Gramsci, Antonio

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia (2012)

Antonio Gramsci

Giuseppe Vacca

Antonio Gramsci «fu un teorico della politica, ma soprattutto fu un politico pratico, cioè un combattente» (come affermò Palmiro Togliatti al Convegno di studi gramsciani del 1958). Fino a che fu libero di agire, fu fondamentalmente un giornalista, un agitatore e organizzatore politico; ma negli anni trascorsi in carcere accumulò un’ingente mole di scritti che, pubblicati dopo la sua morte, rivelarono i lineamenti di un pensiero originale e sistematico, che fa di lui un classico del Novecento: uno dei più tradotti, letti e studiati in tutto il mondo.

La vita

Gramsci nacque ad Ales (Cagliari) il 22 gennaio 1891. Conseguita la licenza al liceo classico Dettori di Cagliari nell’estate del 1911, si iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino che frequentò fino alla primavera del 1915, senza laurearsi. Collaboratore fin dall’ottobre del 1914 del settimanale socialista «Il Grido del popolo», il 10 dicembre 1915 entrò a far parte della redazione torinese dell’«Avanti!» continuando a collaborare al settimanale. Iscritto al Partito socialista nel 1913, dall’estate del 1917 affiancò all’attività giornalistica quella di organizzatore politico divenendo direttore di fatto del «Grido del popolo» e segretario della Commissione esecutiva provvisoria della sezione torinese del PSI. La fondazione insieme ad Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini del settimanale «L’Ordine nuovo», nell’aprile del 1919, segnò il suo passaggio definitivo dal giornalismo al professionismo politico.

Fin dagli inizi del 1917 Gramsci aveva manifestato un’adesione sempre più convinta alla condotta dei bolscevichi («massimalisti russi») nella Rivoluzione russa e il 24 dicembre, con il celebre articolo La rivoluzione contro il “Capitale”, giustificò la Rivoluzione d’ottobre aderendo alla visione di Vladimir I. Lenin che la considerava il primo atto della rivoluzione mondiale. «L’Ordine nuovo» divenne quindi la fucina del movimento torinese dei Consigli che fra l’ottobre del 1919 e il settembre del 1920 costituì il momento più acuto e più alto del conflitto di classe in Italia. Come leader del gruppo dell’«Ordine nuovo», nel gennaio del 1921 Gramsci partecipò alla fondazione del Partito comunista d’Italia e dopo il Congresso di Roma (marzo 1922) entrò a far parte dell’Esecutivo del Komintern in rappresentanza del partito italiano e si trasferì a Mosca. Qui, nella casa di cura Serebrjany Bor, conobbe in settembre Julija Schucht, che l’anno dopo sarebbe divenuta la sua compagna. Fra il maggio del 1923 e il marzo del 1924, da Mosca e poi da Vienna, avviò un intenso lavoro di «traduzione» della politica del Komintern «in linguaggio storico italiano» preparando, con l’appoggio dell’Internazionale, la propria successione ad Amadeo Bordiga.

Eletto deputato nell’aprile del 1924, rientrò in Italia in maggio assumendo di fatto la guida del partito durante la crisi Matteotti. Eletto segretario in agosto, avviò la preparazione del III Congresso (Lione, gennaio 1926) nel quale la sua linea si impose definitivamente. L’8 novembre del 1926 fu arrestato e inviato al confino di Ustica ma, a seguito di un mandato di cattura del tribunale militare di Milano, il 20 gennaio lasciò l’isola per essere trasferito al carcere di San Vittore. Il 4 giugno del 1928, condannato dal Tribunale speciale a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione, fu assegnato alla casa penale speciale di Turi (Bari), dove rimase dal 19 luglio del 1928 al 19 novembre del 1933, per essere poi trasferito e ricoverato in stato di detenzione nella clinica del dottor Giuseppe Cusumano a Formia. Ottenuta la libertà condizionata (ottobre 1934), il 24 agosto del 1935 fu trasferito su sua richiesta alla clinica Quisisana di Roma dove si spense il 27 aprile del 1937, a seguito di un’emorragia cerebrale.

Ottenuto il permesso di scrivere, Gramsci iniziò la stesura dei Quaderni a Turi nel febbraio del 1929 e la interruppe alla metà del 1935, ormai esausto. Il piano di studi iniziale è contenuto nella lettera del 25 marzo 1929 a Tania Schucht, sorella di Julija, in cui le comunicava di aver deciso di occuparsi

prevalentemente e di prendere note su tre argomenti: 1° La storia italiana nel secolo XIX, con speciale riguardo della formazione e dello sviluppo dei gruppi intellettuali; 2° La teoria e la storia della storiografia; 3° L’americanismo e il fordismo (A. Gramsci, T. Schucht, Lettere 1926-1935, a cura di A. Natoli, C. Daniele, 1997, p. 333).

In quei sei anni compilò 33 quaderni contenenti traduzioni dal tedesco, dal russo e dall’inglese, schede di lettura, note e appunti e infine, dalla metà del 1932, anche rielaborazioni monografiche di temi trattati in precedenza, raggruppati – secondo la sua stessa definizione – in «quaderni speciali».

Nel giugno del 1925 Gramsci aveva rintracciato Tania, che viveva a Roma dal 1908 e vi era rimasta anche dopo il rientro della famiglia in Russia. Tania divenne subito sua collaboratrice, cominciando a lavorare per l’Ambasciata sovietica. Dopo l’arresto di Gramsci, si dedicò assiduamente, richiesta dal PCI, ad assicurare la comunicazione familiare e politica di Gramsci, a procurargli l’assistenza sanitaria, a intermediarne le pratiche di condono, di liberazione condizionale e i tentativi di liberazione. Il giorno stesso della morte di Gramsci, Piero Sraffa le scrisse:

So che cosa significhi per voi, che gli avete sacrificato più di dieci anni della vostra vita: e in realtà è solo per la vostra devozione e per l’assistenza più che fraterna che gli avete prestato senza interruzione che ha potuto sopravvivere questi anni (Lettera a Tania per Gramsci, a cura di V. Gerratana, 1991, p. 180).

Dall’ottobre del 1928 Tania assolse la sua missione in tandem con Sraffa che, sotto la direzione di Togliatti, tenne i rapporti fra il prigioniero e il Centro estero del partito operante a Parigi.

Dopo il trasferimento alla clinica Quisisana, le visite di Tania assunsero regolarità settimanale e anche Sraffa visitò Gramsci diverse volte, raccogliendo le sue disposizioni sul futuro dei suoi scritti. A metterli al sicuro fu invece Tania, che depositò i manoscritti dei Quaderni presso l’Ambasciata sovietica e ne portò con sé gli originali a Mosca, dove rientrò alla fine del 1938.

Nel decennio precedente l’arresto, il pensiero di Gramsci aveva subito sviluppi e mutamenti molto significativi, ma solo nei Quaderni esso raggiunse una sistematicità che ci autorizza a considerarlo una vera e propria filosofia: una peculiare filosofia della praxis.

