LANDRIANI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)

LANDRIANI (da Landriano), Antonio

Maria Nadia Covini

Nacque intorno al 1410 da Beltrame, appartenente a uno dei casati più illustri della nobiltà milanese; non conosciamo il nome della madre.

È talvolta confuso con due omonimi: Antonio Landriani senior (fratello del padre, se ne hanno notizie fino al 1426) e Antonio Landriani tesoriere sforzesco (di un altro ramo dei Landriani, attivo dal 1460 circa).

Il L. operò dalla metà degli anni Trenta, verosimilmente militando sotto Niccolò Piccinino in parecchie imprese militari, ma fino al 1440 il suo nome è raramente citato dalle fonti. Nel marzo di quell'anno aveva già una compagnia di 100 cavalli, che il duca Filippo Maria Visconti acquartierò nella Campagna pavese dove aveva destinato i "famigliari d'arme" ducali.

In questi stessi anni il L. condivise con il fratello Francesco, che viveva nel castello di Porta Giovia come camerario del duca, svariate concessioni, in particolare nel 1442 l'investitura feudale di Spino d'Adda, nel Lodigiano; in solido con i fratelli Francesco, Andrea e Giorgio acquistò nel 1445 un vasto complesso di "sedimi" a Porta Vercellina che in seguito a una divisione all'interno della famiglia passò a Francesco, mentre il L. restò l'unico titolare del feudo e delle possessioni lodigiane. Un altro fratello era Giovanni, priore di Campomorto.

I documenti si fanno più frequenti dal 1444, quando ebbe un salvacondotto per sé e per un piccolo seguito armato per andare probabilmente in Italia centrale, dove si stavano scontrando Francesco Sforza e Niccolò Piccinino, il primo genero, il secondo capitano del duca Visconti.

Nel 1446, poiché lo Sforza era passato al servizio veneziano, il duca decise di recuperare Cremona; ordinò quindi a Francesco Piccinino e ad Arasmino Trivulzio, sotto i quali militava il L., di muovere verso la città e stringerla d'assedio; all'inizio di maggio il L. fu urgentemente inviato al presidio di Crema, presa di mira dai nemici. Falliti i negoziati per evitare la guerra, Venezia inviò una compagnia ad attaccare il Piccinino che si era fortificato sul Po a Casalmaggiore. Colto di sorpresa, l'esercito visconteo fu sconfitto e quasi tutti i capitani, fra cui il L., furono fatti prigionieri. Con questo successo le milizie venete si assicurarono i passi sull'Adda e in autunno iniziarono a compiere scorrerie nel territorio del Ducato, avvicinandosi pericolosamente a Milano. Lo Stato visconteo attraversò un momento difficile, ma in autunno ripresero le trattative diplomatiche.

All'inizio di agosto 1447, mentre la salute di Filippo Maria Visconti andava rapidamente declinando, il L. partecipò a una spedizione comandata da Francesco Piccinino diretta a recuperare i territori ancora in mani venete tra Como, la Pieve d'Incino e il Monte di Brianza.

Nei documenti di quest'epoca i Landriani sono solitamente considerati vicini ai Piccinino e in generale all'ambiente dei bracceschi, fama che si perpetua anche nell'epitaffio funebre del L., nonostante il lungo servizio poi prestato presso gli Sforza.

Il duca morì il 13 agosto mentre ancora nulla era stato deciso circa la successione dello Stato. Gli aristocratici milanesi scacciarono le truppe aragonesi, assicurarono l'ordine in città e costituirono un governo repubblicano di orientamento oligarchico, del quale entrarono a far parte anche il L. e il fratello Francesco.

All'inizio di settembre, mentre partecipavano a uno dei primi Consigli di governo, i due Landriani furono accusati di essersi impossessati di beni sottratti dal castello ducale e furono tratti in arresto; rischiò di scoppiare un tumulto, ma presto tutto tornò alla normalità. Da allora i rapporti del L. con l'oligarchia repubblicana, della quale faceva parte per nascita e collocazione sociale, furono pienamente ristabiliti e il 5 ott. 1447 i capitani della Libertà milanese concessero al L. e ai suoi cugini alcuni diritti e beni a Landriano e località circostanti, confermando la datio in solutum del 1408 a favore di Antonio Landriani senior, già capitano ducale e castellano di Melegnano.

