantova del 1871, nonché nelle prime esperienze di collegi arbitrali intersindacali, come quello istituito a Como nel 1883 per decidere sulle controversie relative al lavoro nell’industria della tessitura della seta (cfr. Cecchella, C., L’arbitrato nelle controversie di lavoro, Milano, 1990, 17 ss.).

I caratteri di un vero e proprio arbitrato delle controversie di lavoro sono stati poi rinvenuti nella giurisdizione dei probiviri istituita con l. 15.6.1893, n. 295. Oltre alla generale funzione conciliativa, ai probiviri erano infatti riconosciute funzioni di giudizio entro un determinato limite di valore della controversia (200 lire), oltre il quale essi potevano operare, su accordo delle parti, come collegio arbitrale (per la natura in ogni caso arbitrale della giurisdizione dei probiviri v. ancora Cecchella, C., L’arbitrato, cit., spec. 40 ss., il quale argomenta principalmente dalla facoltatività dell’istituzione dei collegi e dal ruolo propulsivo svolto al riguardo dalle contrapposte associazioni di categoria, nonché dal carattere elettivo dei componenti dei collegi; v. peraltro ivi, in nt. 8, il richiamo alla diversa, prevalente opinione, che considera assorbente la natura di giurisdizione speciale).

Gli anni del fascismo sono caratterizzati dalla dissoluzione del tessuto di relazioni sindacali che aveva caratterizzato l’epoca giolittiana, per effetto della pubblicizzazione degli attori del conflitto collettivo (v. in particolare gli artt. 5 e 6 l. 3.4.1926, n. 563, che attribuivano alle associazioni legalmente riconosciute il monopolio della rappresentanza dei «datori di lavoro, lavoratori, artisti o professionisti della categoria, per cui sono costituite, vi siano o non vi siano iscritti, nell’ambito della circoscrizione territoriale, dove operano») e della conseguente burocratizzazione del conflitto (v. in particolare, sempre nella l. n. 563/1926, l’art. 10, ai sensi del quale «i contratti collettivi di lavoro stipulati dalle associazioni di datori di lavoro, di lavoratori, di artisti e di professionisti legalmente riconosciute hanno effetto rispetto a tutti i datori di lavoro, i lavoratori, gli artisti e i professionisti della categoria, a cui il contratto si riferisce, e che esse rappresentano», l’art. 13, che devolveva alla magistratura del lavoro la risoluzione di «tutte le controversie relative alla disciplina dei rapporti collettivi del lavoro, che concernono sia l’applicazione dei contratti collettivi o di altre norme esistenti, sia la richiesta di nuove condizioni di lavoro», nonché l’art. 18, sul divieto di serrata e di sciopero) perseguita dal regime ed in ispecie dal suo ministro di grazia e giustizia Alfredo Rocco.

Queste spinte convivono peraltro con una tendenza di segno opposto, favorevole – sia pure entro limiti ben circoscritti – alla soluzione conciliativa e arbitrale delle controversie di lavoro. Con particolare riferimento all’arbitrato delle controversie individuali, vanno ricordati, da un lato, l’art. 3 r.d. 26.2.1928, n. 471 (successivamente riprodotto nell’art. 4 r.d. 21.5.1934, n. 1073), che autorizzava la stipulazione di patti compromissori individuali in materia di lavoro (stabilendo, al tempo stesso, la nullità di tutte «le clausole dei contratti collettivi di lavoro e delle norme assimilate, con le quali sia stabilito che le controversie individuali, derivanti dall’applicazione del contratto collettivo, vengano risolute da arbitri o da collegi nominati dalle associazioni contraenti, o comunque siano sottratte alla competenza dell’autorità giudiziaria»); dall’altro i vari arbitrati su questioni tecniche previsti dalla contrattazione collettiva (v. in particolare l’arbitrato sui cottimi previsto dal contratto collettivo del 20 dicembre 1937, poi tradotto in legge col r.d. 7 marzo 1938, n. 406, o quello sulle qualifiche di cui all’accordo interconfederale 20 luglio 1939, poi confluito nell’art. 96 disp. att. c.c.) e dalla stessa legge (v. l’arbitrato sulle invenzioni del dipendente di cui all’art. 25 r.d. 29.6.1939, n. 1127) (su tutte queste esperienze v. ancora Cecchella, C., L’arbitrato, cit., 170 ss., cui si rinvia per ulteriori, ampi riferimenti).