Carattere «polemico» della filosofia della praxis

Il piano di studi che originò i Quaderni del carcere mirava a una profonda revisione del marxismo, avviata, in verità, già nell’anno precedente l’arresto (Vacca 2012, pp. 23-37). Ciò indusse Gramsci a uno studio sistematico del pensiero di Karl Marx, a cui negli anni precedenti aveva attinto in modo parziale, per ragioni quasi sempre contingenti, facendone un uso polemico legato alla lotta politica interna al Partito socialista e comunista (F. Izzo, I Marx di Gramsci, in Gramsci nel suo tempo, a cura di F. Giasi, 2008, pp. 553-54). La filosofia della praxis si sviluppò, quindi, come una rielaborazione originale della filosofia che Marx non aveva potuto o voluto elaborare, condensandone il nucleo fondamentale in poche formule. Ma, prima di esaminarne lo sviluppo, è opportuno avvertire che per Gramsci la filosofia è una «concezione del mondo» dotata di «un’etica conforme», che da un lato si distingue dalla religione (la religione rivelata), da Gramsci considerata «un elemento del disgregato senso comune», e dall’altro assolve una funzione analoga alle ideologie e alla politica: la creazione di una «volontà collettiva». Perciò, egli scrive,

una filosofia della prassi non può che presentarsi inizialmente in atteggiamento polemico e critico, come superamento del modo di pensare precedente e del concreto pensiero esistente (o mondo culturale esistente) (Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 1975, p. 1383).

Per «mondo culturale» Gramsci intende l’insieme dei modi di pensare dei «colti» e dei «semplici», comprendente il «senso comune». Mutare il senso comune è compito della politica, ma il punto di partenza non può che essere la filosofia, che esprime «le “punte” di progresso del senso comune […] degli strati più colti della società» (p. 1383). Per la filosofia della praxis, quindi, storia della filosofia e storia della cultura costituiscono un’unità interdipendente e dinamica (cfr. Quaderni del carcere, cit., pp. 1375-78).

Il bersaglio principale della filosofia della praxis è il «marxismo ufficiale»:

Il marxismo aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata e rischiarare le masse popolari, la cui cultura era medioevale. Questo secondo compito, che era fondamentale, ha assorbito tutte le forze, non solo “quantitativamente”, ma “qualitativamente”; per ragioni “didattiche” il marxismo si è confuso con una forma di cultura un po’ superiore alla mentalità popolare, ma inadeguata per combattere le altre ideologie delle classi colte, mentre il marxismo originario era proprio il superamento della più alta manifestazione culturale del suo tempo, la filosofia classica tedesca. Ne è nato un “marxismo” in “combinazione” […] insufficiente per creare un nuovo movimento culturale che abbracci tutto l’uomo, in tutte le sue età e in tutte le sue condizioni sociali, unificando moralmente la società (Quaderni del carcere, cit., pp. 422-23).

La «combinazione» riguardava soprattutto lo scientismo positivistico che caratterizzava il marxismo sovietico, i cui testi principali, La teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista, di Nikolaj I. Bucharin, e il Précis d’économie politique (L’économie politique et la théorie de l’économie soviétique), di Iosif A. Lapidus e Konstantin V. Ostrovitianov, sono duramente criticati da Gramsci, che considera quest’ultimo una

biascicazione di cervelli ristretti e meschini, che solo per la posizione dogmatica riescono a mantenere una posizione non nella scienza, ma nella bibliografia marginale della scienza (Quaderni del carcere, cit., pp. 1805-06).

Ma più in generale il bersaglio della critica di Gramsci è l’«economismo», che comprende varie filosofie dell’azione a loro volta influenzate dal marxismo (Henri-Louis Bergson, Georges Sorel, il pragmatismo e il sindacalismo anarchico, di cui Rosa Luxemburg è considerata l’espressione più alta). Il sindacalismo in particolare condivide per Gramsci l’errore teorico del liberismo, che confonde la distinzione «metodica» di Stato e società civile con una distinzione «organica» (Quaderni del carcere, cit., p. 460). Diverso è invece l’atteggiamento della filosofia della praxis nei confronti dell’idealismo e in particolare di Benedetto Croce che, soprattutto dopo la lettura dei primi capitoli della Storia d’Europa, Gramsci considera «leader della cultura mondiale» (A. Gramsci, T. Schucht, Lettere 1926-1935, cit., pp. 975-76, 18 aprile 1932), assumendone la filosofia come termine di paragone necessario per rigenerare il marxismo:

Come la filosofia della praxis è stata la traduzione dell’hegelismo in linguaggio storicistico, così la filosofia del Croce è in una misura notevolissima una ritraduzione in linguaggio speculativo dello storicismo realistico della filosofia della praxis. […] occorre rifare per la concezione filosofica del Croce la stessa riduzione che i primi teorici della filosofia della praxis hanno fatto per la concezione hegeliana. È questo il solo modo storicamente fecondo di determinare una ripresa adeguata della filosofia della praxis, di sollevare questa concezione che si è venuta, per la necessità della vita pratica immediata, “volgarizzando”, all’altezza che deve raggiungere per la soluzione dei compiti più complessi che lo svolgimento attuale della lotta propone, cioè alla creazione di una nuova cultura integrale (Quaderni del carcere, cit., p. 1233).

In estrema sintesi, nell’elaborazione della filosofia della praxis Gramsci assume «la concezione della storia etico-politica» di Croce «come un “canone empirico” di ricerca storica» utile a liberare il marxismo da ogni forma e incrostazione di determinismo (p. 1235).

La filosofia di Marx

Lo studio sistematico del pensiero di Marx compiuto nel carcere di Turi abbraccia tutti gli scritti noti fino al 1931, posseduti da Gramsci in italiano, francese e tedesco (Quaderni del carcere, cit., pp. 3062-63). Ma è nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica che egli individuò il cuore della filosofia di Marx e i principi fondamentali della filosofia della praxis. Conviene citarli nella versione che Gramsci stesso ne fece nella primavera del 1930, in concomitanza con l’inizio della stesura degli Appunti di filosofia I (si veda la datazione stabilita da G. Francioni nell’edizione anastatica dei manoscritti dei Quaderni del carcere, 2009, p. 3):

Una formazione sociale non perisce prima che non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa è ancora sufficiente, e nuovi, più alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della vecchia società. Perciò l’umanità si pone sempre solo quei compiti che essa può risolvere (Quaderni di traduzioni (1929-1932), a cura di G. Cospito, G. Francioni, 2007, p. 747).

A questi due «principii fondamentali» si deve aggiungere la concezione delle «ideologie», che nella stessa Prefazione sono definite le «forme […] nel cui terreno gli uomini diventano consapevoli» del conflitto fondamentale della società capitalistica «e lo risolvono» (p. 446). In polemica con Croce e con il «materialismo dialettico», che attribuiscono alle ideologie un carattere puramente strumentale o illusorio (forme di «falsa coscienza» elaborate per errore o per servire alla lotta politica e culturale immediata), Gramsci attribuisce a Marx il merito d’averne dimostrato la «realtà», ovvero la funzione espressiva di qualunque tipo di conflitto e di esperienza:

Marx afferma esplicitamente che gli uomini prendono coscienza dei loro compiti nel terreno ideologico, delle superstrutture, il che non è piccola affermazione di “realtà” (Quaderni del carcere, cit., p. 437, maggio 1930).

Pertanto afferma che in Marx è già contenuta «in nuce anche […] la teoria dell’egemonia» (Quaderni del carcere, cit., p. 1315) che, come vedremo, costituisce il nucleo fondamentale e innovativo della filosofia della praxis. Dalla Sacra famiglia, invece, estrae il principio della traducibilità dei linguaggi (scientifici, politici, filosofici), la cui elaborazione funge da elemento catartico del revisionismo gramsciano.

