Arbitrato e translatio iudicii

Libro dell'anno del Diritto 2015

Arbitrato e translatio iudicii

Raffaele Frasca

Con sentenza 19.7.2013, n. 223 la Corte costituzionale ha, com’è noto, dichiarato illegittimo l’art. 819, co. 2, c.p.c. «nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’articolo 50 del codice di procedura civile». Si intende, di seguito, dar conto del significato e delle implicazioni di tale principio.

La ricognizione

Prima dell’intervento di C. cost. n. 223/20131 che il processo davanti al giudice ordinario o davanti ad altro giudice statale – qualora l’arbitro o il giudice statale rispettivamente adìti avessero pronunciato una declinatoria della loro potestas iudicandi – potesse proseguire davanti al giudice individuato come “competente” con salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda, era stato oggetto di ampio dibattito in dottrina. E ciò, non solo con riferimento all’assetto normativo dell’arbitrato sul quale la Consulta è intervenuta, ma già anteriormente con riguardo alle varie discipline dell’arbitrato succedutesi nel codice di procedura civile del 1940 (per riferimenti si vedano gli scritti di cui alla nota 1).

Il Giudice delle Leggi ha dichiarato illegittimo l’art. 819 ter, co. 2, c.p.c. «nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’art. 50 c.p.c.», intervenendo su un testo normativo introdotto dal d.lgs. 2.2.2006, n. 40, nel quadro di una riforma organica della disciplina dell’arbitrato. Il testo su cui la pronuncia è intervenuta disponeva che «nei rapporti tra arbitrato e processo non si applicano regole corrispondenti agli articoli 44, 45, 48, 50 e 295». Tale disposizione era contenuta in una norma rubricata «Rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria». Essa nel primo comma, composto da vari incisi, detta varie regole e precisamente: a) la salvezza della competenza arbitrale nonostante la pendenza della stessa lite o di causa connessa dinanzi al giudice ordinario, con la negazione dell’applicabilità della disciplina della litispendenza e della connessione; b) l’impugnabilità con il regolamento di competenza della decisione affermativa o negativa della competenza arbitrale resa dal giudice statale ordinario; c) il termine ed il modo dell’eccezione dinanzi a quel giudice di sussistenza della competenza arbitrale e le conseguenze della sua mancata proposizione. La Consulta ha anzitutto avallato l’esegesi del co. 2 della norma, prospettata dalla dottrina che aveva commentato la riforma di cui al d.lgs. n. 40/2006 nel senso che la regola da esso dettata trovasse applicazione sia all’ipotesi in cui le regole di cui alle norme indicate fossero venute in rilievo con riferimento ad un processo introdotto davanti al giudice ordinario, sia all’ipotesi inversa2. Partendo da tale premessa, la Consulta ha condiviso l’idea che l’inapplicabilità della regola corrispondente all’art. 50 c.p.c. implicasse che nei rapporti fra arbitrato e processo fosse negata la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta erroneamente davanti all’arbitro o al giudice ordinario, con la conseguenza che la riproposizione dell’azione davanti all’uno o all’altro a seguito della rispettiva negazione della propria “competenza” da parte di quello originariamente adìto, dovesse considerarsi come del tutto sganciata riguardo a quegli effetti dalla prima azione.

Con la conseguenza, non argomentata, ma solo supposta, che, in particolare, quante volte l’azione fosse stata assoggettata ad un termine di decadenza (come quelle davanti ai rimettenti, relative ad impugnative di deliberazioni societarie) o di prescrizione, un nuovo esercizio dell’azione non potesse essere considerato “utile”, in quanto non si sarebbe potuto ritenere che la decadenza comunque fosse stata impedita dalla prima azione davanti al giudice “incompetente” e che, quanto al corso della prescrizione, potessero considerarsi preservati l’effetto interruttivo istantaneo e l’effetto interruttivo permanente (sospensione) del suo corso ricollegati (ai sensi dell’art. 2945 c.c.) a quell’azione3. Posto questo impianto ricostruttivo, la Consulta, dopo aver richiamato i principi espressi con la sua sentenza n. 77 del 12.3.2007 in punto di necessaria conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda nel caso in cui la parte erri nell’individuare il giudice munito della giurisdizione, ha fatto (appoggiandola ad una serie di norme) una forte affermazione circa la natura giurisdizionale dell’arbitrato nel profilo disegnato dal d.lgs. n. 40/2006, soggiungendo che «anche se l’arbitrato rituale resta un fenomeno che comporta una rinuncia alla giurisdizione pubblica, esso mutua da quest’ultima alcuni meccanismi al fine di pervenire ad un risultato di efficacia sostanzialmente analoga a quella del dictum del giudice statale». Da tanto ha tratto la conseguenza che, se il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità configura l’arbitrato come «una modalità di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziale, è necessario che l’ordinamento giuridico preveda anche misure idonee ad evitare che tale scelta abbia ricadute negative per i diritti oggetto delle controversie stesse». Dopo di che ha concluso che «una di queste misure è sicuramente quella diretta a conservare gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta davanti al giudice o all’arbitro incompetente, la cui necessità ai sensi dell’art. 24 Cost. sembra porsi alla stessa maniera, tanto se la parte abbia errato nello scegliere tra giudice ordinario e giudice speciale, quanto se essa abbia sbagliato nello scegliere tra giudice e arbitro». Ha, quindi, osservato che «invece la norma censurata, non consentendo l’applicabilità dell’art. 50 c.p.c., impedisce che la causa possa proseguire davanti all’arbitro o al giudice competente e, conseguentemente, preclude la conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda». Per tali ragioni la Consulta è pervenuta al dispositivo sopra riferito, che ripete quanto affermato in motivazione, salvo l’aggiunta «ferma la parte restante dello stesso art. 819 ter».