Il c.p.c. del 1940: la prevalenza del modello irrituale

Il disegno statalistico del regime giunge a compimento con il c.p.c. del 1940, il cui art. 806 vieta tout court il ricorso all’arbitrato nelle controversie di lavoro (e in quelle di previdenza e assistenza obbligatorie); mentre l’art. 808 riproduce la comminatoria di nullità delle clausole di fonte sindacale risalente al periodo corporativo. Sopravvivono soltanto alcuni arbitrati su questioni tecniche, come l’arbitrato dei consulenti tecnici ex art. 455 c.p.c., che tuttavia non rappresentano autentiche forme di giustizia arbitrale radicate in seno alla comunità del lavoro, per il loro stretto collegamento con il processo davanti al giudice dello Stato e per gli ampi poteri riconosciuti all’autorità giudiziaria sia nella scelta degli arbitri sia nella determinazione delle regole del procedimento.

Benché destinato ad entrare in frizione con il riconoscimento dell’autonomia sindacale ad opera dell’art. 39 Cost., il divieto di arbitrato posto dal c.p.c. del 1940 sopravvisse anche nel nuovo ordinamento costituzionale, dove rinvenne una nuova – apparente – giustificazione nella tutela del lavoratore quale parte debole del rapporto.

Il divieto di compromettere in arbitri le controversie nascenti dal rapporto di lavoro fece sì che le forme di giustizia arbitrale originate nella – rivitalizzata – comunità intersindacale poterono trovare riconoscimento nell’ordinamento solo tramite il riferimento al modello irrituale. Ciò spiega il rilievo preminente che tale modello acquisterà via via nell’esperienza (e poi nella stessa legislazione) dell’arbitrato del lavoro, ed anche la tensione mai risolta, che ne caratterizzerà la vicenda, tra l’aspirazione della comunità del lavoro a dotarsi di un sistema di giustizia “interno” estrinsecantesi in forme autenticamente processuali (v. subito infra) e la configurazione in termini di mera soluzione negoziale della controversia, alla quale soltanto l’arbitrato irrituale intersindacale poteva aspirare dal punto di vista dell’ordinamento dello Stato.

Proprio in virtù della funzione di giurisdizione “ordinaria” da essi assolta nell’ambito dell’ordinamento intersindacale, gli arbitrati irrituali previsti dai contratti e accordi collettivi presentano aspetti marcatamente processuali, che valgono a differenziarli rispetto ad altre ipotesi di arbitrato libero. Non è dunque un caso che proprio sul terreno dell’arbitrato del lavoro siano state avanzate note proposte di ricostruzione unitaria dell’arbitrato, tendenti a ridimensionare le differenze tra le due species, rituale e irrituale, in nome della comune natura di giudizio privato (cfr. ad es. Carnacini, T., Le controversie di lavoro e l’arbitrato irrituale come procedimento, in Riv. dir. proc., 1968, 638 ss.; Fazzalari, E., Procedimento arbitrale e giurisdizionale nei licenziamenti individuali, in AA.VV., I licenziamenti individuali e la reintegrazione nel posto di lavoro, Milano, 1972; Cecchella, C., L’arbitrato, cit., 367 ss.).

Un significativo esempio degli arbitrati sindacali in discorso è offerto dagli arbitrati sui licenziamenti previsti dagli accordi interconfederali del 1950 e del 1965, in cui erano garantiti il contraddittorio tra le parti e l’imparzialità dell’organo giudicante ed era previsto lo svolgimento di una vera e propria attività istruttoria in vista di un giudizio motivato da rendersi entro un termine prestabilito (su quest’esperienza v. ancora Cecchella, C., L’arbitrato, cit., 206 ss.).

