MARICONDA, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 70 (2008)

MARICONDA, Antonio

Carmine Boccia

– Nacque a Napoli agli inizi del XVI secolo, da Nicola.

Dubbia rimane l’origine della famiglia: forse oriunda di Gragnano, vanterebbe nel secolo XV insigni giureconsulti, quali Andrea e i suoi figli Diomede e Nicola; ovvero di Sorrento, patria già contesa al più noto novelliere del tempo, Tommaso Guardati (Masuccio Salernitano), nipote di un Tommaso Mariconda. Errata è invece la notizia che vuole la famiglia originaria di Salerno, passata a Napoli nel 1569 e ascritta alla nobiltà del seggio del Campo, mentre i Mariconda appartennero alla nobiltà napoletana del seggio di Capuana.

Secondo Tafuri il M. sarebbe stato educato alle lettere a Roma, dove pure si sarebbe espresso nei primi esercizi di poesia volgare. Tornato in patria, avrebbe proseguito l’attività letteraria circondato dalla stima generale. Sono queste le uniche scarne e incerte notizie che si possono registrare attorno alla formazione del M., le cui vicende successive sono invece legate con certezza alla parabola della famiglia Sanseverino, di cui si professa «servitore» nell’avviso ai lettori della sua raccolta di novelle, le Tre giornate delle favole de l’Aganippe (Napoli, G.P. Suganappo, 1550). La notizia del matrimonio con una certa Vittoria de Cordes è in Croce (1892, p. 311).

Contrariamente a una diffusa visione storiografica, la vita culturale a Napoli nel periodo dell’autoritario governo del viceré Pedro de Toledo (1532-53) risulta assai meno stagnante e chiusa a scambi con l’esterno: figure come quelle di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, rappresentarono l’espressione di una nobiltà aperta a interessi letterari e artistici. Ferrante componeva versi lui stesso e, prodigo fino all’eccesso, si circondò di artisti e letterati. Promosse a Napoli il gusto per il teatro attraverso l’allestimento di spettacoli nel palazzo di famiglia, dove «stava sempre per tale effetto apparecchiato il proscenio» (Castaldo, p. 71) e le recite vedevano la partecipazione non solo del viceré, don Pedro di Toledo, e della nobiltà cittadina, ma anche, per espresso volere del principe, del popolo.

Nel 1545 ebbe luogo la rappresentazione della commedia senese Gli ingannati, opera collettiva degli Accademici Intronati, allestita da una comitiva di gentiluomini capeggiati da G.F. Muscettola e in cui figurava «con grazia mirabile» (Croce, 1992, p. 35) il M. nelle vesti di un servo. Fu l’occasione per dare vita a una sodalitas culturale, che nei capituli sottoscritti nel marzo 1546 prese il nome di Accademia dei Sereni. Fra i «Musarum alumni, qui Tusco Romanoque carmine felice hunc locum quotidie illustrant» – così Berardino Rota, presidente dell’Accademia (Toscano, p. 318) – fu il M. che nel 1547 allestì nel palazzo Sanseverino la sua Philenia, prima commedia composta a Napoli, un prodotto interamente autoctono: dall’autore, ai recitanti, allo scenografo mastro Severo, al musicista Vincenzo da Venafro, con la supervisione di Luigi Dentice.

Composta in otto giorni, la Philenia è la tipica commedia regolare in cinque atti e due intermezzi. Ambientata in Ancona, mette in scena la tormentata vicenda amorosa di due giovani, insidiata da vecchi, parassiti, servi e risolta con l’agnizione e le nozze finali. «Per evitare che lo facesse qualcun altro con poco riguardo», scrive il M. nel prologo (c. AIIr), il testo fu stampato a Roma l’anno successivo per i tipi di A. Blado, con dedica alla principessa di Sulmona, Isabella Colonna. Oltre a giudicarla mediocre e priva di sviluppo comico, Croce stigmatizza la mancanza di «quel colorito e quelle allusioni locali che avrebbe forse avute se la scena fosse stata posta in Napoli, patria e soggiorno dell’autore» (1892, p. 310). Ma probabilmente fu una scelta obbligata, se solo si rievocano gli eventi cruciali di questi anni, a cui il M. non fu certo estraneo: l’inasprirsi dei malumori contro la politica dispotica di Pietro di Toledo, culminanti proprio nel 1547 con i disordini popolari scoppiati per il tentativo di introdurre l’Inquisizione a Napoli e l’ambasceria partita alla volta dell’imperatore, guidata da F. Sanseverino, per chiedere la sostituzione del viceré. Ogni allusione locale era bandita, ancor più perché da questo momento ha inizio la fase di declino dello stesso principe di Salerno.

