Antropologia

Enciclopedia del Novecento (1975)

Antropologia

Claude Lévi-Strauss

di Claude Lévi-Strauss

Antropologia

sommario: 1. Problemi di definizione; antropologia, etnologia, etnografia. 2. Excursus storico. 3. La collocazione dell'antropologia fisica. 4. Antropologia culturale e antropologia sociale, 5. Evoluzione e ‛diffusionismo'. 6. Metodo comparativo e metodo storico. 7. Funzionalismo, strutturalismo. 8. Altri settori di ricerca. 9. L'avvenire dell'antropologia. □ Bibliografia.

1. Problemi di definizione; antropologia, etnologia, etnografia

L'antropologia non si distingue dalle altre scienze umane o sociali per via di un oggetto di studio che le sia proprio. Essa sembra interessarsi soprattutto ai cosiddetti popoli ‛primitivi' o ‛senza scrittura', e tuttavia s'è sviluppata mentre questi popoli tendevano a scomparire o, almeno, a perdere i loro caratteri distintivi; d'altra parte, da qualche decennio vi sono antropologie che si rivolgono allo studio delle cosiddette società civilizzate. È chiaro dunque che l'antropologia parte più da una maniera originale di formulare dei problemi comuni all'insieme delle scienze dell'uomo che dall'esistenza di un soggetto distinto di studio: essa ha preso coscienza della sua particolare missione in occasione dello studio di fenomeni sociali non necessariamente più semplici di quelli dei quali la società dell'osservatore è teatro, ma che, per via delle grandi differenze che essi mostrano nei confronti di questi ultimi, rendono manifeste certe proprietà a un tempo generali e fondamentali della vita sociale. In questo senso si potrebbe dire che l'antropologia occupa, nell'insieme delle scienze dell'uomo, una posizione che ha qualche analogia con quella dell'astronomia nell'insieme delle scienze della natura: essa studia l'uomo a partire dalle sue manifestazioni più lontane, dando alla nozione di distanza un significato a un tempo spaziale, temporale e morale. Questa distanza che lo separa dal suo oggetto impoverisce la percezione dell'antropologo ma, costringendolo a fare di necessità virtù, lo condanna a vedere soltanto le proprietà essenziali dei fenomeni considerati.

In primo luogo, il distacco permette di accedere più facilmente all'obiettività, di astrarre non soltanto da credenze, preferenze e pregiudizi propri all'osservatore, ma anche - e forse soprattutto - dai suoi metodi di pensiero. L'antropologo si sforza di formulare i problemi e le conclusioni in un modo che in linea di principio sia accettabile non soltanto all'osservatore onesto e obiettivo che egli vuol essere, ma a tutti gli osservatori possibili. Egli costruisce nuove categorie mentali, contribuisce ad introdurre e ad accreditare nozioni di spazio e di tempo, di opposizione e di contraddizione atte a tradurre un'esperienza sociale particolare nel codice di una qualunque altra esperienza sociale.

In secondo luogo, questa ricerca di una obiettività totale si situa ad un livello in cui i fenomeni conservano un significato umano e restano comprensibili, intellettualmente e sentimentalmente, per una coscienza individuale. Ciò che è stato dapprima osservato dal di fuori deve essere restituito in una forma che consenta all'osservatore stesso e al suo lettore di riviverlo dal di dentro. Invece di contrapporre la spiegazione causale alla comprensione, l'antropologia vede in quest'ultima una forma particolare di prova: prova che un insieme di fenomeni, per essa oggettivamente molto lontani, ma soggettivamente molto concreti per gli uomini che ne sono gli attori, sono stati colti nella loro realtà intima. I fatti sociali non si riducono a degli sparsi frammenti; essi sono vissuti da uomini, e questa coscienza soggettiva è una forma della loro realtà, alla stessa stregua dei loro caratteri oggettivi.

Infine, l'antropologia aspira alla totalità. La vita sociale le appare come un sistema i cui aspetti sono tutti organicamente connessi. Il suo metodo d'elezione è la monografia di cui, senza dubbio, l'esempio più impressionante è costituito dai sei volumi, scaglionati lungo quarant'anni, che R. Firth ha consacrati a un'isola del Pacifico: Tikopia; studio a un tempo storico e funzionale di una società particolare, abbastanza piccola perché la sua organizzazione si basi principalmente su rapporti personali: rapporti concreti tra gli individui, dei quali la parentela costituisce generalmente il modello. Di qui l'importanza che gli studi sulla parentela hanno avuto e continuano ad avere nel pensiero antropologico. E quindi nella misura in cui certi settori della vita contemporanea si fondano ancora su delle relazioni personali che l'antropologia se ne può interessare.

Questi studi monografici rappresentano, per l'antropologia, l'equivalente di quello che gli esperimenti di laboratorio sono per le scienze fisiche e naturali. Con questa differenza, tuttavia: che in antropologia la sperimentazione precede l'osservazione e l'ipotesi; le piccole società che gli antropologi studiano sono esperienze bell'e fatte e su cui essi non hanno né il tempo necessario né i mezzi per agire. Le esperienze dell'antropologo sono già pronte, ma esse non possono esser anche guidate. Per trattarle in laboratorio, confrontarle fra di loro, sforzarsi di enuclearne forme comuni e proprietà essenziali, egli deve sostituir loro dei modelli: sistemi di simboli che salvaguardano le proprietà caratteristiche dell'esperienza, ma che si possono far variare sopprimendo o aggiungendo delle variabili e facendole evolvere. Questo impiego alternato di due metodi, l'uno empirico, l'altro deduttivo, fornisce all'antropologia il suo carattere distintivo nell'insieme delle scienze dell'uomo. Più di ogni altra scienza, essa cerca di fare della più intima soggettività un mezzo di dimostrazione oggettiva. Lo spirito dell'antropologo, durante la ricerca sul campo, si abbandona all'esperienza e si lascia modellare da essa; ma in laboratorio questo stesso spirito diviene il teatro di altre operazioni mentali che senza cancellare le precedenti trasformano tuttavia l'esperienza in modello, modello che avrà valore solo in quanto permetterà, in una terza fase, di ritornare all'esperienza conferendo ad essa nuove dimensioni.

Questa complessità di fini e di metodi spiega come la terminologia sia rimasta per molto tempo incerta. A seconda che l'accento venisse posto sull'uno o sull'altro aspetto della ricerca si è preferito parlare, dalla fine del XVIII al XX secolo, ora di etnografia, ora di etnologia, ora di antropologia, e l'uno o l'altro di questi tre appellativi prevale ancora qua o là nel linguaggio scientifico. Tuttavia si delinea un accordo generale per classificare sotto queste voci tre stadi successivi di una medesima ricerca.

Con una certa approssimazione, si può dire che l'etnografia consiste quindi nell'osservazione, descrizione e analisi di gruppi umani considerati nella loro particolarità, avendo di mira la ricostruzione quanto possibile fedele della vita di ciascuno di essi: l'etnografia è tipicamente monografica. Definita un tempo come lo studio delle razze, dei loro caratteri distintivi e della loro distribuzione geografica, l'etnologia si occupa oggi piuttosto dello studio comparativo dei documenti raccolti sul campo dagli etnografi. Essa corrisponde quindi a una seconda fase della ricerca. Infine, secondo un uso che tende a diffondersi, l'antropologia integra le due fasi precedenti e ne aggiunge loro una terza: quella in cui i risultati dell'etnografia, sistematizzati dagli etnologi, sono posti al servizio di una conoscenza generale dell'uomo, che permette il dialogo con altre scienze dell'uomo anch'esse aspiranti a una conoscenza generale, tra le quali al primo posto figurano la storia, la linguistica, la psicologia e la filosofia. Tra antropologia ed etnologia esiste dunque lo stesso rapporto che tra quest'ultima e l'etnografia. Esse non costituiscono tre discipline diverse o tre concezioni diverse degli stessi studi, ma piuttosto tre tappe o tre momenti di una stessa ricerca, tanto meno separabili oggi che tutti gli antropologi sono ormai d'accordo nel riconoscere un primato assoluto alle indagini sul campo - fieldwork, come si dice in inglese -, la cui preliminare esperienza è indispensabile a tutti: a colui che per tutta la vita resterà etnografo come all'etnologo indirizzato verso il comparativismo e all'antropologo che si vuole teorico puro.

Tuttavia, questo accordo sulla terminologia e sulle forme rimane relativo e, fin dove esiste, è il risultato di una lenta evoluzione che impone l'esame delle origini della disciplina antropologica e le tappe storiche del suo sviluppo.

2. Excursus storico

In ogni tempo gli uomini si sono interessati all'origine delle loro istituzioni e dei loro costumi, e sono stati curiosi di conoscere quelli dei popoli stranieri. Queste preoccupazioni compaiono già negli storici che accompagnarono Alessandro Magno in Asia, in Senofonte, Erodoto, Pausania e, in forma più speculativa, in Aristotele e Lucrezio. Nel mondo arabo, nel XIV secolo, Ibn Battūta, viaggiatore, e Ibn Khaldūń, storico e filosofo, offrono l'esempio di uno spirito antropologico; e lo stesso si può dire, in Cina, per i monaci buddhisti che, sin dal VII secolo, si recarono in India.

Nel Medioevo, l'Europa scopre l'Oriente attraverso le relazioni di Giovanni dal Piano dei Carpini e Guglielmo di Rubruquis, inviati in missione presso i Mongoli durante il XIII secolo, l'uno dal papa, l'altro da Luigi IX, e soprattutto grazie al lungo soggiorno in Cina di Marco Polo (XIII secolo). Al principio del Rinascimento si distinguono fonti molto diverse, dalle quali avrà origine la riflessione antropologica. Oltre a quelle già citate, bisogna menzionare la letteratura suscitata dalle invasioni turche in Europa orientale e nel Mediterraneo; le speculazioni ispirate dalle tesi aristoteliche sulla barbarie; le fantasie del folklore medievale, che riprendevano quelle dell'antichità, su popoli selvaggi, mostruosi per anatomia e costumi; soprattutto infine le conoscenze che incominciavano a pervenire dall'Africa, dall'Oceania e dall'America in occasione delle grandi scoperte, che i racconti dei primi viaggiatori divulgavano: così, per l'America, gli scritti dei francesi J. de Léry ed A. Thevet, e del tedesco H. Staden (XVI secolo).

A partire dall'inizio del XVI secolo, i racconti di viaggio e le compilazioni che se ne fanno conoscono una voga prodigiosa. Tra queste ultime, le più antiche sono senza dubbio l'Omnium gentium mores del tedesco J. Böhme (1520), le Cosmografie dello svizzero S. Münster (1544) e del francese A. Thevet (1575). Nel XVI secolo in Inghilterra, ha inizio la pubblicazione delle collane di viaggi di R. Hakluyt e in Germania quella dei Grandi viaggi di J.-Th. de Bry che continuerà fino al XVII secolo; ancora in Inghilterra, nel 1613, Purchas his pugrimage di S. Purchas.