I rapporti tra il L. e il governo milanese si guastarono nel 1449: nel gruppo oligarchico prese il sopravvento una componente guelfa e popolare e alcuni esponenti del partito ghibellino decisero di entrare in trattative con Francesco Sforza, che militava con Venezia, e lo invitarono ad acquartierarsi a Landriano, a sud di Milano. A poche miglia si trovavano i quartieri dei Piccinino, dai quali partirono alcuni capitani transfughi, tra cui Andrea Landriani, per unirsi allo Sforza. Anche il L. abbandonò i bracceschi, ma a differenza del fratello preferì tornare in città e attendere gli eventi. Le trattative non ebbero tempo di maturare: il governo popolare adottò una politica di dura repressione e quando in maggio fu scoperta una congiura nobiliare, alcuni "principali" ghibellini furono giustiziati, altri subirono persecuzioni e confische, altri ancora si diedero alla fuga. Questi eventi spinsero il L. ad abbandonare definitivamente la Repubblica e a unirsi allo Sforza. Il suo nome, con quelli dei fratelli Andrea e Giovanni, iniziò a figurare tra i banditi e i ribelli allo Stato, in elenchi che col tempo si facevano sempre più lunghi e densi di nomi di famiglie ragguardevoli.

L'appoggio della domus Landrianorum fu un regalo prezioso per lo Sforza, che non lesinò al L. ampie promesse di esenzioni e benefici. La sua compagnia prese i quartieri nelle terre avite di Landriano, Vidigulfo e Mandrino, e il L. partecipò (anche se di ciò mancano precise notizie) al drammatico assedio di Milano che si concluse nel marzo del 1450.

Diventato duca, lo Sforza dovette consolidare il nuovo dominio e affrontare enormi difficoltà finanziarie, assediato dalle richieste di coloro che lo avevano sostenuto e favorito nella conquista. Tra questi il L., che sollecitava l'adempimento delle promesse e chiedeva soccorsi per i suoi soldati acquartierati in territorio cremonese, abbandonati a se stessi e mancanti di tutto; inoltre chiedeva risarcimenti per certi materiali edilizi requisitigli nel suo feudo per ricostruire il castello di Lodi. Ma le questioni che più gli stavano a cuore erano la conferma della datio in solutum del 1408 e delle esenzioni fiscali di famiglia. Come molti nobili milanesi anche il L. vedeva nella corte ducale un decisivo centro di dispensa di privilegi, nonché un luogo imprescindibile di mediazione con altri centri di autorità e di potere, tra cui Roma: le relazioni con enti ecclesiastici e l'elevata posizione di alcuni membri della sua famiglia nelle gerarchie della Chiesa (come lo zio Bernardo, vescovo di Como, e il già ricordato fratello priore Giovanni, morto nel 1450) obbligavano il L. a mantenere buone relazioni con la Curia romana e con il Papato e quindi ad affidarsi alla mediazione del duca e dei suoi diplomatici.

Nel maggio 1452 la breve parentesi di pace fu interrotta dalla ripresa del conflitto tra Milano e Venezia. La guerra era da tempo nell'aria, sollecitata dall'alleato fiorentino e motivata dalla necessità di recuperare alcuni passi sull'Adda rimasti in mano ai Veneziani; faceva però ostacolo alla mobilitazione una drammatica penuria di denaro, di cui si lamentavano i capitani. Il 12 maggio il duca attribuiva a un officiale la responsabilità di non aver versato al L. e ad altri due condottieri le "assegnazioni" già deliberate, costringendoli a rinviare la partenza per il fronte. Intanto i capitani veneziani si erano spinti nel Lodigiano, presso l'abbazia di Cerreto, e vi avevano costruito un ponte sull'Adda; di lì iniziarono a compiere scorrerie quotidiane che dilagavano in tutto il territorio milanese. Il duca fece mettere in punto le compagnie del L. e di Pier Maria Rossi, grande signore parmense, e diede loro incarico di occupare le due bastie in capo al ponte. Si supponeva che a Lodi il L. come feudatario potesse contare sul favore locale, e invece l'accoglienza fu fredda e i Lodigiani si lamentarono sia dell'obbligo di alloggiare le truppe nel borgo sia dell'atteggiamento autoritario e poco disponibile dei due capitani. L'obiettivo di sbarrare il passo ai Veneziani non fu raggiunto e poco dopo lo Sforza fu costretto a mandare a Cerreto un esercito più numeroso, comandato da Alessandro Sforza, che a sua volta, a causa dell'indisciplina dei soldati, fu sconfitto a fine luglio. Anche il Rossi e verosimilmente il L. parteciparono al fatto d'arme.

