OTTOBONI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 79 (2013)

OTTOBONI, Antonio

Antonio Menniti Ippolito

OTTOBONI, Antonio. – Nacque a Venezia il 20 giugno 1646 da Agostino di Marco e da Candida Benzio. Al nome Antonio fu aggiunto quello di Innocenzo.

Due mesi dopo la sua nascita, la famiglia comprò l’aggregazione al patriziato, usufruendo del discusso espediente cui le autorità della Serenissima avevano deciso di ricorrere per finanziare la guerra contro il turco. La sua biografia fu così diversa da quella dei familiari che l’avevano preceduto e che in qualità di ‘cittadini originari’ (un corpo sociale intermedio tra nobiltà e popolo, cui era riservata tutta una serie di uffici che costituivano la struttura portante del complesso apparato burocratico della Serenissima) avevano svolto l’intera loro vita professionale nei maggiori uffici della Repubblica: dal 1559 la famiglia aveva visto tre dei suoi esponenti nominati cancelliere grande, la carica più alta – che tra l’altro era a vita – riservata a non esponenti del patriziato e al momento della sua nascita ricoperta dal nonno Marco. Lo zio Pietro, che tanta importanza avrebbe avuto nella sua biografia, era in quel momento uditore di Rota in Roma.

Da Candida Benzio, sua prima moglie, il padre Agostino Ottoboni ebbe nel 1637 Vittoria, che sposò nel 1654 Alvise Priuli, e appunto Antonio. Rimasto vedovo, si risposò nel 1649 con Paolina Bernardo, da cui nacquero nel 1651 Chiara, che si unì a Francesco Zeno, e nel 1656 Marco. Costui si chiericò, poi, costretto dalle circostanze (l’elezione a papa nel 1689 dello zio Pietro, Alessandro VIII, e i mutati interessi della famiglia, volti a stabilire preziose alleanze matrimoniali), sposò nel 1690 a Roma Tarquinia Colonna e nel 1714 Maria Giulia Boncompagni Ludovisi.

La prima infanzia di Antonio si svolse in un ambiente domestico perturbato dalle dispute tra il padre e i tre fratelli, Marcantonio, Giovan Battista e Pietro. La questione di base era l’amministrazione del patrimonio, con Pietro e soprattutto Marcantonio che accusavano gli altri di ruberie. Giovan Battista e Agostino erano però anche accusati di condurre una vita moralmente sregolata e Agostino in particolare di cattiva gestione del suo rapporto matrimoniale, così come tutti potevano constatare visto che gli Ottoboni condividevano lo stesso tetto nel palazzo di Campo S. Severo nel sestiere di Castello. Le dispute familiari portarono, poco dopo l’aggregazione al patriziato, a una prima divisione del patrimonio della ‘fraterna’ tra Agostino e i fratelli, e il loro aggravarsi condusse allo scioglimento definitivo dell’unione familiare nel 1650.

Le fonti, in primo luogo l’epistolario dello zio Pietro, conservato nella Biblioteca apostolica Vaticana, presentano per la prima parte della sua esistenza Antonio come abbandonato a se stesso dal padre, senza denaro, ospite dello zio Marcantonio, che lo accusava peraltro di essere «insaziabile» e poco incline «agli usi antichi» e lo rimproverava per alcune «bagattelle» (Menniti Ippolito, 1996, p. 150). Nessuno sembrava occuparsi del suo mantenimento, né del suo destino. Nel 1664 lo zio Pietro provvide a tal fine a prestargli del denaro (per lamentarsi più tardi della sua mancata restituzione). Nel dicembre 1665 si unì in matrimonio a Maria di Giovanni Moretti, una scelta che fu poco apprezzata e giudicata mediocre. Dall’unione nacque nel 1667 Pietro, il loro unico figlio.

Un autorevole esponente del patriziato, Pietro Basadonna, che assisteva il cardinale Pietro Ottoboni nelle faccende veneziane, auspicò, quando nacque il figlio di Antonio, che il porporato resistesse alla tentazione di accusare l’innocente nascituro delle colpe del padre (Bibl. apostolica Vaticana, Ottob. Lat., 3274, pt. 1, cc. 568 s.), con cui il curiale era dunque in netto dissenso.

Nel 1670 Ottoboni iniziò il suo servizio pubblico e divenne castellano di Bergamo, ma lamentava di non avere risorse per mantenersi in quell’incarico. L’agente dello zio Pietro, che ne seguiva le sorti, lo presentò così: «languisce in una estrema necessità, pieno de’ debiti, abbandonato da tutti d’ogni minimo aiuto et in stato di disperatione» (Menniti Ippolito, 1996, p. 148). Il futuro pontefice continuò ad aiutarlo e nel 1674 Antonio era podestà di Feltre. La morte dello zio Marcantonio nel 1672 e del padre Agostino l’anno seguente ne avevano intanto risollevato le sorti portandolo a godere di un non mediocre patrimonio.