L’esperienza degli arbitrati intersindacali sui licenziamenti venne recepita a livello legislativo dapprima con la l. 14.7.1959, n. 741 e il d.P.R. 14.7.1960, n. 1011, che sancì la conversione in legge dell’accordo interconfederale del 1950, e poi con la l. 15.7.1966, n. 604 sui licenziamenti individuali, il cui art. 7 consentiva al lavoratore illegittimamente licenziato di avvalersi, alternativamente, delle «procedure previste dai contratti collettivi o dagli accordi sindacali» ovvero della speciale procedura conciliativa dinanzi all’ufficio del lavoro ivi disciplinata, all’esito della quale era prevista la possibilità per le parti di «definire consensualmente la controversia mediante arbitrato irrituale».

Dalla l. 11.8.1973, n. 533 al d.lgs. 31.3.1998, n. 80

Una più decisa apertura verso la risoluzione arbitrale delle controversie di lavoro, unitamente al pieno riconoscimento del ruolo svolto al riguardo dalle associazioni sindacali, si ebbe con la l. 11.8.1973, n. 533, di riforma del processo del lavoro. In tema di arbitrato rituale, l’art. 4 della legge modificava l’art. 808 c.p.c., stabilendo, in deroga al divieto (formalmente non abrogato) dell’art. 806 c.p.c., che «le controversie di cui all’articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se ciò sia previsto nei contratti e accordi collettivi di lavoro, purché ciò avvenga, a pena di nullità, senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria». Si prevedeva inoltre che gli arbitri non potevano essere autorizzati a decidere secondo equità (pena la nullità della clausola compromissoria) e che il lodo era soggetto a impugnazione, oltre che per i motivi di cui all’art. 829 c.p.c. (inclusa la violazione e falsa applicazione di norme di diritto), anche per violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi.

Veniva disciplinato altresì (per la prima volta con una disposizione di carattere generale) l’arbitrato irrituale, stabilendosi, all’art. 5, che nelle controversie riguardanti i rapporti di cui all’articolo 409 c.p.c. quest’ultimo era ammesso nei soli casi previsti dalla legge (si pensi al citato art. 7 l. n. 604/1966 o all’art. 7 st. lav., in tema di sanzioni disciplinari) ovvero dai contratti e accordi collettivi, purché, in questo ultimo caso, ciò avvenisse senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria. Si prevedeva poi l’impugnabilità del lodo per violazione di norme inderogabili di legge e di contratto collettivo, con l’osservanza delle forme stabilite dal (novellato) art. 2113 c.c. per l’impugnativa delle rinunzie e transazioni del lavoratore.

Nonostante la (limitata) apertura del legislatore (anche) all’arbitrato rituale, è tuttavia la species irrituale a conservare maggiore diffusione nella prassi intersindacale. Ed è all’arbitrato irrituale che sono dedicati i successivi interventi del legislatore, realizzati dapprima, e settorialmente, con l’art. 5 l. 11.5.1990, n. 108, in tema di licenziamenti nelle piccole e medie imprese (ove per la prima volta si prevede l’attitudine del lodo a divenire titolo esecutivo con l’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 411 c.p.c.) e poi con il d.lgs. 31.3.1998, n. 80.

Quest’ultimo, nel quadro di un più vasto intervento volto a potenziare gli strumenti di deflazione del contenzioso a seguito del trasferimento (operato con il medesimo d.lgs. n. 80/1998) al giudice ordinario delle controversie in materia di pubblico impiego (v. ad es., nella stessa logica, la reintroduzione, sempre ad opera del d.lgs. 80/1998, dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione ai sensi dei novellati art. 410 ss. c.p.c., obbligatorietà poi nuovamente eliminata, a fronte del sostanziale fallimento dell’istituto, dalla l. 4.11.2010, n. 183), introduceva nel c.p.c. due nuovi articoli, il 412 ter e il 412 quater, successivamente modificati dal d.lgs. 29.10.1998, n. 387 (cui si deve anche l’introduzione, nella rubrica dell’art. 412 ter, di un esplicito riferimento alla natura irrituale dell’arbitrato in discorso). In base a tali disposizioni, in caso di fallimento del tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c., le parti, anche tramite l’associazione sindacale di appartenenza, potevano devolvere la controversia a un collegio arbitrale, sempre che i contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro prevedessero tale facoltà, disciplinando altresì, nei suoi momenti essenziali (modalità di devoluzione della controversia al collegio arbitrale, composizione del collegio e procedura per la nomina dei suoi membri, forme e modi espletamento dell’eventuale istruttoria, termine per la pronuncia del lodo, criteri per la liquidazione del compenso agli arbitri), lo svolgimento del procedimento arbitrale. Il lodo era impugnabile, nel termine di trenta giorni dalla notificazione, con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro, che giudicava in unico grado, e poteva (in caso di mancata proposizione o rigetto dell’impugnazione o qualora le parti avessero dichiarato per iscritto di accettare la decisione arbitrale) acquistare efficacia esecutiva con decreto del tribunale, previa verifica della sua regolarità formale.

