ANSELMO da Baggio, santo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 3 (1961)

ANSELMO da Baggio, santo

Cinzio Violante

Apparteneva alla famiglia da Baggio, che aveva il capitanato della pieve di Cesano Boscone, ed era nipote di quell'Anselmo (I) che era stato vescovo di Lucca e poi papa con il nome di Alessandro II.

Nato, probabilmente in Milano, verso il 1035, A. ricevette la prima istruzione nella sua città, con ogni verosimiglianza nella attiva e frequentata scuola esistente presso la cattedrale ambrosiana. Secondo la testimonianza fornita dalla lettera di un prete Ugo al vescovo Ubaldo di Mantova, un non bene identificato giudice Lanzone di Treviso (ma originario di Milano) avrebbe così pregato A. morto in concetto di santità: "Memento familiaritatis quae nos in scholis socios iunxerat" (Epistula Ugonis presbyteri ad Ubaldum episcopum mantuanum [a. 1086], in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, XII, p.33). L'autore della prima biografia (in prosa) conferma di aver sentito dichiarare dallo stesso A. che egli fin da giovane era "studiosus in scholasticis etiam legendis libris" (Bardonis Vita Anselmi, cap. II, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, XII, p. 13). Probabilmente fu l'autorevole Anselmo (I) da Baggio colui che favorì l'ingresso del giovane omonimo nipote nel clero cardinale milanese, e certo ne curò l'educazione culturale in Milano e poi altrove. Nel 1063-65, Berengario di Tours scriveva al cardinale Stefano chiedendogli di convincere il papa Alessandro II a inviare presso la sua scuola in Angers un parente, cioè il nipote Anselmo (Briefsammlungen der Zeit Heinrichs IV, nr. 100 pp. 167 s.). Ma sembra che il pontefice avesse intenzione di inviare il suo, giovane familiare a compiere gli studi non presso Berengario, bensì presso Lanfranco al monastero del Bec, come risulta da una lettera - non datata - con la quale Alessandro II chiedeva al maestro pavese se poteva inviargli il suo "fratruelem", che era "gramaticae artis peritia bene instructus, dialecticae omnino non alienus" (Jaffé-Loewenfeld, Regesta Pontif. Romanorum, I, Lipsiae 1885, n. 4669). Infatti l'autore della biografia in prosa doveva poi affermare che A. "in arte grammatica et dialectica extitit peritus" (Bardonis Vita Anselmi, cap. II, p. 13);e Gregorio VII riscontrò in lui "tantam divinarum litterarum scientiam et rationem discretionis" (Reg., I, 11).

Secondo alcuni autori, A., prima di diventare vescovo di Lucca, sarebbe entrato nel monastero di San Benedetto di Polirone presso Mantova, che poco dopo (fra il 27 genn. 1076 e il 7 apr. 1080, ma probabilmente all'inizio del 1077) passò sotto l'obbedienza cluniacense. Ma riteniamo (con A. Guerra, Compendio di storia ecclesiastica lucchese..., Lucca 1924, pp. 152 s.) che tale opinione sia da abbandonare in quanto non ha altro fondamento che il grande attaccamento mostrato in seguito da A. verso quel monastero durante il suo esilio mantovano.

Nell'ultimo mese della sua vita, sentendosi presso a morte, Alessandro II fece in modo che l'episcopato di Lucca - che egli stesso aveva continuato a reggere fino allora - passasse nelle mani di suo nipote: in una data che si può collocare fra il 18 marzo e il 21 apr. 1073, con il favore del pontefice A. fu dunque canonicamente eletto vescovo dal clero e dal popolo lucchesi. Subito dopo, Alessandro II inviò il neoeletto, insieme con il cardinale Mainardo vescovo di Santa Rufina e di Silva Candida, presso il re Enrico IV affinché fosse da costui investito del proprio ufficio. Ma, giunto alla corte, A. rifiutò energicamente di ricevere l'investitura dal sovrano, evidentemente perché gli furono poste condizioni di carattere simoniaco.

Tornato in Italia, A. trovò suo zio morto, e si recò a Roma per chiedere consiglio al nuovo pontefice Gregorio VII, il quale lo ammonì di non ricevere la investitura da Enrico finché questi non si fosse riconciliato con la Chiesa allontanando dalla corte i consiglieri che erano stati colpiti da scomunica.

Nell'agosto dello stesso anno 1073 è attestata la presenza di A. in Verona insieme con Beatrice e Matilde di Tuscia, le quali conducevano in quel tempo una attiva politica di mediazione fra il papa e il re, ed avevano particolare interesse a ottenere da Gregorio VII il consenso perché il vescovo eletto ricevesse rinvestitura da Enrico e si insediasse nell'episcopio della città capitale della loro marca.

