ANIMISMO

Enciclopedia Italiana (1929)

ANIMISMO

Raffaele Pettazzoni

. Il termine animismo, usato già nel sec. XVIII a designare una teoria medica (G. E. Stahl, Theoria medica vera, 1707) fondata sulla vecchia dottrina vitalistica che vedeva nell'anima il principio vitale, fu applicato da E. B. Tylor ad una sua teoria concernente le forme primitive della religiosità, e restò poi definitivamente acquisito alla terminologia della scienza delle religioni. Il sistema dell'animismo, di cui si trovano già adombrati alcuni elementi nelle opere del Fontenelle (Histoire des Oracles, 1687) e di David Hume, nonché nell'Anthropologie der Naturvölker di Th. Waitz (vol. I-IV, 1859-1864), fu esposto dal Tylor per la prima volta nel 1867 in una conferenza tenuta a Londra, e poi ampiamente sviluppata nella sua opera classica Primitive Culture (1871). Questa teoria, che per una quarantina d'anni ha tenuto il campo nella scienza delle religioni, contrastata, se mai, soltanto dalla scuola filologica di Max Müller, ha per suo fondamento l'idea dell'anima come spiegazione elementare della vita e della morte, del sonno e del sogno, e come principio di ogni ulteriore sviluppo delle credenze religiose.

Mentre durante il sonno il corpo resta immobile, l'uomo, sognando, crede tuttavia di camminare, di andare da luogo a luogo, d'incontrare persone. Poiché in sogno si vedono anche defunti, è segno che qualche cosa di essi sopravvive, se può ricomparire ai superstiti. Questo che sopravvive alla morte è dunque tutt'uno con ciò che durante il sonno vive, ma lontano dal corpo che ha abbandonato temporaneamente, producendo, quando poi vi ritorna, il risveglio. Questo quid che, quando abbandona l'uomo provvisoriamente nel sonno, lo fa parer morto e quando poi l'abbandona per sempre produce la morte effettiva è, per un'ovvia illazione, concepito come il principio vitale. Poiché uno dei sintomi più sensibili della cessazione della vita è la cessazione del respiro, il principio vitale è pensato sovente come tutt'uno col respiro, come fiato, soffio, cioè appunto come anima, essendo anima, animus "vento" (cfr. il gr. ἄνεμος), come spiritus è propriamente "respiro", come πνεῦμα e ψυχή sono propriamente "soffio" (cfr. in ebraico rūăh e nepheè e l'equivalenza ϑυμός, fnmus): iacet corpus dormientis ut mortui, viget autem et vivit animus (Cicerone, De divinatione, I, 30, 63).

Giunto per questa via alla concezione di un'anima come principio vitale risiedente nell'organismo umano (non solo nel respiro essa è pensata, ma altrimenti nel cuore, nel polso, ecc.), l'uomo la estese per analogia ad altri esseri, e l'attribuì anche ad oggetti inorganici. Inoltre, accanto a queste anime vincolate - per così dire - ai corpi rispettivi, l'uomo concepì tutta un'altra categoria di esseri animici più o meno indipendenti dal corpo, o addirittura privi di corpo, che sono gli spiriti e, se particolarmente maldisposti e male intenzionati, i demoni. In seguito avvenne che gli spiriti animatori di esseri od oggetti di una medesima specie si fusero in uno spirito unico presiedente alla vita dell'intera specie: così si formarono le divinità-specie e le divinità compartimentali. Altre divinità furono svolte da spiriti presiedenti a corpi ed oggetti unici nel loro genere, specialmente ai grandi corpi celesti (Sole, Luna, ecc.). In tal modo, per un progressivo processo di riduzione di persone animiche e divine, dal primordiale animismo e polidemonismo si svolse il politeismo, e da questo, eventualmente attraverso un dualismo, si giunse al monoteismo.

Qui la teoria del Tylor riproduce, con una lieve variazione soltanto, lo schema dei tre gradi - feticismo, politeismo, monoteismo - che già A. Comte aveva posto a base dell'evoluzione religiosa, come infatti il sistema tyloriano ha in comune con l'evoluzionismo il carattere naturalistico ed antistorico, in quanto attribuisce a siffatto schema un valore di legge universale, ponendo che la religione non si svolga altrimenti che attraverso quei tre gradi a cominciare dal primo - l'animismo - il quale dunque sarebbe la forma originaria della religione, comune a tutta l'umanità. E poiché d'altra parte l'animismo è pel Tylor propriamente una "filosofia", una "teoria delle cause personali elevata a filosofia generale dell'uomo e della natura", si vede come alla base del sistema tyloriano stia una concezione intellettualistica della religione, qual'era comune al razionalismo e al positivismo.