Questa enorme letteratura sui viaggi servirà da base alla riflessione antropologica che ha inizio veramente nel XVIII secolo e nella quale, sin dal principio, si delineano tre orientamenti. Quello dei naturalisti come Linneo, Buffon, P. Camper, G. White e J.-Fr. Blumenbach, preoccupati soprattutto del problema dell'unità o della diversità specifiche del genere umano, del quale si sforzano di fissare il posto nel regno animale. Quello dei moralisti e dei filosofi: in Francia, Montesquieu, Fontenelle, Rousseau, Diderot, preceduti da Montaigne, e ancora d'Alembert, Condorcet, Turgot, che tutti insieme preparano la strada a Saint-Simon e a Comte, che, a loro volta dovevano prepararla a Durkheim e alla sua scuola; in Inghilterra, i filosofi scozzesi da Hume ad A. Smith; in Germania, Kant. Si assiste infine, nel XVIII secolo, alla continuazione del lavoro di compilazione, ma accompagnato da uno sforzo di classificazione più metodico e da una riflessione più approfondita; così nel danese J. Kraft (1760), nel francese J.-N. Démeunier (1776), nello svizzero A. A. C. Chavannes (1788), che impiega già in senso moderno i termini ‛antropologia' ed ‛etnologia'. Il termine ‛etnografia' appare invece in Germania verso il 1790; e Ampère tratta dell'etnologia nel suo corso del 1831 al Collège de France.

Un posto a parte meritano due opere di ineguale ampiezza, ma che segnano entrambe una svolta nella storia del pensiero antropologico. Moeurs des sauvages amériquains del padre J.-F. Lafitau - pubblicato nel 1724 - invita a percorrere la strada di una comparazione tra tecniche e costumi degli Indiani e quelli dei tempi più remoti delle nostre proprie civiltà. Nel 1730 viene pubblicata la Scienza nuova di Vico, che rompe con la tradizione cartesiana di uno studio introspettivo dell'uomo per intraprendere tale studio a partire dalle manifestazioni culturali e particolarmente dai fatti linguistici. Ma, malgrado questi segni premonitori, l'autentico ‛decollo' del pensiero antropologico moderno si situa molto più tardi, nello spazio di una diecina d'anni durante i quali apparvero Ancient law di H.J. Maine e Das Mutterrecht di J.J. Bachofen nel 1861, La cité antique di N.-D. Fustel de Coulanges nel 1864, Primitive marriage di J.-F. McLennan e Researches into the early history of mankind di E. B. Tylor nel 1865; infine, nello stesso anno, il 1871, apparvero Primitive culture di E.B. Tylor e Systems of consanguinity and affinity of the human family di L.H. Morgan.

Come si è preparato questo ‛decollo' nel corso del mezzo secolo che l'ha preceduto? Un sintomo premonitore appare senza dubbio, in Francia, con la fondazione della Societé des Observateurs de l'Homme, nel 1799-1800, società la cui vita fu breve ma che fu occasione per la memoria di J.-M. Degérando, Considérations sur les diverses méthodes à suivre dans l'observation des peuples sauvages: prime istruzioni, a uso dei viaggiatori, per un'indagine etnologica, dove si trovano anche per la prima volta formulate le regole dell'etnografia ‛partecipante', regole che all'antropologia contemporanea occorrerà più di un secolo per riscoprire e adottare, grazie a B. Malinowski.

In Inghilterra, la fondazione, nel 1837, della Aborigines Protection Society, di ispirazione quacchera, si spiega dapprima con intenti umanitari; ma ben presto due tendenze compaiono nel suo seno, l'una di intonazione missionaria, l'altra già scientifica, cui è legato il nome di J. C. Prichard. Quest'ultima tendenza prevale dopo la fondazione, a Parigi, della Societé Ethnologique (1839) dove essa domina, e dà origine nel 1843 alla Ethnological Society of London preceduta di appena un anno, negli Stati Uniti, dalla American Ethnological Society.

Gli anni che seguono hanno una grandissima importanza poiché evidenziano una netta scissione fra due tendenze - si potrebbe quasi dire due famiglie spirituali - che, sin dall'origine, sono coesistite nella tradizione antropologica e le cui divergenze hanno caratterizzato tutta l'ulteriore evoluzione. Questa frattura si manifesta dapprima nella disputa cosiddetta dei ‛monogenisti' e dei ‛poligenisti'. Le diverse razze umane provengono dalla ramificazione di un unico tronco o furono sempre distinte? La prima tesi - la sola conforme all'insegnamento biblico - doveva godere di una particolare autorità in un'epoca in cui qualsiasi indagine sulla natura umana appariva sacrilega e sembrava rimettere in causa i fondamenti dell'ordine spirituale e sociale. Eppure, la tesi monogenista conteneva un'implicita minaccia contro l'ordine sociale giacché, affermando l'unità originaria di tutti gli uomini, essa andava ad alimentare la critica dei costumi e le aspirazioni liberali. Non bisogna infatti dimenticare che queste prime speculazioni si sviluppano di pari passo con la lotta contro la tratta degli schiavi e che quest'ultima, sostenuta da potenti interessi, traeva argomento di giustificazione dalla diseguaglianza originaria di Bianchi e Negri. Molto presto la disputa avrebbe assunto un carattere più tecnico e si sarebbe tradotta nell'opposizione tra i due termini di etnologia e di antropologia.

Si concepiva la prima disciplina come lo studio della diversificazione del genere umano in gruppi particolari, razziali, linguistici o culturali, dei quali si cercava di determinare la storia e i rapporti, postulando però sin dall'inizio una loro unica origine. L'antropologia, invece, pretendeva di scoprire, al di là dell'osservazione empirica di queste differenze, il loro fondamento anatomico e fisiologico; l'analisi del genere umano tramite la classificazione in razze doveva permettere di situarle in rapporto fra loro, e la specie umana nel suo insieme in rapporto al regno animale. Sotto la copertura di preoccupazioni ostensibilmente biologiche e positive, l'antropologia offriva un alibi a ogni sorta di pregiudizi razziali con cui l'ordine morale e sociale, e gli interessi economici della nascente colonizzazione, potevano facilmente accordarsi; assai di più, comunque, che con le speculazioni degli etnologi, in cui la parte dell'ideologia era ancora grande, e che contenevano in germe le minacce del relativismo culturale e di una critica sociale fondata sul confronto delle credenze e dei costumi.

Si comprende quindi come in Francia la Société Ethnologique de Paris si sia sulle prime scontrata con l'ostilità dei pubblici poteri, e perché le sue prime sedute siano state strettamente sorvegliate dalla polizia. Così si spiega anche la fondazione, ad opera di P.-P. Broca, nel 1859, della Société d'Anthropologie de Paris, con lo scopo dichiarato di sfuggire a ogni possibile sospetto d'azione sociale e politica, e di liberarsi dall'influenza delle belle lettere e della filosofia.

Nello stesso periodo un orientamento simile al precedente si afferma in Inghilterra, dove nel 1862 viene fondata la Anthropological Society of London aspra rivale, per quasi dieci anni, dell'Ethnological Society. Il riavvicinamento auspicato da Th. Huxley doveva concludersi con la fusione, nel 1871, delle due società sotto il nome di Anthropological Institute of Great Britain and Ireland, al quale sarebbe ben presto stato aggiunto l'epiteto di Royal.

È nel 1873 che il termine anthropology sostituì quello di ethnology come nome di una sottosezione dell'American Association for the Advancement of Science. Ma il Bureau of American Ethnology, creato da J. W. Powell nel 1879 - lo stesso anno della fondazione della Washington Anthropological Society - mantenne il suo nome sino al 1965, anno in cui esso fu sostituito dal Center for the Study of Man, sempre nel quadro della Smithsonian Institution.

La Germania è rimasta più fedele al termine ‛etnologia' - e a quello di Vökerkunde per indicare l'etnografia - certo perché in quel paese l'etnologia nasce dai lavori geografici di F. Ratzel e si ispira a considerazioni a un tempo diffusioniste sul piano teorico e museografiche sul piano pratico. Non bisogna tuttavia dimenticare che proprio alla metà del secolo XIX G. Klemm (1802-1867) fu, a modo suo, un evoluzionista; e che nella stessa epoca F. Th. Waitz (1821-1864) aveva cercato di mettere l'accento meno sull'ambiente geografico che sugli aspetti propriamente psicologici della vita delle società.

3. La collocazione dell'antropologia fisica

L'antropologia e l'etnologia sono sorte indipendentemente l'una dall'altra, e abbiamo visto come, ai loro esordi, il contrasto tra esse sia stato a volte molto acceso. L'una nasceva da considerazioni d'ordine biologico e si voleva positiva, l'altra si ispirava principalmente a considerazioni filosofiche, morali e umanitarie. Ma quando, nei paesi anglosassoni e poi altrove, il termine antropologia è giunto a coprire l'insieme delle ricerche prima ripartite fra questi due orientamenti, l'antropologia ormai qualificata come ‛fisica' ha dovuto meglio definire il suo ambito particolare di ricerca per distinguersi dagli altri due rami dell'antropologia definiti rispettivamente ‛sociale' e ‛culturale'.

È quindi rimasta per molto tempo controversa la questione se i gruppi umani che gli etnologi studiano debbano definirsi in primo luogo secondo la razza, vale a dire sulla base dei loro caratteri somatici, o sulla base di altri caratteri, quali la lingua o la cultura. Senza contestare il ruolo assegnato all'antropologia fisica negli studi di paleontologia umana - dove i resti ossei sono i principali e talvolta persino gli unici documenti dei quali si dispone - gli etnologi hanno manifestato una crescente diffidenza verso la propensione degli antropologi fisici a considerare i manufatti preistorici come dei semplici prolungamenti anatomici assimilabili a dei caratteri razziali. Si deve principalmente a F. Boas (1858-1942) - preceduto, su questa strada, da H. Hale (1817-1896) - l'aver definitivamente proposto le lingue e le culture come criteri principali di classificazione. Intitolando Race, language and culture la raccolta dei propri articoli che riteneva più importanti - raccolta edita nel 1940 -, Boas affermava una volta di più l'importanza che a suo avviso bisognava attribuire ai fatti linguistici e alle manifestazioni culturali.

La diffidenza degli etnologi verso gli studi di antropologia fisica si può spiegare in diversi modi. In primo luogo, cercando di definire le ‛razze', gli antropologi si servivano solamente dei caratteri somatici visibili, come la statura, il colore della pelle, la conformazione cranica, il tipo di capigliatura. Anche supponendo che in tutti questi campi le variazioni rilevabili fossero tra di loro concordanti, nulla proverebbe che esse lo siano anche con altri caratteri, non meno reali, ma nascosti.

In secondo luogo, i caratteri considerati non sono mai definibili in assoluto; essi si riducono a dei dosaggi e i limiti che si fissano loro hanno quindi carattere arbitrario. Siccome poi questi dosaggi aumentano o diminuiscono per gradazioni insensibili, le soglie che l'indagatore istituisce, qui o là, dipendono dai tipi di fenomeni che egli decide di considerare nel classificarli.

Su queste sole basi, la nozione di razza appare già molto fragile. Ridotta ai suoi contorni elementari - diciamo alla distinzione fra Bianchi, Negri e Gialli - essa non offre alcun aiuto all'etnologo che si trova davanti culture numerose e tra di loro molto diverse. Ora, l'esperienza prova ampiamente che sarebbe impossibile associare a ciascuna di queste culture un tipo razziale particolare. Il numero delle culture esistenti, o che esistevano ancora diversi secoli fa, sulla terra eccede incomparabilmente quello delle razze che i più meticolosi tra gli antropologi si sono applicati ad inventariare: diverse migliaia contro qualche diecina. Questo enorme divario tra i rispettivi ordini di grandezze spiega perché gli antropologi fisici e gli etnologi abbiano avuto, da un secolo a questa parte, poche occasioni di collaborare.

