MAJANO, Anton Giulio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 67 (2006)

MAJANO, Anton Giulio

Grazia Maria Fachechi

Nacque a Chieti il 5 luglio del 1912, da Odoardo e da Agata Maraschini. Compì parte degli studi a Roma, quindi frequentò l'Accademia militare di Modena, dove divenne ufficiale di cavalleria; si laureò in scienze politiche.

Appassionato di letteratura, cominciò presto a collaborare, con alcuni racconti, a giornali e riviste come Le Grandi firme, La Lettura e L'Illustrazione italiana. Pubblicò i romanzi Tre addii (Milano 1990) e Verso il sole (ibid. 1941).

Al momento dell'intervento dell'Italia nella seconda guerra mondiale si trovava in Libia al comando di reparti di spahis, la cavalleria leggera indigena. Rimpatriato, dopo l'8 sett. 1943 prese parte alla Resistenza nelle formazioni partigiane in Abruzzo. Dopo lo sbarco degli Alleati e la liberazione dell'Italia meridionale il M., in servizio come maggiore di cavalleria, collaborò con il nome di battaglia di Zollo alle trasmissioni di Radio Bari, prima voce democratica in Italia e punto di riferimento per gli antifascisti, con il programma L'Italia combatte. Il programma andò in onda fino alla Liberazione e il M., con il progredire del fronte, spostò la redazione verso Nord. Dopo la guerra fu fra i soci fondatori del Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani (SNGCI), istituito nel 1946.

Attivo come giornalista presso La Gazzetta del Mezzogiorno (1943-45); La Patria (1945), Il Tempo (1944-45), proseguì la collaborazione alla radio con un'esperienza fittissima di regia, curando fra l'altro la versione di un ciclo di romanzi di G. Simenon. Il M. fu attivo nel cinema come sceneggiatore, come aiuto-regista e regista.

Aveva cominciato a lavorare sulle sceneggiature prima della guerra; fra le molte la più interessante resta tuttavia quella di un film del 1946 di stampo melodrammatico e di ambiente partigiano, Un giorno nella vita di A. Blasetti, cui contribuirono C. Zavattini e D. Fabbri. Nella regia vera e propria debuttò nel 1949 con Vento d'Africa e chiuse, dopo dodici film, nel 1961 con I fratelli corsi; nell'ambito di questa produzione il titolo più significativo resta La domenica della buona gente (1953) di cui fu anche sceneggiatore. Tratto da un radiodramma di V. Pratolini e G. Giagni che il M. aveva già diretto per la radio, il film parte con un tipico incipit documentaristico di stampo neorealista, e si definisce come un racconto multiplo, scomposto in una quantità di personaggi ed episodi accomunati dal blando pretesto narrativo di una partita di calcio domenicale fra la Roma e il Napoli; una già evidente inclinazione al melodrammatico rivela un M. poco adatto alla commedia, tuttavia nella sua filmografia questa è l'unica pellicola di un certo rilievo da inquadrarsi nell'ambito della mutazione dal neorealismo alla commedia all'italiana. Tra i film diretti dal M. (L'eterna catena, 1951; Una donna prega, 1953; Cento serenate, 1954; La rivale, 1955; Terrore sulla città, 1956; Il padrone delle ferriere, 1958; Seddok, 1960), tutti di tono minore, si può ricordare ancora una commedia con W. Chiari Lui, lei e il nonno (1961).

In quegli anni il M., come altri registi, abbandonò il cinema per passare alla televisione, per la quale aveva cominciato a lavorare a Milano fin dal periodo sperimentale.

Il suo nome resta indissolubilmente legato al nuovo strumento, dove "continuerà a comportarsi come uno stratega astuto e tenace che, penalizzato da una cronica scarsità di uomini e mezzi, riesce sempre a trovare la via più breve per centrare l'obiettivo; con una tattica molto semplice: colpire al cuore" (De Fornari, p. 32).

Il M. fu il primo autore di trasposizioni televisive di romanzi; nel 1955, dopo aver diretto Dieci piccoli negretti dal giallo di Agatha Christie Ten little Indians, ebbe l'idea del teleromanzo a puntate, orientandosi, per l'esordio, su un classico della narrativa per ragazze, sia pure di livello: Piccole donne, di L.M. Alcott; trasmesso il sabato, andò in onda dal 12 novembre per quattro settimane.