La «quistione» degli intellettuali e il concetto di «egemonia»

Il revisionismo di Gramsci si configura come una metodologia della storia emancipata dal riduzionismo sociologico insito, quanto meno potenzialmente, nella visione della storia come storia delle lotte di classe, e una concezione della politica affrancata dal determinismo economico insito nella correlazione meccanica fra classi e Stato. Già nello scritto del 1926 Alcuni temi della quistione meridionale, Gramsci aveva individuato negli intellettuali l’anello mancante del materialismo storico, poiché è l’esercizio delle loro funzioni tecniche e professionali a determinare le relazioni fra le classi e i gruppi sociali, elaborando i contenuti ideali dei rapporti fra governanti e governati, dirigenti e diretti (cfr. La costruzione del partito comunista 1923-1926, 1971). Inoltre, nella lettera a Tania del 19 marzo 1927, elencando gli argomenti di cui avrebbe voluto occuparsi «intensamente e sistematicamente», aveva indicato al primo posto «una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro raggruppamenti secondo le diverse correnti della cultura» e, richiamando lo scritto sulla questione meridionale, aveva dichiarato di voler «svolgere ampiamente la tesi che [aveva] allora abbozzato» (A Gramsci, T. Schucht, Lettere 1926-1935, cit., pp. 61-62). Lo farà applicandosi innanzi tutto alla storia del Risorgimento, facendo scaturire dall’analisi stessa categorie d’indagine che delineano una nuova metodologia della storia e una nuova teoria della politica, fra loro strettamente intrecciate.

Com’è noto, i paragrafi 43 e 44 del Quaderno 1, scritti nel febbraio del 1930, contengono il nucleo fondamentale del «quaderno speciale» dedicato al Risorgimento italiano: il Quaderno 19 scritto a Formia fra il 1934 e il 1935. Conviene fermare l’attenzione innanzi tutto sul titolo del paragrafo 24 del Quaderno 19 che, rielaborando radicalmente quello del paragrafo 44 del Quaderno 1, evidenzia in modo esemplare la revisione del marxismo compiuta da Gramsci: Direzione politica di classe prima e dopo l’andata al governo, recitava il titolo del paragrafo 44 del Quaderno 1; Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia è il titolo del paragrafo 24 del Quaderno 19. Il mutamento del lessico evidenzia che per Gramsci il problema storico del Risorgimento, come di qualunque altro fenomeno o periodo storico, è il problema della «direzione politica»; tuttavia l’eliminazione del nesso fra «direzione politica» e classe dominante non indica un ripudio della concezione materialistica della storia, bensì contiene una specificazione del concetto di storia etico-politica per il cui chiarimento conviene prestare attenzione al concetto di egemonia. Attinto originariamente dal bolscevismo in una formulazione classista ‒ «l’egemonia del proletariato» ‒, fra il 1924 e il 1926 il concetto aveva subito una progressiva estensione volta a emanciparlo dal riduzionismo sociologico (Vacca 2008). L’affrancamento si compie nei Quaderni, dove il concetto di egemonia assume un valore euristico generale che caratterizza i processi storici in base al rapporto fra dirigenti e diretti. Per Gramsci il problema storico del Risorgimento è

il problema della connessione fra le [sue] varie correnti politiche, cioè dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con i gruppi sociali omogenei o subordinati esistenti nelle varie sezioni (o settori) storiche del territorio nazionale (Quaderni del carcere, cit., p. 2010).

Il problema, quindi, è quello di spiegare perché prevalsero i moderati, imprimendo allo Stato unitario un indirizzo e un equilibrio che ne avrebbero condizionato tutta la storia successiva. La spiegazione fornita da Gramsci porta alla formulazione di due criteri generali che informano contemporaneamente la sua metodologia della storia, la sua teoria della politica e la sua concezione degli intellettuali: «Il criterio metodologico su cui occorre fondare il proprio esame è questo: che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale” […]. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo […] ma deve continuare» a essere «dirigente» anche dopo averlo conquistato, «quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno» (Quaderni del carcere, cit., pp. 2010-11). In altre parole, la direzione politica, sia prima della conquista del governo sia dopo, poggia su una combinazione di «dominio» e «direzione intellettuale e morale», senza la quale non può «essere mantenuta». Questa «combinazione», in cui consiste l’egemonia, è il risultato di una determinata relazione fra i gruppi sociali e i loro rappresentanti, ovvero della organicità fra un determinato gruppo sociale e i suoi intellettuali:

I moderati erano intellettuali “condensati” già naturalmente dall’organicità dei loro rapporti con i gruppi sociali di cui erano l’espressione (per tutta una serie di essi si realizzava l’identità di rappresentato e rappresentante […]: erano intellettuali e organizzatori politici e insieme capi d’azienda, grandi agricoltori o amministratori di tenute, imprenditori commerciali e industriali, ecc.). Data questa condensazione o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo “spontaneo”, su tutta la massa d’intellettuali d’ogni grado esistenti nella penisola (Quaderni del carcere, cit., p. 2012).

Generalizzando i criteri che presiedevano a questa analisi, Gramsci enunciava il nucleo fondamentale della sua teoria degli intellettuali:

Si rileva qui la consistenza metodologica di un criterio di ricerca storico-politica: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni gruppo sociale ha un proprio ceto di intellettuali o tende a formarselo; però gli intellettuali della classe storicamente (e realisticamente) progressiva, nelle condizioni date, esercitano un tale potere d’attrazione che finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali degli altri gruppi sociali (Quaderni del carcere, cit., p. 2012).

Pochi mesi dopo la prima stesura delle note sul Risorgimento citate, nel novembre del 1930 Gramsci cominciò a elaborare questi concetti in ampie note degli Appunti di filosofia I che confluirono nel Quaderno 12, Appunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla storia degli intellettuali (aprile-maggio 1932). Sono importanti innanzi tutto i criteri che consentono di distinguere storicamente i ceti intellettuali:

Ogni gruppo sociale ‒ scrive Gramsci ‒ nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico (Quaderni del carcere, cit., p. 1513).

Gramsci definisce questo tipo di intellettuali «intellettuali “organici”», ma subito dopo aggiunge:

ogni gruppo sociale “essenziale”, emergendo alla storia dalla precedente struttura economica e come espressione di un suo sviluppo […], ha trovato, almeno nella storia finora svoltasi, categorie sociali preesistenti e che anzi apparivano come rappresentanti una continuità storica ininterrotta anche dai più complicati e radicali mutamenti delle forme sociali e politiche (p. 1514).

Gramsci definisce questo tipo di intellettuali «l’intellettuale tradizionale». La storicizzazione dei ruoli erode lo «spirito di casta» con cui i ceti intellettuali tendono a rappresentare se stessi in modo astorico e indifferenziato; ma non ne impedisce una definizione unitaria, purché la si fondi sulle loro funzioni, che sono per tutti funzioni «organizzative e connettive» sia pure in diversi gradi, secondo che vengano esercitate nella «società civile» o nella «società politica». Conviene precisare che la figura di «intellettuale organico» per eccellenza della società borghese è, per Gramsci, «l’imprenditore capitalistico», sia perché «crea con sé il tecnico dell’industria, lo scienziato dell’economia politica, l’organizzatore di una nuova cultura, di un nuovo diritto ecc.» (p. 1513), sia perché,

se non tutti gli imprenditori, almeno una élite di essi deve avere una capacità di organizzatore della società in generale, in tutto il suo complesso organismo di servizi, fino all’organismo statale (Quaderni del carcere, cit., p. 1513).

