APOCALISSE

Enciclopedia Italiana (1929)

APOCALISSE (gr. 'Αποκάλυψις 'Ιωάνου; lat. Apocalypsis S. Johannis; fr. Apocalypse de S. Jean; ted. Johannis Offenbarung; ingl. Revelation of S. John)

Adolfo OMODEO
Antonino SANTANGELO

Il titolo, giustificato dal contenuto e dal "genere" di letteratura religiosa a cui appartiene (v. apocalittica, letteratura) significa "Rivelazione". L'epiteto di "canonica", con cui si trova spesso unita, serve a distinguerla da altre opere simili. È una delle ventisette opere che costituiscono il Nuovo Testamento.

La tradizione. - La tradizione l'attribuisce, insieme con il quarto vangelo e le tre lettere, a Giovanni figlio di Zebedeo, uno dei dodici apostoli di Gesù. Nel corso dell'opera l'autore designa sé stesso col nome di Giovanni, ma non rivendica per sé nessun titolo, neppure quello di presbitero che ritorna nelle lettere giovannee. Rivendica però quelle prerogative che nell'antica Chiesa spettavano al profeta (collocato subito dopo l'apostolo).

L'esistenza dell'Apocalisse è documentata fin dalla prima metà del sec. II. Pare che la conoscesse Papia vescovo di Jerapoli (secondo una citazione di Andrea Cesariense, in Patrol. Gr., CVI. c. 207): ma non sappiamo però se il vescovo ierapolitano la considerasse opera dell'apostolo: perché proprio Papia (nei frammenti conservatici da Filippo Sidete nel cod. Barocciano 142, e da Giorgio Hamartolòs nel codice coisliniano 305) insieme con i più antichi martirologi (e, secondo alcuni critici moderni, anche Marco, X, 38 seg.), conserva il ricordo che Giovanni di Zebedeo morì martire dei Giudei come il fratello Giacomo (cfr. in proposito F. Schwartz, Über den Tod der Söhne Zebedai, in Abh. Gött. Ges. der Wiss., 1904). L'Apocalisse è anche citata come opera di Giovanni uno degli apostoli, da Giustino martire (Dial. cum Tryph., 81; Apol., 28, 1). Melitone di Sardi scrisse su di essa un commentario (cfr. Eusebio, Hist. eccl., IV, 26, 2). L'Apocalisse trovò invece difficoltà in Roma sullo scorcio del sec. II. Infatti dell'Apocalisse e del concetto de Paracleto derivato dal IV Vangelo si facevano forti i montanisti. Il presbitero romano Gaio, accanito antimontanista, nel suo libro contro il montanista Proclo respingeva l'Apocalisse e la sua escatologia, attribuendo la scritto all'eretico Cerinto (cfr. Eusebio, VI, 20, III, 28; Epifanio, Panarion, haer. 51, 4 segg.). Ippolito romano scrisse contro la tesi di Gaio alcuni "Capitoli", e trattò dell'Apocalisse sia nel trattato Dell'anticristo, sia in un commentario di cui ci restano pochi frammenti (cfr. Bonwetsch-Achelis, Hyppolitus Werke, I, 11, Berlino 1897, pp. 239-247; 1-47; 231-238). Ireneo di Lione considera l'opera come scritta dall'apostolo Giovanni e la fa risalire agli ultimi anni di Domiziano (adventus Haerer., IV, 20, 11; V, 26, 1; V, 30, 30). Il "canone muratoriano" accettò solo l'Apocalisse giovannea e respinge le altre. Origene, per quanto poco propenso verso l'escatologia giudaizzante, non solo l'accettava nel suo canone (Eusebio, VI, 25, 9), ma scrisse su di essa un commentario i cui presunti frammenti sono stati di recente scoperti e pubblicati da C. Diobouniotis e A. Harnack (Der Scholien-Kommentar des Origenes zur Apok. Johannis, Lipsia 1911; Texte und untersuchungen, XXXVIII, 3). Ma l'avversione si accentuò nella sua scuola. Quantunque in Alessandria stessa, già prima di Origene, Clemente alessandrino avesse attestato l'origine apostolica dell'Apocalisse (Stromat. VI, 13), tuttavia Dionisio vescovo d'Alessandria, senza giungere alla tesi di Gaio, le nega l'apostolicità, e sostiene, in base alle differenze stilistiche fra il Vangelo e l'Apocalisse, che quest'ultima è opera non dell'apostolo, ma di Giovanni presbitero; poiché la tradizione conservava ricordo di due Giovanni e a Efeso si mostravano due tombe di Giovanni (cfr. Eusebio, VII, 24-25). Gli argomenti di Gaio e quelli di Dionisio ben difficilmente conservano tracce di reminiscenze storiche; sono ispirati piuttosto da interessi teologali: la polemica antimontanista, quella antimillenarista, e in parte lo spiritualismo origeniano avverso al realismo dell'escatologia giudaico-cristiana. I rilievi stilistici di Dionisio erano destinati tuttavia a rigermogliare nella critica moderna, la quale appunto per la differenza che separa la spiritualità e lo stile dell'Apocalisse dal IV Vangelo è incline a respingere la tradizione, anche se col Bousset deve riconoscere che, pur con tutte le divergenze tra Apocalisse e Vangelo, esistono addentellati tali da render possibile la loro coesistenza nel corpus giovanneo (Bousset, Die Offenbarung Joh., 2ª ed., Gottinga 1906, p. 206).