Fra gli interpreti alcuni attori di teatro già noti, come R. De Carmine e Lea Padovani (Jo March), accanto a nomi ancora semisconosciuti. Il successo fu tale che il M. fu costretto a girare una non prevista quinta puntata, "un po' pazza, basata tutta sul flashback, facendo rivivere i morti e ritornare in scena quelli che se ne erano già andati" (cfr. Grasso, 2004, p. 57).

Da allora, per oltre vent'anni il M. si dedicò soprattutto agli sceneggiati per la televisione, e divenne, fra tutti i registi del genere, il più popolare.

Con lui il teleromanzo all'italiana, esperienza singolare nel panorama televisivo europeo, divenne un genere creativo autonomo: una forma narrativa cui il pubblico si affezionò, realtà che riavvicinava alla lettura le masse popolari, potente strumento di divulgazione della letteratura, che si impose non solo per le sue fonti di ispirazione (le trame e i titoli più prestigiosi prevalentemente dell'Ottocento europeo) ma anche perché il M. ne perfezionò il linguaggio, tanto da esserne considerato il padre.

Molti i titoli che ricorrono nella lunga carriera del M., tutti o quasi di grande successo. Dopo il fortunato esordio seguì L'alfiere (1956).

Tratto dal romanzo di C. Alianello, si tratta di una ricognizione, per l'epoca trasgressiva, del nostro Risorgimento, che narra la storia di un ufficiale borbonico dopo lo sbarco dei Mille; con un cast pieno di nomi già famosi o comunque destinati a diventarlo (come Emma Danieli, F. Mioni, A. Tieri, A. Millo, I. Garrani, D. Modugno, E. Turco, C. Giuffré, Monica Vitti, N. Manfredi), ricevette le proteste dei circoli garibaldini per alcuni episodi (presenti, peraltro, già nel testo) narrati dalla parte dei vinti (Grasso, 1992, p. 66).

Al successivo Jane Eyre (1957, dal romanzo di Charlotte Brontë), protagonista Ilaria Occhini, realizzato in chiave esclusivamente e marcatamente patetica, seguì l'atmosfera misuratamente allegra del Capitan Fracassa (1958, da Th. Gautier), con A. Foà, Lea Massari, N. Gazzolo, in cui piccole censure e correzioni in senso aulico e melodrammatico, rendono i personaggi più "nobili" di quanto risultino nel romanzo (De Fornari, pp. 36 s.). Con L'isola del tesoro (1959, da R.L. Stevenson), il M. si trovò ad affrontare per la prima volta in televisione, e a risolvere in modo brillante, il problema delle lavorazioni prevalentemente in esterno e in ambienti accentuatamente esotici (fu tutto girato in studio e nella campagna laziale). Fra i maggiori successi, e anche fra i suoi migliori risultati, le accurate ambientazioni risorgimentali di Ottocento (1959), kolossal dal romanzo di S. Gotta.

Apparso, molto opportunamente, alla vigilia delle celebrazioni ufficiali di "Italia 61", il M. vi rivela un acceso gusto dello spettacolo popolare, ricco di forti caratterizzazioni di tipo oleografico.

Ne I figli di Medea (1959), originale televisivo di V. Cajoli, il M. volle usare, e nel contempo sottolineare, il potere della diretta televisiva, sul modello della celebre trasmissione La guerra dei mondi di O. Welles, il quale, nel 1938 negli Stati Uniti, aveva annunciato dai microfoni della radio un'invasione di marziani, ovviamente falsa, suscitando il panico nel pubblico.

In questo caso una trasmissione in diretta della tragedia di Medea viene interrotta e, con l'intervento di una vera annunciatrice televisiva dell'epoca, viene richiesto l'aiuto del pubblico per rintracciare il figlio malato della protagonista (Alida Valli) rapito dal padre (E.M. Salerno): chi l'avesse visto era pregato di telefonare al 696; anche in questo caso i telefoni impazzirono. In effetti, nelle intenzioni del M. il gioco (o l'inganno) avrebbe dovuto avere una funzione educativa nei confronti del pubblico, evidenziando le potenzialità negative del mezzo, scorrettamente usato; era anche il tentativo di far uscire la televisione dagli studi, una delle ambizioni del M., integrandola nella realtà.

Dopo una parentesi di regia di un varietà (Sentimentale, 1960), girò ancora uno sceneggiato Il caso Mauritius (1961, da J. Wassermann), di cui l'unica copia è andata distrutta.