Nel dicembre giunsero a Roma per essere consacrati dal papa due vescovi eletti, Ugo di Die e A. di Lucca: "aetate pares, caritate non impares... Senes autem erant non longevitate vitae, sed morum maturitate", come annotava Ugo di Flavigny (Chronicon, lib. II, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, VIII, p. 411). I messi di Enrico IV, che si trovavano a Roma per trattare la conciliazione del sovrano (bisognoso di aiuto contro i ribelli sassoni) con il papa, chiesero che i vescovi non fossero consacrati se prima non avessero ricevuto l'investitura regia. E Gregorio VII, pur non facendo alcuna concessione in linea di principio, in fatto non respinse nettamente l'istanza. E pertanto, se Ugo di Die ottenne - il 16 marzo dell'anno seguente - la consacrazione senza che avesse ricevuto la investitura regia, ciò fu dovuto solo allo stato di necessità determinatosi per i torbidi insorti nella sua città episcopale. Per A., invece, la consacrazione fu rimandata fino a quando non gli fosse possibile ricevere dal re la investitura in maniera legittima, per l'avvento di una auspicata riconciliazione di Enrico IV con la Chiesa romana. La sede di Lucca aveva infatti, nella lotta fra papato e impero, una grande importanza politica e strategica, poiché la città era il centro della marca di Tuscia, retta da quelle stesse Beatrice e Matilde che conducevano una impegnata attività di mediazione fra Gregorio VII ed Enrico IV; pertanto il papa non riteneva opportuno prendere in questo caso una decisione nettamente ostile al re consacrando un vescovo che non aveva ricevuto da questo l'investitura, né d'altra parte poteva cedere consentendo che A. si facesse investire da un sovrano ribelle alla Santa Sede.

Dopo che Enrico IV fu assolto dalla scomunica (seconda metà di aprile del 1074), A. poté finalmente ricevere da lui l'investitura, e quindi venne consacrato dal papa. La data della consacrazione va posta fra il 29 sett. 1074 (quando A. appare per l'ultima volta in un documento lucchese con la designazione di "vescovo eletto") e il 25 genn. 1075 (quando egli vi è per la prima volta indicato come vescovo).

Quando poi (nel sinodo lateranense del 24-28 febbr. 1075) fu promulgato il decreto contro le investiture laiche, A. fu - al pari di altri vescovi - molto turbato per lo scrupolo di avere ricevuto dal re l'investitura con l'anello e il pastorale, quasi che la successiva sua consacrazione episcopale ne fosse rimasta inficiata. Per questo cruccio egli lasciò l'episcopato lucchese: il 7 maggio dello stesso anno 1075 si trovava in Firenze insieme con Beatrice e Matilde. Si ritirò quindi (per la prima volta, crediamo) a vita monastica nell'abbazia di Saint-Gilles alle bocche del Rodano, la quale non molto tempo prima era stata riformata da Cluny; ma vi rimase poco, perché ebbe dal papa l'ordine di ritornare alla sua sede episcopale di Lucca, dove lo attesta presente un documento del 25 dic. 1075. Per eliminare ogni suo scrupolo, A. rinunziò nelle mani di Gregorio VII l'episcopato di cui aveva avuto dal re l'investitura, e ne fu ex novo investito dal papa.

Da questo egli ottenne il consenso di continuare a portare l'abito monastico: in un documento del 21 dic. 1075 A. è infatti designato come "episcopus et monachus". Da allora in poi, egli "monachi pariter et canonici vitani et ordinem conabatur explere", come racconta il suo primo biografo (Bardonis Vita Anselmi, cap. V, p. 15). Ancora nel 1085, A., scrivendo a Ermanno vescovo di Metz, si qualificava "peccator monacus et Lucensis qualiscunique episcopus" (Briefsammlungen der Zeit Heinrichs IV, n. 21, p. 50).

Nel febbraio del 1077 A. ricevette da Gregorio VII l'incarico di recarsi - insieme con il cardinale Geraldo vescovo di Ostia - come legato pontificio a Milano, per esaudire la richiesta avanzata da una ambasceria milanese della quale aveva fatto parte il cronista Arnolfo: la legazione aveva il compito di riconciliare solennemente con la Santa Sede la città e la Chiesa ambrosiana dopo i trascorsi filoenriciani e lo scisma che si era determinato in quella archidiocesi.

Un tentativo di sedizione popolare in Milano contro i legati, promosso dall'arcivescovo Tedaldo, non riuscì ad affermarsi. Ma la presenza - in Lombardia - del sovrano, tornato a circondarsi dei consiglieri scomunicati, diede nuovo ardire ai più pervicaci antigregoriani, sicché il vescovo di Piacenza, Dionigi, non esitò a far imprigionare - sulla via del ritorno da Milano - i due legati pontifici, trattenendo a lungo Geraldo e rinviando invece subito libero A., il quale godeva di molte simpatie negli ambienti lombardi e apparteneva a una potente famiglia milanese.

Il vescovo di Lucca partecipò al concilio lateranense del febbraio 1079, durante il quale venne scomunicato - insieme con altri prelati - l'arcivescovo ambrosiano Tedaldo; e fu presente anche alla sinodo quaresimale dell'anno successivo, che provocò poi la violenta reazione di Enrico IV e quindi la rottura definitiva fra il sovrano e Gregorio VII.