H. Spencer fece propria la teoria tyloriana, solo accentuando la parte che nella formazione dell'idea di anima avrebbe avuto l'adorazione tributata a cospicui personaggi defunti (neo-evemerismo; v. evemerismo). La critica dell'animismo classico incominciò intorno al 1900. A. Lang che anche sotto altri rispetti fu uno dei primi a reagire contro il sistema tyloriano, criticò, fra l'altro, l'animismo nei suoi presupposti psicologici. Soprattutto la tesi dell'universalità dell'animismo e quella della sua assoluta priorità non ressero al confronto di nuove osservazioni e di nuovi studî. Si osservò che certi popoli, più o meno primitivi, i Cora del Messico, i Bali del Camerun, non hanno nessuna parola per esprimere l'idea di anima; e che presso altri l'idea di anima presuppone una nozione più elementare non animistica (preanimismo: R. R. Marett, K. Th. Preuss), mentre, anche indipendentemente dall'attribuzione di un'anima alle cose, queste possono essere concepite come animate in quanto dotate di vita (animatismo: W. Wundt, N. Söderblom).

In seguito al progressivo affermarsi del pensiero storico nella scienza delle religioni, la parte sistematica - naturalistica ed evoluzionistica - del sistema tyloriano si può dire ormai superata. Suo merito acquisito e duraturo è di aver fornito la chiave per l'interpretazione, e quindi per la trattazione scientifica, di una quantità enorme di fatti, sia della credenza, sia della prassi religiosa. A designare il complesso di questi fatti, che hanno un elemento comune nell'idea di anima, il termine animismo, inteso obbiettivamente, cioè sfrondato di ogni soprastruttura sistematica, è ancora il più conveniente.

Etnologia. - Che l'anima sia stata concepita primitivamente in funzione del processo respiratorio è un fatto provato da numerosi dati dell'etnologia religiosa (presso i Daiachi di Borneo cessazione del respiro vuol dire cessazione della vita). Da questa concezione fondamentale dipendono i caratteri della leggerezza, della tenuità, della volatilità, che sono generalmente attribuiti all'anima nelle varie nozioni che se ne formano i popoli primitivi e che rappresentano un primo avviamento alla concezione di un'anima immateriale. Presso certe popolazioni malesi l'anima è concepita come un piccolo essere - non più grande del pollice - fatto di una sostanza vaporosa, evanescente e riproducente la figura del rispettivo individuo. Frequentissima è la concezione dell'anima come provvista di ali, sia come una figurina umana alata (Grecia antica: nelle λήκυϑοι sepolcrali), sia come un uccello (Greci antichi, Egiziani, Babilonesi, Arabi, Lituani, Finni, Malesi, ecc.), sia come un insetto alato (farfalla, ape, mosca). L'anima di Aristea gli vola fuori dalla bocca in forma di corvo (Herod., IV, 15; Plin., Nat. hist., VII, 174); ciò che corrisponde alle note figurazioni medievali in cui una nuvoletta uscente dalla bocca di un moribondo sta a rappresentare l'anima che egli esala con l'ultimo respiro. Un'altra caratteristica dell'anima è il colore pallido: per ciò avvenne che dei selvaggi, i quali vedevano per la prima volta degli Europei, li prendessero per degli spiriti scoloriti di defunti ritornati in mezzo a loro (cfr. il francese revenant). Anche l'ombra, che riproduce i contorni della persona, l'ombra inseparabile dal corpo, eppure inafferrabile, fu identificata con l'anima (di qui l'uso di non calpestare l'ombra di qualcuno, ed altri simili). Oppure fu concepita come anima l'immagine che l'uomo vede di sé stesso riflessa nell'acqua o in uno specchio qualsiasi.

Altrimenti l'anima è localizzata nel cuore o nel polso, il cui cessare è parimente segno di morte; o anche nel fegato, specialmente presso i Semiti (cfr. M. Jastrow, Aspects of religious Belief and Practice in Babylonia and Assyria, New York e Londra 1911, p. 149 segg.).

Né queste diverse concezioni sono incompatibili l'una con l'altra, anzi possono coesistere insieme: uno stesso individuo può avere un'anima nella sua ombra, una nel suo fiato e un'altra nel suo cuore. L'esistenza di più anime nello stesso individuo è credenza comune a parecchi popoli primitivi: alcuni Daiachi credono di avere tre anime, altri credono di averne sette (Perham). Certi Bantu dell'Africa sud-occidentale credono di averne quattro: una che seguita a vivere dopo la morte, una che alloggia nel corpo di un animale nella foresta, un'altra che è l'ombra della persona e un'altra che appare nel sogno. L'idea di riporre la propria anima, o una delle proprie anime, nel corpo di un animale, oppure in un albero o in altro oggetto qualsiasi, introvabile, oppure tenuto segreto, è suggerita dalla preoccupazione di mettere al sicuro una parte di sé, della propria vita, per sottrarsi ai malefici, alle disgrazie, e simili. I negri di lingua tshi (costa di Guinea) ritengono che ci siano due anime: una che tiene in vita l'uomo dalla nascita alla morte e un'altra che seguita a vivere nel paese dei trapassati. In fondo tutti i diversi tipi di anime si riconducono infatti a questi due fondamentali: l'anima dell'uomo vivo e l'anima dell'uomo dopo la morte. La prima è propriamente il principio vitale, che può essere plurimo e differenziato, a seconda che risiede nel respiro, nell'ombra, nel sangue, nel cervello, ecc. La seconda è, per così dire, il principio mortale: è ciò che resta dell'uomo quando la vita cessa: qualche cosa di inconsistente che conserva tuttavia tal quale la forma e i tratti del defunto, ma che è priva di vita, vero "cadavere vivente" in cui si esprime la concezione primitiva della morte, che non è il nulla. L'anima del primo tipo, cioè il principio vitale, cessa con la morte. Ma anche la seconda può morire a sua volta, p. es. può essere uccisa - come credono i Papua della Nuova Guinea ex-tedesca - per via di qualche maleficio operato in suo danno da qualcuno dei superstiti.