Ma soprattutto, gli elementi prescelti per determinare l'appartenenza razziale dei gruppi umani possono assolvere a questo compito solamente se sono sprovvisti di qualità di adattamento. Altrimenti non proverebbero nulla, giacché la loro presenza in tale o tal'altro gruppo non testimonierebbe in favore di una lontana origine: sarebbe soltanto il risultato della selezione naturale. Ora, praticamente tutti i caratteri razziali scelti nel passato dagli antropologi fisici si sono rivelati uno dopo l'altro dotati di qualità di adattamento. E niente permette di dire che non accadrà così anche per altri criteri che si vorrà sostituir loro.

Questa posizione ‛fissistica', connaturata all'antropologia fisica tradizionale, spiega come, nella seconda metà del XIX secolo, degli scienziati di stretta osservanza darwiniana come Th. H. Huxley e A. R. Wallace si siano - ancorché biologi - sentiti più vicini agli ‛etnologi' che agli ‛antropologi', a quel tempo in pieno conflitto. Più volentieri di questi ultimi, i primi - che aderivano alla tesi secondo la quale l'intera umanità discenderebbe da un'unica origine - dovevano per questo dare largo spazio all'evoluzione come causa della diversità attuale tra le razze: come ben dimostra l'esempio di E. B. Tylor.

Quali che siano le riserve degli etnologi, essi hanno tuttavia accettato di lavorare fianco a fianco con gli antropologi e anche - sia pure non senza ripugnanza e ripensamenti - di adottare la loro denominazione per designare l'insieme delle loro ricerche. Di qui questo carattere particolare dell'antropologia generale che, scienza umana per definizione, si colloca a cavallo tra le scienze umane propriamente dette e le scienze naturali dalle quali ancor oggi dipende l'antropologia fisica. Questa duplice appartenenza si giustifica pienamente in virtù delle conoscenze e dei metodi biologici di ricerca richiesti in antropologia fisica, ma essa non può nascondere un fatto che dovrebbe essere evidente a tutti: anche l'antropologia fisica rientra tra le scienze umane nella misura in cui, come si diceva nel XVIII secolo, l'uomo è un animale domestico e, cosa ancor più importante, è il solo tra gli animali domestici che si sia addomesticato da sé. Ancor più che per i cani, per i quali si potrebbe - senza cadere nell'assurdo - ricollegare le diverse varietà a cause naturali trascurando il ruolo dell'intervento umano, le differenze fisiche attuali tra i gruppi umani dipendono più dalle passate forme della loro esistenza sociale di quanto queste ultime possano esser considerate risultato delle prime.

L'evoluzione dell'uomo a partire da forme animali, la sua attuale distribuzione in gruppi detti razziali distinti sulla base di caratteri anatomici o fisiologici non è, e non può essere, oggetto di studio ‛naturale' dell'uomo. L'evoluzione umana, infatti, si è svolta in condizioni totalmente diverse da quelle che hanno regolato lo sviluppo delle altre specie viventi. Da quando l'uomo ha acquisito il linguaggio, ha lui stesso determinato le modalità della sua successiva evoluzione, il più delle volte senza averne coscienza. Ogni società umana modifica le condizioni della propria perpetuazione fisica con un complesso insieme di regole quali il divieto di incesto, l'endogamia, l'esogamia, il matrimonio preferenziale con un certo tipo di parenti, la poligamia o la monogamia, o con l'applicazione più o meno sistematica di norme sociali, morali, economiche o estetiche. Da questo punto di vista e benché essa faccia ricorso a conoscenze e a metodi che appartengono alle scienze naturali, l'antropologia fisica non è niente altro che lo studio delle trasformazioni anatomiche e fisiologiche risultanti, per una certa specie vivente, dalla comparsa della vita sociale, del linguaggio e di sistemi di valori. Questi sono, presso gli esseri umani, i fattori principali che modellano la selezione naturale e che orientano il suo corso. Quindi, lungi dal chiedersi, come si faceva nel XIX secolo e qualche volta ancora nel XX, se la cultura sia o no funzione della razza, si comincia oggi a comprendere come le differenze fisiche attualmente osservabili tra gli uomini siano, in larga misura, una funzione tra le altre della cultura.

Ora, questo cambiamento di prospettiva è in buona parte dovuto non all'antropologia fisica tradizionale, che certo non l'avrebbe ammesso, ma ai genetisti, e quindi ai biologi. Fondando la genetica delle popolazioni, essi hanno aperto la strada a un'antropologia fisica vitale, con la quale gli etnologi possono collaborare utilmente. Sostituendo il concetto di ‛tipo' con quello di ‛popolazione', il concetto di ‛razza' con quello di stock genetico, e dimostrando l'enorme differenza che separa i caratteri ereditari attribuibili all'azione di un solo gene da quelli - praticamente indeterminabili - che risultano dall'azione di più di uno, i genetisti hanno prima di tutto portato un colpo decisivo alle teorie fissistiche e, tra di esse, al razzismo. Hanno soprattutto ravvicinato i fenomeni biologici, colti ormai a un livello di grande precisione, ai fenomeni culturali. Invece di definire le popolazioni con la nozione illusoria e, a ben vedere, astratta di razza, le si caratterizza attualmente con la combinazione concreta, che si opera nel loro seno, di diversi patrimoni genetici.

Da allora un parallelismo almeno formale appare tra il ruolo svolto nella storia delle popolazioni da nuove combinazioni genetiche e quello che, per parte sua, vi assolvono nuove combinazioni culturali. I due aspetti dipendono da un'unica problematica: quella che caratterizza dei sistemi dove certi elementi svolgono un ruolo regolatore, altri esercitano un'azione concertata su un solo carattere, o il contrario se molti caratteri dipendono da un solo elemento. È chiaro che, se dei caratteri culturali, che non sono geneticamente determinati, possono influire sull'evoluzione organica, essi potranno anche influirvi in modi che determineranno azioni di ritorno. A condizione che si tenga conto di livelli intermedi, ci è ormai consentito sperare d'intravedere possibili correlazioni tra certi fatti sociali o culturali e certi fenomeni biologici.

4. Antropologia culturale e antropologia sociale

È difficile cogliere le sfumature che distinguono l'antropologia culturale dall'antropologia sociale senza ricorrere a considerazioni storiche. D'origine inglese, il concetto di cultura è stato definito da E. B. Tylor (1832-1917) come: ‟Quel complesso che comprende conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, costumi, e ogni altra capacità e consuetudine acquisite dall'uomo quale membro di una società" (v. Tylor, 1871, voi. I, p. 1). Tuttavia, il termine antropologia culturale è di uso corrente piuttosto negli Stati Uniti, mentre in Inghilterra si preferisce il termine antropologia sociale.

La ragione di questa differenza si spiega con le condizioni particolari della ricerca nei due paesi. L'antropologia americana si è, sin dal principio, applicata allo studio delle popolazioni indigene del Nuovo Mondo, studio che la loro distruzione fisica e la disintegrazione della loro vita sociale rendeva particolarmente urgente all'indomani della guerra di secessione, allorché il ritmo della colonizzazione interna s'accelerò. Ma, a quell'epoca, le società indiane erano largamente decomposte. Si trattava, quindi, di raccogliere più in fretta possibile gli ultimi vestigi sussistenti delle antiche culture, mentre esse non costituivano già più delle totalità integrate. Si potevano studiare le lingue, collezionare oggetti, osservare tecniche e costumi, trascrivere credenze, senza che questi elementi di culture in via di estinzione costituissero degli insiemi organici. Sopravvivevano dei frammenti dell'antica cultura ma, salvo in qualche caso, non c'era più società. Il compito dell'antropologia culturale, che si è per molto tempo identificata con la ricerca nordamericana, consisteva dunque nel raccogliere ciò che si poteva, là dove si poteva, e nei campi più disparati, come mostra l'eclettico indice della classica Introduction to cultural anthropology di R. H. Lowie - pubblicata a New York nel 1934: problemi razziali; caccia, pesca e raccolta; agricoltura; animali domestici; fuoco, cucina e alimentazione; vestito e acconciatura; case e villaggi; tecniche manuali; commercio e mezzi di trasporto; giochi e sport; arte; guerra; matrimonio e famiglia; clan; rango, etichetta, proprietà; governo e leggi; religione e magia; sapere tradizionale e conoscenze scientifiche.

È già significativo che le Notes and queries on anthropology - istruzioni e questionari pubblicati dal 1874 dalla British Association for the Advancement of Science a uso dei viaggiatori - offrano, all'epoca in cui fu scritta l'opera di Lowie, all'incirca le stesse rubriche, ma classificate secondo un ordine diverso: quelle concernenti la società vengono prima di quelle che si riferiscono alla cultura ‛materiale'. Quali che siano le ragioni che hanno portato a intitolare Antropologia Sociale la cattedra attribuita nel 1908 a J. G. Frazer dall'Università di Liverpool, questo nome rende almeno lo spirito di un insegnamento fondato sullo studio delle credenze e dei costumi, in opposizione a coloro che intraprendevano lo studio delle società esotiche dal punto di vista museografico o biologico. Ma la ragione del suo successo fra gli antropologi inglesi è diversa. Le popolazioni indigene dell'Impero britannico erano meglio preservate, nell'insieme, delle sventurate tribù indiane. Al contrario di queste ultime, esse costituivano delle società che funzionavano ancora e nelle quali, di conseguenza, gli sparsi e eterogenei elementi, dei quali gli etnologi americani dovevano, nella stessa epoca, accontentarsi sul loro terreno particolare, si trovavano integrati con altri in una vita sociale ancora attiva.

Con questo si spiegano le fisionomie diverse, ma complementari, che le ricerche antropologiche americane e inglesi hanno avuto per molto tempo. Le une facevano appello a una gamma di fenomeni più ricchi e diversificati, presi sia dalla cultura materiale che dalla cultura spirituale, ma che esse si limitavano spesso a giustapporre; le altre integravano saldamente fenomeni la cui gamma rimaneva, in compenso, più ristretta: famiglia, parentela, organizzazione sociale e politica, religione; e facevano un posto minore alla tecnologia, alla vita economica e all'arte, come se queste forme materiali di attività si situassero ad un livello secondario o periferico rispetto alla vita sociale definita in senso stretto.

Nei confronti delle tendenze a un tempo esigenti e restrittive dell'antropologia sociale inglese, l'antropologia culturale americana si sentiva tanto più sicura di sé in quanto, sin dal principio del nostro secolo, Boas aveva individuato i limiti che le erano propri e cercato, per una via originale, il modo di superarli. In mancanza di una società vivente, ogni elemento culturale doveva essere, secondo lui, ricollocato nella sua tradizione storica e nel suo contesto etnografico. Bisognava quindi ricostruire la storia locale di ogni piccola regione accessibile all'osservazione diretta, e ricercare come ogni elemento così determinato si integrasse nell'esperienza dei singoli membri della cultura considerata. In altri termini l'integrazione doveva compiersi dall'interno anziché dall'esterno, nell'esperienza storica dell'individuo membro della cultura, piuttosto che in una società concepita in funzione delle sue articolazioni obiettive e indipendentemente dal modo in cui la fanno propria quelli che ne fanno parte.