Intanto nella sua diocesi lucchese A. svolgeva una impegnata azione per la riforma del clero, soprattutto cercando di diffondere la pratica della vita comune nello spirito apostolico della povertà. Mentre - come vedremo presto - la maggioranza del capitolo cattedrale fu pervicacemente restia a ogni riforma, la vita canonicale fioriva presso molte chiese del contado e della città, specie presso San Donato e San Frediano. Fra i centri di vita monastica, particolarmente seguiti dalle cure dei vescovo A., si illustrava l'abbazia di Fucecchio, divenuta vallombrosana e retta da Pietro Igneo. E si moltiplicavano e fiorivano le fondazioni ospedaliere: un importante xenodochio per poveri e pellegrini fu dal presule affidato all'abate del monastero di San Pietro di Camaiore.

Dal punto di vista economico, A. continuò l'opera di restaurazione e di ampliamento del patrimonio della Chiesa lucchese, già avviata dal suo predecessore: in questa azione egli fu aiutato dalla generosità della contessa Matilde, la quale fece larghe donazioni di beni all'abbazia di Fucecchio, e cedette alla cattedrale di San Martino il castello di Montecatini (7 maggio 1075) e al vescovado i propri diritti sul castello di Decimo.

Tuttavia una grave situazione veniva maturando nella diocesi e in particolare nella città di Lucca, tanto che - alla fine del 1080 - il vescovo A. venne costretto ad abbandonare la sua sede episcopale, a causa dell'ostilità di gran parte dei suoi canonici.

Nel capitolo della cattedrale lucchese si era determinata, fin dal 1048, una situazione molto tesa fra una minoranza di canonici riformati e una maggioranza di renitenti ad accettare le norme della vita comune. Nel dilagare della immoralità nel clero, Alessandro II - molto realisticamente - non si era impegnato a estendere la riforma all'intero capitolo, ma aveva cercato di bandire la simonia e si era preoccupato almeno di ottenere l'osservanza delle disposizioni canoniche circa il reclutamento e la formazione del clero e circa l'accesso ai vari ordini. Succeduto nell'episcopato a suo zio, A. non ne seguì la politica accorta e realistica nel restaurare l'ordine canonicale: egli infatti non si limitò a far applicare le disposizioni dei sinodi lateranensi del 1059 e del 1063, ma si rifece alla bolla di Stefano IX per i canonici di Lucca, nel tentativo di indurre tutti costoro alla osservanza della vita comune.

Probabilmente i primi contrasti fra i canonici della cattedrale e A. ebbero luogo subito dopo il suo ritorno dal monastero di Saint-Gilles (fine del 1075). La contessa Matilde intervenne a sostenere l'azione del vescovo facendo pressioni sul capitolo e sui singoli canonici e non lesinando promesse di privilegi per la Chiesa e di ricchezze e onori per i familiari dei canonici stessi (Bardonis Vita Anselmi, cap. VII, p. 15).

Alla fine del 1076, durante una breve sosta di Gregorio VII a Lucca sulla via del progettato viaggio in Germania interrottosi a Canossa, i canonici riottosi promisero al papa di abbandonare la loro protervia nei riguardi del vescovo e di emendarsi dalle loro colpe. Ma l'11 agosto dell'anno seguente Gregorio VII era costretto a scrivere (Reg., V, 1) ai canonici lucchesi ricordando loro le esortazioni già fatte personalmente, affinché si sottraessero alla scomunica meritata per l'acquisto simoniaco delle prebende, le quali dovevano essere abbandonate dai colpevoli "usque ad condignam satisfactionem". L'unico risultato del passo compiuto dal pontefice fu l'inasprirsi della ostilità del capitolo contro il vescovo. Dopo averli invano per due volte invitati a presentarsi a Roma, Gregorio VII scrisse ancora (2 nov. 1078: Reg., VI, 11) ai canonici lucchesi ponendoli di fronte all'alternativa di seguire la pratica della vita comune o di rinunziare alle proprie prebende, sotto pena della esclusione dall'ingresso in ogni chiesa.

Finalmente i canonici si decisero a inviare loro delegati a Roma per giustificarsi presso il papa. Gregorio VII, non riscontrando in loro alcun segno di resipiscenza, scomunicò i canonici lucchesi riottosi e li dichiarò decaduti dagli uffici e privati delle prebende: il primo biografa di A. afferma anche che essi furono riconosciuti colpevoli di avere insidiato la vita del loro vescovo.

L'annunzio dei suddetti provvedimenti di estrema gravità fu dato solennemente con una lettera dallo stesso Gregorio VII a tutto il clero e il popolo di Lucca (10 ott. 1079: Reg., VII, 2). La lotta della maggioranza del capitolo contro il vescovo appoggiata dai partigiani di Enrico IV divenne allora furibonda. A., in un estremo tentativo di pacificazione, si adoperò affinché la posizione dei canonici ribelli fosse riesaminata in un sinodo, che fu celebrato a San Ginese (presso San Miniato) sotto la presidenza del cardinale Pietro Igneo, vescovo di Albano (1080). Dalle scarse e vaghe notizie forniteci dalle fonti, possiamo dedurre che le sanzioni contro i colpevoli furono confermate e che fu soprattutto la simonia a ricevere un grave colpo per opera dello stesso Pietro che già aveva combattuto quel male così radicato, affrontando la prova dei fuoco a Settimo durante la lotta dei patarini fiorentini contro il vescovo e i chierici indegni (cfr. G. Miccoli, Pietro Igneo. Studi sull'età gregoriana, Roma 1960, pp. 128 s.).