La focalizzazione

L’intervento della Consulta pone numerosi interrogativi.

Il primo riguarda le implicazione della forte sottolineatura del carattere giurisdizionale dell’arbitrato. Il secondo la forza espansiva della pronuncia nel sistema della pluralità di giurisdizioni statali. Il terzo il modus operandi del dispositivo. Il quarto le implicazioni sottese all’aver lasciato ferma la restante parte della norma dichiarata incostituzionale.

Sotto il primo aspetto, la pronuncia costringe l’interprete a chiarire quale sia la “cifra” del valore della giurisdizionalizzazione dell’arbitrato, anche a livello costituzionale. Sotto il secondo aspetto, se e come gli effetti della pronuncia stessa siano destinati ad operare con riferimento alle distinte giurisdizioni esistenti nell’ordinamento, trattandosi di precisare se essa, pur avendo riguardato una norma collocata nella disciplina dell’arbitrato all’interno del codice di procedura civile e, quindi, della giurisdizione ordinaria, abbia ricadute di identico effetto sul rapporto fra arbitrato e altre giurisdizioni interne, come quella amministrativa. Il terzo aspetto esige l’individuazione delle modalità procedimentali attraverso le quali l’operatività della regola ritenuta costituzionalmente dovuta dev’essere in concreto garantita, trattandosi di ricercare come il processo erroneamente introdotto davanti al giudice statale o davanti all’arbitro possa aver luogo davanti al giudice dotato di potestas iudicandi con la conservazione degli effetti della domanda originaria. Il quarto aspetto impone di chiarire che senso abbia la permanenza della parte restante dell’art. 819 ter c.p.c. e prima ancora di chiarire se si tratti di tutta la norma oppure solo dello stesso secondo comma, là dove esclude l’operatività nei rapporti fra arbitrato e processo di regole corrispondenti agli articoli 44, 45, 48 e 295 c.p.c.

Su queste questioni non vi sono idee univoche in dottrina (come emerge dagli scritti già citati): ciò, dipende non solo dal fatto che si tratta di cercare soluzioni non scritte e, dunque, altamente – almeno in apparenza – opinabili, ma soprattutto dall’ideologia che si condivide sulla funzione arbitrale nell’ordinamento.

I profili problematici

Gli aspetti segnalati nel paragrafo precedente impongono soluzioni fra loro connesse ed interdipendenti e l’approccio nell’affrontarli dipende innanzitutto dal significato da annettere, in quanto proveniente dal Giudice delle Leggi, all’affermazione della natura giurisdizionale dell’arbitrato.

3.1 Il significato dell’affermazione della giurisdizionalizzazione dell’arbitrato

La sentenza della Consulta, ove ve ne fosse stato ancora bisogno dopo la riforma di cui al d.lgs. n. 40/2006, “chiude” definitivamente la questione sulla natura della funzione arbitrale cd. rituale e lo fa optando decisamente per la soluzione che la considerava pubblica e giurisdizionale e non contrattualistica.

Ne segue che l’eccezione di sussistenza o insussistenza della competenza arbitrale rituale è un’eccezione di rito e non un’eccezione di merito, come invece opinava la tesi privatistica4. Secondo qualcuno5 la sentenza della Consulta induce il dubbio fra due opzioni: a) una per cui le si dovrebbe attribuire l’effetto che alla giurisdizione arbitrale sarebbero applicabili come vincolo al legislatore ordinario, le norme costituzionali che disciplinano la giurisdizione nella loro interezza e segnatamente, oltre all’art. 24, anche l’art. 111 Cost. quanto al complesso delle garanzie del giusto processo, di modo che potrebbe pensarsi che «in futuro le norme processuali che regolano il rito arbitrale potranno essere oggetto di sindacato costituzionale sotto il profilo del rispetto del diritto di difesa e del giusto processo»; b) altra che invece dovrebbe considerare l’evocazione di quelle norme costituzionali funzionale solo a giustificare l’attribuzione alla domanda erroneamente proposta all’arbitro o al giudice statale della idoneità a preservare gli effetti sostanziali e processuali della domanda quando reintrodotta davanti al giudice “competente”. Credo che la seconda opzione sia la sola giustificata. Occorre, infatti, considerare che la sentenza n. 223/2013, ancorché non lo dica chiaramente, ha giustificato la declaratoria di illegittimità costituzionale sostanzialmente ritenendo che la preservazione degli effetti della domanda anche nel rapporto fra arbitro e giudice fosse implicazione necessaria della garanzia del diritto di azione, in quanto dall’ordinamento riconosciuto non solo davanti al giudice statale, ma anche tramite la possibilità di ricorrere alla giustizia arbitrale in via alternativa.