Con il d.lgs. n. 80/1998, dunque, il legislatore prendeva atto dell’esperienza degli arbitrati intersindacali, recependo a livello legislativo la tendenza alla processualizzazione dell’arbitrato libero già emersa nella disciplina collettiva. Inoltre, allo scopo di accrescere l’efficienza (e l’attrattività) del nuovo modello arbitrale (e così in un certo senso accentuando ulteriormente la spinta alla processualizzazione), lo dotava di alcune prerogative, come l’attitudine del lodo ad acquisire efficacia esecutiva, o il suo assoggettamento ad un’impugnativa in unico grado da proporsi entro un breve termine di decadenza (impugnativa che la giurisprudenza avrebbe poi esteso agli arbitrati di fonte legislativa: cfr. Cass., 23.2.2006, n. 4025; Cass., 4.3.2008, n. 5863; Cass., 2.2.2009, n. 2576), che finivano di fatto per porlo a metà strada tra arbitrato rituale e irrituale, in una tendenza all’ibridazione dei modelli che caratterizzerà anche il successivo intervento del legislatore in materia, operato con la l. 4.11.2010, n. 183.

Sempre nella prospettiva di potenziare l’arbitrato come strumento di risoluzione delle controversie di lavoro mediante un’accresciuta stabilità del lodo si collocano l’abrogazione, ad opera del medesimo d.lgs. n. 80/1998, degli ultimi due commi dell’art. 5 l. n. 533/1973, che prevedevano l’impugnabilità del dictum arbitrale per violazione delle norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, nonché l’eliminazione, ad opera del d.lgs. n. 387/1998, del riferimento alla violazione delle norme inderogabili di legge contenuto nell’originaria formulazione dell’art. 412 quater c.p.c. L’intervento, meramente demolitorio, del legislatore determinò peraltro una sostanziale incertezza circa i limiti di sindacabilità dei lodi irrituali di lavoro: ed invero, ad una prima opinione, per la quale il d.lgs. n. 80/1998 aveva equiparato il trattamento dei lodi irrituali a quello delle conciliazioni intervenute in sede sindacale di cui all’art. 2113, ult. co., c.c., secondo una direzione che verrà poi esplicitamente perseguita con la l. n. 183/2010 (cfr. Vallebona, A., L’impugnazione del lodo arbitrale irrituale in materia di lavoro, in Arg. dir. lav., 2001, 77 ss.), se ne contrappose un’altra, secondo cui, anche in ragione della portata negoziale del lodo irrituale, la violazione delle norme inderogabili di legge avrebbe dovuto condurre alla nullità del lodo ai sensi dell’art. 1418 c.c. (Borghesi, D., Un nuovo statuto per l’arbitrato irrituale, in Lav. pubbl. amm., 1998, 817; similmente, Cecchella, C., L’arbitrato nel diritto del lavoro, in Cecchella, C., a cura di, L’arbitrato, Torino, 2005, 632; Luiso, F.P., L’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro dopo la riforma del 1998, in Riv. arb., 1999, 43).