L'antropologia sociale era nata prendendo coscienza del fatto che tutti gli aspetti della vita sociale costituiscono un insieme significativo, e che è impossibile comprendere uno qualsiasi di tali aspetti senza ricollocarlo in mezzo agli altri. Contemporaneamente l'antropologia culturale, per influenza di Boas, giungeva a una concezione analoga, malgrado le vie seguite fossero diverse. Invece che nella prospettiva storica, che considerava il gruppo sociale come un sistema, essa si poneva in una prospettiva dinamica. Ma, domandandosi come la cultura si trasmetta attraverso le generazioni, essa giungeva alla stessa conclusione: il sistema delle relazioni che unisce tra loro tutti gli aspetti della vita sociale svolge un ruolo più importante, nella trasmissione della cultura, di quello svolto da qualsiasi aspetto preso isolatamente. Lo studio particolareggiato dei costumi e della loro collocazione nella cultura globale della tribù che li pratica, unito a un'indagine accurata sulla loro distribuzione geografica nelle tribù vicine, doveva permettere di determinare a un tempo le cause storiche che hanno condotto alla loro formazione e i processi psichici che li hanno resi possibili.

In questo senso si può dire che degli autori, sotto ogni altro riguardo diversi gli uni dagli altri, hanno, ciascuno a modo proprio, continuato i metodi e l'insegnamento di Boas. Mentre R. H. Lowie (1883-1957) ne accoglieva soprattutto l'aspetto critico, cosa che doveva condurlo alla sua celebre concezione della cultura come fatta di ‛pezzi e bocconi', A. L. Kroeber (1876-1960) cercava di ricostituire i mezzi della sintesi, da un lato rendendo un po' meno rigidi i criteri di validità molto stretti che Boas aveva imposto alle ricostruzioni storiche, e d'altra parte vedendo nella cultura un regno dotato di una relativa autonomia e di proprie leggi di organizzazione. Infine, con R. Linton (1893-1953), R. Benedict (1887-1949) e M. Mead (n. 1901), l'integrazione interna ricercata da Boas doveva, in forme del resto molto diverse, portare a mettere l'accento sul modo in cui ogni cultura è vissuta dal di dentro dagli individui o dai diversi tipi di individui che la compongono. Per parte sua, l'antropologia sociale britannica, meno tentata dall'orientamento psicologico e più da quello ispirato dai sociologi, ha cercato di integrare meglio e in modo più completo gli aspetti osservabili della vita in società. Essa doveva così dar vita al funzionalismo.

Al giorno d'oggi; dunque, le prospettive dell'antropologia sociale e dell'antropologia culturale tendono a congiungersi. I campi di studio che l'una e l'altra si assegnano sono diventati praticamente identici; differisce unicamente l'angolatura dalla quale ciascuna sceglie di affrontarli. L'antropologia culturale parte tradizionalmente dalle tecniche e dagli oggetti per giungere a quella tecnica suprema che è l'attività sociale e politica, che rende possibile e condiziona la vita in società. L'antropologia sociale, almeno dopo A. R. Radcliffe-Brown, parte dalla vita sociale per discendere, con Malinowski e i suoi continuatori, fino alle cose sulle quali essa imprime il suo marchio e alle attività con le quali essa si manifesta. Che l'antropologia si dichiari ‛sociale' o ‛culturale', essa aspira comunque a conoscere l'uomo totale, nell'un caso considerato a partire dalle sue produzioni, nell'altro a partire dalle sue rappresentazioni. La differenza diviene di punti di vista piuttosto che di oggetto; essa dipende dal temperamento e dai gusti dei ricercatori, che si traducono in sfumature che qualificano i lavori degli uni o degli altri come appartenenti ora all'ordine sociale, ora invece all'ordine culturale.

D'altra parte, nemmeno M. Mauss (1872-1950), che fu il primo ad impiegare in Francia, sin dal 1938, il termine antropologia sociale, avrebbe mai acconsentito a privilegiare certi aspetti della cultura o della vita in società. Lo studio della letteratura etnografica gli aveva rivelata l'esistenza di quello che doveva chiamare ‛fatto sociale totale', nel quale si assommano senza confondersi dei fenomeni giuridici, economici, religiosi, e anche estetici e morfologici.

A quell'epoca, lo studio della cultura materiale non era certamente negletto, né in Inghilterra né negli Stati Uniti. Ma, come abbiamo detto, in quest'ultimo paese esso contribuiva essenzialmente alle ricostruzioni storiche intraprese su scala locale secondo l'ottica di Boas, o continentale secondo quella di C. Wissler; mentre in Inghilterra l'ottica del Pitt-Rivers Museum di Oxford, per esempio, restava rispettosa dei precetti dettati da Tylor, secondo i quali la distribuzione geografica degli oggetti e la loro trasmissione da regione a regione devono essere studiati nello stesso modo in cui i naturalisti studiano la distribuzione geografica delle specie, animali o vegetali. Così concepito, lo studio della cultura materiale, che fornisce la base di partenza all'antropologia culturale, rischiava di separarsi completamente dalle ricerche svolte dall'antropologia sociale. Al contrario, Mauss percepiva molto acutamente che, come tutti gli altri fenomeni sociali, gli oggetti non si riproducono nel modo delle specie naturali, ma sono ogni volta il prodotto di un sistema di rappresentazioni. I diversi aspetti della tecnologia di una società costituiscono quindi un insieme significativo, così come la stessa tecnologia messa in relazione con gli altri aspetti caratteristici della vita di una società: economico, sociale, politico, giuridico, estetico, religioso... Per questa via, e nella linea dell'insegnamento di Mauss, l'opera di A. Leroi-Gourhan dimostra che la tecnologia può essere studiata sul piano formale come l'antropologia sociale fa con le istituzioni. Tanto per i loro fini ultimi quanto per i metodi paralleli che l'una e l'altra mettono in opera, l'antropologia culturale e l'antropologia sociale finiscono così per cancellare le loro antiche divergenze di orientamento. Si può dire che oggi esse si confondono, salvo che per differenze d'accento.

5. Evoluzione e ‛diffusionismo'

La disputa tra evoluzionismo e diffusionismo traduce sul terreno della cultura quella tra monogenismo e poligenismo nell'ambito della natura. La tradizione razionalista del sec. XVIII manteneva la speranza che, conformemente a quanto accade per la natura fisica, sia possibile identificare le leggi di una natura umana ovunque uguale a se stessa, che, pur sviluppandosi a un ritmo non uniforme, attraversi sempre i medesimi stadi.

Così, il concetto di ‛evoluzione' è, in sociologia e in antropologia, assai anteriore alla sua formulazione biologica. È però ben vero che le teorie darwiniane gli apportarono un potente aiuto. Gli antropologi della seconda metà del XIX secolo hanno avuto la costante tendenza ad insistere sulle somiglianze fra le culture e a sottovalutarne le differenze. Essi si sforzavano di ricondurre queste ultime ai diversi stadi di un processo unilineare, del quale tutte le società dovevano necessariamente percorrere le tappe per raggiungere un livello finale, praticamente definito in funzione delle credenze e dei costumi della società e dell'epoca ai quali questi studiosi appartenevano; ed erano i costumi e le istituzioni più diversi dai loro che essi ponevano al principio di una evoluzione sempre orientata nello stesso senso. L'intera storia dell'umanità si riduceva a una successione logicamente ordinata di stadi, che veniva illustrata prendendo a prestito dagli etnografi le testimonianze appropriate. Come Radcliffe-Brown ha sottolineato, si elaborava così una storia arbitraria e congetturale, dominata da pregiudizi morali e sociali. Tutte le forme osservabili di vita, di attività e di pensiero, erano classificate in rapporto a quelle familiari ai teorici, e considerate solo per questo come le più avanzate sulla strada di un comune progresso.

Tuttavia l'osservazione etnografica doveva presto convincere che le culture non nascono e non crescono spontaneamente, come delle piante nate da semi identici e semplicemente seminati più o meno presto nella stagione. Una storia anche superficiale testimonia che fra le culture si producono dei contatti, si allacciano dei legami o sorgono degli antagonismi, e in conseguenza di ciò certi aspetti di ogni cultura si trasformano; esse si mutuano degli elementi e, in modo positivo o negativo, si influenzano reciprocamente. Tylor, che con Klemm è considerato uno dei fondatori della teoria evoluzionista, aveva avuto cura di raccomandare le ricerche storiche e, sin dal 1896, Boas si scagliava contro gli abusi del comparativismo. Tuttavia è in Germania ed in Austria, con i lavori di F. Graebner(1877-1934), di L. Frobenius (1873-1938) e del padre W. Schmidt (1868-1954), che dovevano prendere forma il metodo e la teoria della diffusione fondati sull'inventario minuzioso dei caratteri culturali e sullo studio della loro distribuzione geografica. Lo scopo era duplice: da una parte determinare aree culturali definite dalla predominanza o dalla presenza esclusiva di certi caratteri o insieme di caratteri; dall'altra, per ciascuna di queste aree, scoprire centri di origine a partire dai quali questi caratteri si sarebbero diffusi in tutta l'area o anche al di fuori.

Quali che siano l'interesse e l'utilità di queste ricerche, esse dovevano ben presto cadere in un eccesso inverso a quello dell'evoluzionismo, escludendo da una parte ogni possibilità di invenzione indipendente e, dall'altra, trascurando un tipo di fenomeno sul quale Boas aveva vigorosamente richiamato l'attenzione: la convergenza, vale a dire l'apparente e superficiale identità acquisita da elementi che, in origine, potevano essere completamente diversi, sotto l'influsso di condizioni anch'esse variabili.

Vittime dello spirito di sistema, i diffusionisti elaborano dunque una storia che non è meno congetturale e ideologica di quella alla quale conduceva l'evoluzionismo. Spezzettando le specie del comparativista per cercare di ricostituire degli individui - intendiamo qui dei fenomeni o gruppi di fenomeni individualizzati dalla loro collocazione nello spazio e nel tempo - il diffusionista impiega delle coordinate spaziali e temporali che risultano dal modo in cui gli elementi furono scelti e composti fra loro, invece di conferire esse all'oggetto una unità reale. Allo stesso titolo degli ‛stadi' dell'evoluzionista, i ‛cicli' o ‛complessi' culturali del diffusionista sono il frutto di un'astrazione alla quale mancheranno sempre prove testimoniali. Così, i continuatori di ricerche dette ‛storico-culturali' e in particolare P. Rivet in Francia e P. Laviosa Zambotti e V. L. Grottanelli in Italia hanno, ciascuno nel proprio campo particolare, moderato le pretese iniziali dei fondatori.

La critica parallela dell'evoluzionismo e del diffusionismo, instancabilmente condotta da Boas, ha le sue radici nell'insegnamento di A. Bastian (1826-1905), il quale escludeva la possibilità di scoprire le cause della formazione di idee che si svilupperebbero necessariamente presso tutti gli uomini. Nessuna fonte comune può essere assegnata a idee, invenzioni, costumi e credenze universalmente diffuse: esse possono avere origini diverse, ma che resteranno sempre sconosciute. Si deve dunque partire dal fatto che esse esistono come ‛idee elementari'. Queste ultime si combinano in varie maniere nelle diverse culture, fra le quali si producono anche degli scambi e dei prestiti. Ne risultano svariate combinazioni che appaiono o scompaiono nel corso della storia, la cui origine particolare può essere ricostruita a condizione che si disponga di prove sufficienti. Il pensiero di Bastian costituiva dunque un dosaggio moderato di evoluzionismo e di diffusionismo e poneva l'accento sul carattere - in ultima analisi psicologico - dei fatti di cultura. Questo duplice orientamento permane in tutti coloro che, sulle orme di Boas, restringono gli studi di diffusione a aree geografiche sufficientemente piccole da offrire la certezza che fra i loro abitanti siano esistiti rapporti storici, e nel lavoro di interpretazione danno il primo posto al contesto etnografico e all'espressione psicologica conscia o inconscia che ogni popolazione propone, a se stessa e alle altre, delle proprie credenze ed istituzioni.