L'avversione della scuola alessandrina fece sì che in molte chiese d'Oriente la canonicità dell'Apocalisse non fosse riconosciuta. Al principio del sec. IV, Eusebio la pone fra i libri di dubbia canonicità, e dimostra in varî punti la sua sottile antipatia per essa; non è citata in parecchi canoni dei libri sacri di chiese orientali. Invece la chiesa occidentale rimase affezionata all'Apocalisse; e quando al termine della contesa ariana l'Occidente fece prevalere le sue vedute, essa fu riconosciuta ed accettata anche dalla chiesa orientale.

Contenuto. - Nel suo schema generale l'Apocalisse è una lettera indirizzata a sette comunità cristiane d'Asia: vuole esporre una serie di visioni avute dall'autore durante la relegazione nell'isola di Patmos da lui sofferta per la testimonianza di Gesù. La visione vuole incoraggiare la speranza nell'avvento imminente del Cristo, e la perseveranza nel testimoniare la verità cristiana.

Nella prima visione il Cristo appare al veggente in abito regale, con i capelli candidi (simile perciò all'Antico dei Giorni della restante letteratura apocalittica), con sette stelle in mano, fra sette candelabri ardenti: una spada bitagliente esce dalle sue labbra e la sua voce è simile a fragore di acque copiose. Egli che è il primo e l'ultimo, che è il vivente e fu morto, che ha le chiavi della morte e dell'Ade, detta al veggente sette lettere per le sette comunità cristiane d'Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. Sono moniti, incoraggiamenti, rimproveri, rampogne contro tendenze eretiche forse libertine (i seguaci di Balaam, i Nicolaiti, la pseudo profetessa Izabele, forse tutti di una stessa tendenza); sono promessa della gloria angelificante ed eccitazioni alla fede e alla perseveranza fino al martirio (I-III). Col capitolo IV ha inizio la grande rivelazione. Il veggente è rapito in cielo nel tempio celeste. Vede il trono di Dio, e intorno ad esso ventiquattro vegliardi con corone d'oro in capo e quattro animali alati, con innumerevoli occhi, simili rispettivamente a un leone, a un vitello, a un uomo, a un'aquila. Dinanzi al trono un mare vitreo-cristallino. Nel tempio celeste, dove vengono offerte a Dio le preci dei santi e degli eletti ancora in terra, vien portato il libro del destino, sigillato con sette sigilli. Niuno può aprirlo. Ma viene introdotto sul trono di Dio l'agnello dalle sette corna e dai sette occhi, già ucciso e ora vivente (IV-V). Prende il libro ed apre i sigilli tra gl'inni della corte celeste. Ai primi quattro sigilli quattro cavalli si disfrenano sul mondo: incerto è il significato del primo: gli altri tre simboleggiano guerra, fame, pestilenza. Al quinto sigillo, di sotto all'altare di Dio, si levano le anime dei martiri a sollecitare la vendetta. Ricevono ognuna una veste candida, e son consolate in modo che attendano pazientemente che si completi il numero dei martiri. Al sesto sigillo, terremoto: si oscura il sole, la luna diventa color sangue, cadono le stelle dal cielo: il terrore piomba sui re e sui potenti che temono l'ira dell'Agnello. Intanto i quattro venti son fermati da quattro angeli; e un altro angelo scende a sigillare in fronte, per salvarli dai flagelli, gli eletti che sono in terra: 12 mila per ognuna delle dodici tribù d'Israele e innumeri d'ogni gente e d'ogni stirpe (VI-VII). Al settimo sigillo appaiono sette angeli con sette trombe. Allo squillo delle prime quattro trombe nuovi flagelli. Cade grandine e pioggia di sangue: si essicca una terza parte del mare e un terzo delle acque sorgive si trasforma in assenzio; si ottenebra una terza parte del sole e della luna (VIII). Al quinto squillo si ha il primo "guai" (VIII, 13): un angelo (IX, 1), dissigilla il pozzo dell'abisso: ne escono mostruose locuste che non mangiano erba, ma mordono gli uomini e rendono loro infernale la vita. Le guida un re infernale chiamato in ebraico (ma in lettere greche) Abaddōn, in greco Apollyōn "il distruttore". Al sesto squillo (IX, 12 seg.), secondo "guai": sono scatenati quattro angeli incatenati nell'Eufrate, e guidano alla distruzione d'un terzo degli uomini mostruosi cavalieri, somiglianti alle locuste precedenti. Pare che il settimo squillo (che dovrebbe essere il terzo "guai") debba portare subito la consumazione dei tempi: un angelo giura che sotto quello tutto sarà compiuto (X, 7). Ma si ha un intervallo; il profeta è invitato a divorare il libro che l'angelo stesso tiene in mano, a profetare alle genti, e a prender le misure del tempio terreno di Dio (XI, 1). Ciò che segue par che sia il contenuto del libro profetico: per tre anni e mezzo i gentili