ANTIOCO IV di Siria, detto Epifane

Enciclopedia Italiana (1929)

ANTIOCO IV di Siria, detto Epifane ('Α. ὁ Επιϕανής)

Raimondo Bacchisio Motzo

Figlio di Antioco III, dopo la sconfitta di Magnesia (190 a. C.) fu dal padre inviato ostaggio a Roma e vi rimase circa 14 anni, anche quando sul trono salì il fratello Seleuco IV; ebbe agio di stringere relazioni con l'aristocrazia romana e di conoscere gli ordinamenti politici e militari che rendevano così formidabile la potenza della repubblica. Avendo il fratello sostituito come ostaggio il proprio figlio Demetrio, A. si mise in viaggio per rientrare in Siria, quando seppe che Seleuco era stato ucciso dal ministro Eliodoro. Con l'appoggio di Eumene e di Attalo di Pergamo e col favore dei Romani egli occupò allora il regno, passando sopra i diritti di Demetrio, e prese il soprannome di Epifane. Finì di pagare l'indennità dovuta ai Romani e nei primi anni, seguendo una politica di amicizia e di deferenza verso di essi, attese a riordinare il regno, a consolidarlo con una migliore amministrazione, a eliminare le autonomie politiche ed economiche che vi si erano formate in seguito al diminuito prestigio della monarchia, a riorganizzare l'esercito, a favorire lo sviluppo delle città ellenistiche legandole tuttavia al sovrano, ad aumentarne il numero col concedere i diritti della cittadinanza antiochena anche a città costituite prevalentemente di elementi indigeni, purché facessero adesione ai costumi, alla civiltà e al culto dei dominatori. Morta verso il 173 la sorella Cleopatra già vedova di Tolomeo V re d'Egitto, A. rivendicò intero il possesso della Celesiria, che in un patto matrimoniale non ben chiaro era stata concessa in dote, se non territorialmente, quanto a una parte dei redditi, a Cleopatra. Rinasceva così il vecchio conflitto fra Siria ed Egitto, poiché a nome del giovane Tolomeo VI Filometore i due ministri Euleo e Leneo, di umile origine e di non grande abilità, intendevano sostenere i diritti dell'Egitto sulla regione. I Romani, che in quel tempo erano impegnati nella lotta contro Perseo di Macedonia, non videro forse di malocchio l'accendersi della contesa fra i due maggiori stati ellenistici che potevano intervenire a loro danno, e si astennero dal pronunziarsi in favore di una delle due parti. A., che aveva riorganizzato l'esercito e s'era costruita una flotta, assicuratosi da eventuali ribellioni interne togliendo di mezzo un figlio di Seleuco, sostituendo con persone di sua fiducia gli elementi sospetti, battendo con grande celerità qualche tentativo di ribellione fomentato dall'oro egiziano, e associandosi al trono il proprio figlio, mosse rapidamente verso l'Egitto e in una battaglia campale fra Pelusio e il monte Casio ne disfece l'esercito. Nonostante si stipulasse un armistizio, riuscì con inganno a impadronirsi di Pelusio, la chiave del Delta, e ad avere nelle sue mani il giovane re suo avversario. Epifane penetrò quindi nell'Egitto e si avanzò sino a Menfi, dove anzi avrebbe preso il diadema reale, e naturalmente mise il paese a contribuzione. Al nipote egli intendeva imporre condizioni di pace che sarebbero state gravose. Ma il popolo alessandrino insorse contro i due ministri dimostratisi inetti e infedeli, costituì un nuovo governo con a capo Cumano e Cinea, e poiché il sovrano era in mano del nemico, innalzò al trono il fratello di lui che prese il nome di Evergete II.