Ma intanto le sorti del partito gregoriano precipitavano: mentre l'antire Rodolfo di Svevia cadeva combattendo in Sassonia, le truppe della contessa Matilde subivano a Volta Mantovana una grave sconfitta per opera delle milizie raccolte dall'antipapa Clemente III (ottobre 1080). Pertanto i partigiani del sovrano germanico cercavano di sollevare contro la gran contessa i signori feudali e le città della Tuscia, e intrigavano con particolare impegno e con felice successo nella città capitale, dove alla lotta della maggioranza dei canonici contro il vescovo riformatore si univa ora la sollevazione dei ceti cittadini nobiliari e borghesi contro il potere marchionale. A. fu costretto così a lasciare la sua sede episcopale, fermandosi prima nel contado: il 14 ottobre era a Santa Maria a Monte, il 19 dicembre si trovava ancora nel munito e fedele castello vescovile di Moriano sul Serchio, ad appena 4 km da Lucca. Ma dové presto lasciare la diocesi e riparare nella marca canossiana insieme con Matilde, mentre i pochi canonici riformati - rimastigli fedeli - resistevano nella roccaforte di Moriano ancora alla metà di aprile del 1081 agli attacchi dei partigiani di Enrico, dell'antipapa e del nuovo vescovo scismatico eletto dai canonici simoniaci. Ormai il sovrano stava scendendo in Italia e da Ravenna si dirigeva minaccioso verso Roma, presso la quale - ai campi di Nerone - si accampava il 21 maggio: dopo circa un mese e mezzo, per evitare il caldo e la malaria della campagna romana, si spostava in Toscana, dove i primi movimenti comunali cominciavano a prendere vigore. Il 25 luglio Enrico era a Lucca, e lì dichiarava Matilde decaduta dal marchesato e concedeva solennemente l'investitura al vescovo scismatico, diacono Pietro.

A. rimase pertanto in esilio, nella marca di Canossa, vivendo accanto alla contessa Matilde, alla quale - fin dal 1074 - era stato assegnato da Gregorio VII come padre spirituale. Il vescovo di Lucca collaborò attivamente alla intensa attività politica della signora di Canossa: "cum multa haberet secularia iudicia... Mathilda,... ipse suis eam, consillis ita peragere fecit omnia, ut et evangelica praecepta et canonum instituta legumque iura servaret" (Bardonis Vita Anselmi, cap. XII, p. 17).

Contemporaneamente, A. assumeva una posizione di primo piano nella vita politica ed , ecclesiastica dell'Italia settentrionale, in quanto veniva nominato da Gregorio VII suo vicario in Lombardia con la missione di ricondurre alla fedeltà a Roma e di assolvere coloro che erano stati scomunicati per aver parteggiato a favore di Enrico IV. E, con il vicariato, il vescovo di Lucca assumeva la reggenza di tutti i vescovadi privi di un presule "cattolico", cioè fedele al pontefice legittimo.

A. si preoccupò di fornire a Gregorio VII le risorse finanziarie per il proseguimento della lotta contro i partigiani del sovrano e dell'antipapa; e a tale scopo egli, insieme con la contessa Matilde, chiese e ottenne dall'abate di Canossa il tesoro del suo monastero: dalla fusione dei preziosi oggetti furono ricavate settecento libbre di argento e nove di oro, che vennero inviate alla Santa Sede. (La notizia è fornita da una nota premessa alla Vita Mathildis di Donizone nel codice canossiano, che è dell'inizio del secolo XII. Il testo è edito alla nota 14 di p. 385 in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, XII). Sembra che anche il monastero di San Prospero in Reggio e quello di Nonantola sacrificassero i loro oggetti preziosi per restaurare il tesoro della Chiesa romana.

Insieme con altri due fra i maggiori esponenti del partito gregoriano (Ugo arcivescovo di Lione e Rinaldo vescovo di Como), A. fu impedito da Enrico IV di recarsi a Roma per partecipare alla sinodo lateranense che si inaugurò il 20 nov. 1083.