calcheranno la città santa, e sarà loro abbandonato anche il cortile anteriore del tempio. Due profeti di Dio profeteranno, miracolosamente protetti e col potere di far prodigi, per tre anni e mezzo: dopo tre anni e mezzo la Bestia che uscirà dall'abisso li ucciderà, e per tre giorni e mezzo i loro corpi rimarranno insepolti. Ma poi la possanza di Dio li ridesterà e li rapirà al cielo in mezzo a rovinosi terremoti (XI, 13). Squilla la settima tromba fra il giubilo della corte celeste: si aprono i penetrali del tempio celeste (XI, 19). Ma si ha una nuova pausa in cui s'incastra una nuova scena. In cielo appare una donna celeste, rivestita del sole e della luna e coronata di 12 stelle. È sul punto di partorire; ma un drago si pone in agguato per divorare l'infante. Questo vien salvato e nascosto nel trono di Dio. Il drago in collera getta giù con la coda un terzo delle stelle del cielo, e insegue la donna, che ripara nel deserto dove deve restar nascosta per tre anni e mezzo. Michele e gli angeli precipitano il drago giù dal cielo in terra, ove esso si volge a perseguitar la donna, e quando ella gli sfugge perseguita gli altri figli di lei. Il drago passa quindi sulla spiaggia (XII, 1-18), evoca fuor dal mare una bestia con dieci corna e sette teste di cui una, colpita da ferita mortale, è morta e insieme vivente e l'investe del suo trono e d'ogni sua possanza. Insieme sorge dalla terra un falso profeta con due corna d'agnello, e vuol piegare gli uomini ad adorare la Bestia e a ricever nella fronte o nella mano il sigillo o il numero della Bestia che significa un uomo, ed è 666 (XIII). Chi si rifiuta vien perseguitato a morte. Ma ecco che l'Agnello appare con 144000 seguaci sul monte di Sion, e angeli annunziano dal cielo il vangelo eterno, il timor di Dio, la caduta della grande Babilonia, e le pene eterne per gli adoratori della Bestia. Su di una bianca nube appare Uno simile a figlio d'uomo (XIV, 14) con la falce acuta; e la getta a terra a falciare la messe matura: e un altro angelo getta la sua falce a compier la vendemmia per l'ira del Signore, e il sangue sulla terra raggiunge l'altezza della briglia d'un cavallo (XIV, 20). Tra il giubilo dei martiri in cielo appaiono sette angeli a versar sulla terra le sette coppe dell'ira di Dio (XV; XVI, 1). La prima coppa imprime una piaga sugli uomini che recano il marchio della Bestia. La seconda trasforma in sangue il mare, e vi estingue ogni vita. La terza trasforma in sangue le sorgive. La quarta, versata sul sole, provoca arsura intollerabile. La quinta fa calar le tenebre nell'impero della Bestia. La sesta essicca l'Eufrate per aprir la via all'invasione: e infatti dalla bocca del drago, della Bestia e del falso profeta, escono spiriti immondi simili a rane a convocare i re della terra, che si radunano contro Dio e l'Agnello in un luogo detto Armageddon. Segue la settima coppa e la grande catastrofe delle città della terra (XVI, 2-21). Un angelo mostra al veggente la punizione della gran meretrice, la grande Babilonia che siede sulla Bestia e s'inebria del sangue dei martiri. Egli dà la chiave di una parte delle visioni: Babilonia è una città che impera sulle genti: le sette teste della Bestia sono sette monti e sette sovrani, e dieci sovrani sono le dieci corna: sono re, che avranno il potere dei re, ma regneranno dopo l'avvento della Bestia stessa: la quale si ricapitola nella testa ferita a morte e ancora viva: un mostruoso sovrano ritornante (XVII). Si celebra quindi, su noti motivi profetici, la catastrofe di Babilonia (XVIII). La corte celeste intona i cantici del regno di Dio e delle nozze dell'Agnello. Balena agli occhi del veggente la grandiosa e fiera cavalcata del Cristo e dei suoi seguaci. Vana è la resistenza della Bestia e dei re della terra (XIX). Un angelo prende il drago, la Bestia e il falso profeta e li precipita nel pozzo dell'abisso, per mille anni (XX, 1-2). Risorgono e regnano con Cristo i fedeli e i martiri, sacerdoti di Dio e di Cristo. Dopo mille anni (XX, 4; 5; 7) si schiuderà nuovamente il pozzo d'abisso, e Satana condurrà contro il regno di Cristo Gog e Magog. Ma saranno sterminati, e il diavolo sarà precipitato nello stagno di fuoco e zolfo. Seguirà la risurrezione e il giudizio di tutti. E per gli empî vi sarà la seconda morte della dannazione eterna (XX, 14 segg.), per gli eletti la gioia eterna in un cielo e in una terra nuova (XX, 1). Calerà dal cielo la nuova Gerusalemme, la sposa dell'Agnello: un cubo di pietre preziose, di cui si dànno le dimensioni; e non avrà tempio, perché il suo tempio saran Dio e l'Agnello presenti (XXI, 2-27; XXII, 1-5).