D'altra parte l'evoluzionismo biologico, che aveva così potentemente rafforzato la concezione di progresso unilineare delle culture e delle società, doveva esso stesso evolvere, e in un senso che si potrebbe chiamare boasiano. I biologi si sono accorti che quello che essi avevano preso per un'evoluzione sottomessa ad alcune semplici leggi nascondeva una storia molto complessa. Al concetto di un tragitto che le diverse forme viventi dovrebbero percorrere le une dopo le altre nello stesso senso, si è prima sostituito quello di un albero che permetta di stabilire tra le specie dei rapporti di parentela, se non sempre di filiazione; quindi l'albero stesso si è trasformato in un cespuglio o in un traliccio, figura le cui linee si congiungono e divergono con la stessa frequenza. La descrizione storica di questi ingarbugliati sentieri viene a sostituire i diagrammi troppo semplicistici nei quali si credeva di poter fissare, in antropologia come in biologia, le vie molteplici e talvolta regressive che hanno seguito non uno, ma molti tipi di processi evolutivi, diversi per ritmo, senso ed effetti.

Il relativismo culturale, che ha la sua origine prossima in Boas, rinuncia quindi all'idea di un progresso continuo lungo una strada sulla quale il solo Occidente avrebbe bruciato le tappe mentre le altre società sarebbero rimaste indietro. Esso le sostituisce il concetto di scelte operate in direzioni diverse, e tali che ogni cultura si espone a perdere in una o più direzioni ciò che essa ha voluto ottenere in altre. Lungi dall'affermare che la civiltà occidentale debba apparire come l'espressione più avanzata dell'evoluzione delle società umane, e i gruppi cosiddetti primitivi come sopravvivenze di tappe anteriori la cui gerarchizzazione logica fornisce insieme l'ordine di comparsa nel tempo, il relativismo culturale si ispira piuttosto alla sicura percezione dei molteplici parametri secondo i quali è possibile ordinare i fatti di cultura, in modo che nessuna società si situa mai allo stesso livello contemporaneamente per tutti gli aspetti.

L'obiezione relativista è senza dubbio ancora valida contro le tendenze neoevoluzioniste che si fanno strada, soprattutto negli Stati Uniti, in L. White come in M. Harris. Il primo ha proposto di ordinare tutte le società secondo un criterio unico: la quantità media di energia disponibile per abitante. Ma numerose società senza scrittura non differiscono sensibilmente fra di loro da questo punto di vista, e il ricorso ad altri criteri sarebbe dunque indispensabile se si volesse assegnare a ciascuna un posto in una gerarchia. Al contrario potrebbe darsi che certe tecniche di classificazione, come le scale di Guttman, possano consentire, se non proprio di definire uno schema unico di evoluzione, almeno di individuare delle sequenze evolutive significative per certi insiemi di fenomeni culturali entro limiti storici e geografici determinati. Per questa via le vecchie idee di Bastian ritroverebbero una certa attualità: si potrebbero definire in modo preciso nella storia delle società umane delle sequenze evolutive non necessariamente orientate tutte nello stesso senso, mescolate a fasi indistinte di disordine, di stagnazione o di regressione e, tutte assieme, variamente combinate tra di loro e con fenomeni di diffusione.

6. Metodo comparativo e metodo storico

L'antropologia del XIX secolo è dominata tutta dal metodo comparativo. Il suo ideale è di costituire una scienza sull'esempio di quelle della natura, fondata sull'osservazione e la classificazione di un considerevole numero di fatti rilevati dalle culture più diverse e dai quali si spera di ricavare induttivamente leggi di funzionamento e di evoluzione. Nell'ambito di questa concezione, infatti, le società sono assimilabili a sistemi naturali, quali gli organismi; si possono quindi studiare in maniera empirica le loro diverse manifestazioni, classificarle, individuarne dei tipi e stabilire tra tutti questi fenomeni rapporti di correlazione.

Si deve molto al metodo comparativo, non foss'altro d'aver proceduto a compilare l'inventario sistematico di tutte le informazioni disponibili dalle più antiche alle più recenti, di averle registrate e ordinate, e di aver richiamata l'attenzione su un gran numero di caratteri comuni a culture contemporanee, diverse in quanto a situazione geografica, oppure comuni a culture esotiche e al passato delle nostre civiltà. Opere quali The golden bough, Totemism and exogamy, Folklore in the Old Testament di J. Frazer (1854-1940) sono degli insostituibili repertori di fatti etnografici ai quali ci si può sempre riferire, mentre hanno anche il merito di operare ogni sorta di riavvicinamento tra credenze e costumi ricorrenti in un gran numero di società. Anche quando l'interpretazione di questi fatti ricorrenti ci sembra oggi ingenua e superata, si deve riconoscere che questi problemi potevano e dovevano essere posti.

Gli storici furono fra i primi a mettere in dubbio la comparazione e i suoi metodi. Per comprendere l'evoluzione della famiglia romana, è meglio confrontarla con la famiglia cinese, ebrea o azteca, oppure limitarsi a un caso unico, e ricercare come si spiegano gli uni con gli altri gli aspetti che caratterizzano una certa fase della vita di una società e il suo divenire particolare? La tendenza enciclopedica esponeva i comparativisti a due gravi pericoli. Da un lato essi ponevano su un unico piano - quello, appunto, della comparazione - dati appartenenti a fasi molto diverse dell'evoluzione delle società che consideravano. Dall'altro essi isolavano in funzione di categorie preconcette - quelle cioè della loro propria società - moltitudini di aspetti spesso indissociabili gli uni dagli altri e, il che è ancor peggio, che potevano spesso appartenere a tipi eterogenei quando li si riconduceva al contesto sociale e culturale dal quale ciascuno d'essi era stato estratto per le necessità della comparazione.

Sotto l'influsso di Boas negli Stati Uniti e di Malinowski in Inghilterra, l'antropologia si sarebbe prestissimo discostata da questa applicazione meccanica del metodo comparativo per volgersi alla monografia, vale a dire allo studio intensivo - condotto da un ricercatore che fosse anche un osservatore sul campo - del sistema delle istituzioni, degli usi e costumi di una società particolare, colti nelle loro reciproche relazioni e nel loro sviluppo storico, nella misura in cui - in mancanza di archivi - esso può essere indirettamente ricostruito. Come esempi di questo nuovo orientamento, oltre alle opere di Malinowski sugli indigeni delle isole Trobriand, ricorderemo, a mo' d'esempio, quelli di R. Firth sull'isola Tikopia, di G. Bateson e di R. Fortune su alcune società della Melanesia, di M. Fortes sui Tallensi, di E. E. Evans-Pritchard sugli Azande e sui Nuèr, di E. R. Leach su due società della Birmania e di Ceylon.

Sin da allora si pose la questione dei rapporti metodologici dell'antropologia, non più soltanto con le scienze della natura, come volevano i sostenitori del metodo comparativo, ma anche con le scienze umane tradizionali, e più particolarmente con la storia. A un anno di distanza Lévi-Strauss (1949) ed Evans-Pritchard (1950) formulavano indipendentemente il problema quasi negli stessi termini, sottolineando che i comparativisti che si credono storici elaborano in realtà una storia ideologica e congetturale che tutti gli storici sconfesserebbero, mentre gli etnologi - preoccupati di tradurre, nel linguaggio della loro cultura, la vita e il pensiero di una società indigena colta nel momento presente - lavorano come storici che siano limitati dalla stessa assenza o carenza di documenti scritti.

L'opposizione fra metodo comparativo e metodo storico si riflette sui rispettivi punti di vista di due eminenti maestri della scuola inglese: A. R. Radcliffe-Brown (1881-1955) ed E. E. Evans-Pritchard (n. 1902). Per il primo l'antropologia, che sovente egli preferisce chiamare sociologia, è una scienza induttiva che mira a inferire proposizioni generali dalla considerazione di esempi particolari; essa si fonda quindi sullo studio comparativo e sistematico di un gran numero di società. A ciò il secondo obietta che queste pretese ‛leggi' sociologiche si dimostrano di carattere speculativo, sono troppo generali per presentare un qualche interesse e, come già aveva detto Boas, si riducono il più delle volte a banalità e a tautologie. Esse ci insegnano meno degli studi sul campo, nei quali i comportamenti individuali sono ricondotti al contesto sociale, e dove i diversi aspetti di quest'ultimo sono correlati sia da un punto di vista funzionale che storico.

Un quarto di secolo dopo questi dibattiti appare meno certo che i due punti di vista siano inconciliabili. Le critiche avanzate contro il metodo comparativo provenivano, infatti, almeno in parte, dal fatto che nella maggior parte dei casi si comparava e si generalizzava sulla base di descrizioni dovute a viaggiatori o missionari del passato, vale a dire di documenti la cui qualità era talvolta dubbia. Oppure, se si utilizzavano fonti migliori, queste erano impoverite dal fatto di essere - per le necessità della comparazione - messe sullo stesso piano delle più scadenti. Oggi che l'antropologia dispone di analisi ben localizzate nel tempo e nello spazio, tra i fenomeni appaiono rapporti più profondi di quelli dei quali ci si accontentava sulla base di uno studio superficiale. Via via che i contenuti divengono più ricchi e più complessi e che si accresce il numero delle loro angolazioni, certe proprietà comuni risaltano, al di là di questo o di quell'altro aspetto con i quali dapprima si era portati a confonderli.

Grazie, dunque, agli studi ispirati al metodo storico si è meglio in grado di superare lo stadio della frammentazione per accedere a quello dell'analisi reale. Come il linguista che, dalle parole, estrae la realtà fonetica del fenomeno e quindi, da quest'ultima, la realtà a un tempo logica e fisica degli elementi differenziali, lo storico e l'antropologo possono ambedue sperare di raggiungere un livello sufficientemente profondo per non confrontare più esseri individualmente distinti ma per individuare al contrario elementi invariabili, il cui ricorrere in combinazioni sempre diverse garantisce l'identità di fenomeni superficialmente differenti.

Al contrario di quanto si credeva una volta, cioè che la comparazione fonda la generalizzazione, si scopre che è vero il contrario: la generalità di certe costanti serve da base alla comparazione.

D'altra parte, il progresso delle tecniche di documentazione e dei metodi statistici, di cui Tylor aveva già preconizzato l'impiego, ha consentito a O. P. Murdock (n. 1897) di intraprendere la realizzazione di un programma che era stato tracciato sin dalla fine del secolo scorso dall'olandese R. Steinmetz (1862-1940): l'inventario e l'analisi tipologica di tutte le culture conosciute, tanto primitive che storiche e contemporanee. In corso da circa trentacinque anni questo cross-cultural survey, corredato da un ‛atlante etnografico', è servito da base non soltanto a Social structure (1949), l'importante opera del suo iniziatore, ma a molteplici studi, condotti con l'ausilio di calcolatori elettronici, sui rapporti di correlazione o di incompatibilità tra due o più caratteri culturali.