Il parametro adoperato, come risulta dalla terzultima proposizione del par. 4 del Considerato, è stato, dunque, sostanzialmente quello dell’art. 24, in quanto riconosce il diritto di azione ed in quanto – è questa la sottolineatura che merita fare – l’effettività di tale riconoscimento esige, direi sul versante della cd. ragionevolezza intrinseca della scelta del legislatore ordinario, che all’esercizio del diritto di azione con una scelta sbagliata in rito quanto alla individuazione del giudice si accompagni necessariamente la preservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda. In pratica è come se la Corte costituzionale avesse costituzionalizzato (o meglio ribadito, come si dirà) la scelta, presente nel processo civile nella disciplina della declinatoria della competenza, per cui se si sbaglia giudice la domanda, con i suoi effetti, resta salva. Tale salvezza è stata riconosciuta come amminicolo necessario e, dunque, ragionevole (e, perciò, obbligato) della garanzia del diritto di azione. Ne segue – ma lo si poteva affermare già sulla base di C. cost. n. 77/2007 – che la Consulta ha fatto una forte proclamazione nel senso che il riconoscimento costituzionale del diritto di azione nell’art. 24, co.1, Cost. esige necessariamente che l’azione esercitata davanti al giudice sbagliato (per ragioni di competenza o giurisdizione, per usare le categorie di distribuzione usuali degli affari) vada considerata idonea a provocare, sia pure attraverso la garanzia della trasmigrazione del processo, la decisione di merito sulla situazione giuridica (se ne ricorrano tutte le altre condizioni). Affermata la natura giurisdizionale dell’arbitrato rituale come modalità alternativa di esercizio dell’azione, l’inapplicabilità fra arbitri e giudici statali della regola corrispondente a quella determinativa di tale effetto attribuita all’art. 50 c.p.c. ha de plano giustificato l’incostituzionalità6. Il parametro dell’art. 111 non è stato, invece, in alcun modo adoperato né espressamente né implicitamente, salvo per quanto concerne l’evocazione della sentenza n. 77/2007 (seconda proposizione del citato paragrafo). La quale, però, aveva adoperato oltre all’art. 24 l’art. 111 soltanto in quanto quest’ultimo, nel considerare anche le giurisdizioni speciali, ribadisce implicitamente la garanzia del diritto di azione anche riguardo ad esse.

Nessuna evocazione v’era stata in quella sentenza dei principi cd. del giusto processo, disciplinati nel co. 2 dell’art. 1117.

3.2 Decisione della Consulta e giurisdizioni

La decisione della Corte costituzionale spiega effetti anche riguardo al rapporto fra arbitrato e giurisdizione amministrativa in forza di un dato di diritto positivo. L’art. 12 c.p.a. – nel disporre, sotto la rubrica “Rapporti con l’arbitrato”, che «Le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto» ‒ comporta, infatti, che la disciplina dell’arbitrato concernente controversie che sarebbero soggette alla giurisdizione statale del giudice amministrativo sia quella dettata dal codice di procedura civile. Ne segue che, poiché l’art. 819 ter, co.2, c.p.c., quando alludeva al rapporto fra arbitrato e processo ed escludeva l’operatività per essi di una regola corrispondente a quella dell’art. 50 c.p.c., disciplinava (come continua a disciplinare ora per la parte residua) anche il rapporto fra arbitro e giudice amministrativo, la pronuncia di incostituzionalità spiega effetti diretti anche riguardo ad esso, di modo che gli effetti processuali e sostanziali della domanda, ove vi sia stato errore nella scelta fra arbitro e giudice amministrativo in relazione ad una controversia soggetta alla giurisdizione statale amministrativa ordinaria, restano salvi se il processo trasmigra davanti

al giudice arbitrale o amministrativo “competente”.