Il diritto vigente

L’arbitrato rituale

L’attuale disciplina dell’arbitrato rituale nelle controversie di lavoro è frutto della riscrittura dell’intero titolo VIII del libro IV del c.p.c. operata con il d.lgs. 2.2.2006, n. 40. Il nuovo art. 806 c.p.c., dopo avere, nel co. 1, individuato nell’indisponibilità dei diritti oggetto della controversia l’unico limite alla compromettibilità, prevede, al co. 2, che le controversie di cui all’articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro. Nonostante la mancata riproduzione dell’inciso, contenuto nel previgente art. 808 c.p.c. (frutto della riforma del 1973), relativo alla necessità di preservare la facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria, la disposizione deve essere interpretata, coerentemente con il necessario fondamento volontaristico dell’arbitrato, nel senso che la legge o, rispettivamente, i contratti e accordi collettivi di lavoro possono alternativamente: a) autorizzare la stipulazione di patti compromissori individuali (sia nella forma del compromesso a lite già insorta sia in quella della clausola compromissoria) ad opera dei soggetti del rapporto di lavoro; b) prevedere senz’altro la devoluzione in arbitrato delle controversie di lavoro (aventi ad oggetto diritti disponibili), riconoscendo peraltro a ciascuna delle parti, dopo l’insorgere della controversia, la possibilità di declinare la competenza arbitrale a favore di quella dell’autorità giudiziaria (cfr. Carpi, F., Libertà e vincoli nella recente evoluzione dell’arbitrato, in AA.VV., Libertà e vincoli nella recente evoluzione dell’arbitrato, Milano, 2006, 12; Ruffini, G., Patto compromissorio, in Riv. arb., 2005, 714; Bertoldi, V., L’arbitrato e le controversie di lavoro, Napoli, 2018, 509 s., 581 ss., 633 ss.).

Il d.lgs. n. 40/2006 ha poi abrogato la disposizione, contenuta nell’art. 808, co. 2, c.p.c., che sanciva la nullità della clausola compromissoria contenuta in contratti o accordi collettivi o in contratti individuali di lavoro che autorizzasse gli arbitri a decidere secondo equità o dichiarasse il lodo non impugnabile. Al riguardo, occorre peraltro tener conto del disposto dell’art. 829, co. 4, n. 1, c.p.c., ai sensi del quale nelle controversie di cui all’art. 409 c.p.c. è sempre ammessa l’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto. Sull’interpretazione di quest’ultima disposizione la dottrina appare divisa: secondo un’opinione (Borghesi, D., L’arbitrato del lavoro dopo la riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 822 ss.; Borghesi, D., Art. 822 c.p.c., in Carpi, F., a cura di, Arbitrato, III ed., Bologna, 2016, 677; Verde, G., Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2015, 167; Bertoldi, V., L’arbitrato, cit., 511 ss.), essa varrebbe ad escludere la stessa possibilità di una decisione equitativa, ribadendo così implicitamente il divieto di arbitrato di equità prima espressamente sancito dall’art. 808, co. 2, c.p.c.; secondo altra opinione, invece, la norma si limiterebbe a prevedere che, laddove gli arbitri debbano decidere secondo diritto, l’impugnazione per error in iudicando è ammessa (contrariamente a quanto disposto in via generale dall’art. 829, co. 3) anche se le parti non l’abbiano espressamente prevista, ferma restando peraltro la facoltà delle parti di optare anche in subiecta materia per l’arbitrato di equità (e salva, in tal caso, l’impugnabilità del dictum arbitrale per contrarietà all’ordine pubblico ai sensi dell’art. 829, co. 3, ultimo periodo) (in quest’ultimo senso Bove, M., Arbitrato nelle controversie di lavoro, in Riv. arb., 2005, 885 ss.; Zucconi Galli Fonseca, E., L’arbitrato nelle controversie di lavoro: bilancio e prospettive, in Riv. arb., 2008, 474; Zucconi Galli Fonseca, E., Art. 806 c.p.c., in Menchini, S., a cura di, La nuova disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 28 ss.; Salvaneschi, L., Arbitrato, in Comm. c.p.c. Chiarloni, Bologna, 2014, 752 s.).

L’arbitrato irrituale

A poco più di dieci anni dal d.lgs. 80/1998 (supra, § 1.3), il legislatore ha sentito il bisogno di intervenire nuovamente sulla disciplina dell’arbitrato irrituale con la l. 4.11.2010, n. 183 (cd. Collegato lavoro). La nuova disciplina prevede quattro diverse ipotesi di arbitrato irrituale, che si aggiungono alle altre già previste dalla legge (come ad es. l’arbitrato in tema di sanzioni disciplinari ex art. 7 st. lav. o l’arbitrato sui licenziamenti di cui all’art. 5 l. n. 108/1990), dando luogo ad una vera e propria proliferazione di modelli arbitrali.