La concezione dello Stato

La teoria degli intellettuali origina una revisione della concezione ‘realistica’ dello Stato (detentore del monopolio della violenza all’interno del suo territorio e guidato dal principio della pura forza nelle relazioni internazionali) comune tanto al pensiero liberale quanto al bolscevismo. Lo Stato, secondo Gramsci, si fonda su un «equilibrio di compromesso» fra i gruppi sociali, risulta dall’«unità di società politica e società civile», e si configura come «egemonia corazzata di coercizione». Il luogo più emblematico del nesso fra la concezione dello Stato e la teoria degli intellettuali è la lettera a Tania del 7 settembre 1931, nella quale, accedendo alle insistenti richieste di Sraffa, che lo pressava per conoscere gli sviluppi della sua riflessione, Gramsci scrive:

Io estendo molto la nozione di intellettuale e non mi limito alla nozione corrente che si riferisce ai grandi intellettuali. Questo studio porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che di solito è inteso come società politica (o dittatura o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione o l’economia di un momento dato) e non come un equilibrio della Società politica con la Società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull’intera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni così dette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole ecc.) e appunto nella società civile specialmente operano gli intellettuali (A. Gramsci, T. Schucht, Lettere 1926-1935, cit., p. 791).

La revisione riguarda innanzi tutto il «marxismo ufficiale», il nesso unilaterale e meccanico fra Stato e classe dominante, ovvero la concezione dello Stato come «dittatura di classe», tanto che sia la borghesia capitalistica, quanto che sia il proletariato moderno a esercitarla. In una celebre nota intitolata La concezione dello Stato secondo la produttività (funzione) delle classi sociali Gramsci scrive:

La concezione dello Stato secondo la funzione produttiva delle classi sociali non può essere applicata meccanicamente all’interpretazione della storia italiana ed europea dalla Rivoluzione francese fino a tutto il secolo XIX. Sebbene sia certo che per le classi fondamentali produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno) lo Stato non sia concepibile che come forma concreta di un determinato mondo economico, di un determinato sistema di produzione, non è detto che il rapporto di mezzo e fine sia facilmente determinabile e assuma l’aspetto di uno schema semplice e ovvio a prima evidenza. […] si presenta il problema complesso dei rapporti delle forze interne del paese dato, del rapporto delle forze internazionali, della posizione geopolitica del paese dato (Quaderni del carcere, cit., pp. 1359-60).

Rinviando l’approfondimento del concetto di ‘rapporti di forza’, conviene fermare l’attenzione sul richiamo al «rapporto delle forze internazionali», che introduce un criterio fondamentale nella visione gramsciana dello Stato contemporaneo, il principio di interdipendenza. In verità, in una concezione dello Stato come «equilibrio della società politica e della società civile» il principio d’interdipendenza è già applicato alla vita interna dello Stato in quanto regolatore dei rapporti fra le classi per evitare che i loro conflitti precipitino nella «comune rovina» (Marx). Ma è nel sistema delle relazioni internazionali che il principio d’interdipendenza emerge come tratto distintivo della concezione gramsciana della politica e dello Stato (è un principio che Gramsci estende a tutta la politica moderna, ravvisando in Niccolò Machiavelli il primo pensatore politico che fondi la concezione dello Stato sulla «connessione» fra città e campagna; cfr. Montanari 1997, pp. XXXVI-XXXVIII; Izzo 2009, pp. 121-46). Si illumina così un’ulteriore determinazione del concetto di egemonia, che sancisce il carattere anacronistico dell’idea ottocentesca di rivoluzione:

Concetto politico della così detta “rivoluzione permanente” sorto prima del 1848, come espressione scientificamente elaborata delle esperienze giacobine dal 1789 al Termidoro (Quaderni del carcere, cit., p. 1566).

La critica di anacronismo rivolta alla «rivoluzione in permanenza» era già stata espressa da Gramsci nei confronti delle esperienze fallite di rivoluzioni proletarie verificatesi in Europa nel 1919-20 a imitazione della Rivoluzione russa (L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana, A.A. Santucci, 1987, pp. 569-74), ma essa ora viene inserita in una riflessione generale sulla politica nell’epoca inaugurata dalla formazione di un’economia propriamente mondiale.

La formula [della “rivoluzione permanente”] – scrive Gramsci – è propria di un periodo storico in cui non esistevano ancora i grandi partiti politici di massa e i grandi sindacati economici e la società era ancora, per dir così, allo stato di fluidità sotto molti aspetti (Quaderni del carcere, cit., p. 1566).

Fra questi egli indica anche la «maggiore autonomia delle economie nazionali dai rapporti economici del mercato mondiale» (p. 1566) e osserva che

Nel periodo dopo il 1870, con l’espansione coloniale europea, tutti questi elementi mutano, i rapporti organizzativi interni e internazionali dello Stato diventano più complessi e massicci e la formula quarantottesca della “rivoluzione permanente” viene elaborata e superata nella scienza politica nella formula di “egemonia civile” (p. 1566).

In altre parole, per la comprensione dei caratteri che assume lo Stato nel periodo successivo al 1870 è decisivo, oltre al nesso fra società politica e società civile, il nesso nazionale-internazionale. Il terreno della lotta per l’egemonia è nazionale, ma la lotta si decide in base alle diverse combinazioni possibili di politica interna e politica internazionale, e prevale la forza politica capace di prospettare le più vantaggiose. In una nota molto più tarda, del marzo 1935, commentando lo scritto di Iosif V. Stalin Intervista con la prima delegazione operaia americana, Gramsci si domanda come, «secondo la filosofia della prassi, […] la situazione internazionale debba essere considerata nel suo aspetto nazionale» (pp. 1728-29); e risponde che

il rapporto “nazionale” è il risultato di una combinazione “originale” unica (in un certo senso) che in questa originalità e unità deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla (Quaderni del carcere, cit., p. 1729).

Il nesso nazionale-internazionale rientra quindi nella definizione dello Stato come «equilibrio di compromesso» fra i gruppi sociali che lo compongono, poiché l’esercizio dell’egemonia non può prescindere dall’interdipendenza che caratterizza la vita delle nazioni nel mondo contemporaneo. Non può prescinderne né come vincolo, né come possibilità di irradiare all’esterno i contenuti economico-sociali ed etico-civili su cui si fonda:

Lo Stato è concepito sì come organismo proprio di un gruppo, destinato a creare le condizioni favorevoli alla massima espansione del gruppo stesso, ma questo sviluppo e questa espansione sono concepiti e presentati come la forza motrice di una espansione universale, di uno sviluppo di tutte le energie “nazionali”, cioè il gruppo dominante viene coordinato concretamente con gli interessi generali dei gruppi subordinati e la vita statale viene concepita come un continuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell’ambito della legge) tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati, equilibri in cui gli interessi del gruppo dominante prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino al gretto interesse economico-corporativo (Quaderni del carcere, cit., p. 1584).

Il punto d’arrivo della concezione gramsciana dello Stato è distante sia dal «marxismo ufficiale», sia dal contrattualismo liberale: lo Stato è per Gramsci

tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati (Quaderni del carcere, cit., p. 1765, corsivo mio).