Il libro si chiude (XXII, 6-21) col mandato al profeta di registrare la visione, col ribadimento della fine imminente e con l'anatema su chi ritoccasse il libro, aggiungendo o togliendo qualcosa.

Storia della critica. - L'Apocalisse, il libro letterariamente più giudaico del Nuovo Testamento, divenne, si può dire, dal momento della sua apparizione nelle comunità ellenistiche d'Asia, un libro di mistero, e presentava già notevoli difficoltà d'interpretazione a due Padri della fine del II e del principio del III secolo: Ireneo ed Ippolito romano. Poco accetto nei primi secoli alla chiesa orientale, fu invece studiato molto dall'occidentale. Vittorino di Pettau avanzò la teoria della ricapitolazione: che cioè la triplice serie dei flagelli sia in realtà una sola, rappresentata in tre forme diverse: tesi sostenuta tuttora da cattolici e da protestanti conservatori. Alcuni Padri affermano che l'anticristo, la testa vulnerata della Bestia che torna a vivere e costituisce la sua massima potenza, è Nerone. Il donatista Ticonio ed Agostino iniziano l'interpretazione spirituale allegorica dell'Apocalisse. E tale interpretazione ha corso per tutto il Medioevo. Si tende con essa a risolvere la credenza del regno millenario di Cristo, dopo la condanna del millenarismo. Il regno di Cristo sarebbe il regno della Chiesa fra le due manifestazioni del Cristo. Questa concezione, dai dotti commentarî teologici, cala nel fervore di vita religiosa del sec. XIII e impronta di sé il Vangelo eterno di Gioacchino da Fiore e il movimento degli "spirituali" francescani, e poi l'elemento apocalittico dell'opera dantesca. E del resto l'Apocalisse in tutte le grandi crisi forniva gli schemi per una filosofia della storia, in cui il nemico esecrato - fosse Federico II di Svevia, fosse Napoleone I - veniva identificato con l'Anticristo, e i diversi momenti della storia della Chiesa o dell'umanità venivano conguagliati con i diversi momenti dell'oscuro libro. Nella loro lotta contro il papato, i francescani spirituali si servirono degli elementi di polemica anti-romana sparsi nell'Apocalisse per identificare l'Anticristo col papa. E su questa via furono seguiti qualche secolo dopo da Lutero e dalle chiese riformate, sì che Ugo Grozio fu rimproverato dai suoi correligionari quando abbandonò quest'interpretazione tendenziosa. Contro l'interpretazione protestante, proprio l'apologetica cattolica nel secolo XVII rimise in luce molti elementi della storia contemporanea all'autore che chiarivano significati e simboli. Nel sec. XVIII l'Apocalisse con il suo realismo escatologico e con la sua forma scorretta, fu uno dei maggiori bersagli della critica antireligiosa dell'Illuminismo intellettualistico. Viceversa godé le simpatie delle conventicole degli Illuminati (in senso teosofico-religioso).