Ai primi di settembre, mentre il duca era in campo nel Bresciano, i due ex capi della Repubblica ambrosiana Giovanni da Ossona e Giovanni da Appiano riuscirono a liberarsi e a impadronirsi della rocchetta del castello di Monza dove erano stati imprigionati, mentre contemporaneamente alcuni dissidenti organizzavano in quella città attentati e trame contro gli Sforza. La duchessa Bianca Maria Visconti fece appello al Rossi, al L. e ad altri capitani esortandoli a risolvere la situazione senza indugi, o con il negoziato o con la forza. L'operazione fu condotta con successo, ma durante il trasferimento a Milano l'Ossona fu assassinato dalla scorta, episodio che mise in imbarazzo i duchi.

L'andamento successivo del conflitto veneto-milanese fu piuttosto fiacco e dopo alcune scaramucce gli eserciti si ritirarono nei quartieri invernali. Non si hanno notizie circa la partecipazione del L. alle ultime operazioni belliche, tuttavia è degno di nota l'accrescimento della sua compagnia: al tempo della pace di Lodi del 1454 comandava una squadra di 330 cavalli, passando dal rango di "armiger" e "squadrero" a quello di "armorum ductor". Va osservato che l'esercizio della milizia a questi livelli era solitamente riservato a condottieri di professione e a grandi signori dotati di un proprio dominio territoriale, mentre non era comune tra la nobiltà milanese, fatta eccezione per alcuni Trivulzio e Visconti.

Dopo la pace del 1454 il L. chiese con insistenza il mantenimento delle promesse e in particolare lamentò il mancato rinnovo delle esenzioni fiscali, preoccupato a ragione che gli incanti dei dazi che si stavano concludendo pregiudicassero i suoi interessi. Inoltre chiedeva di acquistare dalla Camera il diritto di retrovendita della giurisdizione di Landriano come previsto dal privilegio del 1408. Nelle terre avite il L. possedeva fondi agricoli e diritti d'acqua, deteneva i dazi di vino, pane e carne delle taverne di Vidigulfo, Zibido, Castellambro e Vigonzone; entrate modeste, a suo dire, ma necessarie per onorare gli impegni derivanti dalla sua condizione. Il duca temporeggiava: sia perché era restio a scontentare gli altri Landriani, che si dividevano quote del castello di Landriano e vari diritti fiscali e di acque, sia perché non voleva alienare giurisdizioni in terre poste nelle immediate vicinanze di Milano, sia, soprattutto, perché temeva i danni ai dazi milanesi e paventava le richieste di risarcimento degli appaltatori. Non ebbe invece esitazioni nel confermare al L., il 12 luglio 1454, l'investitura feudale di Spino d'Adda, con le formule ampie già concesse dai Visconti. Qui il L. aveva vasti possessi e meditava sia di restaurare il castello sia di erigere in parrocchia la piccola chiesa castrense di S. Maria.

Mentre le suppliche del L. si facevano più pressanti, la questione di Landriano fu sottoposta nel 1455 all'esame del Consiglio segreto, che volle limitare fortemente il contenuto del privilegio del 1408, cedendo ai nuovi feudatari alcuni cespiti fiscali e diritti di acque, ma riducendo all'osso i diritti di giurisdizione e i prelievi dei dazi. L'atto originario fu esaminato in tutte le sue pieghe e vi furono trovati certi vizi di forma, tra cui l'età insufficiente del concedente, il duca Giovanni Maria, che non avrebbe potuto alienare beni camerali, e la presunta violazione dei decreti che fissavano il tetto del tasso di rendita delle concessioni all'8% del valore dei beni. Così il 9 ag. 1456 la Camera ducale esercitava il diritto di retrovendita, versava 2500 fiorini ai Landriani (anziché i pattuiti 3500, essendo state nel frattempo alienate alcune entrate), prendeva possesso dei beni e dei diritti di Landriano e poco dopo procedeva a una nuova infeudazione, per metà a favore del L. e per l'altra metà dei discendenti diretti di Antonio Landriani senior. Il L. si piegò alla decisione: dopo tante attese il suo onore era salvo, ma il compromesso era foriero di nuove liti, che infatti si riaccesero dopo la sua morte.