La crisi e l’Europa

Gli anni in cui Gramsci scrisse i Quaderni erano dominati dalla dissoluzione della civiltà liberale. La sua riflessione quindi si accentrò sulla crisi dello Stato. Esplorata inizialmente come crisi del parlamentarismo (Quaderni del carcere, cit., pp. 58-59), alla fine del 1930 fu percepita in tutta la sua portata di crisi dello Stato nazionale:

oggi si verifica nel mondo moderno un fenomeno simile a quello del distacco tra “spirituale” e “temporale” nel Medio Evo […]. I raggruppamenti sociali regressivi e conservativi si riducono sempre più alla loro fase iniziale economica-corporativa, mentre i raggruppamenti progressivi e innovatori si trovano ancora nella fase iniziale appunto economica-corporativa; gli intellettuali tradizionali, staccandosi dal raggruppamento sociale al quale avevano dato finora la forma più alta e comprensiva e quindi la coscienza più vasta e perfetta dello Stato moderno […] compiono un atto di incalcolabile portata storica: segnano e sanzionano la crisi statale nella sua forma decisiva (Quaderni del carcere, cit., pp. 690-91).

Nel gennaio del 1932 Gramsci data l’origine della crisi alla Grande guerra, ma nel giugno del 1933 considera la guerra stessa una conseguenza della crisi originata dalla presenza crescente delle masse organizzate negli Stati europei che, a partire dalla fine dell’Ottocento, aveva fatto saltare gli equilibri della società liberale:

la guerra del ’14-18 rappresenta una frattura storica, nel senso che tutta una serie di quistioni che molecolarmente si accumulavano prima del 1914 hanno appunto fatto “mucchio”, modificando la struttura generale del processo precedente: basta pensare all’importanza che ha assunto il fenomeno sindacale, termine generale in cui si assommano diversi problemi e processi di sviluppo di diversa importanza e significato (parlamentarismo, organizzazione industriale, democrazia, liberalismo, ecc.), ma che obiettivamente riflette il fatto che una nuova forza sociale si è costituita, ha un peso non più trascurabile, ecc. ecc. (Quaderni del carcere, cit., p. 1824).

La datazione più precisa è il frutto dell’elaborazione di una teoria generale delle crisi a cui Gramsci era giunto nel febbraio del 1933 osservando gli sviluppi della crisi del 1929 ed elaborando una spiegazione unitaria di carattere storico-politico di un insieme di fenomeni: dalla crisi della prima globalizzazione (anni Ottanta dell’Ottocento), alla Prima guerra mondiale, alla crisi del 1929 e alla crisi dello Stato. Tra i punti salienti della sua teoria, si evidenzia il ripudio della dottrina della guerra inevitabile, propugnata dal «marxismo ufficiale» sia della Seconda che della Terza Internazionale. Per Gramsci la guerra non è la conseguenza ineluttabile del capitalismo o dell’imperialismo, ma è causata da determinate scelte delle classi dirigenti come il protezionismo e il nazionalismo. La spiegazione della guerra e delle crisi si riassume, quindi, nell’incapacità o nel rifiuto delle classi dirigenti di risolvere le asimmetrie sempre più stridenti fra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica, superando l’orizzonte dello Stato nazionale come unica dimensione del politico. Gramsci sottolinea che per spiegare la crisi del 1929 non si deve cercare una causa unica e tanto meno isolare una o l’altra manifestazione economica che la crisi ha assunto nel corso di quattro anni. Si deve invece cercare di comprendere storicamente l’intero processo mondiale del dopoguerra: «Tutto il dopoguerra è crisi, con tentativi di ovviarla, che volta a volta hanno fortuna in questo o quel paese, niente altro» (pp. 1755-56). Poi aggiunge che «per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione», poiché era stata «la risposta politica e organizzativa» delle élites europee alla crisi complessiva della civiltà liberale. Quindi formula un paradigma esplicativo della Grande guerra e della Grande crisi che contiene l’abbozzo d’una vera e propria teoria generale, di carattere storico-politico:

Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del “nazionalismo” (Quaderni del carcere, cit., p. 1756).

Conviene ricordare che Gramsci elabora qui teoricamente un’interpretazione dell’origine della Grande guerra che già aveva formulato negli anni 1916-18, ponendo il tema della sovranazionalità (Rapone 2011, pp. 189-258). Allora la questione gli si era presentata come alternativa fra la prospettiva della Società delle Nazioni formulata da Thomas Woodrow Wilson e la rivoluzione mondiale prospettata da Lenin e, dopo la bocciatura della prima da parte del Senato americano, aveva optato entusiasticamente per la seconda. Ora il tema gli si ripropone in termini diversi: la storia mondiale è caratterizzata dall’intensificarsi tanto del «cosmopolitismo» economico, quanto del nazionalismo politico, e il tema del «conguagliamento» fra politica ed economia si prospetta come problema del governo delle crescenti interdipendenze e delle loro ancora più acute asimmetrie. La prospettiva dell’unificazione economica del genere umano (che appare sempre meno utopica) non può essere concepita che per tappe, e l’obiettivo che appare più concreto è quello di favorire la regionalizzazione dell’economia mondiale:

esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra X anni questa unione sarà realizzata la parola “nazionalismo” avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale “municipalismo” (Quaderni del carcere, cit., p. 748).

Ma, piuttosto che a una vera e propria professione di europeismo, la riflessione di Gramsci è orientata a una revisione della prospettiva della «rivoluzione mondiale». Egli non vede nella borghesia europea forze che possano prevalere sui nazionalismi ormai dilaganti e assegna al proletariato la missione di costruire la sovranazionalità. Se si vuole, è una rielaborazione della prospettiva degli «Stati Uniti soviettisti d’Europa» dei primi anni Venti in chiave gradualistica, volta a riformulare il nesso nazionale-internazionale nella politica dei partiti comunisti europei. Infatti, nella nota dedicata all’Intervista di Stalin già citata, ribadito il concetto che il terreno della lotta per l’egemonia è il territorio nazionale, Gramsci aggiunge:

Una classe di carattere internazionale [il proletariato] in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve “nazionalizzarsi”, in un certo senso, e questo senso non è d’altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie (Quaderni del carcere, cit., p. 1729).

L’adesione alla prospettiva della sovranazionalità europea prima evidenziata risaliva al marzo del 1931; il pronunciamento a favore del regionalismo economico citato ora risale al febbraio 1933 e presuppone la generalizzazione del concetto di «rivoluzione passiva», che analizzeremo nel prossimo paragrafo. Il punto d’arrivo della riflessione sul nesso nazionale-internazionale è nella proposta di un «cosmopolitismo di tipo moderno», il cui protagonista sia «l’uomo-lavoro», e risale al novembre 1932. Si può dire che in essa culmini la revisione teorica gramsciana della politica del Komintern, assegnando alle classi lavoratrici il compito di «collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario» (Quaderni del carcere, cit., p. 1988). Il concetto di «cosmopolitismo di tipo moderno» fa riferimento alla ‘tradizione’ italiana, ma appare chiaramente rivolto a sostituire il concetto di internazionalismo.