3.3 La qualificazione del rapporto fra arbitrato e giudice

Un’altra questione cui la sentenza della Consulta ha dato luogo è quella del valore da riconoscersi alla attribuzione della decisione agli arbitri rituali. Da taluno si è visto nella stessa estensione del principio della salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda al rapporto fra arbitri e giurisdizione statale, un avallo dell’idea che tale rapporto vada incasellato sempre nell’ambito delle questioni di giurisdizione e non abbia invece, come ritengono le Sezioni Unite, un contenuto variabile, a seconda che il rapporto venga in rilievo fra giudice ordinario e arbitri e fra giudice amministrativo e arbitri e precisamente integri una questione di competenza nel primo caso e una questione di giurisdizione nel secondo8.

Scegliere l’una o l’altra tesi non è questione meramente astratta ed accademica, ma gravida di conseguenze in ordine alla ricostruzione del regime delle modalità della translatio iudicii, all’efficacia delle pronunce declinatorie o affermative della “competenza” arbitrale con riferimento ai distinti plessi giurisdizionali e al regime della loro impugnazione.

Mi sembra che la tesi sostenuta dalle Sezioni Unite sia l’unica condivisibile. Va in tanto tenuto fermo che, come altrove ho sostenuto9, se il legislatore, nel dettare la disciplina dell’arbitrato rituale introdotta dal d.lgs. n. 40/2006 ha espressamente previsto che la decisione del giudice statale ordinario affermativa o negativa circa il dover essere decisa la controversia dagli arbitri, sia impugnabile con il regolamento di competenza e se ha assoggettato la relativa eccezione dinanzi al giudice ordinario ad un regime simile a quello della questione di competenza territoriale derogabile, tanto è di per sé sufficiente ad escludere ogni possibilità di ricondurre il rapporto fra arbitri e giudici ordinari ad una questione di giurisdizione ed al contrario impone di considerarlo idoneo a dar luogo ad una questione assimilabile a quelle di competenza, sia pure con una disciplina del tutto particolare. Viceversa, poiché il legislatore del codice del processo amministrativo intervenendo dopo la disciplina organica dell’arbitrato di cui al d.lgs. n. 40/2006, ha considerato nell’art. 12 l’arbitrato, possibile su diritti soggettivi inerenti controversie devolute al giudice amministrativo, disciplinato dalle norme del codice di procedura civile, si deve considerare che: aa) il lodo arbitrale, rispettivamente affermativo e negativo della potestas iudicandi arbitrale, è soggetto, ai sensi del n. 4 e del n. 10 dell’art. 829 c.p.c., ad impugnazione davanti alla Corte d’appello e, dunque, ad un controllo davanti al giudice ordinario; bb) e che anzi, il regime di impugnazione del lodo nelle ipotesi di nullità indicate nell’art. 829, co. 2, c.p.c., prevede che la stessa corte d’appello decida nel merito, dopo l’annullamento del lodo. Ne segue che, quando le parti prevedano un arbitrato rituale su controversia devoluta al giudice amministrativo, essendo l’effetto di essa quello di devolvere la decisione agli arbitri sottraendolo al giudice amministrativo,ma, nel contempo, di assoggettarla ad un controllo affidato all’autorità giudiziaria ordinaria, la conseguenza pratica è che in tal modo la controversia vien fatta rifluire nell’ambito della giurisdizione ordinaria. Per tale ragione si deve ritenere che il rapporto fra arbitri e giudice amministrativo dia luogo ad una questione di giurisdizione (si veda Cass., S.U., 5.7.2013, n. 16887) e non di “competenza interna” al plesso giurisdizionale amministrativo, con la conseguenza pratica che la disciplina della translatio e quella dell’efficacia delle pronunce degli uni o dell’altra dev’essere ricostruita avendo presente tale dato10.

3.4 L’efficacia della pronuncia sulla “competenza arbitrale”

Il problema va esaminato distinguendo l’ipotesi di declinatorie nel rapporto fra arbitro e giudice ordinario e quella di declinatorie nel rapporto fra arbitro e giudice amministrativo. Il dato normativo da cui bisogna partire è quello che la Consulta ha lasciato immutato nello stesso art. 819 ter, co. 2, c.p.c. con il lasciar “ferma la restante parte” della norma e, particolarmente la disposizione che in essa esclude che al rapporto fra arbitrato e processo trovino applicazione regole corrispondenti a quelle espresse negli artt. 44 e 45 c.p.c.