In particolare, ai sensi del novellato art. 412 c.p.c., in qualunque fase del tentativo (non più obbligatorio) di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono accordarsi per la risoluzione arbitrale della lite, affidando alla medesima commissione già investita del tentativo di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia. All’atto del conferimento del mandato, le parti devono indicare il termine (non superiore a sessanta giorni) per l’emanazione del lodo, spirato il quale l’incarico deve intendersi revocato, nonché le norme invocate a sostegno delle rispettive pretese e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità. Il lodo emanato a conclusione dell’arbitrato produce tra le parti gli effetti di cui agli artt. 1372 e 2113, co. 4, c.c. ed è impugnabile ai sensi dell’articolo 808 ter c.p.c. davanti al tribunale del luogo in cui è la sede dell’arbitrato, che decide in unico grado. Il ricorso è depositato entro il termine di trenta giorni dalla notificazione del lodo. Decorso tale termine, o se le parti hanno comunque dichiarato per iscritto di accettare la decisione arbitrale, ovvero se il ricorso è stato respinto dal tribunale, il lodo è depositato nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del lodo, lo dichiara esecutivo con decreto.

L’art. 412 ter c.p.c. (nella sua nuova formulazione introdotta dalla l. n. 183/2010) disciplina l’arbitrato di fonte sindacale mediante un ampio rinvio alla contrattazione collettiva, cui viene riconosciuta la facoltà di prevedere altre modalità di conciliazione e arbitrato oltre a quelle previste dalla legge. La disposizione, che per il suo ampio tenore appare riferibile all’arbitrato rituale non meno che a quello irrituale, va coordinata con gli artt. 806 c.p.c. (per quanto attiene all’arbitrato rituale) e 5 l. n. 533/1973 (per quanto attiene all’arbitrato libero), da cui si differenzia essenzialmente per il fatto di fare riferimento ai soli contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative (sul punto, cfr. Bertoldi, V., L’arbitrato, cit., 634, testo e nt. 123).

Accanto all’arbitrato successivo al tentativo di conciliazione e agli arbitrati previsti dalla contrattazione collettiva, il novellato art. 412 quater.c.p.c., sotto la rubrica Altre modalità di conciliazione e arbitrato, disciplina un’ulteriore ipotesi di arbitrato irrituale di lavoro, destinato a svolgersi dinanzi ad un apposito collegio di conciliazione e arbitrato composto da un «rappresentante» di ciascuna delle parti e da un terzo membro, con funzioni di presidente, scelto di comune accordo dagli arbitri di parte tra i professori universitari di materie giuridiche e gli avvocati ammessi al patrocinio davanti alla Corte di cassazione. Particolarmente minuziosa è la disciplina del procedimento, contenuta nei co. 3-10 dell’art. 412 quater. L’instaurazione del giudizio non è preceduta dalla stipulazione di una vera e propria convenzione arbitrale, prevedendosi senz’altro la notifica del ricorso introduttivo, seguita dal deposito presso la sede del collegio della memoria difensiva del convenuto. L’incontro tra il ricorso e la memoria difensiva (entrambi analiticamente disciplinati nel loro contenuto) dà luogo alla formazione di una sorta di compromesso in itinere, con effetti, parrebbe, limitati al procedimento in corso.

Entro dieci giorni dal deposito della memoria difensiva il ricorrente può depositare presso la sede del collegio una memoria di replica senza modificare il contenuto del ricorso. Nei successivi dieci giorni il convenuto può a sua volta depositare presso la sede del collegio una controreplica senza modificare il contenuto della memoria difensiva.