Nei conflitti e nelle controversie in cui fu coinvolto, il L. agì con determinazione e talvolta con l'arroganza tipica del suo ceto. Fece querela contro gli uomini di Busnate, che gli contestavano l'uso di certi boschi presso l'Adda; contro il Comune di Vicolongo novarese, che non gli pagava certi arretrati; contro gli spenditori dell'esercito che continuavano a lesinargli i salari dei suoi assoldati; contro Giovan Manfredo Beccaria tutore di certi suoi giovani cugini, eredi del vescovo Bernardo Landriani. Quando un suo parente, Marco Landriani, fu accusato di essere stato mandante di un omicidio, egli intervenne a suo favore, ma poi non si fece scrupolo di farsi donare dal signore i beni confiscati. A Pavia occupò a lungo la casa di un cittadino cremonese e certi lodigiani lamentavano che in una lite vertente davanti a un dottore locale il L. utilizzasse cavilli e trucchi legali per "straziare" gli avversari. La strenua difesa dei privilegi e dell'onore, la continuità e la sostanziale lealtà nel servizio ducale furono i valori dominanti nella sua vita. Egli consolidò la sua già eminente condizione sociale mediante l'esercizio della milizia, i feudi, i rapporti fondiari e beneficiari con alcuni grandi enti ecclesiastici lombardi, le parentele altolocate: sposò una Gonzaga, Caterina di Aloisio, ed ebbe "amicitia et affinitate" con il conte Franchino Rusca, potente nel Comasco.

Il 6 maggio 1461 l'ambasciatore mantovano annunciò al suo signore il decesso del L. avvenuto "in villa" a Landriano.

Lasciava due figli maschi, Galasso e Palamede, di soli 8 e 10 anni, e due figlie, Aloisia e Lucrezia, che poi sposarono Aloisio da Marliano e Ottone Visconti. Da tempo il L. aveva avviato la costruzione di una cappella gentilizia nella chiesa milanese di S. Maria Incoronata, fondata e dotata dal duca e dalla duchessa Bianca Maria; qui fu stabilita la sua sepoltura e nel 1470 la vedova vi fece porre un bel ritratto marmoreo e un'iscrizione celebrativa. Una parte dell'eredità toccò alla numerosa progenie del fratello Giorgio, mentre i suoi figli dovettero difendere i possessi aviti e i privilegi signorili (nel 1478 Palamede fu ucciso dai contadini di Spino). I Landriani più in vista nella Milano di fine secolo appartennero non a questo ma a un ramo meno illustre, quello di Antonio e Pietro, consolidatosi con attività bancarie e con il servizio a corte.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Reg. missive, 25, cc. 476-477; Sforzesco, 666, 13 genn. 1456; Famiglie, 94; Feudi camerali, p.a., 288; P.C. Decembrio, Vita Philippi Mariae ducis, a cura di F. Fossati, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XX, 1, p. 438 n.; G. Simonetta, Rerum gestarum Francisci Sfortiae commentarii, a cura di G. Soranzo, ibid., XXI, 2, ad ind.; L. Osio, Documenti diplomatici tratti dagli archivi milanesi, III, Milano 1872, pp. 413, 440, 582; Cronichetta di Lodi del secolo XV, a cura di C. Casati, Milano 1884, p. 42; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e degli altri edifici di Milano dal secolo VIII ai nostri giorni, IV, Milano 1890, p. 77; Gli atti cancellereschi viscontei, I-II, a cura di G. Vittani, Milano 1920-29, ad indices; G.P. Bognetti, Per la storia dello Stato visconteo, in Arch. stor. lombardo, LIV (1927), p. 330; B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, Milano 1978, p. 1342; I registri delle missive ducali, a cura dell'Archivio di Stato di Milano, II, Milano 1981, ad ind.; Acta Libertatis Mediolani, a cura di A.R. Natale, Milano 1987, ad ind.; Ticino ducale. Il carteggio e gli atti ufficiali, a cura di G. Chiesi - L. Moroni Stampa, I, 1, Bellinzona 1993, pp. 222 s.; I Libri annatarum di Pio II e Paolo II, a cura di M. Ansani, Milano 1994, pp. 159 s.; Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca, III, a cura di I. Lazzarini, Roma 2000, pp. 206, 209; F. Calvi, Famiglie notabili milanesi, Milano 1875-85, III, tav. VIII; P. Ghinzoni, Giovanni Ossona e Giovanni Appiani nella rocchetta di Monza, in Arch. stor. lombardo, III (1876), pp. 221, 223; G. Bascapè, Storia di Landriano e dei suoi feudatari, Landriano 1924, p. 23 e passim (ma l'autore spesso confonde il L. con i suoi omonimi e chiama "feudo" ogni tipo di concessione); F. Fossati, Francesco Sforza e la sorpresa del maggio 1452, in Arch. stor. lombardo, LXI (1934), pp. 391 s.; F. Cognasso, La Repubblica di S. Ambrogio, in Storia di Milano, VI, Milano 1955, p. 401; M.L. Gatti Perer, Umanesimo a Milano. L'Osservanza agostiniana all'Incoronata, in Arte lombarda, XXV (1980), ad ind.; M.N. Covini, L'esercito del duca. Organizzazione militare e istituzioni al tempo degli Sforza, Roma 1998, p. 82.

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