Diffusissimo presso le popolazioni incolte, l'animismo sopravvisse in forme svariate nelle religioni dei popoli civili dell'antichità (Egiziani, Babilonesi, Greci, Romani, Indiani, Cinesi, ecc.). Né valse a sradicarlo la formazione e la diffusione di religioni superiori, anzi anche queste ne restarono in qualche modo influenzate e tra esse il cristianesimo, già nel periodo delle origini, e poi nel suo propagarsi presso le popolazioni barbariche dell'Europa. Il folklore europeo ha conservato, specialmente nei costumi delle plebi agricole, non pochi elementi di origine animistica (p. es., nei riti della mietitura, lo "spirito del grano" rifugiato nell'ultimo covone, ecc.).

L'importanza dell'animismo per la storia della religione sta in ciò, che da esso dipendono due ordini di fatti religiosi importantissimi, e cioè, nell'ordine delle credenze tutte le idee relative alla sopravvivenza dell'anima, all'al di là, alla vita ultraterrena; nell'ordine della prassi tutto il culto dei morti.

L'animismo ha avuto una parte cospicua nello sviluppo dello spirito umano: come religione dell'uomo di fronte alla religione della natura, valse ad approfondire la conoscenza della vita interiore; come religione dell'individuo di fronte alla religione della società, concorse a sviluppare la coscienza della personalità e della responsabilità morale.

Bibl.: E. B. Tylor, Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, 5ª ed., Londra 1913, (cfr. Researches into the early History of Mankind, ivi 1865); H. Spencer, The principles of Sociology, I, Londra 1877. - Per la storia e la critica dell'animismo: A. Lang, The Making of Religion, 3ª ed., Londra 1909; R. R. Marett, The Threshold of Religion, 2ª ed., Londra 1914; K. Th. Preuss, Die geistige Kultur der Naturvölker, 2ª ed., Lipsia 1923; W. Wundt, Völkerpsychologie, IV, Mythus und Religion, i, 3ª ed., Lipsia 1920; N. Söderblom, Das Werden des Gottesglaubens, 2ª ed., Lipsia 1926; A. W. Nieuwenhuis, Die Wureln des Animismus, Leida 1917; G. van der Leeuw, Einführung in die Phänomenologie der Religion, Monaco 1925; R. Pettazzoni, Svolgimento e carattere della storia delle religioni, Bari 1924; J. W. Hauer, Die Religionen, I, Stoccarda 1923. - Per l'animismo presso singoli popoli e religioni: A. C. Krujit, Het Animisme in den indischen Archipel, L'Aja 1906; H. Ling Roth, The Natives of Sarawak and British North Borneo, Londra 1896, voll. 2; A. W. Nieuwenhuis, op. cit.; W. W. Sheat, Malay Magic, Londra 1900; Im. Thurn, Among the Indians of Guiana, Londra 1883; E. Arbmann, Untersuchungen zur primitiven Seelenvorstellung, mit besonderrer Rücksicht auf Indien (la 2ª parte: Altindischer Seelenglauben, sein Ursprung und seine Entwicklung), in Le Monde Oriental, XX (1926), pp. 85-226, XXI (1927); K. Th. Koch, Zum Animismus der südamerikanischen Indianer, Leida 1900. Nel mondo classico: E. Rohde, syche, 9ª-10ª ed., Tubinga 1925, traduzione ital., Bari 1916; O. Waser, Über die äussere Erscheinung der Seele, in den Vorstellungen der Völker, zumal der alten Griechen, in Archiv. für Religionswissenschaft, XVI (1913), p. 336 segg.; cfr. O. Immisch, Sprachliches zum Seelenschmetterling, in Glotta, VI (1914-15), pp. 193 segg., 330 segg. Nelle religioni superiori: Dölger, Exorzismus im altchristl. Taufritual, Paderborn 1909; I. Goldziher, Der Seelenvogel im islamischen Volksglauben, in Globus, LXXXIII (1903), p. 301 segg.; S. M. Zwemer, The Influence of Animism on Islam, Londra 1920.

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