Una volta premesso che l’esclusione dell’applicazione di tali norme viene in rilievo allorquando il giudice e l’arbitro abbiano declinato la loro potestas iudicandi e l’azione venga introdotta (ormai con la sicura conseguenza della conservazione degli effetti sostanziale e processuali) davanti all’arbitro nel primo caso e davanti al giudice statale nel secondo, esaminiamo innanzitutto cosa può significare detta esclusione con riferimento al rapporto fra arbitro e giudice statale ordinario. In tanto il legislatore ha parlato di “regole corrispondenti” e non di diretta inapplicabilità delle due disposizioni. La ragione è chiara: nella specie non si poteva escludere semplicemente quell’applicabilità perché sarebbe stato inappropriato, in quanto quelle regole sono dettate con riferimento alla disciplina dinamica della questione di competenza nel processo civile e, quindi, con riferimento alla distribuzione degli affari fra i giudici statali. Ed allora l’esclusione di una regola corrispondente suppone che di ciò di cui l’applicabilità è esclusa dev’essere individuata la possibile corrispondenza con riferimento alla vicenda della declinatoria della “competenza” da parte del giudice ordinario a favore dell’arbitro e viceversa. Ebbene, una volta che si consideri che l’art. 44 e l’art. 45 sono disposizioni strettamente collegate ed evidenziano una regola per cui quando la causa venga riassunta davanti al giudice indicato come competente da quello che ha declinato la competenza e non vi sia stata l’impugnazione con il regolamento di competenza, l’effetto che si ha è che la competenza di quel giudice può essere messa in discussione – con il conflitto di competenza ‒ solo dal giudice, ma a condizione che si tratti di fattispecie di competenza per materia o per territorio inderogabile,mentre le parti non possono metterla in discussione per non avere proposto il regolamento di competenza, si deve ragionevolmente pensare quanto segue: la regola corrispondente di cui è esclusa l’applicabilità è solo quella che, sul presupposto di una possibile somiglianza della questione della distribuzione della competenza fra arbitro e giudice a quella della competenza per materia o per territorio inderogabile, avrebbe potuto far pensare che, in mancanza di proposizione dell’istanza di regolamento di competenza contro la declinatoria a favore dell’arbitro, l’arbitro, investito della controversia, potesse porre d’ufficio in discussione la competenza arbitrale. Probabilmente la preoccupazione del legislatore, anche prima della pronuncia di incostituzionalità, era del tutto eccessiva, dato che, secondo il regime dell’art. 817 c.p.c., non si configura un potere degli arbitri di sollevare d’ufficio la questione della loro competenza.

Ne deriva che deve senz’altro ritenersi, non diversamente da quanto si doveva prima della sentenza della Consulta, che, una volta declinata la competenza dal giudice ordinario statale a favore degli arbitri e introdotta la controversia davanti all’arbitro, ogni discussione sulla “competenza arbitrale” sia preclusa, per le parti, e segnatamente per quella interessata, dalla mancata proposizione dell’istanza di regolamento di competenza (che non è effetto disposto dall’art. 44, ma si correla alla previsione del regolamento di competenza) e per l’arbitro dalla esclusione dell’applicabilità della regola corrispondente nei termini su indicati.

Passiamo al caso della declinatoria di competenza da parte dell’arbitro. Tale declinatoria non è impugnabile con il regolamento di competenza, dato che il secondo inciso del primo comma dell’art. 819 ter c.p.c. restringe quel rimedio alla decisione del giudice statale ordinario. È però impugnabile con il mezzo dell’impugnazione del lodo, dato che la decisione denegatoria della competenza è un lodo in rito. L’impugnabilità è prevista nell’art. 829, co. 1, n. 10, c.p.c., dato che un lodo declinatorio della “competenza” arbitrale conclude il procedimento senza decidere il merito, non diversamente da altra pronuncia di rito. Ove il giudizio venga introdotto davanti al giudice statale ordinario, è palese che il potere delle parti di discutere sulla sussistenza della “competenza” dell’arbitro o del giudice risulta allora precluso dal mancato esercizio del diritto di impugnazione ai sensi dell’art. 829, n. 10, c.p.c. Riguardo al potere del giudice statale di interloquire ‒ se ve ne fosse bisogno, come non lo sarebbe dato che la questione della sussistenza della competenza arbitrale non è affidata al potere di rilevazione del giudice d’ufficio – opererebbe l’esclusione dell’applicabilità di una regola corrispondente a quella emergente dagli att. 44 e 45 siccome sopra ricostruita.

Venendo al rapporto fra arbitro e giudice amministrativo, va esaminata l’efficacia della decisione del giudice amministrativo che declini la propria potestas iudicandi accogliendo l’eccezione di sussistenza della potestas arbitrale ai sensi dell’art. 12 c.p.a. Atteggiandosi tale eccezione come propositiva di una questione di giurisdizione nei sensi di cui ho detto sopra, da tale qualificazione dovrebbe discendere la soggezione del potere di rilevazione di parti e giudice amministrativo al regime di cui all’art. 9 di quel codice. In ordine al regime della pronuncia di declinatoria della decisione a favore degli arbitri, si deve ritenere che essa è impugnabile con il rimedio ordinario e, dunque, con l’appello se pronunciata dal TAR, mentre, se pronunciata dal Consiglio di Stato in sede di appello, la decisione deve ritenersi impugnabile davanti alle S.U., in quanto decisione sulla giurisdizione11. Non mi sembra possibile negare che davanti al TAR, ove l’eccezione sia stata tempestivamente proposta, sia esperibile il regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell’art. 10 c.p.a.: dopo Cass., S.U., 25.10.2013, n. 24153, già cit., appare, infatti, superato l’ostacolo all’esperibilità del regolamento ravvisato nell’essere la questione di arbitrato questione di merito (per cui si veda Cass., S.U., ord. 4.8.2010, n. 18052). Una volta introdotto il giudizio dinanzi agli arbitri, si deve sostenere che l’assenza di impugnazione della decisione declinatoria con i mezzi consentiti dal processo amministrativo preclude invece ogni possibilità delle parti di discutere ancora della giurisdizione arbitrale, mentre è anche qui escluso dall’art. 817 c.p.c. che possano essere gli arbitri a mettere in discussione la propria giurisdizione. Non è possibile, in particolare, atteso l’esistenza di tale regime, ipotizzare l’applicazione dell’art. 59, co. 3, della l. 18.6.2009, n. 69.