Verso quest'epoca il vescovo di Lucca completò la stesura della sua Collectio canonum, che dal suo primo biografo è chiamata Apologeticus, probabilmente per la nettezza e la sistematicità con cui vi era sostenuto il primato dei pontefice romano non soltanto nei riguardi di tutti i membri della Chiesa individualmente considerati, ma anche nei riguardi dell'episcopato riunito in concilio e dei potentati laici e dell'imperatore. Infatti, i primi due fra i tredici libri che compongono la collezione anselmiana trattano appunto il primato della Chiesa romana, alla quale vanno riportate le causae maiores e gli appelli di tutte le Chiese. Importante è anche - a questo proposito - il libro terzo, nel quale, trattandosi dei privilegi di chiese e di monasteri, sono riportati i privilegi concessi alla Chiesa dagli imperatori Ludovico il Pio, Ottone I ed Enrico II. Ma la parte che è forse più originale e che meglio riflette la situazione drammatica della Chiesa impegnata nella lotta contro il sovrano, l'antipapa e i vescovi simoniaci e scismatici, è costituita dal libro XIII, il quale contiene l'esposizione sistematica della teoria riguardante il potere coattivo materiale. Secondo i testi canonistici raccolti e ordinati da A. a questo riguardo, non solo è lecito, ma - in determinate circostanze - necessario l'impiego di una forza coercitiva materiale per difendere gli interessi spirituali della Chiesa. Soggetto attivo di questa coazione sono l'autorità temporale e anche quella spirituale, ed entrambe proprio iure. La Chiesa esercita ordinariamente tale potere per mezzo dell'autorità temporale. Tuttavia, quando questo strumento ordinario viene meno, sussiste pur sempre il diritto nativo della Chiesa a esercitare la coazione materiale per mezzo di un braccio straordinario, che non è certo costituito da chierici, ma da laici (come in realtà avveniva nei movimenti patarinici). E di tale funzione coattiva i laici sono direttamente investiti dalla Chiesa, come suoi vicari.

Stretto riferimento con l'impegno pastorale di A. ha il libro VII della sua Collectio canonum, il quale tratta De communi vita clericorum et qui continere non possunt. Fra i testi citati in questo libro sono un canone del quarto concilio di Toledo, un passo della lettera di san Gerolamo a Nepoziano, brani tratti dai sermoni di s. Agostino: alle autorità già contenute nella prima parte della regola di Aquisgrana, A. aggiunge la lettera di Gregorio Magno a s. Agostino di Canterbury e le false decretali di Urbano I e (come appare in alcuni manoscritti) di Clemente I. Il vescovo di Lucca intendeva dimostrare dunque, con gli esempi, la continuità della vita comune del clero durante i primi sette-otto secoli della Chiesa: rettificando e integrando la regola di Aquisgrana nel punto più discusso, dopo le polemiche di Pier Damiani e di Ildebrando, cioè nei passi che consentivano la proprietà individuale dei chierici, egli insistette sulla necessità di praticare la virtù evangelica della povertà sia per il suo valore intrinseco, sia per la sua importanza come garanzia di castità, obbedienza e concordia. La povertà era affermata, m tal modo, come il fondamento di tutte le virtù essenziali dell'ordine canonicale.

La raccolta canonistica di A. riprende ben duecentocinquanta dei trecentoventuno capitoli costituenti la "collezione in settanquattro titoli", mentre attinge in misura molto minore dal Decreto di Burcardo, del quale non condivide la tendenza - diremmo - episcopale, mostrando molto favore per l'esenzione monastica.

Finora si è ritenuto generalmente di identificare il libro VII della Collectio canonum con il libellus che, secondo Bonizone di Sutri (Liber de vita christiana, a cura di E. Perels, Berlin 1930, p. 204), A. avrebbe composto per dare una norma alla vita comune dei canonici. Ma recentemente è stata avanzata anche l'ipotesi che il libellus anselmiano di cui parla Bonizone possa essere invece individuato in quella regula canonicorum che è stata ora scoperta nel codice vaticano Ottob. lat.175 (Cfr. J. Leclercq, Un témoignage sur l'influence de Grégoire VII dans la réforme canoniale, in Studi Gregoriani, raccolti da G. B. Borino, VI, Roma 1959, pp. 173-227, e in particolare p. 176 n. 7). Il testo ottoboniano è costituito da tre parti. Nella prima si svolge il tema della rinunzia al secolo, secondo i temi tradizionali dell'ascesi monastica e sotto l'influenza costante degli scritti di Gregorio Magno; nella seconda, è raccolta una lunga serie di sententiae patrum: l'autore del testo ottoboniano mostra - nel raccogliere queste citazioni - una notevole indipendenza rispetto alla corrispondente parte (capp. 1-113) della regola di Aquisgrana, in quanto - almeno in alcuni casi - trae le medesime citazioni da fonti certo indipendenti e inoltre riporta anche "autorità" che in quella non sono menzionate. Fra gli autori citati dalla regola ottoboniana prevale nettamente Gregorio Magno (89 citazioni), seguito da Ambrogio (33), Agostino (32), Gerolamo (28), ecc. La terza parte del testo edito dal Leclercq è quella che più specificatamente può definirsi "regola canonicale": essa, a parte pochi prestiti dalla regola di Aquisgrana, attinge ampiamente e direttamente alla regola benedettina (curando di sostituire i termini monastici con quelli canonicali) e alla regola detta di Gregorio VII. Ultimamente il Dereine ha messo in dubbio l'attribuzione di questa regola al grande pontefice, preferendo pensare a una origine milanese o almeno lombarda del testo. Quest'ultima ipotesi (ancora però in corso di discussione), il gran numero delle citazioni da s. Ambrogio e i molteplici riferimenti alla regola benedettina suffragano - a nostro avviso - la proposta avanzata molto dubitativamente dal Leclercq. A. infatti era di origine milanese e rimase sempre vicino e legato agli ambienti lombardi, e soprattutto era e si sentiva profondamente benedettino.