La teoria della storia

L’incidenza della Prima guerra mondiale sul pensiero di Gramsci si manifesta anche attraverso la presenza nel suo linguaggio di metafore militari. Il caso più rilevante è l’espressione «guerra di posizione», con la quale avvia la riflessione sul mutamento del carattere della politica nel corso della guerra e soprattutto dopo di essa. La riflessione, originata da problemi di strategia politica, era cominciata ben prima della stesura dei Quaderni, ma fra la fine del 1930 e l’estate del 1931 riceve un’elaborazione compiuta. Il punto di partenza è il problema della ‘traduzione’ della lezione dell’Ottobre in un nuovo linguaggio politico. Gramsci riprende il tema delle differenze morfologiche fra Oriente e Occidente che aveva già evocato nella lettera del 9 febbraio 1924 a Togliatti e Terracini (Lettere 1906-1926, a cura di A.A. Santucci, 1992, p. 233) per escludere la reiterabilità della Rivoluzione russa in Europa (Quaderni del carcere, cit., pp. 865-67), e allunga lo sguardo ai mutamenti della politica mondiale traendone conseguenze decisive. La prima è che il «passaggio dalla guerra manovrata (e dall’attacco frontale) alla guerra di posizione anche nel campo politico» è «la quistione di teoria politica […] più importante, posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere risolta» (Quaderni del carcere, cit., p. 801). Dato il livello raggiunto dall’organizzazione permanente delle forze sociali, i caratteri generali della politica sono cambiati: la politica è divenuta un «assedio reciproco», cioè lotta per l’egemonia. La seconda conseguenza è ancora più importante, poiché Gramsci non solo propone una sottoperiodizzazione dell’epoca considerata, ma introduce anche un nuovo modo di concepire il mutamento sia della storia europea nel 19° sec., sia della storia mondiale dopo la Grande guerra.

Nell’Europa dal 1789 al 1870 ‒ egli scrive ‒ si è avuta una guerra di movimento (politica) nella rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870; nell’epoca attuale, la guerra di movimento si è avuta politicamente dal marzo 1917 al marzo 1921 ed è seguita una guerra di posizione il cui rappresentante, oltre che pratico (per l’Italia), ideologico, per l’Europa, è il fascismo (Quaderni del carcere, cit., p. 1229).

Al concetto di «guerra di posizione» in politica Gramsci accoppia quello di «rivoluzione passiva» per l’indagine storica (Quaderni del carcere, cit., p. 1766); conviene quindi esaminarne le applicazioni più significative e i successivi approfondimenti.

L’espressione «rivoluzione passiva» era mutuata dal Saggio storico sulla rivoluzione napoletana di Vincenzo Cuoco e venne impiegata nella stesura finale delle note sul Risorgimento per evidenziarne la differenza dalla Rivoluzione francese. Contrariamente a quanto spesso si legge a proposito della critica di Gramsci al Risorgimento, il paragone giuocava a favore dei moderati italiani, che, essendo una forza egemonica già prima della conquista del potere, non avevano avuto la necessità di ricorrere al Terrore (Vacca 2011).

Nella prima stesura del testo Gramsci aveva impiegato l’espressione «rivoluzione senza la rivoluzione» e successivamente aveva aggiunto «o rivoluzione passiva secondo l’espressione di V. Cuoco» (Quaderni del carcere, cit., p. 41). Nella stesura finale, invece, riporta entrambe le espressioni equiparandole, e dichiara di «impiegare un’espressione del Cuoco in un senso un po’ diverso da quello che il Cuoco vuole dire» (Quaderni del carcere, cit., p. 2011). Esaminando i casi a cui applica il concetto adoperato inizialmente per il Risorgimento, si vede come ne estenda progressivamente il significato. Il primo caso riguarda il fascismo ed è databile all’aprile-maggio 1932:

si avrebbe una rivoluzione passiva ‒ egli scrive ‒ nel fatto che per l’intervento legislativo dello Stato e attraverso l’organizzazione corporativa, nella struttura economica del paese verrebbero introdotte modificazioni più o meno profonde per accentuare l’elemento “piano di produzione”, verrebbe accentuata cioè la socializzazione e cooperazione della produzione senza per ciò toccare (o limitandosi solo a regolare e controllare) l’appropriazione individuale e di gruppo del profitto (Quaderni del carcere, cit., p. 1228).

Già la caratterizzazione del periodo successivo al 1921 come una nuova forma di «rivoluzione passiva» implicava la considerazione del fascismo come reazione europea alla Rivoluzione d’ottobre. Dopo la crisi del 1929 gli sviluppi dello Stato corporativo appaiono, quindi, anche una risposta alla sfida rappresentata dai successi della pianificazione sovietica. La considerazione del corporativismo fascista come una forma di «rivoluzione passiva» presuppone un giudizio di fatto e una valutazione politica: il primo è che con la Grande guerra sia cominciata in forme anche molto diverse da Paese a Paese una trasformazione irreversibile delle economie capitalistiche in «economie programmate». La seconda è che l’«economia programmatica» corrisponde al quadro teorico del socialismo, piuttosto che a quello del liberalismo, ma il mutamento non avviene sotto la guida dei «gruppi sociali progressivi e innovativi», bensì sotto la direzione delle classi dirigenti tradizionali che la piegano al fine di conservare il loro dominio. Il processo assume quindi la forma di una «rivoluzione passiva» in quanto non sono i «gruppi sociali» che dal punto di vista della storia mondiale dovrebbero considerarsi «innovativi e progressivi» a promuoverla, ma anzi la subiscono (Quaderni del carcere, cit., p. 1228). A distanza di un anno Gramsci accenna al valore euristico generale del concetto di «rivoluzione passiva», affermando che dovrebbe «essere dedotto rigorosamente dai due principii fondamentali di scienza politica» enunciati da Marx nella Prefazione del 1859 «depurati da ogni residuo di meccanicismo e fatalismo» (p. 1774); quindi aggiunge:

Il punto di partenza dello studio sarà la trattazione di Vincenzo Cuoco, ma è evidente che l’espressione del Cuoco […] non è che uno spunto, poiché il concetto è completamente modificato e arricchito (Quaderni del carcere, cit., p. 1775).

Infine, nel luglio del 1933 estende il concetto di «rivoluzione passiva» all’interpretazione «di ogni epoca complessa di rivolgimenti storici» e lo propone come «criterio di interpretazione» valido per qualunque periodo storico in cui alle forze dirigenti non si contrappongano «altri elementi attivi in modo dominante» (Quaderni del carcere, cit., p. 1827). Se nel caso del Risorgimento italiano l’egemonia dei moderati era stata talmente incontrastata da decapitare il Partito d’Azione, generando il fenomeno del «trasformismo» (cioè, secondo Gramsci, una trasformazione dell’egemonia in puro dominio, Quaderni del carcere, cit., pp. 2010-11), in genere le «rivoluzioni passive» non originano situazioni bloccate, poiché nell’involucro politico creato dalle classi dominanti si accumulano mutamenti «molecolari» che prima o poi possono riaprire la situazione:

Si può applicare al concetto di rivoluzione passiva […] il criterio interpretativo delle modificazioni molecolari che in realtà modificano progressivamente la composizione precedente delle forze e quindi diventano matrice di nuove modificazioni (Quaderni del carcere, cit., p. 1767, febbraio 1933).

Il concetto quindi assume connotazione positiva e progressiva, come si può vedere dal giudizio sull’«età della Restaurazione» e sull’«americanismo».