All’udienza, da tenersi entro trenta giorni dalla scadenza del termine per la controreplica del convenuto, il collegio, esperito il tentativo di conciliazione, provvede, ove occorra, all’interrogatorio delle parti e all’assunzione delle prove, altrimenti invita all’immediata discussione orale. La controversia è decisa, entro venti giorni dall’udienza di discussione, mediante un lodo cui (analogamente a quanto si verifica nell’arbitrato ex art. 412) sono ricollegati gli effetti di cui agli artt. 1372 e 2113, co. 4, c.c. Il lodo è impugnabile (anche qui analogamente a quanto stabilito dall’art. 412) ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c. davanti al tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato, che decide in unico grado, e può acquistare efficacia esecutiva, con decreto dello stesso tribunale, ove non sia stato impugnato nei termini o le parti abbiano comunque dichiarato per iscritto di accettare la decisione arbitrale ovvero l’impugnazione sia stata respinta.

Ai sensi dell’art. 31, co. 12, l. n. 183/2010, poi, gli organi di certificazione di cui all’art. 76 d.lgs. 10.9.2003, n. 276 possono istituire camere arbitrali per la definizione, ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c., delle controversie nelle materie di cui all’articolo 409 del medesimo codice e all’articolo 63, co. 1, d.lgs. 30.3.2001, n. 165. Agli arbitrati amministrati dagli organismi di certificazione si applicano, in quanto compatibili, i commi 3 e 4 dell’art. 412 c.p.c.

Il quadro è infine completato dall’art. 31, co. 10, l. n. 183/2010, che prevede la possibilità per le parti del rapporto di lavoro di stipulare clausole compromissorie ai sensi dell’art. 808 c.p.c. che rinviino alle modalità di espletamento dell’arbitrato di cui agli artt. 412 e 412 quater c.p.c., ove ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (o, in assenza di questi ultimi, secondo le modalità definite in via sperimentale con decreto del Ministro del lavoro: art. 31, co. 11, l. n. 183/10). A garanzia dell’effettività della volontà delle parti, ed in specie del lavoratore, di deferire ad arbitri la risoluzione delle controversie derivanti dal rapporto di lavoro, si prevede la necessità di assoggettare la clausola compromissoria alle procedure di certificazione previste dal d.lgs. n. 276/2003. Sempre a garanzia della parte debole del rapporto, è stabilito che la clausola compromissoria non possa essere pattuita prima della conclusione del periodo di prova, se previsto, ovvero prima che siano decorsi trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, e che la stessa non possa riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro.

Pur nella rilevata frammentazione dei modelli, alcuni aspetti comuni possono essere sottolineati.

Da un primo punto di vista, può osservarsi che la l. n. 183/2010 segna indubbiamente un arretramento dell’arbitrato (irrituale) sindacale rispetto a quello “da legge”. Invero, se nel sistema della l. n. 533/1973 l’opzione per l’arbitrato doveva necessariamente essere filtrata dal contratto collettivo, negli arbitrati di cui alla l. n. 183/2010 tende a prevalere l’opzione individuale esercitata dalle parti del rapporto di lavoro. Il venir meno del filtro rappresentato dalla contrattazione collettiva risulta in un certo senso compensato da una serie di cautele che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbero garantire la genuinità della scelta arbitrale, specie da parte del contraente debole: si pensi, ad es., alle previsioni che mirano a collocare lo svolgimento dell’arbitrato (e talora la stessa formazione dell’accordo compromissorio) in sedi protette (commissioni di conciliazione istituite presso gli uffici del lavoro, organi di certificazione di cui al d.lgs. n. 276/2003), ai limiti previsti dall’art. 31, co. 10, l. n. 183/2010 alla stipulazione di clausole compromissorie per controversie future, alla stessa esasperata processualizzazione che caratterizza l’arbitrato di cui all’art. 412 quater c.p.c.