L'impresa di Murdock ha consentito di porre il metodo comparativo su un altro piano, fornendogli materiali più numerosi, meglio accettati, definiti in maniera più precisa ed esatta. Esso ha così trovato nuovi adepti, quali l'americano R. B. Textor e l'olandese A. J. Köbben. Come ha fatto notare quest'ultimo, l'antropologia è ormai giunta a un grado di sviluppo nel quale l'approccio storico-funzionale e l'approccio comparativo possono collaborare anziché perpetuare la loro antica rivalità. È grazie ai progressi del primo che il secondo è oggi in grado di affinare i suoi dati e di sceglierli allo stesso livello. Reciprocamente, il metodo comparativo - con l'ausilio di strumenti statistici - mette in evidenza delle costanti che toccherà poi all'altro metodo di studiare e di interpretare nei vari casi particolari. Ancora, l'analisi comparativa può aiutare gli etnologi che effettuano studi sul campo a verificare se una certa particolarità, osservata in una società, si ritrova in altre, in quale proporzione e a quale grado. Si dovrà tuttavia far attenzione a non dimenticare che le costanti statistiche segnalano i problemi, ma che soltanto l'osservazione delle società reali e degli individui che le compongono porta alle soluzioni.

7. Funzionalismo, strutturalismo

L'una opposta all'altra, le ricostruzioni degli evoluzionisti e dei diffusionisti ci appaiono entrambe come delle pseudostorie, appartenenti in un caso all'ambito del romanzo filosofico, nell'altro a quello del romanzo archeologico. Da ciò la reazione che si sviluppa, all'incirca nello stesso periodo, in Radcliffe-Brown e in Malinowski. Poiché è impossibile comprendere le società senza scrittura in funzione di un passato realmente vissuto dai loro membri e attestato da documenti, è preferibile, si proclama, rinunciare alla storia e studiare tali società per come esse funzionano nel momento in cui le si osserva.

Tra il 1916 ed il 1918 Malinowski (1884-1942) trascorse per due volte un anno intero fra gli indigeni delle isole Trobriand, a est della Nuova Guinea. Inaugurò così una nuova forma di ricerca etnologica, fondata sulla conoscenza della lingua e su un'intima partecipazione dell'osservatore alla vita delle società che studia. Invece di raccogliere fatti sparsi, egli scoprì allora che i diversi aspetti della cultura indigena si integrano in una totalità; egli imparò a conoscerla dal di dentro, quale la sentono i membri stessi della cultura, ed è quest'esperienza vissuta che cercò di restituire.

Ogni istituzione particolare si manifesta così legata a tutte le altre: gli scambi commerciali al diritto e all'organizzazione politica, e tutti e tre insieme alla tecnologia da un lato, alla religione e alla magia dall'altro. Le culture, i cui elementi inerti erano fino ad allora collezionati come degli esemplari entomologici, si mettono finalmente a vivere: e dei settori completamente ignorati si aprono all'indagine, quali quelli della vita sessuale e delle pratiche giuridiche.

Ormai nessun etnologo penserà più a lavorare in una prospettiva diversa da quella tracciata da Malinowski. Gli aspetti teorici della sua opera invece sono stati spesso criticati. Egli ha avuto una eccessiva tendenza a tradurre il disprezzo per la storia in sistema, senza tener conto che gli studi ch'egli preconizzava erano necessariamente storici, malgrado questa ‛storia' potesse essere limitata al breve spazio di qualche mese o anno. E poiché l'etnologo - ch'egli lo voglia o meno - fa della storia, non ha motivo di rifiutare gli insegnamenti di una storia più antica se ha la possibilità di accedervi. Ma soprattutto, dalla scoperta che anche i costumi più bizzarri e sorprendenti agli occhi dell'osservatore straniero hanno una loro funzione per la società che li pratica, Malinowski è giunto a predicare una sorta di ottimismo etnologico: ogni società è tanto buona quanto può esserlo date le condizioni nelle quali si trova, e tutte le istituzioni si spiegano, in definitiva, con la risposta che esse dànno a bisogni universalmente presenti in tutti gli uomini. Ora, è indiscutibile che esistono dei bisogni universali il cui studio rientra perciò nel campo della biologia o della psicologia. Ma a voler ridurre tutto a ciò, l'etnologo rischia di dimenticare che il suo compito specifico consiste nel descrivere e analizzare le differenze tra i modi in cui questi bisogni si manifestano nell'una o nell'altra società.

Lo studio delle società viventi come insiemi organici doveva condurre Radcliffe-Brown a concezioni assai diverse. Egli era stato allievo di W. H. R. Rivers (1864-1922), che fu in Inghilterra il teorico e il promotore degli studi sulla parentela ma che, verso la fine della sua vita, si era lasciato sedurre dal diffusionismo estremo di G. E. Smith e di W. J. Perry. Fedele al primo aspetto dell'insegnamento di Rivers, ma in reazione molto accesa contro il secondo, Radcliffe-Brown si oppose agli abusi delle scuole evoluzionista e diffusionista con l'ambizione di fare dell'antropologia una scienza induttiva che, come le scienze naturali, osservasse i fatti, formulasse ipotesi, le sottoponesse al controllo dell'esperienza e scoprisse leggi generali della natura e della società.

Contrariamente a Malinowski, Radcliffe-Brown rimane un comparativista. Il suo principale sforzo verte sullo studio e la teoria generale delle regole di matrimonio e dei sistemi di parentela, campo immenso aperto sin dal 1871 alla ricerca dall'americano L. H. Morgan (1818-1881), del quale è del resto noto il ruolo nell'ambito della corrente evoluzionista.

Radcliffe-Brown ha completamente rinnovato gli studi sulla parentela sforzandosi di cogliere, al di là della diversità degli usi e dei costumi, dei ‟principi generali in numero limitato che sono applicati e combinati in diversi modi". A lui si deve l'aver distinto e ridefinito tutte le nozioni di base indispensabili, e aver formulato metodi di ricerca semplici ed eleganti a un tempo, largamente ispirati a quelli della scuola di Durkheim, di cui ha sempre riconosciuto l'influsso sul suo pensiero.

È senza dubbio l'opera di M. Fortes (n. 1906) che, in Inghilterra, rappresenta l'aspetto più ricco e fecondo della tradizione che si rifà a Radcliffe-Brown. Essa s'è perpetuata anche in Australia, nell'opera di W. E. H. Stanner e in quella di A. P. Elkin (n. 1891), continuate entrambe da una nuova generazione di ricercatori - tra i quali citiamo R. e C. Berndt, L. R. Hiatt, M. Meggitt - che, anche quando si oppongono a Radcliffe-Brown circa l'interpretazione di fatti australiani, non fanno comunque che proseguire sulla strada aperta da lui.

Per altri aspetti, tuttavia, Radcliffe-Brown restava imbevuto di naturalismo, e l'influenza di Spencer combatte, in lui, con quella di Durkheim. È dal primo che Radcliffe-Brown ha ripreso la nozione di ‛struttura sociale' definita per analogia con la struttura organica. Sempre nella linea di questa tradizione, egli riduce la struttura sociale all'insieme empiricamente determinato delle relazioni sociali osservabili in una data società. Malgrado il carattere formale che egli ha saputo dare all'analisi delle regole di matrimonio e dei termini di parentela, egli concepisce la famiglia come una realtà biologica, e cerca di derivare i sistemi di parentela, presi al livello più complesso, da alcune relazioni elementari inerenti - a suo avviso - a tale natura biologica della famiglia nucleare.

Se quindi Radcliffe-Brown si situa nel punto d'incontro del funzionalismo e dello strutturalismo, ciò accade perché in lui l'influenza della scuola sociologica francese si scontra con la tradizione empirista e naturalista prevalente in Inghilterra. In sostanza l'antropologia strutturale, sviluppata da Cl. Lévi-Strauss a partire dal 1945, si situa dal canto suo a un altro punto nodale: quello in cui convergono gli insegnamenti della scuola sociologica francese, e principalmente di M. Mauss, con la linguistica strutturale che ha origine da F. De Saussure, quale la Scuola di Praga l'ha sviluppata.

Ancor prima si era manifestata in Olanda una corrente strutturalista, anch'essa derivante dalla Scuola sociologica francese; a tale corrente sono legati i nomi di P. E. de Josselin de Jong, W. H. Rassers, F. A. E. van Wouden, G. J. Held. Un orientamento analogo si va attualmente sviluppando in Belgio grazie a L. de Heusch e in Canada con P. ed E. Maranda.

L'antropologia strutturale parte da due ordini di considerazioni. Da un lato le istituzioni, credenze e costumi dell'umanità offrono un quadro incredibilmente disordinato e complesso dietro al quale l'antropologo deve scoprire un ordine e delle ragioni. D'altra parte questo compito, che è quello di ogni ricerca che si voglia scientifica, è reso estremamente difficile dal fatto che le variabili agenti nei fenomeni umani sono incomparabilmente più numerose di quelle con le quali hanno a che fare le scienze fisiche e naturali. Ora, la linguistica strutturale ha mostrato che nello studio dei fatti linguistici le relazioni tra fenomeni potevano essere più semplici e più facilmente intelligibili che gli stessi fenomeni; i suoi decisivi progressi derivano dall'aver spostato l'attenzione dallo studio dei fenomeni in sé allo studio delle loro relazioni.

Poiché il linguaggio è un fatto sociale, non v'è motivo perché questo indirizzo epistemologico non possa dare gli stessi risultati applicato a fatti sociali d'altra natura. Lo studio dei fenomeni di parentela ha dimostrato fin dal 1949 che, riducendo tutte le regole di matrimonio a delle relazioni di scambio, si potevano ‛generare' - come più tardi dirà la grammatica trasformazionale - dei costumi preferenziali d'unione che sembravano a prima vista arbitrari o addirittura contraddittori tra di loro, averne uno sguardo d'insieme e articolarli in un sistema coerente.

L'antropologia strutturale si è in seguito rivolta alla mitologia, cercando di mostrare che il discorso mitico di un gran numero di società tra le quali si possono postulare dei rapporti storici e geografici si poteva ricondurre a un vasto gruppo di trasformazioni: alcuni miti semplici, forse anche uno soltanto, producono altri miti che rimangono uniti ai primi da rapporti di correlazione, di simmetria e di inversione. Le culture assumono così l'aspetto di codici destinati allo scambio o alla comunicazione. Lo studio dei contenuti culturali si subordina a quello delle sintassi. Si tratta ormai di raggiungere e di isolare delle proprietà raffrontabili dal punto di vista formale, e di stabilire fra di esse dei rapporti di trasformazione. Ma, in fin dei conti, questo trattamento formale avrà valore soltanto in quanto consentirà di ritornare ai fatti di osservazione dai quali si era partiti, di collegarli meglio fra loro e di proporne delle interpretazioni più economiche e dotate di un maggior valore esplicativo.