Col sec. XIX, pur continuando i tentativi fantastici di ritrovar tutta la storia nelle profezie dell'Apocalisse, prevalse l'indirizzo storico che volle inquadrare lo scritto nell'età in cui sorse. Si fermò decisamente il carattere anti-romano del libro. Babilonia è Roma: il significato del numero della Bestia, 666, si trovò corrispondere alla somma del valore numerico delle lettere ebraiche impiegate pel nome Neron Caesar (Reuss e altri tre critici nel 1833). L'Apocalisse acquistava così il carattere di un libello contro l'Impero, fondato sulla leggenda di Nerone ritornante a sterminar Roma: simile in questo al libro di Daniele, nella parte contro il regno dei Seleucidi al tempo d'Antioco IV Epifane. Simultaneamente, per opera di molti, specialmente del Hilgenfeld, venivano lumeggiati i diversi documenti dell'apocalittica giudaica posteriori al libro di Daniele. Si ricostituiva così il genere letterario dell'Apocalisse. Con questa interpretazione "in base agli avvenimenti contemporanei" (zeitgeschichtlich), invece che profetica, del libro, da parte di molti critici (p. es. Baur e Renan) non si trovava difficoltà ad accettare la tradizione ecclesiastica. Il libro sarebbe stato scritto da Giovanni figlio di Zebedeo proprio nei giorni dell'assedio di Gerusalemme (69-70): s'interpretava infatti il c. XI, sui gentili insediati fin nel cortile del tempio, come un documento dell'assedio da parte di Tito. Si era perciò portati a vedere nell'Apocalisse un documento dei più autentici del cristianesimo giudaico, che la scuola di Tubinga, allora prevalente, metteva in contrasto con il cristianesimo dei gentili asserito da S. Paolo. Si credeva di ritrovarvi un odio profondo contro Paolo, designato col nome di Nikolaos: si rilevava la prevalenza dello spirito giudaico nella violenza dell'odio nazionale, e nella sete insaziata di vendetta lo scarso spirito cristiano. Ma ben presto quest'interpretazione urtò contro notevoli difficoltà. Se taluni indizî parevano portare al tempo d'uno dei primi due Flavî, altri, abbastanza chiari, portavano agli ultimi anni di Domiziano, data proposta già da Ireneo, e per cui propendeva un profondo conoscitore del mondo antico quale il Mommsen. Se il colorito dell'Apocalisse era indubbiamente giudaico, appariva più che dubbia la sua interpretazione giudaico-cristiana nel senso del Baur e dei suoi seguaci. Infatti si rilevava che l'Apocalisse non era esclusivista: ammetteva alla salute innumeri credenti d'ogni stirpe, non esigeva l'obbligo dell'osservanza della Legge. La sua cristologia, anche se includeva aspetti messianico-giudaici e anche se indipendente da Paolo, in molti rispetti superava Paolo nell'apoteosi del Cristo: il quale in questo libro si confonde e si compenetra con Dio, e fruisce di prerogative e attributi divini: i giudei increduli sono per il veggente la Sinagoga di Satana. La fisionomia del preambolo (cc. I-IV), con le sette lettere, ha stilisticamente un forte colorito giudaico: ma nel suo contenuto non si differenzia notevolmente da quanto conosciamo del cristianesimo ellenistico dello scorcio del sec. I.

La soluzione del problema fu allora cercata, a partire dal primo saggio del Völter (1882), supponendo una stratificazione di diversi documenti, giudaici e cristiani. Infatti pur nello schematismo euritmico dei sette sigilli, delle sette trombe, delle sette coppe, la materia trabocca e si ribella allo schema: le ripetizioni e le incongruenze sono frequenti e paiono documentare punti di vista ed età divergenti. Né il carattere di visione che ha l'opera è tale da escludere completamente un'elaborazione di fonti e una loro sintesi, compiuta nel convincimento di restaurare il vero sistema della predisposizione divina. Infatti non mancano elementi che attestano un'elaborazione cerebrale ben più che un'intuizione visionaria (p. es. gl'incensi del tempio celeste che sono le preghiere dei santi; i complicati simboli della Bestia; la storia dei due profeti nel cortile delle genti, ecc.). I tentativi di scindere le diverse fonti dell'Apocalisse furono e continuano ad essere numerosissimi: né è questo il luogo adatto per esporli partitamente: diremo solo che essi, di solito, presuppongono un nucleo giudaico ed una progressiva rielaborazione da parte di più redattori cristiani. In quanto alla spiegazione dei simboli, la si ricercava sempre in fatti contemporanei, o all'autore ultimo, o agli autori delle fonti presunte.