Vediamo il regime della declinatoria da parte degli arbitri. Anche in questo caso, se la decisione, cioè il lodo declinatorio, non viene impugnato a norma dell’art. 829, co.1, n. 10, c.p.c., nel giudizio introdotto davanti al giudice amministrativo non vi sarà alcuna possibilità di discutere della declinatoria ad istanza di parte, perché si è perso il relativo potere.

Si deve, invece, configurare il potere del giudice amministrativo di sollevare la questione con conflitto ai sensi del comma 3 dell’art. 11 c.p.a. Ove il lodo sia stato impugnato, la decisione di conferma della corte d’appello, integrando decisione sulla giurisdizione, dovrà impugnarsi davanti alle sezioni unite.

3.5 Le modalità della translatio

La sentenza della Consulta ha introdotto nell’ordinamento, al di là di quanto dice il dispositivo, il principio per cui se si inizia il giudizio davanti al giudice statale e questo rileva che dev’essere deciso da arbitri e correlativamente se si inizia il giudizio davanti agli arbitri ed essi rilevano che dev’essere deciso dal giudice statale, con consequenziale pronuncia declinatoria nell’uno e nell’altro caso, gli effetti della domanda originaria sono riferibili alla domanda proposta ex novo rispettivamente davanti all’arbitro e al giudice statale. Questo è l’effetto della sentenza e la sua assicurazione sottende che il processo così ex novo iniziato dev’essere inteso come la continuazione del processo originario, in non diversa guisa di quanto l’art. 50 prevedrebbe in via diretta per il tramite del riferimento alla riassunzione. È questa la regola corrispondente a quella desumibile dall’art. 50 c.p.c. che è ora presente nell’ordinamento, per effetto dell’addizione determinata dalla sentenza nell’art. 819 ter, co. 2, c.p.c.: il nuovo processo va considerato equivalente quanto all’effetto ad una riassunzione. Come è stato da più parti sottolineato (si vedano gli scritti citati) nulla si desume dalla pronuncia della Corte circa le modalità della translatio e, quindi, l’interprete deve rinvenire nell’ordinamento le regole attraverso le quali essa deve avvenire e lo deve fare individuando forme che assicurino il rispetto di una regola “corrispondente” a quella che in punto di conservazione degli effetti della domanda assicura la riassunzione. È da credere allora che se la riassunzione deve avvenire davanti al giudice statale ordinario possa trovare applicazione con gli opportuni adattamenti contenutistici l’art. 125 delle disp. att. c.p.c. con richiamo al pregresso svolgimento della giurisdizione arbitrale. Se la riassunzione deve avvenire davanti agli arbitri, tanto a seguito di declinatoria del giudice statale ordinario, quanto del giudice amministrativo, occorrerà procedere ai sensi dell’art. 810 c.p.c. Se deve avvenire dinanzi al giudice amministrativo, la riassunzione andrà invece fatta con ricorso ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p.a., con retroattività degli effetti della domanda.

Sempre in funzione dell’assicurazione di una regola corrispondente a quella di cui all’art. 50 c.p.c., poiché la riassunzione in detta norma è assoggettata ad un termine, deve ritenersi che ai fini della translatio dopo declinatoria debba comunque osservarsi un termine. Questo termine, per gli atti di translatio davanti all’arbitro dopo declinatoria del giudice ordinario, e davanti a questo dopo declinatoria dell’arbitro ben può essere individuato, perché fa parte della regola corrispondente, in quello di tre mesi di cui all’art. 50 o in quello fissato dall’arbitro o dal giudice, che, ai sensi dell’art. 307, co. 3, non potrà essere inferiore ad un mese. Il termine per gli atti di riassunzione dopo declinatoria del giudice amministrativo a favore degli arbitri può essere individuato sempre in tremesi, dato che la regola corrispondente al principio di cui all’art. 50 è somministrata nella stessa misura dall’art. 11, co. 2, c.p.a., mentre il termine per l’atto di riassunzione davanti al giudice amministrativo dopo declinatoria dell’arbitro può rinvenirsi anch’esso in tre mesi, sempre sulla base della valutazione di corrispondenza appoggiata all’art. 50.