Lo strutturalismo antropologico ha suscitato in Inghilterra dei tentativi di compromesso con il funzionalismo e l'empirismo; così in R. Needham, D. Maybury-Lewis ed E. R. Leach. Negli Stati Uniti il riavvicinamento metodo- logico che si era prodotto - per influsso di Boas - tra linguisti e antropologi, ha dato origine a due importanti sviluppi. L'analisi componenziale riprende lo studio dal punto di vista linguistico della terminologia relativa alla parentela; essa analizza i comportamenti verbali connotati da ciascun termine per estrarne dei significati elementari, le diverse combinazioni dei quali devono permettere di interpretare e di ricostruire ogni termine, dimostrando così l'interna coerenza del sistema, e di dedurne a priori delle proprietà necessarie che sarebbero altrimenti sfuggite all'osservazione (W. H. Goodenough, F. G. Lounsbury).

Su una strada parallela, ma in uno spirito di maggior concretezza, i cosiddetti studi di ‛etnoscienza' si sforzano di ricavare i sistemi cognitivi delle società senza scrittura a partire da alcuni ambiti lessicali quali le tassonomie esplicite o implicite - classificazioni di piante, di animali, di parti del corpo, di malattie, di colori, ecc. - che testimoniano di un grado di organizzazione interna più alto del resto del vocabolario. Come lo strutturalismo francese, queste ricerche tendono a evidenziare gli aspetti più propriamente intellettuali del pensiero e dell'attività di società caratterizzate dal loro basso livello tecnico e alle quali si era per troppo tempo negata l'attitudine al pensiero logico

(H. C. Conklin, W. C. Sturtevant, Ch. Frake, B. Berlin, P. Kay), illusione contro la quale prendeva posizione, per parte sua, Cl. Lévi-Strauss nel suo La pensée sauvage (1962).

8. Altri settori di ricerca

Oltre a quelli che abbiamo appena ricordati, la ricerca antropologica attuale si sviluppa in diversi altri settori.

Lo studio dei sistemi politici è stato posto all'ordine del giorno dalla pubblicazione del volume African political Systems, opera collettiva diretta da M. Fortes ed E. E. Evans-Pritchard (1940). Il problema così posto è assai difficile, perché in un gran numero di società senza scrittura le funzioni di carattere politico non sono dissociabili da altre, di carattere familiare (come i rapporti di parentela) o religioso. Si è giunti dunque a elaborare una tipologia ai cui estremi si collocano società con Stato e società cosiddette ‛senza Stato', ma con tutta una gamma di società intermedie fra di esse. Questa tipologia si complica per il fatto che lo studio dei fenomeni politici implica sempre una dimensione storica, e che non si può parlare, per essi, unicamente di strutture, ma anche di processi. Di qui lo sforzo per cogliere i fenomeni di questo tipo nella loro realtà dinamica, sforzo al quale sono associati i nomi di M. Fried negli Stati Uniti, M. Gluckman, I. Schapera, S. F. Nadei, L. Mair, J. Middleton in Inghilterra, G. Balandier in Francia, F. Barth in Norvegia, J. Maquet in Belgio. Uno studio comparativo della filosofia politica in Oriente (soprattutto in India) e in Occidente ispira i lavori di L. Dumont (v., 1966).

L'opera di K. K. Polanyi, C. M. Arensberg, H. W. Pearson, Trade and market in the early empires (1957), ha segnato il rinnovamento dell'antropologia economica, il cui studio era stato inaugurato nel 1896 dal tedesco E. Hahn, continuato dal suo compatriota R. Thurnwald, dagli inglesi D. C. Forde e R. Firth, e dall'americano M. Herskovits. Un dibattito assai aspro si sviluppa da allora fra ‛sostantivisti' e ‛formalisti' sulla possibilità di applicare alle società senza scrittura le nozioni, le categorie e le distinzioni della scienza economica tradizionale, elaborate in funzione di una certa concezione, occidentale, dell'homo øconomicus, concezione che molti contestano si possa trasporre altrove. Il concetto di ‛calcolo economico' può avere un significato in assenza di moneta? E anche ammesso che esista in certe società dette ‛primitive', deriva solo dall'analisi economica e non anche dalla politica, dalla magia, dalla religione e dall'arte?

Oltre che da queste considerazioni teoriche, l'antropologia economica ha ricevuto un impulso dalle ricerche sul campo condotte da una ventina d'anni a questa parte in Melanesia e in Polinesia, in società in cui il sistema dei diritti fondiari sembra avere un'influenza altrettanto determinante, se non addirittura maggiore, dei legami di parentela.

Gli studi di antropologia religiosa hanno una lunga tradizione, ma sono stati rinnovati in Francia da M. Leenhardt (1878-1954) - che fu influenzato da Lévy-Bruhl - e da J. Guiart, per la Melanesia; da M. Griaule (1898-1956) e G. Dieterlen, per l'Africa. Questi ultimi hanno rivelato l'esistenza di grandi sistemi metafisici e cosmologici in regioni dell'Africa occidentale, nelle quali la loro esistenza non era sospettata. R. Bastide in Francia, E. Muhlmann in Germania, V. Lanternari in Italia si interessano piuttosto a fenomeni di sincretismo. J. Soustelle si consacra esclusivamente al Messico. In Inghilterra si citeranno soprattutto i lavori di E. E. Evans-Pritchard sulla religione degli Azande e dei Nuèr, di G. Lienhardt su quella dei Dinca e, in un campo più teorico, quelli di M. Douglas, peraltro specialista dei Lélé. Sempre ai culti africani sono dedicati in Belgio i lavori di L. de Heusch e, negli Stati Uniti, quelli di V. Turner. Nell'ambito dell'indirizzo tracciato da R. Pettazzoni, gli studi di antropologia religiosa furono e continuano a essere attivamente condotti in Italia da E. De Martino, T. Tentori e dal padre L. Vannicelli. Infine, la corrente strutturalista olandese, alla quale già abbiamo fatto cenno, nasce dalle ricerche sui sistemi cosmologici e religiosi dell'Indonesia (A. Ch. Kruyt, Wilken).

Nel campo dell'arte, le vecchie ricerche di Boas e di A. C. Haddon sono state continuate in Germania, in Australia e in Francia, dove si ricorderanno i nomi di M. Leiris per l'arte africana, di J. Guiart per l'arte dell'Oceania. Più lentamente l'etnomusicologia si va costituendo come una disciplina autonoma in seno all'antropologia.

I problemi posti dalla letteratura orale risvegliano un nuovo interesse da quando, tanto in Europa che negli Stati Uniti, è stata - sia pure tardivamente - conosciuta l'opera di V. Y. Propp (1895-1970) sulle fiabe russe. Sotto l'influenza sua e di P. Bogatyrëv una scuola molto attiva si consacra attualmente, in Unione Sovietica, allo studio - condotto da un punto di vista formale - delle tradizioni popolari (J. Lotman, E. Meletinskij, V. V. Ivanov, V. N. Toporov); analoga ricerca si sviluppa in Romania attorno a S. Pop. Queste ricerche - estese anche al campo della mitologia - si avvicinano a quelle degli strutturalisti francesi. Tanto nel campo delle tradizioni orali quanto in quello dei sistemi di parentela si assiste, negli Stati Uniti, in Canada e in Francia, a tentativi per trattare questi problemi con l'ausilio di calcolatori elettronici.

Si devono infine menzionare le ricerche che si vanno compiendo nel campo dell'antropologia psicanalitica - fondata da G. Roheim - e dell'etnopsichiatria (G. Devereux, R. Bastide).

9. L'avvenire dell'antropologia

Si finge talvolta di credere che la rapida scomparsa del suo oggetto di studio tradizionale - i popoli cosiddetti primitivi - condanni l'antropologia, a meno che per sopravvivere essa non rinunci alla ricerca fondamentale e si consacri da un lato ai problemi dei paesi in via di sviluppo, dall'altro ai fenomeni patologici quali si manifestano nelle nostre società. Si è così venuto a costituire l'ambito dell'antropologia applicata. Pur senza contestare l'interesse pratico di tali studi la loro opportunità e la loro legittimità, si deve però riconoscere che sono ancora immensi i compiti da svolgere nell'ambito classico di studio dell'antropologia. Tanto in Africa che in Indonesia, in Melanesia, in Sudamerica e in altre parti del mondo, esiste ancora un numero rilevante di società originali che non sono state mai studiate o lo sono state in modo molto insufficiente.

Né si dica che è troppo tardi perché l'antropologia si applichi intensivamente a questi compiti. La fine delle società ‛diverse' è stata annunciata come imminente da un secolo e mezzo a questa parte. E, anzi, l'argomento principale che sin dal 1830-1840 si invocava in Inghilterra per giustificare l'importanza e l'urgenza delle ricerche antropologiche, e nel 1908 J. G. Frazer lo riprendeva in occasione della sua prolusione all'Università di Liverpool. Eppure, a quei tempi, lo studio etnologico della Melanesia cominciava appena, e si dovette attendere la seconda guerra mondiale perché si aprissero alla ricerca i seicento o ottocentomila abitanti delle montagne della Nuova Guinea, ripartiti in diecine e diecine di società dotate di istituzioni originali, la cui conoscenza, che ancor oggi è lungi dall'essere compiuta, doveva rinnovare sin dalle fondamenta la teoria antropologica.

Si è senza dubbio trattato di un'ultima, grande occasione, ed essa non ci può far sottovalutare l'estinzione terribilmente rapida nel mondo intero dei popoli cosiddetti primitivi. Dei circa duecentocinquantamila indigeni che l'Australia ancora contava al principio del XIX secolo, oggi non se ne contano più che un quarto o un quinto, e anche se la situazione demografica migliora, ciò accade ai danni delle istituzioni tradizionali che si obliterano, quand'anche non siano già completamente scomparse. In Brasile, fra il 1900 ed il 1950, più di 90 tribù e almeno 15 lingue furono cancellate dalla carta; in questi ultimi anni appena una trentina di tribù avevano conservato, e in modo del tutto relativo, la loro individualità. La costruzione della strada transamazzonica e le iniziative di colonizzazione interna le condannano definitivamente, a breve scadenza.

Ma l'antropologia è oggi minacciata per un altro motivo, diverso da quello dell'estinzione fisica dei gruppi rimasti fino all'ultimo fedeli alle loro credenze e al loro modo di vita tradizionale. Alcuni popoli dell'Africa, dell'Asia meridionale e dell'America Latina, fino a poco fa compresi nel suo ambito di studi, hanno sempre beneficiato di una densità demografica, assoluta o relativa, la quale, lungi dal diminuire, tende ad accrescersi. Se essi sfuggono all'antropologia, ciò non accade dunque nella misura in cui scompaiono, ma in quella in cui si trasformano: la loro cultura evolve rapidamente verso quella del mondo occidentale e, come quest'ultima, non compete più esclusivamente o principalmente ai metodi di ricerca dell'antropologia.