Ambientato nella Germania del primo Novecento ed esemplarmente attento al testo, descrive lo scontro generazionale e familiare tra un padre magistrato e il figlio, intorno a un presunto errore giudiziario ai danni di un ebreo. Introspettivo, con un dialogo scarno e ambizioni filosofiche, ottenne un alto gradimento da parte di un pubblico comunque vorace consumatore di telefilm giudiziari.

Una tragedia americana (1962, da Th. Dreiser), in parte anch'esso un melodramma giudiziario con sottolineature di denuncia sociale, avvicinò le platee televisive italiane a un soggetto che al cinema era stato trasposto da autori del livello di J. von Sternberg e G. Stevens (con attori come M. Clift, Elizabeth Taylor, Shelley Winters). La realizzazione di Delitto e castigo (1963, da F. Dostoevskij), inaugurò gli studi televisivi di Napoli. Punte da record nel gradimento e nell'ascolto furono raggiunte, nel 1964, da La cittadella (da A.J. Cronin).

Fu questo forse il teleromanzo per eccellenza, il più famoso e replicato, nonché il più clamoroso caso di divismo della prima televisione. L'Italia si innamorò del protagonista, il dottor Manson, interpretato da A. Lupo; la scelta di far dipanare la storia della vita del protagonista dall'io narrante del dottore, oramai anziano e celebre clinico, costituisce un espediente classico nella struttura tradizionale del teleromanzo.

Un altro sceneggiato fra i più seguiti fu David Copperfield (1965, da Ch. Dickens).

Il M., con l'aiuto delle scenografie di E. Voglino, riuscì abilmente a introdurre il grande pubblico nell'ambiente cupo e alienante del lavoro industriale nell'Inghilterra vittoriana. I maltrattamenti e le sventure, ma ancor più la complessa psicologia di David, la sua natura di eroe antieroe, furono vivacemente restituiti dall'interpretazione del piccolo R. Chevalier (David bambino) e poi (da adulto) di G. Giannini.

Nel 1965, il M. si avvicinò al genere poliziesco inserendo nella struttura del teleromanzo la tematica e lo stile dei telefilm, soprattutto quelli di matrice americana, con la Donna di fiori, il primo dei quattro sceneggiati dedicati alle "donne del tenente Sheridan" di M. Casacci e A. Ciambricco. Nel 1967, dal "romanzo senza eroe" di W. Thackeray, il M. realizzò La fiera della vanità, uno sceneggiato-fiume in sette episodi, estremamente fedele alla lettera del testo. Un anno dopo, La freccia nera, (da R.L. Stevenson), quindi fu la volta dell'adattamento di un altro celebre romanzo di Cronin, E le stelle stanno a guardare (1971), sulla dura vita dei minatori gallesi nei primi decenni del Novecento.

Classici i personaggi e i sentimenti, il susseguirsi degli eventi che, nuovamente, appassionarono milioni di telespettatori: la storia della famiglia di minatori contrapposta e intrecciata con quella dei padroni della miniera. In un cast pieno di protagonisti già notissimi di questo genere televisivo, come Giannini, Loretta Goggi, Anna Maria Guarnieri, O.M Guerrini, si fecero notare anche il "cattivo" A.M. Merli e Scilla Gabel.

Fra gli ultimi lavori, nel 1973 e nel 1976, il M. curò, tornando al poliziesco, due cicli della fortunata serie Qui squadra mobile, protagonista l'ispettore Carraro (G. Sbragia); nel 1975 uscì Marco Visconti, da T. Grossi, interpretato da R. Vallone con G. Lavia e l'esordiente Pamela Villoresi. Ritornando, nel 1980, a un romanzo di Alianello, L'eredità della priora, (con Alida Valli nel ruolo en titre), il M. replicò, nell'ambientazione storica e risorgimentale, il grande successo di alcuni fra i suoi primi lavori, che, in questo caso, ottenne un riscontro anche all'estero. L'amante dell'Orsa Maggiore (1983), dal romanzo del polacco S. Piasecki, storia di amicizia, amore e morte ambientata fra i contrabbandieri polacchi negli anni Venti, può essere considerato una specie di testamento spirituale.

Lo stile recitativo privo di sfumature, scene e costumi da operetta, zoom sbrigativi, rimandano, in certo modo, alle origini del genere che il M. aveva praticamente creato, e il finale (una donna colpita a morte mentre tenta di attraversare il confine russo-polacco) sembra addirittura riallacciarsi al finale di Noi vivi di G. Alessandrini, sceneggiato proprio dal M. nel 1942.