Anche durante il suo esilio, A. si prodigò per la diffusione della pratica della vita comune regolare presso il clero, nei territori della contessa Matilde, dove egli poteva soggiornare (Bardonis Vita Anselmi, cap. XXXI, p. 22: "Per singulas ecclesias in omni supradictae dominae terra regularem clericorum vel monachorum composuit vitam: qui et malle se, inquit, ut in ecclesia nullus esset vel clericus vel monachus quam irregularis, ut ita dicam, et irreligiosus").

Nonostante l'estrema rarità di testimonianze precise, possiamo ritenere che, negli ultimi tempi del pontificato di Gregorio VII, A. svolgesse insieme con la contessa Matilde - dalla marca canossiana - una intensa attività a favore del pontefice impegnato nella lotta drammatica contro il sovrano e l'antipapa. Il vescovo di Lucca in esilio dovette tenere le fila del partito gregoriano nell'Italia settentrionale.

Per merito di questa intensa azione, le sorti dei gregoriani sembrarono risollevarsi l'estate del 1084, specie quando (il 2 luglio) le milizie di Enrico IV, che aveva dovuto lasciare Roma liberata dai Normanni, furono sconfitte a Sorbara nel Modenese dall'esercito approntato dalla contessa. In quella occasione furono fatti prigionieri i vescovi di Parma e di Reggio e altri alti esponenti ecclesiastici e laici del partito enriciano e guibertino. E mentre, all'inizio di agosto, l'imperatore tornava in Germania, in diverse diocesi della marca canossiana erano messi da parte i prelati scismatici e trionfavano i gregoriani.

Ma Gregorio VII era presto costretto ad abbandonare Roma, dove l'antipapa rientrava in tempo per celebrarvi il Natale. In Germania Enrico IV colpiva i suoi nemici, mentre riorganizzava e accresceva le fila dei suoi fautori.

A. manteneva i contatti con i maggiori esponenti del partito gregoriano, anche d'Oltralpe. Scrivendo (nel 1085) al vescovo Ermanno di Metz per pregarlo in nome di Matilde di condonare agli abitanti di Briey in Lorena l'ammenda da questi dovuta per omicidi commessi e per invitarlo almeno a differire il pagamento fino a un prossimo auspicato incontro personale, A. si congratulava vivamente con il presule lorenese per la resistenza da lui opposta all'imperatore rientrante in Germania e lo esortava a perseverare nella difesa della Chiesa di Roma (Briefsammlungen der Zeit Heinrichs IV, n. 21, pp. 50-2).

Il vescovo di Lucca era inoltre in corrispondenza con il re d'Inghilterra Guglielmo il Conquistatore, ed ora (1085), "propter periculosa tempora quae imminent", più pressantemente lo scongiurava di venire a Roma per salvare la città e la Chiesa "de manu alienorum", come già quegli aveva promesso: "in exequendis que ad partes nostras litteris mandastis et que rescripta sunt tibi, viriliter age" (ibid. n. 1, p. 17).

Per quanto riguarda i rapporti con i signori italiani, sappiamo solo che A., come anche Gregorio VII, fu legato da paterno affetto al conte Federico di Montbéliard, sposo della nipote della marchesa Adelaide e per alcuni anni successore di questa nella marca di Torino. (Bernoldi Cronicon, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, V,p. 454).

II vescovo di Lucca, nel suo esilio, fu dunque "Hildibrandi papae cooperator indefessus", come rilevava già Sigeberto di Gembloux (Cronica, ibid., VI, p. 365). Fu naturale pertanto che Gregorio VII, in punto di morte, indicasse fra i candidati alla sua successione A. insieme con il cardinale Oddone, vescovo di Ostia, e con Ugo arcivescovo di Lione (Briefsammlungen..., cit. n. 35, p. 75).

Ma il voto estremo del pontefice non fu esaudito: infatti i cardinali presenti a Salerno si orientarono subito verso Desiderio, abate di Montecassino, il quale - per la sua attività passata - appariva come l'esponente di un partito propenso a una conciliazione di compromesso con l'imperatore. L'iniziativa dei cardinali era stata certo determinata dalla necessità di superare le difficoltà del momento, dato che il pontefice era morto lontano da Roma, dove il partito favorevole all'imperatore e all'antipapa continuava a contrastare quello gregoriano ora capeggiato da Cencio Frangipane. Ma nella scelta della persona di Desiderio dovettero anche avere molto peso le pressioni esercitate dal normanno Giordano principe di Capua. Il designato propose di attendere il parere della contessa Matilde avanti che si procedesse alla elezione. E sappiamo che la signora di Canossa e A. scrissero diverse e pressanti lettere a Ugo di Lione per invitarlo a Roma al fine di cooperare alla salvezza della Chiesa nell'estremo discrimine.

Il vescovo di Lucca fu esente da ogni ambizione alla cattedra apostolica né la sua candidatura venne presa in considerazione. Forse egli era già stanco e malato, di quel male che lo avrebbe condotto a morte non oltre un anno dopo; certo era impegnato nel seguire e, dentro i limiti del possibile, nel controllare la situazione politico-ecclesiastica dell'Italia settentrionale e - al tempo stesso - si sentiva legato sempre più a quell'isola di pace monastica che era il monastero cluniacense di San Benedetto di Polirone secondo la sua ormai remota e profonda vocazione.