La permanente inapplicabilità di una regola corrispondente a quella dell’art. 48 ai rapporti fra arbitrato e processo, mi sembra comporti questa importante conseguenza: con riferimento alla declinatoria del giudice ordinario a favore dell’arbitro, poiché la proposizione dell’istanza di regolamento di competenza non è previsto che determini la sospensione del processo e, quindi, l’assicurazione di un coordinamento fra la riassunzione e l’impugnazione, si deve ritenere che quella inapplicabilità implichi che il potere di continuare il processo davanti agli arbitri sorga solo una volta decorsi i termini per il regolamento di competenza e che, invece, prima non sussista, mentre, se il regolamento viene proposto occorrerà attendere la decisione della Corte di cassazione ed il termine decorrerà dalla sua comunicazione.

Analogamente è a dire per il potere di continuare il processo davanti al giudice ordinario dopo declinatoria degli arbitri: detto potere sorgerà solo dopo il decorso del termine di cui all’art. 828, co. 1, c.p.c.,mentre ove il lodo sia impugnato occorrerà attendere il passaggio in giudicato o della sentenza della corte d’appello confermativa o di quella della Corte di cassazione se la decisione della Corte d’appello sull’impugnazione del lodo sia stata impugnata.

Il termine decorrerà dalla comunicazione delle decisioni. Dopo declinatoria del giudice amministrativo soccorrerà la regola del co. 2 dell’art. 11 citato, che fa riferimento al passaggio in giudicato. Mentre per la declinatoria dell’arbitro, potrà valere la regola di cui al co. 2 dell’art. 59 l. n. 69/2009, che sempre prevede un termine di tre mesi dal passaggio in giudicato.

1 A commento della quale si vedano (anche per riferimenti alle due ordinanze che avevano sollevato la questione di costituzionalità: Acone, M., ‘Translatio iudicii’ tra giudice e arbitro: una decisione necessariamente incompiuta o volutamente pilatesca?, in Foro it., 2013, I, 2697 ss; D’Alessandro, E., Finalmente! La Corte costituzionale sancisce la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda introduttiva nei rapporti tra arbitro e giudice, ibidem, 2695 ss; Frasca, R., Corte cost. n. 223 del 2013 e art. 819 ter c.p.c.: una dichiarazione di costituzionalità veramente necessaria?, ibidem, 2701 ss; Buzano, P., Estensione della translatio iudicii ai rapporti tra giudizio ordinario e arbitrato rituale, in Giur. it., 2014, 1382 ss.; Asprella, C., Translatio iudicii nei rapporti tra arbitrato e processo, ibidem, 1388 ss.; Consolo, C., Il rapporto tra arbitri-giudici ricondotto, e giustamente, a questione di competenza con piena translatio fra giurisdizione pubblica e privata e viceversa, in Corr. giur., 2013, 1107 ss.; Salvaneschi, L., Il rapporto tra arbitro e giudice dopo la decisione della consulta, in Riv. dir. proc., 2014, 384 ss; Boccagna, S., Translatio iudicii tra giudice e arbitri: la decisione della Corte costituzionale, ibidem, 374 ss.; Bove,M., Sulla dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 819-ter c.p.c., in Giusto proc. civ., 2013, 1107 ss.; i Commenti senza titolo di Bove,M., Briguglio, A.,Menchini, S. e Sassani, B., in Riv. arbitrato, 88 ss.; Rasia, C., La parziale incostituzionalità dell’art. 819-ter, comma 2°, c.p.c.: una decisione attesa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 291 ss.

2 Ha invece rifiutato la diversa esegesi di Cass., 6.12.2012, n. 22002 (su cui criticamente si vedano Fornaciari,M., Ancora sulla conservazione degli effetti dell’atto introduttivo anche nei rapporti fra giudice e arbitro, in www.judicium.it e Bianchi, L., Translatio iudicii tra giudice statuale e arbitri?, ivi. In replica si veda Frasca, R., Corte cost., cit., 2703; adde gli scritti di cui alla nota 1) nel senso ch’essa trovasse applicazione solo nella prima ipotesi.