Il M. morì a Marino (Roma) il 12 ag. 1994.

Il M. fu l'interprete più fedele di quella televisione delle origini che sognava di trasformare il nuovo mezzo in una sorta di "seconda scuola", una biblioteca illustrata attraverso cui far conoscere tutte le "grandi firme" della letteratura mondiale; la scelta dei soggetti, rispondente al clima ideologico culturale dominante sul piano politico, si ispira a un sistema di valori di stampo chiaramente cattolico, materiato di buoni sentimenti e di moralità. L'interesse del telespettatore è tenuto vivo con la tecnica della suspense, cara al feuilleton letterario ottocentesco e, del resto, a ogni genere di tipo seriale. Tuttavia, prendendo le distanze dal fotoromanzo e dai serials veri e propri, il M. ha così sintetizzato perfettamente la sua ricetta: "Il feuilleton, cioè il romanzo sceneggiato, è una storia che si articola in puntate, ma è una storia univoca [(] Questa storia non si ispira quasi mai alla realtà concreta, attuale. Infatti, in generale, il romanzo sceneggiato si ispira ad opere preesistenti, che in genere poi sono di un altro secolo [(] Quali caratteristiche debbono avere le puntate? [(] Debbono avere un interesse che aggancia, che serve di gancio, come le maglie di una catena che si legano [(] La puntata di un romanzo sceneggiato deve essere di un'ora e un quarto compresi i titoli [(] Il pubblico con la puntata del romanzo sceneggiato deve avere la sensazione che si trova di fronte a un pranzo completo [(] Se non ha questa sensazione, considera la puntata del romanzo sceneggiato unicamente come un telefilm" (Il feuilleton in televisione, pp. 137-139). Nostalgia di grandi sentimenti e intuizioni pionieristiche sui modi di produzione convivono, dunque, nel M. come nei grandi fondatori di generi e stili del cinema hollywoodiano. con uno sguardo al sentimentalismo ottocentesco (le cui atmosfere vengono evocate attraverso sapienti dettagli, giochi narrativi ed enfatici finali) e con feconde intuizioni linguistiche (con cui realizzò, spesso con mezzi artigianali, prodigiosi quadri televisivi), il M. rappresentò felicemente l'ortodossia della regia televisiva nel teleromanzo codificando quello che sarebbe stato per molto tempo un sicuro modello di riferimento. Ciononostante, e di fronte del consenso che il pubblico ha riservato ai teleromanzi del M., la critica più esigente rimproverò talvolta al regista una tendenza al sentimentalismo. I romanzi da cui il M. parte, tratti da un repertorio piuttosto coerente, furono da lui adattati con una certa libertà e sceneggiati in modo aggressivo, tributario del melodramma: semplificando i contorni, accentuando i contrasti, enfatizzando i dialoghi, inserendo appena possibile la scena madre, altamente commovente, e la musica, spesso di R. Ortolani, che entra violentemente nell'azione sottolineandola con fragorosi interventi orchestrali. Nel M. è sempre il drammaturgo a prevalere inesorabilmente sul regista: tutto viene riletto alla luce di un pathos inconfondibile, fatto di pause eloquenti, voci vibranti, violini sullo sfondo, belle inquadrature, tanto che i risultati sono, alla fine, quasi autonomi dagli originali, come accadeva agli illustratori popolari.

Fonti e Bibl.: Il feuilleton in televisione. Atti del Convegno, Venezia, 1977, Torino 1978, II, pp. 137-139; O. De Fornari, Teleromanza. Storia indiscreta dello sceneggiato TV, Milano 1990, pp. 31-54; A. Grasso, Storia della televisione italiana, Milano 1992, ad ind.; F. Monteleone, Storia della radio e della televisione, Venezia 1992, pp. 170 s.; W. Veltroni, I programmi che hanno cambiato l'Italia. Quarant'anni di televisione, Milano 1992, passim; Storia del cinema italiano (Scuola nazionale di cinema), a cura di L. de Giusti, VIII, 1949-1953, Venezia 2003, pp. 210, 243, 251, 469, 480; A. Grasso, Storia della televisione italiana. I 50 anni della televisione, Milano 2004, ad ind.; Enc. dello spettacolo, Aggiornamento 1955-1965, coll. 651-653; Enc. della televisione, a cura di A. Grasso, Milano 1996, p. 425.

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