Gramsci considerava la «formazione degli Stati moderni nell’Europa continentale come “reazione-superamento nazionale” della Rivoluzione francese che con Napoleone tendeva a stabilire una egemonia permanente» e giudicava il fenomeno «essenziale per comprendere il concetto di “rivoluzione passiva”» (p. 1361). Il processo si era sviluppato «per piccole ondate riformistiche successive, ma non per esplosioni rivoluzionarie come quella originaria francese» (p. 1358). Il periodo della Restaurazione gli appare quindi «il più ricco di sviluppi da questo punto di vista» e il giudizio che ne consegue merita una citazione:

la restaurazione diventa la forma politica in cui le lotte sociali trovano quadri abbastanza elastici da permettere alla borghesia di giungere al potere senza rotture clamorose […]. Le vecchie classi feudali sono degradate da dominanti a “governative” (Quaderni del carcere, cit., p. 1358).

La «rivoluzione passiva» appare dunque un fenomeno tipicamente europeo, una reazione alle due rivoluzioni – quella francese del 1789 e quella russa del 1917 ‒, i cui protagonisti sono gli Stati moderni nell’Europa continentale dopo l’età napoleonica e, dopo il 1921, il fascismo. Ma il riconoscimento che nell’involucro del fascismo possa svilupparsi un’«economia programmatica» evoca un orizzonte più ampio di quello europeo e l’estensione del concetto di «rivoluzione passiva» all’America fordista. Il fascismo, il Risorgimento e l’«americanismo» erano stati oggetto d’analisi parallele e di comparazione fin dalle prime note dei Quaderni (febbraio-maggio 1930), ma soltanto nel Quaderno 22 (febbraio-marzo 1934) il concetto di «rivoluzione passiva» viene esteso allo studio dell’«americanismo» e del «fordismo». Com’è noto, il Quaderno è intitolato Americanismo e fordismo e Gramsci si domanda «se l’americanismo possa costituire un’“epoca” storica, se cioè possa determinare uno svolgimento graduale del tipo […] delle “rivoluzioni passive” proprie del secolo scorso» (Quaderni del carcere, cit., p. 2140).

L’attenzione è rivolta innanzi tutto al taylorismo e al fordismo, cioè alle innovazioni introdotte dagli industriali americani nell’organizzazione del lavoro e dei consumi per «superare la legge […] della caduta del saggio del profitto» (p. 2140). Americanismo e fordismo rappresentano quindi l’esempio più avanzato della «necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica» (p. 2139) e «il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo» (p. 2165).

Il fatto che gli Stati Uniti rispondano alla legge della caduta del saggio di profitto creando il tipo più avanzato di «economia programmatica» costituisce in sé un fenomeno inedito di «rivoluzione passiva»; ma ancora più significativi sono gli influssi che esercitano sull’Europa, costringendola «a un rivolgimento della sua assise economico-sociale troppo antiquata» (p. 2178). In questo quadro la creazione dell’IRI e dell’IMI in risposta alla crisi del 1929-1932 inducono Gramsci a pensare che anche all’interno dello Stato corporativo fascista possa svilupparsi una «economia programmatica» vera e propria (pp. 2156-58 e 2175-77).

A ogni modo, l’americanismo non costituisce «un nuovo tipo di civiltà», poiché non è che una forma più evoluta di dominio capitalistico («nulla è mutato nel carattere e nei rapporti dei gruppi fondamentali»): «si tratta di un prolungamento organico e di una intensificazione della civiltà europea, che ha solo assunto una epidermide nuova nel clima americano» (p. 2180).

Nel periodo compreso tra le due guerre la «rivoluzione passiva» abbraccia dunque una serie di fenomeni nuovi che interessano tanto l’Europa, quanto gli Stati Uniti. Sono fenomeni progressivi ma transitori, che non mutano il carattere dell’epoca: un’età di crisi, nella quale «il vecchio muore e il nuovo non può nascere» (p. 311).

La costituzione del soggetto politico

Come si vede, la concezione della storia è una componente fondamentale del dispositivo teorico dell’egemonia. Ma il concetto di egemonia, scrive Gramsci, costituisce «uno sviluppo pratico teorico della filosofia della praxis». Conviene quindi esaminarne l’elaborazione filosofica:

[…] lo sviluppo politico del concetto di egemonia rappresenta un grande progresso filosofico oltre che politico-pratico, perché necessariamente coinvolge e suppone una unità intellettuale e una etica conforme a una concezione del reale che ha superato il senso comune ed è diventata, sia pure entro limiti ancora ristretti, critica (Quaderni del carcere, cit., pp. 1385-86).

Il processo riguarda tanto il soggetto individuale, quanto i soggetti collettivi e consiste nella conquista di «un’autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano». Si tratta, in entrambi i casi, di «una lotta di “egemonie”» che per i singoli si risolve con l’acquisizione della consapevolezza «di essere parte di una determinata forza egemonica» (p. 1385). Il soggetto, quindi, si configura come formazione di una «volontà collettiva» il cui anello fondamentale è il partito politico.

Giunti alla costituzione del soggetto politico, la revisione gramsciana del «marxismo ufficiale» si percepisce in tutta la sua radicalità. Il percorso è scandito da una riflessione sempre più approfondita sulla coppia struttura-sovrastruttura, che culmina nel suo abbandono. In un primo momento (Appunti di filosofia I, ottobre 1930) Gramsci considera i «rapporti tra strutture e superstrutture […] il problema cruciale del materialismo storico», cercando di piegare i due principi della Prefazione del 1859 a una «metodologia storica» non deterministica (Quaderni del carcere, cit., pp. 457 e segg.). Nel febbraio del 1932 (Appunti di filosofia III), quando stava per iniziare il raggruppamento delle note precedenti nei «quaderni speciali», riprende la proposizione che «la società non si pone problemi per la cui soluzione non esistano già le premesse materiali» e così la commenta:

È il problema della formazione di una volontà collettiva che dipende immediatamente da questa proposizione e analizzare criticamente cosa la proposizione significhi importa ricercare come appunto si formino le volontà collettive permanenti, e come tali volontà si propongano dei fini immediati e mediati concreti, cioè una linea d’azione collettiva. Si tratta di processi di sviluppo più o meno lunghi, e raramente di esplosioni “sintetiche” improvvise (Quaderni del carcere, cit., p. 1057).

Il problema viene quindi riformulato nella domanda su «come nasce il movimento storico sulla base della struttura» (Quaderni del carcere, cit., p. 1422) e, dopo aver elaborato il concetto di «traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici» (come abbiamo detto, Gramsci lo attinge dalla Sacra famiglia, ma non vanno trascurate altre fonti, a cominciare da Lenin, Giovanni Vailati, Domenico Bartoli e i pragmatismi; cfr. Quaderni del carcere, cit., pp. 854 e 1468-73), «il problema dei rapporti tra struttura e superstrutture» è trasformato in quello dell’«analisi delle situazioni: rapporti di forza» (pp. 1578 e segg.). Questo consente a Gramsci di sostituire il concetto di «necessità storica» con quello di «regolarità» che Marx avrebbe ricavato dalla scoperta del «mercato determinato» dovuta a David Ricardo (pp. 1477-79) e che postula un concetto di previsione diverso da quello delle scienze sperimentali, poiché include l’intervento attivo del soggetto operante («Realmente si “prevede” nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato “preveduto”. La previsione si rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come l’espressione astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di creare una volontà collettiva», pp. 1403-04).