Contro questo indirizzo reagì energicamente H. Gunkel, il quale sostenne che l'esplicazione "contemporanea" non giunge a chiarire tutti gli elementi dell'apocalittica: tanto meno l'Apocalisse di Giovanni, la quale, non essendo attribuita ad un patriarca o ad un eroe dei tempi andati, come altri libri congeneri, male si presta a raffigurazioni d'elementi contemporanei dal punto di vista d'un antico eroe. Egli sostenne che le immagini e i simboli, anche se applicati ad eventi contemporanei, hanno tutta una storia complessa e una tradizione: l'apocalittica conserverebbe e ravviverebbe tradizioni mitiche mai scomparse in Israele. Il mito babilonese della lotta di Marduk con i mostri del Caos, trasferito in tempi remotissimi nella religione israelitica, ripalpita nell'Apocalisse secondo lo schema noto, che come l'inizio tale sarà la fine dei tempi. A spiegazioni astrali si presterebbero pure moltissimi simboli apocalittici: i ventiquattro seniori, corrispondenti alle ventiquattro costellazioni che i Babilonesi ponevano dodici sopra e dodici sotto l'eclittica: i quattro viventi corrisponderebbero a quattro delle maggiori costellazioni zodiacali. A miti astrali babilonesi si pensò di poter ricondurre anche l'episodio della donna celeste e dell'infante salvato, che quasi contemporaneamente il Dieterich tentava di spiegare col mito di Latona e del serpente Pitone. A contemperare i due indirizzi divergenti della spiegazione contemporanea e di quella mitica, diede opera, con sobrietà, il Bousset. Gli ulteriori studî sull'Apocalisse attenuarono poi la tendenza alla decomposizione meccanica delle fonti. Emerse in molto maggiore rilievo - come ben aveva fatto rilevare il Jülicher - la parte preponderante dell'ultimo autore cristiano, saldo nel suo entusiasmo di profeta ispirato: risultò evidente l'unità stilistica di tutta l'opera: stile ricco d'ebraismi che, come ha dimostrato esaurientemente il Charles, non sono ebraismi di maniera, ma l'espressione sincera d'un autore d'origine palestinese, il quale intese effettivamente dare un corpus, una summa delle tradizioni escatologiche giudaico-cristiane. Spesso da tali tradizioni egli si lasciò sopraffare; ma non fu mai un puro trascrittore di documenti, bensì un profeta che si sentì assistito dallo Spirito nel riordinare e nel rimaneggiare tradizioni apocalittiche sino a renderle conformi a ciò che per lui era la verità divina (Loisy e Lohmeyer). Uno sviluppo delle idee del Gunkel circa le tradizioni mitico-astrologiche rappresenta il lavoro del Boll. Il Gunkel, studiando la tradizione babilonese, aveva trascurato le fasi intermedie: il Boll nelle credenze astrologiche dell'età ellenistica e nei miti astrali mette l'origine di molte figurazioni dell'Apocalisse: specialmente il ciclo della donna celeste (la costellazione della Vergine) e del dragone (costellazione dell'Idra). Un altro tentativo nello stesso senso è rappresentato, benchè in maniera solo indiretta, dalle ricerche del Norden sul mito della nascita dell'era nuova (AIΩN, Die Geburt des Kindes, Lipsia 1924).

In opposizione a questi indirizzi critici, il cattolicesimo si mantiene saldo nell'affermare l'apostolicità dell'opera - ormai abbandonata quasi da tutti nell'altro campo, mentre parecchi pensano ancora ad un altro Giovanni, il presbitero (v. sopra) - e nel ribadirne l'ispirazione divina, e l'esegesi spiritualizzante. Il maggior contributo in questo campo è quello dell'Allo.