Sotto un secondo profilo, l’arbitrato della l. n. 183/2010 tende a caratterizzarsi come un arbitrato di tipo equitativo. La possibilità di una decisione resa secondo equità è infatti prevista, o deve comunque ritenersi consentita, in relazione a tutte e quattro le forme di arbitrato sopra descritte (cfr. Boccagna, S., L’arbitrato di equità, in Cinelli, M.-Ferraro, G., a cura di, Il contenzioso del lavoro nella l. 4 novembre 2010, n. 183, Torino, 2011, 142 s.). Come opportunamente precisato (con disposizione introdotta a seguito del rinvio della legge alle Camere da parte del Presidente della Repubblica) dagli artt. 412 e 412 quater.c.p.c., il giudizio equitativo degli arbitri incontra il limite, oltre che dei «principi generali dell’ordinamento», anche dei «principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari», formula che riecheggia quella contenuta nell’art. 339 c.p.c., in tema di appellabilità delle sentenze di equità del giudice di pace. La previsione dell’obbligo degli arbitri di osservare i principi regolatori della materia non vale peraltro a fugare tutte le perplessità collegate alla previsione del giudizio equitativo in una materia, quale quella del rapporto di lavoro, prevalentemente basata su norme inderogabili, posto che il regime delineato dalla l. n. 183/2010 per i nuovi lodi irrituali “da legge” sembra rendere estremamente problematica la deducibilità in sede di impugnazione dell’eventuale violazione di tali principi.

L’impugnazione del lodo rappresenta senza dubbio il punto più delicato dell’intera disciplina dettata dalla l. n. 183/2010, intorno al quale sono destinate a concentrarsi le maggiori incertezze. Da un lato, coerentemente con la natura irrituale degli arbitrati in discorso, si prevede che il lodo è impugnabile ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c., norma già di per sé di non semplice interpretazione, specie con riguardo al punto cruciale della sindacabilità (sub specie di violazione delle «regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo») degli eventuali errori di giudizio commessi dagli arbitri: problema sui cui sono inevitabilmente destinati a riflettersi i dubbi circa la natura dispositiva o dichiarativa del lodo irrituale (in argomento cfr., da ultimo, e proprio con riguardo all’arbitrato del lavoro, l’ampia analisi di Bertoldi, V., L’arbitrato, cit., spec. 14 ss., 709 ss.). Dall’altro lato, la l. n. 183/2010 introduce nella disciplina dell’impugnazione dei lodi irrituali di lavoro un elemento di indubbia peculiarità, estendendo all’arbitrato il particolare regime di stabilità riservato dall’art. 2113, co. 4, c.c. alle rinunce e transazioni intervenute nell’ambito di procedure assistite di conciliazione, e finendo così di fatto per sancire l’inoppugnabilità del lodo che a qualunque titolo comporti il sacrificio di diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo. La disposizione, che intende perseguire il duplice obiettivo: a) di accentuare la stabilità tipica del lodo irrituale, potenziando l’attitudine di tale specie di arbitrato a porsi quale strumento di rapida e definitiva soluzione delle controversie di lavoro, e b) di incidere, indirettamente, sulla stessa disciplina sostanziale del rapporto di lavoro, attenuandone la rigidità in sede di concreta applicazione, non può che apparire un fuor d’opera a chi sostenga la natura (non di disposizione negoziale bensì) di vero e proprio atto di giudizio del lodo irrituale (v. infatti Bertoldi, V., L’arbitrato, cit., 721 ss.). Essa, tuttavia, appare destinata a suscitare perplessità anche ove si muova dalla premessa della natura essenzialmente dispositiva del dictum degli arbitri liberi, posto che un’interpretazione della stessa, che conducesse a negare tout court l’impugnabilità del lodo per violazione di norme inderogabili, si porrebbe inevitabilmente in contrasto con le esigenze protettive sottese all’inderogabilità della norma lavoristica, esponendo la nuova disciplina a non infondati sospetti di incostituzionalità. Ad evitare i quali, appare pertanto inevitabile il ricorso ad interpretazioni restrittive (del tipo di quelle da tempo prospettate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in relazione all’art. 2113 c.c.), che valgano a preservare un’area di operatività della norma inderogabile anche a fronte della scelta delle parti di deferire ad arbitri le controversie relative al rapporto di lavoro (per un più ampio discorso al riguardo, nonché per gli opportuni riferimenti, sia consentito il rinvio a Boccagna, S., L’impugnazione del lodo arbitrale, in Cinelli, M.-Ferraro, G., a cura di, Il contenzioso del lavoro, cit., 153 ss.).

Fonti normative

Artt. 412, 412 ter, 412 quater, 806, 829 c.p.c.; art. 5 l. 11.8.1973, n. 533; art. 31 l. 4.11.2010, n. 183.

Bibliografia essenziale

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