A. si atteggiò allora a sostenitore dei diritti del sovrano legittimo, e fattesi da questo riconoscere le concessioni che desiderava, lo lasciò in Menfi e rientrò in Celesiria, forse richiamato dalle condizioni interne del suo regno, forse desideroso di evitare complicazioni con i Romani se avesse spinto a fondo la sua azione militare contro Alessandria, e contando che la discordia dei due fratelli avrebbe servito i suoi disegni. Ma questi calcoli andarono errati: i due fratelli si resero conto che la loro discordia sarebbe stata ad ambedue fatale e si associarono nel trono: Filometore rientrava così in Alessandria, e questa ridiveniva la capitale del paese. A. non poté esserne contento: nella primavera del 168 mandò la flotta a impadronirsi di Cipro che apparteneva all'Egitto, poì mosse egli stesso con l'esercito chiedendo che gli venissero riconosciute, oltre la Celesiria, Cipro e la regione di Pelusio. Quest'ultima cessione soprattutto era grave, perché lasciava l'Egitto aperto alle invasioni, e in istato quasi di vassallaggio. Le condizioni furono respinte, A. rioccupò Menfi e mosse su Alessandria.

Ma a circa quattro miglia dalla città, a Eleusi, gli venne incontro l'ambasceria romana guidata da Popilio Lenate. La situazione politica era nel frattempo cambiata: la Macedonia era definitivamente prostrata con la battaglia di Pidna, Perseo prigioniero; il senato romano non poteva tollerare che il regno di Siria, già vinto e ridotto a più stretti confini, s'ingrandisse e riducesse alle sue dipendenze l'Egitto. Popilio Lenate, prima di contraccambiare le cortesie di A., già suo conoscente in Roma, volle che il re rispondesse all'ordine del senato di evacuare l'Egitto e rientrare nel suo regno. Al tentativo del re di differire la risposta per deliberare, gl'impose di rispondere subito. A. piegò e sgombrò l'Egitto. La condotta dell'ambasciatore romano e quella del re valsero a rendere più visibile la situazione politica che s'era andata creando nel Mediterraneo orientale, in cui arbitra assoluta s'assideva oramai l'autorità di Roma. La Celesiria, ch'era stata il pomo della discordia, rimase però ad A. Ma non fu un possesso tranquillo, ché già prima vi esisteva un partito favorevole ai Lagidi, il quale s'era compromesso durante la guerra e fu da A. trattato severamente.