Bibl.: Ci limitiamo ad indicare le opere che possono fornire le indicazioni per un approfondimento dell'argomento. La storia della critica nel sec. XIX si può studiare in H. J. Holtzmann, Lehrbuch der Krit. hist. Einleitung in das N. T., Friburgo in B. 1892: la storia della critica dei 15 anni successivi in A. Jülicher, Einl. in das N. T., 5ª e 6ª ed., 1906; quella recentissima in R. Knopf, Einführung in das N. T., 2ª ed., Giessen 1923. Commentarî più importanti: H. J. Holtzmann e W. Bauer, Evang., Briefe und Offenbarung des Johannes, Tubinga 1908, in Hand - Commentar del Holtzmann stesso; W. Bousset, Die Offenbarung Johannis, Gottinga 1896 e 1906 (5ª e 6ª ed. del Comm. del Meyer); J. Weiss e W. Heitmüller, in Die Shcriften des N. T., 3ª ed., Gottinga 1916; R. H. Charles, The Revelation of St. John, Londra 1920; E. B. Allo, L'Apocalypse de S. Jean, Parigi 1921; A. Loisy, L'Apocalypse de Jean, Parigi 1923; Lohmeyer, Die Offenbarung Johannis, Tubinga 1926, in Handbuch z. N. T. del Lietzmann; I. E. Carpenter, The Johannine writings, Londra 1927. - Studî sull'elemento mitico dell'Apocalisse: H. Gunkel, Schöpfung und Chaos in Urzeit u. Endzeit, 2ª ed., Gottinga 1921; id., Zum religionsgesch. Verständnis des N. T., 2ª ed., Gottinga 1910; F. Boll, Aus der Offenbarung Johannis, Lipsia 1914. Sui tentativi di decomposizione delle fonti cfr. le seguenti opere oltre quella cit. del Charles; D. Völter, Die Enstehung der Apokalypse, 2ª ed., Friburgo in B. 1885; id., Die Offenbarung Johannis, Strasburgo 1904; J. Weiss, Die Offenb. des Johannes, Gottinga 1904; J. Wellhausen, Analyse der Offenbarung Johannis, Gottinga 1907.

L'Apocalisse nell'arte.

L'arte cristiana ben presto dovette illustrare di miniature, come il resto della Bibbia, anche l'Apocalisse. E dai codici i temi più adatti presto passarono alla pittura monumentale, come dimostra il mosaico di Galla Placidia nella basilica ostiense. Nella miniatura le illustrazioni dell'Apocalisse sembrano avere avuto nuovo sviluppo alla fine del sec. VIII, specie nella Spagna, accompagnando il commentario, che poi ebbe lunga fortuna, composto da Beato di Libana (Asturie) nel 784. Tra i codici di Beato, assai numerosi, miniati fra il sec. X e XIII, più notevoli sono quelli di Girona (anno 975) e di Urgel, e quello di S. Severo (sec. XI) ch'è di scuola aquitana (Parigi, Bibl. Nat., ms. lat. 8878). Contemporaneo e indipendente è il gruppo delle Apocalissi miniate dall'arte ottoniana nei codici di Treviri (sec. VIII o IX), di Bamberga (princ. del sec. XI), di Cambrai, di Valenciennes. Tra i due gruppi lo spagnolo ebbe maggiore diffusione e agì fra l'altro sulla scultura romanica di Francia, ove però ebbe origine un terzo gruppo, detto dal Mâle anglo-normanno: quello degli affreschi di S. Savino presso Vienne (sec. XI) e del ms. franc. 403 della Nazionale di Parigi. Il tipo creato da questa scuola prevalse oltr'alpe nell'età gotica. Se ne trovano riflessi negli arazzi del duomo di Angers, della fine del '300, e in un numeroso gruppo di vetrate, di affreschi e di miniature, specie francesi. Nel corso del '400 esso si ritrova, pur con varianti, nei legni incisi degl'incunaboli tedeschi - la Bibbia di Strasburgo del 1485 o quella di Ausburgo del 1487 - dai quali trasse l'ispirazione prima il Dürer venticinquenne per le quindici incisioni, capolavoro della sua giovinezza, che influirono su tutte le illustrazioni più tarde, dai cicli di affreschi francesi alle incisioni del Burgmair e di Holbein il giovane.