Probabilmente per questo stesso motivo il M. decide di «raggionar di favole et non d’historia» nel proemio alle Tre giornate delle favole de l’Aganippe, dedicate a Isabella Villamarino, consorte di Sanseverino, alla cui presenza le favole erano state raccontate e dalla quale egli spera di ricevere accoglienza contro «l’ira de’ nimici». La raccolta presenta una cornice che offre il dato occasionale del narrare: per sfuggire all’eccessiva calura, la principessa si è portata non lontano da Salerno, presso la sorgente dell’Aganippe, dove, per ingannare la noia, cinque gentiluomini del seguito vengono invitati a «raccontar de così fatte trasformationi, over favole che voglian dire […] non altrimente che s’elle fussero novelle» (c. AIIIr). Delle dieci giornate progettate, il M. ne diede fuori solo tre, ciascuna composta da dieci racconti, indipendenti per contenuti dalla tradizione novellistica romanza, in quanto attingono alla mitologia classica, con ampi debiti verso le Metamorfosi ovidiane.

A parte i proclami di disimpegno a favore di innocui diletti da otium aristocratico, un indizio sulla disposizione d’animo retrostante l’opera emerge dal sonetto di dedica, di pugno di Angelo Di Costanzo, che magnifica Isabella Villamarino come «colei, ch’in star sola in disparte / da l’altre donne, sempre in ogni parte / l’invidia, il mondo et se medesma vinse». Versi tanto più emblematici perché di pugno di un altro letterato napoletano che pure fu vittima dell’ostracismo di Pedro de Toledo. Il proemio del novelliere è soprattutto una celebrazione di Salerno, capitale del principato dei Sanseverino, proposta come realtà alternativa alla Napoli vicereale, accentratrice e autoritaria. Pur con le cautele necessarie dinanzi a un testo che attende ancora una lettura critica approfondita, è interessante notare, su questa linea interpretativa, che i racconti mitologici della prima decade mostrano una unità tematica – assente nelle altre due – incentrata sul motivo della superbia punita.

Alla luce degli elementi desumibili dall’opera, la caduta umana e politica di Sanseverino dovette avere inevitabili ripercussioni sulla vita e la carriera letteraria del M., di cui non si hanno notizie successive all’edizione delle Tre giornate.

Fonti e Bibl.: N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, p. 29; G.B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, III, 1, Napoli 1750, pp. 410 s.; A. Castaldo, Dell’historia di Napoli, Napoli 1769, p. 71; B. Chioccarelli, De illustribus scriptoribus qui in civitate et Regno Neapolis… floruerunt, I, Neapoli 1780, p. 65; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, p. 201; B. Croce, La «Philenia» di A. M., in Giorn. stor. della letteratura italiana, XX (1892), pp. 308-311; G. De Crescenzo, Diz. storico-biografico degli illustri e benemeriti salernitani, Salerno 1937, p. 76; B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, I, Bari 1942, pp. 247-252; I. Sanesi, La commedia, I, Milano 1944, p. 351; R. Colapietra, I Sanseverino di Salerno. Mito e realtà del barone ribelle, Salerno 1985, ad ind.; E. Spinelli, Di una rara edizione cinquecentina. Un esame de «Le tre giornate delle favole de l’Aganippe» di A. M., in Biblioteche oggi, X (1992), pp. 719-726; B. Croce, I teatri di Napoli: dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, Milano 1992, pp. 36-38; T.R. Toscano, Letterati, corti, accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli 2000, ad indicem.