Tuttavia A. - insieme con la contessa Matilde - dovette essere al centro delle manovre che si condussero per l'elezione pontificia; ed entrambi si prodigarono affinché fossero presenti a Roma in quella circostanza anche vescovi d'Oltralpe e particolarmente quell'Ugo di Lione che era uno dei massimi esponenti fra i gregoriani intransigenti. Per la situazione politica di Mantova e della marca canossiana e per il suo personale atteggiamento nei riguardi della riforma ecclesiastica e della lotta fra papato e impero, colui che era stato vicario di Gregorio VII in Lombardia veniva effettivamente a trovarsi ora in una posizione centrale, opportunissima per un'attività coordinatrice e mediatrice in campo gregoriano. Da una lettera dell'arcivescovo Ugo a Matilde, scritta dopo la morte di A., appare chiaro che la contessa non solo aveva insistito - insieme con il suo consigliere spirituale - affinché il metropolita di Lione venisse a Roma, ma che ella era per lo meno edotta circa le circostanze nelle quali era avvenuta l'elezione di Desiderio avanti l'arrivo del più rigorista fra i prelati gregoriani. Ekkehardo dice che Vittore III venne eletto "Mathildis illius potentissimae Italiae feminae assensu" (Chroniconuniversale, in Mon. Germ. Hist., Script., VI, p. 200).

Da parte sua A., dopo la scomparsa di Gregorio VII, aveva reso ancora più fervida la sua attività di animatore nella lotta contro il sovrano: "post obitum venerabilis papae Gregorii VII fideles sancti Petri contra tirannideni Heinrici... multum. incitavit" (Bernoldi Cronicon,in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, V, p. 445). Compose anche, nei suoi ultimi mesi, una lunga, ma vivace e serrata lettera all'antipapa: il Liber contra Wibertum. Dal testo risulta che già A. aveva scritto una prima volta a Guiberto nel tentativo di indurlo a deporre la dignità pontificia usurpata e ad abbandonare le parti di Enrico lV; ma aveva ricevuto una risposta deludente e dura. Ora, il vescovo di Lucca riprendeva l'attacco contro Guiberto rimproverandogli la sua elezione scismatica e ribadendo la dignità e la supremazia del pontefice romano: egli condannava inoltre le pratiche simoniache esercitate dal sovrano e polemizzava contro le sue pretese di controllare tutti gli uffici ecclesiastici maggiori e minori e di concedere la investitura ai vescovi, agli abati, ai prepositi eletti (Libelli de lite, I, pp. 517 ss.).

L'autore della biografia in prosa ci informa che A. compose un commento a Geremia (oggi perduto) e che aveva iniziato una esposizione dei salmi, interrotta per la sua morte al salmo CXXVIII; ne ha conservato qualche frammento Paolo di Benried nella sua vita di Gregorio VII, Migne, Patr. lat., CXLVIII, 95 (Bardonis Vita Anselini, cap. XXVI, p. 21 "In lamentationes Hieremiae lucidissimam fecit expositionem; Psalterium quoque rogatu benedictissimae Dei ancillae Mathildae exposuit luculentissime, breviter sed utiliter, usque in locum ubi dicit: Benediximus vobis in nomine Domini. Ibi siquidem vitam et expositioneni finivit").

A. morì in Mantova il 18 marzo 1086, essendo presenti al transito numerosi vescovi, chierici e nobili: vi erano fra gli altri i vescovi Goffredo di Maguelonne, Benedetto di Modena, Ariberto di Reggio, Ubaldo di Mantova, e il cardinale Damiano, abate di Nonantola. Come già precedentemente più volte aveva fatto, A. espresse in punto di morte il desiderio di essere sepolto nel monastero di San Benedetto di Polirone, che apparteneva all'obbedienza cluniacense, nella quale egli stesso era entrato come monaco. Ma, subito dopo la sua morte, intervenne Bonizone di Sutri, che soltanto il giorno avanti si era allontanato da Mantova, e con calore sostenne che il defunto doveva essere - in quanto vescovo - sepolto nella cattedrale. E così fu fatto, con grande solennità.

Un anno dopo la sua morte A. fu canonizzato dal papa Vittore III. Nel 1392 il sarcofago fu scoperto dal vescovo di Mantova Antonio degli Ubaldi, che trovò il capo del santo ben conservato. In quella circostanza la tomba fu trasportata a destra dell'altare maggiore; nel 1565 infine il santo fu deposto sotto l'altare stesso.

La festa di S. Anselmo da Baggio si celebra il giorno 18 marzo.

Opere di A.: Anselmi episcopi Lucensis Collectio Canonum una cun: collectione minore, iussu Instituti Savigniani, a cura di F. Thaner, Oeniponte 1906-1915 (l'edizione si ferma al lib. X: i rimanenti tre libri vanno ancora letti nelle capitulationes che sono in Migne, Patr. Lat.CXLIX, coll. 483-536); Anselmi Lucensis episcopi Liber contra Wibertum, a cura di E. Bamheim, in Monumenta Germ.Hist., Libelli de lite..., I, pp. 517-528.