In Italia l'illustrazione dell'A. dovette aver fortuna già sul principio del Medioevo: lo attestano la notizia delle imagines che l'abate Benedetto portò da Roma in Inghilterra sulla fine del secolo VI, e il trovare tanti temi apocalittici nella pittura monumentale. Col procedere nel Medioevo, sembra che l'uso di miniare l'intero libro dell'Apocalisse si sia quasi abbandonato. Vi furono invece sempre più comuni, nell'arte monumentale, singole rappresentazioni, allusive e astratte, che avevano altro rapporto col testo che non le illustrazioni dei codici francesi e spagnoli. Il Cristo, nella sua apparizione apocalittica, prese posto a Roma nel catino e nell'arco trionfale delle absidi, o troneggiando, come in S. Pudenziana, tra gli Apostoli e le quattro essenze viventi nella città celeste, o incedendo sul mare di nubi nella sua seconda venuta, o esaltato in maestà dai 24 vegliardi. Questi, nell'arco trionfale dei Ss. Cosma e Damiano, offrono corone all'Agnello giacente sull'altare, con a lato il rotolo coi sette sigilli, e fiancheggiato dai sette candelabri e dai simboli degli evangelisti. A Ravenna, in S. Apollinare in Classe, i dodici agnelli, uscendo dalle due città sante muovono verso il Cristo giudice, scortato, tra le palme del Paradiso, dai simboli degli evangelisti; nel musaico di S. Michele in Affricisco (ora nel Kaiser Friedrich-Museum di Berlino), intorno al Redentore in trono sono due angioli con gli strumenti della Passione e sette con le trombe, immersi tutti nel mare di cristallo.

Ebbe senso apocalittico anche l'Etimasia, l'apprestamento del trono, simbolo della presente divinità ma anche del ritorno del Cristo; ed appare quasi immancabilmente nelle rappresentazioni del Giudizio finale, circondata spesso dagli strumenti della Passione. Nelle rappresentazioni del Giudizio, particolarmente nell'iconografia bizantina, sono ispirati all'Apocalisse gli angeli che avvolgono la vòlta del cielo, la terra e il mare che restituiscono i loro morti, il fiume di fuoco che si parte dal Trono del Redentore. Dopo il sec. XI si hanno anche in Italia cicli di affreschi monumentali: uno in S. Pietro al Monte presso Civate, ora frammentario, e due altri, ben più importanti, nella regione romana: a S. Elia di Castel S. Elia presso Nepi, e nella cripta del duomo di Anagni, indizio di un precedente largo sviluppo iconografico e di monumenti più antichi ora scomparsi (Toesca). Alla fine del '200 l'illustrazione dell'A. fu ripresa nella chiesa superiore di Assisi da Cimabue, che nelle pareti di sinistra del transetto affrescò le sei scene culminanti della visione: Giovanni in Patmos, l'Adorazione dei vegliardi, i 144.000 prescelti, gli Angeli che trattengono i quattro venti, la Caduta di Babilonia, l'Uccisione del Drago. Dopo, il ciclo dell'Apocalisse si ritrova in Italia solo in affreschi di S. Maria in Porto fuori a Ravenna, della Badia di Pomposa e di Giusto dei Menabuoi nel Battistero di Padova. Gli affreschi del Signorelli a Orvieto diedero nuovo singolare svolgimento all'episodio dell'Anticristo pseudo-profeta, dei suoi seguaci e della loro punizione. Ma per tutto, e in ogni tempo fino al più recente, gli artisti continuarono a esprimere singole visioni dell'Apocalisse: S. Giovanni esiliato in Patmos ispirò Giotto nella cappella Peruzzi a S. Croce, i miniatori del Libro d'ore del duca De Berry e infine il Velázquez (Londra, coll. Laurie), per non ricordare altri; l'adorazione dell'Agnello, i fratelli van Eyck nel polittico di Gand, e il Baciccio nell'abside della chiesa del Gesù a Roma; la grande Babilonia, Allegretto Nuzi in un affresco del S. Domenico di Fabriano; la donna e il Dragone, Rubens (Monaco, Pinacoteca); e, infine, l'apertura del quinto sigillo, il Greco. (V. tavv. CXXXVII e CXXXVIII).

Bibl.: F. Didot, Les Apocalypses figurées manuscrites et xylographiques, Parigi 1875; Th. Frimmel, Die Apocalypse, in Bilderhandschriften d. Mittelalters, Vienna 1885; R. Le Nail, Archéologie. L'Apocalypse d'après l'iconographie, I, Lione 1916; W. Neuss, Katalanische Bibelillustration, Bonn 1922, passim; L. Bréhier, L'art chrétien, 2ª ed., Parigi 1928, passim; K. Künstle, Iconographie der christlichen Kunst, Friburgo in B. 1928.

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