3 Molta parte della dottrina,ma non tutta, era nel senso del testo: si vedano gli scritti già citati e sia consentito di rinviare, in particolare, a Frasca, R., op. cit., per un’opinione contraria. In realtà, che l’attività processuale svoltasi in un processo davanti a giudice incompetente o privo di giurisdizione non sia utile per escludere prescrizione e decadenza sembra frutto di un’eccessiva enfatizzazione del valore della norma che per la prescrizione è dettata dall’art. 2945 c.c., nel mentre non è vero che la Corte di cassazione neghi a qualsiasi pronuncia in rito di salvare gli effetti sostanziali e processuali della domanda (come pensa ‒ citando Cass., 8.3.2010, n. 5570, che si occupa della pronuncia di estinzione del giudizio, che è imputabile alla parte, il che spiega che gli effetti non possano conservarsi ‒ Izzo, S., I rapporti fra arbitrato rituale e processo: lo «stato dell’arte», Relazione al IX Congresso giuridico forense per l’aggiornamento professionale, Roma, Complesso monumentale di S. Spirito in Sassia, 21 marzo 2014 (scritto reperibile su internet).

4 La dottrina, sia con riferimento alla disciplina originaria dell’arbitrato rituale nel codice, sia con riferimento alle discipline successive sino a quella di cui al d.lgs. n. 40/2006 era stata sempre divisa in due partiti, l’uno favorevole alla tesi privatistica e l’altro a quella pubblicistica-giurisdizionale. Anche la giurisprudenza della Cassazione lo era stata. Per riferimenti Buzano, P., Estensione, cit., 1384, testo e nota 10, e Izzo, S., I rapporti, cit., par. 3, passim. Intervenuto il citato d.lgs. viceversa la dottrina si era schierata a favore della tesi giurisdizionalistica,mentre, quanto alla giurisprudenza della Corte di cassazione la “registrazione” degli effetti della nuova disciplina di cui al d.lgs. è avvenuta – dato che ancora Cass., S.U., ord. 6.10.2010, n. 19047 si ispirava alla tesi privatistica (come bene nota Izzo, S., op. cit., 6, n. 15) ‒ soltanto con Cass., S.U., ord. 25.10.2013, n. 24153, (in Foro it., 2013, I, 3408 ss, con nota di E. D’Alessandro e in Corr. giur., 2014, 84 ss., con nota di G. Verde), che, fra gli argomenti a favore ha anche considerato l’arresto del Giudice delle Leggi. Dagli scritti già citati emerge, poi, salvo qualche voce isolata, che l’efficacia della pronuncia viene giustamente intesa come relativa al solo arbitrato rituale e non anche a quello irrituale. Peraltro, in pendenza di arbitrato irrituale mi sembra non si possa negare che il diritto è in situazione di costanza di esercizio, con ciò che ne segue.

5 Buzano, P., op. cit., 1384-1385.

6 Non condivido, dunque, il rilievo di Bove,M., Sulla dichiarazione, cit., 1113-1115 che l’incostituzionalità dovesse giuocarsi sull’art. 3 Cost. Nel contempo registro che, quanto all’errore di individuazione del giudice, dovrebbe prendersi atto che la Costituzione impone di far salva l’azione. In generale, sul se una sanatoria retroattiva dei vizi processuali sia sul piano della legislazione ordinaria dovuta o meno in riferimento alla Costituzione, si veda Proto Pisani, A, Note sulle sanatorie retroattive nel processo civile, in Foro it., 2011, V, 313 ss.

7 È sufficiente leggere la seconda proposizione del par. 5 del Considerato. All’opzione rifiutata nel testo potrebbe pervenirsi se, come modalità alternativa di svolgimento della giurisdizione esistesse un diritto costituzionale all’arbitrato rituale, mentre, come amminicolo dell’autonomia privata e nei limiti in cui essa è operativa, è semmai configurabile una garanzia costituzionale alla risoluzione delle controversie con un accordo privato, quale l’arbitrato irrituale. Se si accetta questa esegesi una norma come l’art. 816 bis c.p.c., che in prima battuta conferma il principio secondo cui le parti possono stabilire le norme che gli arbitri debbono osservare nel procedimento e che solo in mancanza affida agli arbitri la facoltà di dettarle, prescrivendo in ogni caso solo che debba essere rispettato il principio del contraddittorio e che siano concessi termini a difesa, non potrebbe, specie quanto alla prima previsione, essere imputata di violare l’art. 24, quanto al diritto di difesa, o altri principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.

8 Il tema è discusso ampiamente da Izzo, S., op. cit., 7 , ss. La qualificazione variabile è stata di recente ribadita da Cass., S.U., n. 24153/2013.

9 Frasca, R., Il regolamento di competenza, Milano, 2012, 216 ss.

10 Non è, dunque, condivisibile né l’approccio di chi vorrebbe costruire il rapporto giudice statale-arbitri come rapporto di competenza, né quello di chi sostiene che si tratti sempre di rapporto di giurisdizione: per le due opzioni, rinvio ancora a Izzo, op. loc. ultt. citt.

11 Dopo Cass., S.U., n. 24153/2013 non è, infatti, sostenibile il contrario adducendo che si tratterebbe di questione di merito e non di giurisdizione (ancora da ultimo Cass., S.U., 24.7.2013, n. 17929).

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