Si può aggiungere che questo implica anche una particolare impostazione del rapporto fra scienza e filosofia: per la filosofia della praxis le scienze sperimentali, definite ciascuna dalla propria metodologia, costituiscono la sezione più sviluppata delle forze produttive e la forza motrice dell’unificazione del genere umano; ma hanno rilevanza teorica non per le ideologie che se ne possono eventualmente elaborare, bensì per il modo in cui intervengono nella dialettica fra forze produttive e rapporti di produzione (pp. 1403-04, 1413-16, 1442-45).

Riprendendo, quindi, ancora una volta i due principi della Prefazione a Per la critica dell’economia politica, nel febbraio del 1932 Gramsci scrive che «il concetto di struttura e superstruttura, per cui si dice che l’“anatomia” della società è costituita dalla sua “economia”» (p. 1065), si deve considerare una metafora didascalica debitrice del linguaggio scientifico dell’epoca, e pochi mesi dopo lo classifica fra le espressioni «grossolane e violente» di cui la filosofia della prassi si era servita a scopo divulgativo (Quaderni del carcere, cit., pp. 1473-74). Il ripudio della coppia struttura-sovrastruttura coincide con l’inizio della stesura dei «quaderni speciali» e in particolare del Quaderno 12. Ci pare, quindi, che, abbandonati i tentativi precedenti di dare una risposta non deterministica al problema della formazione della «volontà collettiva» rielaborando il dispositivo teorico della Prefazione del 1859, Gramsci si liberi del tutto della prima parte di essa e traduca il problema della causazione storica in quello dell’unificazione di teoria e pratica, che viene impostato non come problema filosofico, ma come problema storico della creazione di un determinato tipo di intellettuali:

l’unità di teoria e pratica non è […] un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico […]: una massa umana non si “distingue” e non diventa indipendente “per sé” senza organizzarsi (in senso lato) e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti, cioè senza che l’aspetto teorico del nesso teoria-pratica si distingua concretamente in uno strato di persone “specializzate” nell’elaborazione concettuale e filosofica (Quaderni del carcere, cit., pp. 1385-86).

I protagonisti di questo processo nel mondo moderno sono i partiti politici (p. 1387). Gramsci non ha una concezione sociologica del partito politico, ma storico-filosofica; il compito del partito è infatti quello di promuovere l’unità di teoria e pratica selezionando il ceto dirigente dei diversi gruppi sociali. Sotto questo aspetto il concetto di partito è strettamente connesso a quello di «volontà collettiva», della quale costituisce, per così dire, una funzione. Ma non si tratta di entità distinte, bensì di due momenti di una concezione processuale del soggetto come risultato di molteplici interazioni fra intellettuali e masse. Infatti le funzioni del partito politico possono essere assolte anche da altri attori, come ad esempio i giornali (Quaderni del carcere, cit., p. 104) o grandi figure intellettuali particolarmente operose, come Croce. Gramsci definisce il partito «un elemento di società complessa nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione»; ovvero «la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali» (Quaderni del carcere, cit., p. 1558).

La funzione fondamentale del partito politico è quindi quella di promuovere lo sviluppo di una volontà collettiva capace di unificare il popolo-nazione (p. 1630).

Abbiamo già esaminato la funzione nazionale del partito politico a proposito del «cosmopolitismo di tipo moderno»; conviene specificare il modo in cui il partito deve operare per promuovere la migliore combinazione possibile dei fattori nazionali e internazionali della vita statale. La sua azione

consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale nell’apparente disformità e invece distinto e anche opposto nell’apparente uniformità per organare e connettere strettamente ciò che è simile, ma in modo che l’organamento e la connessione appaiano una necessità pratica e “induttiva”, sperimentale e non il risultato di un processo razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè proprio degli intellettuali puri (o puri asini) (Quaderni del carcere, cit., p. 1635).

In questo processo consiste l’unità di teoria e pratica, e i rapporti fra intellettuali e masse si trasformano:

Questo lavorio continuo per sceverare l’elemento “internazionale” e “unitario” nella realtà nazionale e localistica è in realtà l’azione politica concreta, l’attività sola produttiva di progresso storico. Esso richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, tra governanti e governati (p. 1635).

La filosofia della praxis consiste quindi in una teoria della costituzione dei soggetti politici che Gramsci considera «il coronamento di tutto [il] movimento di riforma intellettuale e morale» dell’età moderna, corrispondente «al nesso Riforma protestante + Rivoluzione francese […] dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura […]. È una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia» (Quaderni del carcere, cit., p. 1860).

Una filosofia che si propone l’«elevamento degli strati depressi della società» e perciò presuppone «una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico» (Quaderni del carcere, cit., p. 1561).

Come visione generale del mondo e come «ordine intellettuale» (Quaderni del carcere, cit., p. 1378), la filosofia della praxis costituisce quindi un principio di coerenza tra i postulati economici, politici e morali di un programma; una filosofia che prevede non solo il mutamento della condizione dei subalterni, ma anche della funzione storica degli intellettuali:

L’errore dell’intellettuale consiste ‹nel credere› che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire […] le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica […]; non si fa politica-storia senza […] connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione (Quaderni del carcere, cit., p. 1505).

Opere

Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio, E. Fubini, Torino 1965.

Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, Torino 1966.

La costruzione del Partito comunista 1923-1926, Torino 1971.

Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino 1975.

Cronache torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Torino 1980.

La città futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Torino 1982.

Il nostro Marx 1918-1919, a cura di S. Caprioglio, Torino 1984.

L’Ordine Nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana, A.A. Santucci, Torino 1987.

Lettere 1908-1926, a cura di A.A. Santucci, Torino 1992.

A. Gramsci, T. Schucht, Lettere 1926-1935, a cura di A. Natoli, C. Daniele, Torino 1997.

Quaderni di traduzioni (1929-1932), a cura di G. Cospito, G. Francioni, Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, 2 voll., Roma 2007.

Epistolario, 1, gennaio 1906-dicembre 1922, a cura di D. Bidussa, F. Giasi, G. Luzzatto Voghera et al., Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, Roma 2009.

Quaderni del carcere, Edizione anastatica dei manoscritti, a cura di G. Francioni, 18 voll., Roma 2009.

Bibliografia

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Gramsci nel suo tempo, a cura di F. Giasi, 2 voll., Roma 2008.

F. Izzo, Democrazia e cosmopolitismo in Antonio Gramsci, Roma 2009.

F. Frosini, La religione dell’uomo moderno. Politica e verità nei “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci, Roma 2010.

G. Cospito, Il ritmo del pensiero. Per una lettura diacronica dei “Quaderni del carcere” di Gramsci, Napoli 2011.

G. Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), Torino 2012.

Si vedano inoltre:

M. Montanari, Introduzione ad A. Gramsci, Pensare la democrazia, Torino 1997.

G. Vacca, Gramsci Antonio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 58° vol., Roma 2002, ad vocem.

G. Vacca, Dall’«egemonia al proletariato» all’«egemonia civile». Il concetto di egemonia negli scritti di Gramsci fra il 1926 e il 1935, in Egemonie, a cura di A. d’Orsi, con la collaborazione di F. Chiarotto, Napoli 2008, pp. 77-122.

G. Vacca, Antonio Gramsci interprete del Risorgimento: una presenza controversa, in Annali della Fondazione Feltrinelli 2008, Milano 2011, pp. 67-105.

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