Un quadro parallelo meno brillante emerge però da una serie di note tra lo zio cardinale e il suo agente a Venezia, il quale nel 1674 informava il suo padrone di non aver riscontrato alcuna annotazione relativa al nipote nel Libro delle notificazioni, che evidentemente era andato a consultare per conto del curiale nel sospetto di qualcosa di preoccupante. Quello che è certo è che Ottoboni aveva un disperato bisogno di contante, testimoniato da una serie di alienazioni patrimoniali cui provvide in quegli stessi anni. Una drammatica scrittura del 21 marzo 1680 attesta la condizione di difficoltà in cui s’era venuto a trovare assieme al fratello: «Havendo […] Antonio e [….] Marco abate Otthoboni […] contratto grossissimi et eccessivi debiti superiori alle forze e valore de’ loro beni […] hanno più volte con le lagrime agl’occhi supplicato» lo zio Pietro «a sollevarli da dette angustie». Gli avrebbero perciò ceduto tutto il loro patrimonio in cambio di un assegno di 925 ducati annui che sarebbero stati gestiti dalla moglie di Antonio. Il figlio Pietro, ora costretto alla «mendicità», sarebbe stato mantenuto dal cardinale nel collegio somasco di Castello (ibid., p. 151).

Alcune fonti svelano come Ottoboni, «con incredibile crudeltà e pazzia», avesse perduto al gioco 120.000 ducati (ibid., p. 152). L’intervento del cardinale, il quale poteva ora riunire nelle proprie mani l’intero patrimonio di famiglia che era stato smembrato nel 1650, non si rilevò risolutivo. Già nel 1681 apparve una nuova sostanziosa perdita di Antonio al gioco. Lo zio rifiutò di risolvere anche questa pendenza, poi sequestrò quel poco che era rimasto ai nipoti e decise d’accogliere a Roma il figlio di Ottoboni, che si dichiarava, per conto suo, devastato: «Pietro sarà figlio d’un fallito, la Signora Maria non potrà più comparire con l’altre gentildonne senza gondola» (ibid., p. 154)

Nominato conte di Zara, Antonio riuscì a sottrarsi all’impegno appellandosi al doge; poi si rifugiò in villa, a Rustignè, presso Oderzo, continuando però a giocare e a perdere. Alla morte di suo fratello Giovan Battista, il cardinale fece di tutto perché la sua eredità non finisse al nipote, definito «pazzo da legare» (ibid., p. 155). Nel 1682 Ottoboni fu podestà e capitano di Crema e riuscì a ottenere dallo zio un aiuto per potervisi mantenere, ma finito il Reggimento egli avrebbe dovuto, per il cardinale, nascondersi «in una grotta, in un bosco […] perché non si senta la puzza delle sue male e perfide attioni» (pp. 154 s.).

La vicenda proseguì in tal modo per anni, fino a quel 1689 che mutò la vita di tutti con l’elezione a papa di Pietro Ottoboni. Antonio fu subito creato in Venezia cavaliere e procuratore di S. Marco e gli fu conferita in perpetuo, per primogenitura, il privilegio della stola d’oro. Giunto poi a Roma, fu nominato dal papa principe del soglio pontificio e generale di S. Romana Chiesa.

Il nepotismo di Alessandro VIII può essere giustificato con la possibilità, che sfruttò volentieri, di cedere alla casse pontificie l’onere di sostenere gli inquieti nipoti: nelle loro tasche passarono in poco più di un anno 700.000 scudi. Il testamento del papa escluse peraltro Antonio dalla successione, ma il beneficiario Marco aveva ben poca libertà d’agire su un patrimonio fortemente vincolato.

Una volta che il papa morì, lasciati gli onori romani e tornato in patria, Ottoboni fu spogliato di quelli veneziani con la speciosa motivazione d’aver contravvenuto alle leggi della Repubblica accettando stipendi da principi stranieri. Nel luglio 1691 la moglie imprecò contro l’avverso destino che le sembrava dovesse presentarsi dinnanzi. Vivente il papa, il marito usava dirle «che haveva da sofocarl[la] nell’oro», ora invece quello era rimasto «con li soliti caprini», ma «senza quatrini, senza la grazia di niun» (Bibl. apostolica Vaticana, Ottob. Lat. 3279, cc. 1-6).

L’esclusione subita da Ottoboni a Venezia ebbe un carattere tutto politico e lo emarginò a lungo dalla scena veneziana dove fu alla fine riammesso, dopo 10 anni, grazie agli uffici del figlio Pietro, divenuto nel 1689 cardinale. Nel 1710 ebbe però una nuova disavventura. Non essendo riuscito a convincere il figlio a rinunciare al ruolo di protettore della Corona di Francia, fu nuovamente privato di ogni onore e esiliato.

Si rifugiò così in Roma, dove morì il 19 febbraio 1720.

Ottoboni fu amante delle arti, al pari del figlio, che fu uno dei maggiori mecenati del suo tempo. Fu uno dei fautori dell’Accademia veneziana dei Dodonei (poi degli Animosi) e seguace dell’Arcadia, presso la quale stampò alcuni suoi componimenti poetici. Ne lasciò inediti molti altri, di genere lirico e drammatico, ma anche poesie in dialetto veneziano. Nel 1712 pubblicò a Milano la Lettera di un nobile cattolico repubblichista ad un suo figlio, che era presso un suo gran zio fuori della patria, con cui gli dà l’insegnamento di vivere per tutto il corso della sua vita, un testo moralisteggiante, in cui avvertiva il figlio delle insidie legate alla sua condizione di patrizio di recente aggregazione. Ma le difficoltà che aveva affrontato nella sua esistenza in minima parte erano legate a tale realtà e alla diffidenza del vecchio patriziato nei confronti dei nobili nuovi.

Fonti e Bibl.: A. Menniti Ippolito, Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana nel Seicento. Gli Ottoboni al tempo dell’aggregazione al patriziato, Venezia 1996, ad ind., con indicazioni di bibliografia e fonti d’archivio; P. Litta, Famiglie celebri italiane, V, Ottoboni di Venezia, Milano 1834.