Per di più questi popoli accedendo all'indipendenza nazionale, che la maggior parte d'essi ha conquistato o ottenuto all'indomani della seconda guerra mondiale, si ribellano all'idea di essere esaminati dall'esterno come dei semplici oggetti di studio. Poiché essi stessi - o le loro élites - ritengono i loro antichi costumi e credenze un segno di arretratezza da cui desiderano ardentemente emanciparsi, rimproverano all'antropologia di interessarsi prevalentemente a tali fenomeni e così di conferir loro un valore e una dignità che essi cercano, al contrario, di screditare. Questo atteggiamento oggi si diffonde e si estende perfino a minoranze etniche, come gli Indiani del Nordamerica presso i quali si afferma l'idea di un Red power, che si ispira solo in parte ai movimenti di resistenza dei Negri americani, ancorché, in quest'ultimo caso, gli antropologi siano meno direttamente in causa perché la loro attenzione per la vita dei Negri è stata più sporadica e soprattutto più recente. Quello che gli Indiani rimproverano oggi agli etnologi è, da un lato, di sfruttarli senza contropartita facendo di essi l'oggetto dei loro libri; e, d'altro lato, di non interessarsi abbastanza ai problemi che, per queste minoranze o per i loro gruppi più evoluti, sono i soli reali, vale a dire la difesa dei loro diritti materiali e morali e la lotta contro un ordine sociale nel quale questi diritti furono calpestati e sono tuttora negati.

Così, l'antropologia si trova attualmente alle prese con una situazione paradossale. Un sentimento di rispetto verso culture diverse dalla nostra aveva ispirato la teoria del relativismo culturale, che ha la sua origine storica in Montaigne, e alla quale Boas e i suoi successori dovevano dare l'espressione più vigorosa nello stesso momento in cui le davano la sua forma definitiva. Ordunque, questa teoria è oggi ripudiata proprio dai popoli nel cui interesse essa era stata concepita, mentre quella detta dell'evoluzionismo ‛unilineare' conosce una nuova voga e riceve, almeno in forma implicita, l'inatteso appoggio di società e di Stati che non aspirano a nient'altro che a una rapida industrializzazione, e che preferiscono considerare la loro cultura tradizionale come provvisoriamente arretrata piuttosto che riconoscere a essa una qualità ‛diversa', se questa specificità dovesse mantenersi a titolo permanente.

Da ciò la diffidenza verso l'antropologia tradizionale, che si manifesta qua e là in Africa e in Asia. Si accolgono volentieri gli economisti e i sociologi le cui ricerche possono contribuire alle auspicate trasformazioni; si tollerano appena, invece, gli etnologi, e talvolta se ne proibisce il soggiorno, nel timore che i loro lavori e le loro pubblicazioni attirino l'attenzione su degli usi che si preferisce dimenticare fino a che non siano scomparsi. Supponendo poi che tali usi persistano, non si desidera che la loro esistenza sia conosciuta all'esterno, perché nessuno possa immaginare che, contrariamente a quanto si vorrebbe far credere - e forse si crede -, la cultura nazionale non è ancora giunta al livello di una civiltà modernizzata.

Gli antropologi fanno essi stessi parte di una civiltà che, per quanto la concerne, ha troppo spesso e troppo a lungo ceduto agli stessi pregiudizi, per non saper calcolare le perdite irreparabili alle quali questi giovani Stati si espongono.

Quali che siano le ricchezze raccolte nel Musée National des Arts et Traditions Populaires, inaugurato nel 1972 a Parigi, non ci si può impedire di sognare quali sarebbero state se si fosse iniziato a raccoglierle alla vigilia della prima piuttosto che della seconda guerra mondiale. Così, la missione dell'antropologia diviene in parte didattica. Essa consiste nel far capire ad altri come non commettere errori che anche noi commettemmo, e dei quali abbiamo misurato la gravità e l'ampiezza solo quando ci siamo resi conto di preservare le ultime testimonianze del nostro passato storico e della nostra vita popolare allorché erano quasi completamente scomparse. Si tratta quindi di convincere tutti i popoli, noi compresi, a non lasciar naufragare queste forme di attività e di pensiero, uniche nel loro genere, che sono le sole a poter fornire a ciascuno di essi la base della sua cultura umanistica.

Nel caso dei popoli che, fino a una data recente, si potevano dire ‛senza scrittura', il pericolo sarebbe che questo compito continuasse a essere assolto solo dal di fuori. Sarebbe infatti vano, per evitarlo, incoraggiarli a formare essi stessi degli etnologi sullo stampo dei nostri, i quali di tanto in tanto venissero a osservarci come noi andiamo a fare da loro, in modo che ogni popolo, sentendosi alternativamente soggetto per se stesso e oggetto di studio per gli altri, sopportasse con minor fastidio il disagio che è connaturato alla seconda condizione. Ragionando in tal modo si dimenticherebbe che l'antropologia non è un'attività contemplativa che si esercita indipendentemente dalle condizioni storiche che ne hanno determinato la nascita. Non ci sarebbe stata antropologia, nel senso che noi diamo a questo termine, se obiettivamente una vasta parte dell'umanità non fosse stata asservita a un'altra, e se durante decenni - e talvolta secoli - quest'ultima non avesse massacrato o ridotto in schiavitù uomini dei quali saccheggiava anche le risorse naturali e che, su scala ancor più grande, volontariamente o meno, sterminava trasmettendo loro malattie contro le quali il loro organismo non possedeva alcuna difesa.

Senza dubbio, ai suoi esordi, l'antropologia ha preso sovente la forma di una protesta contro tali abusi: all'origine delle società etnologiche e antropologiche inglesi si trova l'Aborigines Protection Society di ispirazione quacchera, votata dapprima alla lotta contro la schiavitù dei Negri nelle colonie inglesi e poi, più in generale, alla protezione delle popolazioni indigene dell'Impero. Ma, oltre al fatto che i Quaccheri e gli Evangelici non erano anticolonialisti in linea di principio - e anzi, tutto il contrario, - apparve evidente abbastanza presto che la raccolta di informazioni sui costumi dei popoli non civilizzati non offriva tanto un mezzo per fermare i barbari sistemi dei colonialisti quanto, piuttosto, una sorta di contropartita della quale il mondo della cultura si accontentava in cambio - si potrebbe dire - del suo sistematico disinteresse nei confronti dell'impresa coloniale come tale. Sarebbe ingiusto e falso affermare che l'antropologia sia stata al servizio del colonialismo; ma essa ne ha beneficiato, si è sviluppata nella sua ombra: sul piano epistemologico, il suo sforzo per studiare l'uomo in modo più obiettivo riflette - che essa lo voglia o meno - uno stato di cose nel quale una parte dell'umanità era lasciata alla mercé dell'altra. Rimproverano, oggi, all'antropologia e voler per questo aprire un processo a suo carico sarebbe altrettanto assurdo che rimproverare alle scienze fisiche e biologiche le conquiste rese possibili da certi progressi tecnici compiuti grazie a una guerra, o considerare l'astronomo solidale col regime capitalista perché i pezzi del telescopio che egli utilizza escono da fabbriche nelle quali i lavoratori non sono padroni dei mezzi di produzione. E tuttavia non è men vero che l'Occidente non ha creato l'antropologia in virtù di una sua qual superiorità intellettuale che esso potrebbe oggi impartire ad altri, ma perché delle culture esotiche, trattate da lui come semplici oggetti, potevano più facilmente, proprio per questo, essere anche studiate come degli oggetti. Avevamo verso di esse un atteggiamento distaccato, ma, a causa del trattamento brutale che gli abbiamo inflitto, non ci è più possibile evitare di essere prepotentemente implicati nella loro vita e in un modo dal quale esse possono difficilmente liberarsi. Le prospettive che noi assumiamo verso esse, e quelle che esse assumono verso di noi, non sono reversibili.

Perché l'antropologia rimanga o ridivenga legittima agli occhi delle popolazioni che, ancora ieri, erano per essa un oggetto di studio e che rivendicano oggi il diritto di essere padrone del proprio destino, bisogna prima di tutto che essa cessi di apparir loro come un retaggio del colonialismo e come un'attività di lusso che sopravvive a se stessa grazie a un prolungato regime di diseguaglianza economica. L'antropologia è una scienza dell'uomo che, con il suo spirito e i suoi metodi, ha risposto e ancora risponde a una particolare esigenza: lo studio delle società senza scrittura alle quali - in conseguenza di questa carenza - i metodi tradizionali delle scienze umane potevano difficilmente essere applicati.

Fino a oggi, si era principalmente trattato di sopperire all'assenza di documenti scritti con l'impiego di altri mezzi, quale l'osservazione diretta da parte di ricercatori che non avessero la medesima carenza. Ma appena l'impiego della scrittura si generalizza in queste società, il problema diviene non tanto quello di adattarsi a una lacuna quanto, piuttosto, quello di colmarla. Praticata dai membri della cultura stessa che si tratta di studiare, l'antropologia perderà il suo vecchio carattere di espediente e si riavvicinerà alle altre scienze umane ‛classiche', vale a dire la linguistica, la filologia, la storia e l'archeologia.

In fin dei conti, l'antropologia concepita come conoscenza dell'uomo e riflessione sull'uomo intraprese a partire dalle sue forme di società e dalle sue opere, non fa che estendere a nuovi ambiti geografici uno sforzo iniziato fin dal Rinascimento e che non ha cessato di attuarsi fino a oggi. Se il pensiero del XVI secolo si fermava alle civiltà della Grecia e dell'Italia antiche, la ragione era che non c'erano praticamente altre civiltà alla cui conoscenza si potesse allora accedere. Ma non si cessò di ampliare l'orizzonte, man mano che si estendeva la conoscenza delle regioni abitate: prima verso il mondo arabo, poi verso l'India, infine verso la Cina e il Giappone. Finendo di incorporare alla conoscenza dell'uomo i dati relativi alle culture più lontane e più neglette, l'antropologia porta a compimento l'impresa plurisecolare del pensiero umanistico. Le condizioni specifiche di queste ultime società hanno fatto sì che in una sua prima fase questa impresa non si sia potuta compiere che dal di fuori. Ma quegli stessi popoli che ne furono l'oggetto, rivendicando il diritto - che, nei confronti dell'intera umanità, è per essi anche un dovere - di approfondire dal di dentro il loro passato e le forme tradizionali della loro cultura, resteranno fedeli a questa prima ispirazione. Ciò che essi faranno non potrà forse più chiamarsi antropologia; essi lavoreranno piuttosto come storici e filologi, ma sarà una buona occasione per ricordarci che gli storici e i filologi del Rinascimento, lavorando sulle forme antiche della nostra civiltà, facevano già, a modo loro, dell'antropologia.

Così, l'antropologia si trova oggi davanti a un doppio compito, la cui eterogeneità non è che apparente. Ovunque delle culture indigene, benché fisicamente minacciate, conservino almeno in parte la loro identità morale, la ricerca antropologica deve continuare, e intensificarsi, secondo i suoi metodi tradizionali. E là dove le popolazioni, ieri ancora senza scrittura, restano fisicamente integre mentre la loro cultura si trasforma e tende a confondersi con la nostra, l'antropologia deve fare in modo che, passata nelle mani degli scienziati indigeni, si proponga fini e adotti metodi simili a quelli che, sin dal Rinascimento, hanno dimostrato il loro valore per quanto attiene alla conoscenza della nostra cultura. Sin dalla fine del XIX secolo, in molte regioni del mondo, alcuni antropologi hanno cominciato a formare ricercatori indigeni ai quali si devono opere fondamentali. Per citarne alcuni, tra i nordamericani, F. La Flesche, figlio di un capo Omaha; J. Murie, un indiano Pawnee; G. Hunt, un Kwakiutl; H. Tate, un Tsimshian. Ancor più che per il passato, è oggi certo che la conoscenza delle società più differenti dalla nostra potrà progredire, nel loro stesso interesse come in quello dell'umanità intera, solo a patto che queste stesse società posseggano i mezzi e la volontà per assumersi tale compito.

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