Fonti e Bibl.: Fonti principali sono le due biografie di A.: Bardonis Vita Anselmi episcopi Lucensi, a cura di W. Wilmans, in Monumenta Ger Hist., Scriptores, XII, Hannoverae 1856, pp. 10 ss.; Vita metrica s. Anselmi Lucensis episcop. auctore Rangerio Lucensi, a cura di E. Sackur-G. Schwartz-B. Schmeidler, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, XXX, 2, Lipsiae 1929, pp. 1152 sa.

Su queste fonti si vedano: G. Colucci, Un nuovo poema latino dell'XI secolo, Roma 1895; A. Overmann, Die "Vita Anselmi Lucensis episcopi" des Rangerius, in Neues Archiv, XXI(1895), pp. 401-440; B. Schmeidler, Kleinen Studienzu den Viten des Bischofs Anselm und zur Geschichte des Investiturstreits in Lucca, ibid., XLIII (1922), pp. 1515 ss.; P. Guidi, Il Primicerio lucchese Bardo non è l'autore della "Vita s. Anselmi eptscopt Lucensis", in Miscell. lucchese di studi stor. e letter. in memoria di S. Bongi, Lucca 1931, pp. 11-29; Id., Della patria di Rangerio, autore della Vita metrica di sant'Anselmo, vescovo di Lucca, in Studi Gregoriani, raccolti da G. B. Borino, I, Roma 1947, pp. 263-280. Ma v.anche il recente studio di E. Pásztor, Una fonte per la storia dell'età gregoriana, in Bullett. d. Ist. stor. ital. per il M. E., LXXII (1961), pp. 1-33.

La bibliografia più antica è citata ampiamente da P. Richard, Anselme de Lucques,in Dict.d'Hist. et Géogr.Ecclés., III, coll.489-493. Ricordiamo soltanto, perché ancora utili, F. M. Fiorentini, Memorie di Matilde, la gran contessa..., Lucca 1642; A. Rota, Notizie istoriche di s. Anselmo, Verona 1733; D. Barsocchini, in Memorie e documenti per servire all'Istoria del Ducato di Lucca, V, Lucca 1844, pp. 371 ss.; A. Overmann, Gräfin Mathilde von Tuscien, Innsbruck 1895.

Per l'azione episcopale di A. in Lucca, si veda A. Guerra-P. Guidi, Compendio di storia ecclesiastica lucchese dalle origini a tutto il secolo XII, Lucca 1924, pp. 152 s.; per il monacamento e l'investitura episcopale di A., v.: G. B. Borino, Il monacamento e l'investitura di A. vescovo di Lucca, in Studi Gregoriani, raccolti da G. B. Borino. V, Roma 1956, pp. 361-374; per l'interesse di A. alla riforma canonicale, si vedano: E. Kittel, Der Kampf um die Reform des Domkapitels in Lucca im 11Jahrhundért, in Festschrift f. A. Bracktmann, Weimar 1931, pp. 207-247; Ch. Dereine, Le problème de la vie commune chez les canonistes d'Anselme de Lucques à Gratien, in Studi Gregoriani, raccolti da G. B. Borino, III, Roma 1948, pp. 287-298; M. Giusti, Le canoniche della città e diocesi di Lucca al tempo della riforma gregoriana, ibid., pp. 321-367; Id., Notizie sulle canoniche lucchesi, in Atti della Settimana di Studio sulla "Vita comune del clero nei secoli XI e XII" (Mendola, settembre 1959), v. I, Relazioni, Milano 1961.

Sulla collaborazione di A. con la contessa Matilde, v.: L. Simeoni, Il contributo della contessa Matilde al Papato nella lotta per le investiture, in Studi Gregoriani, raccolti da G. B. Borino, I, Roma 1947, pp. 353-372.

Per l'attività di A. dopo la morte di Gregorio VII, v.: A. Fliche, L'éléction d'Urbain II, in Le Moyen Age, s. 2, XIX (1916), pp. 356-394.

Sull'opera canonistica di A., si vedano: P. Fournier, Le premier manuel canonique de la réforme grégorienne, in Mélanges d'archéologie et d'histoire de l'Ecole française de Rome, XIV (1894), pp.147-223; Id., Observations sur diverses recensions de la collection canonique d'Anselme de Lucques, in Annales de l'Université de Grenoble, XIII (1901), pp. 427-458; P. Fournier-G. Le Bras, Histoire des collections canoniques en Occident, II, Paris 1931, pp.25-37; R. Montanari, La "collectio canonum" di s. A. di Lucca e la riforma gregoriana, Mantova 1941; A. Fliche, La valeur historique de la collection d'Anselme de Lucques, in Miscellanea historica in honorem Albert De Meyer; I, Louvain-Bruxelles 1946, pp. 348 ss.;A. Stickler, Il potere coattivo materiale della Chiesa nella riforma gregoriana secondo Anselmo da Lucca, in Studi gregoriani, raccolti da G. B. Borino, I, Roma 1947, pp. 235-285 (e cfr., sul medesimo argomento, C. Erdmann, Die Entstehung des Kreuzzungsgedankens, Stuttgart 1935, pp. 223-229).

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