Alle ragioni politiche di malcontento si aggiunsero nella Giudea ragioni d'indole economica, giuridica e religiosa, quando A. volle prender la tutela di quella minoranza aristocratica che aveva chiesto e ottenuto la cittadinanza antiochena, e impiantato in Gerusalemme accanto al tempio il ginnasio e l'efebia, e che più tardi promosse la profanazione del tempio e la sua consacrazione a Giove, la distruzione dei libri sacri, il divieto della circoncisione, la persecuzione e la spogliazione di quanti non aderivano al nuovo ordinamento cittadino. A., che aveva punito la città e saccheggiato il tempio al ritorno dalla sua seconda spedizione di Egitto, non diresse personalmente la persecuzione, che fu opera piuttosto dei suoi rappresentanti e degli abitanti delle vicine città ellenistiche che detestavano i Giudei, e conseguenza del nuovo diritto ad essi applicato. I Giudei che rimasero fedeli alla religione dei loro padri aderirono alla famiglia degli Asmonei, che con Mattatia, Giuda Maccabeo e i fratelli si misero in aperta rivolta, e attraverso una lunga vicenda di episodî briganteschi ed eroici tennero viva l'opposizione al dominio seleucida in questa parte del regno, e contribuirono non poco a indebolirlo. Solenni feste A. celebrò in Dafne (166 a. C.), quasi in contrapposto a quelle celebrate dai Romani in Anfipoli nel 167, dopo la vittoria su Perseo, e vi profuse i tesori acquistati nella guerra. Persuaso che in Occidente la vigile sorveglianza romana non gli avrebbe permesso alcuna espansione, egli si volse all'Oriente, dov'erano immense regioni in cui l'ellenismo portato da Alessandro Magno aveva perduto terreno, e l'autorità dei Seleucidi diveniva ogni giorno più malsicura. In Armenia un antico satrapo di Antioco III, Artaxia, s'era proclamato re, aveva fondato una nuova capitale Artaxata, e rafforzato il suo potere con alleanze. A., partitosi d'Antiochia, lo vinse, forse lo fece anche prigioniero, imponendogli di riconoscere la sua supremazia. Attraverso la Media, la cui capitale Ecbatana prese in suo onore il nome di Epifaneia, egli scese verso l'Elimaide con l'intenzione di recarsi in Persia. Nel corso di questo viaggio tentò di ottenere i tesori della divinità indigena Nana, identificata con Artemide, facendone la sua sposa divina, ma pare che i sacerdoti riuscissero a respingerlo, e che egli si sia ritirato. Ma, poiche il padre suo Antioco III era morto nella stessa regione, tentando di saccheggiare il tempio di Belo, si sparse la notizia che anche Epifane fosse perito. In realtà egli visse ancora un anno e mezzo circa, ma le fatiche e la vita sregolata gli avevano fatto contrarre la tisi, a cui doveva soccombere. Già prima di partire d'Antiochia, egli aveva costituito un consiglio di reggenza, con a capo Lisia, per il figlio (Antioco V Eupatore), che aveva associato al trono dal tempo della guerra di Egitto. Al giungere della falsa notizia della morte del padre, Eupatore dovette incominciare a regnare, e il padre, caduto malato, con una circolare ai popoli soggetti lo indicò come suo successore (a noi è arrivata nel II libro dei Maccabei la copia diretta ai Giudei di Gerusalemme che avevano accettato la cittadinanza antiochena). Mutò anche in parte l'indirizzo di governo, cercando di diminuire i malcontenti e di pacificare gli animi, ciò che giovò ai Giudei ai quali fu restituito il tempio e data la libertà di praticare la propria religione e di vivere secondo le proprie leggi. Epifane veniva a morte nel 163 in Tabe di Persia, mentre era nel viaggio di ritorno. La questione giudaica non fu nella sua vita che un episodio secondario, ma gli scrittori giudaici fecero di lui la figura tipica del persecutore designato all'ira finale e ai castighi di Dio, dando il modello di quella serie di biografie a tesi religiosa, di cui l'opera De mortibus persecutorum attribuita a Lattanzio è l'esempio classico. Il carattere e la condotta di Epifane ci appaiono come il risultato, oltre che della sua indole, della fusione mal riuscita delle tradizioni derivate dalla sua nascita regale in una monarchia ellenistica con l'educazione romana di cittadino in una libera repubblica. Splendido, munifico, avido di ricchezza e pronto a scialacquarla per fare sfoggio di potenza, sovrano assoluto e senza scrupoli religiosi o morali per molti lati, ci si presenta come desideroso della popolarità sino all'ostentazione, sino a disimpegnare le più umili mansioni nelle città, e mescolarsi alla plebe e goderne i divertimenti e condividerne i gusti. Aveva cercato di rialzare le sorti del regno di Siria, e vi sarebbe riuscito se avesse amministrato più parcamente, e se il desiderio di conservare la corona al proprio figlio non gli avesse fatto dimenticare i diritti di Demetrio figlio di Seleuco. La Siria poteva infatti resistere ai pericoli che la minacciavano (e di cui Epifane aveva coscienza) solo se a capo di essa fossero stati sempre uomini energici nel pieno vigore delle forze, e tutti i membri della dinastia avessero seguito una politica di solidarietà famigliare.

Fonti: Polibio, XXVI segg.; Livio, XLI; Diodoro, XXX, 1; II Macc., IV-IX; Ios. Flav., Antiq. Iud., XII; id., Bellum Iud., I; libro di Daniele, xi.

Bibl.: U. Mago, Antioco IV Epifane re di Siria, Torino 1907; G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV, i, Torino 1923; B. Motzo, Studî di storia e letteratura giudeo-ellenistica, Firenze 1924; Bouché-Leclercq, Histoire des Séleucides, Parigi 1913; B. Niese, Gesch. der griech. u. maked. Staaten, III, Gotha 1903; J. Gutmann, in Encycl. Judaica, II, s. v.

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