Anima

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)

Anima

J. Le Goff
J. Baschet

INQUADRAMENTO GENERALE

di J. Le Goff

I problemi filologici, teologici, filosofici e storici posti dall'a. sono di straordinaria complessità. Ci si limita qui a indicare in maniera sommaria gli aspetti di quei problemi che fanno luce sulle rappresentazioni dell'a. nell'iconografia medievale. Il notevole impoverimento che sembra manifestarvisi è dovuto sia all'esigenza e alla difficoltà di adeguare la rappresentazione figurata alla parola e alla scrittura, sia alla volontà della Chiesa - che dominava e controllava questa produzione iconica - di concentrare il potere dell'immagine su alcune caratteristiche essenziali dell'anima. Ne deriva allo studio delle immagini grande interesse anche per lo storico, che da esse, nonché dal grado di ricezione che ne ebbe la società medievale, può dedurre gli aspetti e le implicazioni fondamentali della nozione di a. nel Medioevo, difficili a cogliersi nella complessità delle concezioni degli intellettuali cristiani, con le quali peraltro queste immagini mantengono rapporti dialettici.

Le raffigurazioni medievali dell'a. si riferiscono ai problemi della sua materialità o immaterialità e collocazione nell'aldilà, prima e dopo il Giudizio universale. Riguardano dunque il cuore delle questioni concernenti l'individuo, il corpo, la salvezza, l'aldilà.

I termini egizi, ebraici, greci, latini, che hanno designato l'a. o concetti a essa analoghi, sono il più delle volte difficili da definire, così come è spesso complesso precisare i rapporti d'origine tra concezioni tra loro vicine ma espresse da parole diverse.

Ci si limita a ricordare in questa sede che la parola greca che meglio ha definito quel che viene espresso con il termine a. (ψυχή 'psiche') ha dato vita nella maggior parte delle lingue occidentali al campo semantico della psicologia - cosa che basta a segnalare l'importanza delle concezioni antiche dell'a. - e che, tra le parole latine fra le quali ha oscillato la nozione di a. (mens, spiritus, animus, anima), il binomio spiritus-anima ha svolto (e svolge tuttora, nelle lingue romanze) un ruolo di importanza fondamentale, mentre anima (dal gr. ἄνεμοϚ 'vento, soffio') è quella che alla fine si è imposta per designare la specifica nozione che ha dato luogo, essa ed essa soltanto (a parte quella di Spirito Santo), a una iconografia medievale abbondante e significativa.

Eredità pagana

I) In Omero ciò che venne in seguito chiamato a. appare come sdoppiato tra il θυμόϚ 'passione', che evoca il fluire del sangue, e la ψυχή, che significa 'vita, soffio vitale'. Alla morte la ψυχή abbandona il vivente attraverso la bocca e se ne va verso l'ade, agli inferi, come il 'doppio' del defunto, mentre il θυμόϚ muore con l'individuo. Ciò che rimane è una vita divenuta vegetativa, impersonale, che talora assume sembianze di fantasma. L'idea dell'a. come principio spirituale unico non appare concepita in modo chiaro così come non esistono espressioni specifiche relative alla divinità o immortalità dell'anima. Viene però posto il problema dell'individualità di quest'ultima e del suo destino dopo la morte, mentre il fatto che i morti possano riapparire sotto forma di a. suggerisce l'idea che l'a. abbia una sua funzione nelle relazioni tra vivi e morti.

Nel periodo che va da Omero ai filosofi della Grecia classica, nei secc. 5° e 4°, vediamo emergere novità fondamentali. Anzitutto la ψυχή diviene l'elemento unificatore dell'uomo vivente, di cui costituisce la componente essenziale, ed è persuadendola a 'convertirsi' che i misteri religiosi assicurano sia a essa sia all'uomo vivente la vita e la felicità eterne. Inoltre corpo e a. coabitano bensì pacificamente nell'uomo, durante la sua vita mortale, ma ben presto si produce una mutazione fondamentale: il corpo e l'a. si ergono l'uno contro l'altra "come fratelli nemici" (Saffrey, 1968).

II) In alcune religioni primitive e in particolare nello sciamanismo si riscontra la credenza che esista nell'uomo un'a. o un 'io' di origine divina, in grado, ricorrendo a determinate tecniche, di lasciare il corpo, al quale preesiste e sopravvive. Giunte in Grecia attraverso la Scizia, la Tracia e l'Asia Minore e qui combinatesi con arcaici elementi religiosi greci, queste credenze riappaiono nell'orfismo, nel pitagorismo e in diversi movimenti religiosi. La libertà di cui l'a. può godere nel sonno o quando lo sciamano entra in trance, le pratiche ascetiche che liberano l'a. dal corpo mostrano che l'a. - che può viaggiare da un corpo all'altro e reincarnarsi successivamente in più corpi come in altrettante prigioni - è immortale e che il corpo è il suo peggior nemico. È un dualismo che in certa parte ritornerà nel cristianesimo, che peraltro rigetta ogni forma di metempsicosi.

III) Nell'antico Egitto ogni uomo era composto di un corpo (djet) e di più a. (cosicché al momento dell'introduzione del cristianesimo gli Egizi dovettero derivare dal gr. il termine ψυχή per tradurre a., concetto al quale non corrispondeva nessuna delle parole e dei concetti egizi). Delle tre principali 'anime', l'akh è lo spirito, principio immortale che esiste dopo la morte come un fantasma ed è simbolizzato dall'ibis; il ba è anch'esso un principio spirituale che si libera dopo la morte e viene raffigurato in forma di uccello dalla testa umana; il ka assomiglia piuttosto al respiro, al principio vitale legato al corpo ma che a esso sopravvive e al quale vengono recate, dopo la morte, le offerte funebri. Ciò che conferisce all'antropologia egizia un'importanza particolare non è già, contrariamente alla Grecia e allo sciamanismo asiatico, il fatto che vi si ritrovino concetti che fanno luce sulla natura dell'a. cristiana - vuoi perché il cristianesimo le ha ereditate, vuoi perché le ha rifiutate -, ma piuttosto l'esistenza, nella religione egizia, di un tema che, trasmesso al cristianesimo, costituì nella storia medievale di quest'ultimo la via principe per la raffigurazione dell'a.: la 'pesatura dell'anima'.

Quando, verso la metà del secondo millennio prima dell'era cristiana, la religione egiziana assume carattere più etico e la religione c.d. di Osiride insiste sulle nozioni di probità di vita e di giustizia, si vede apparire anche il tema del 'giudizio del cuore' del defunto che sviluppa in forme generalizzate e raffinate l'idea del giudizio che secondo i Testi delle piramidi - di un millennio più antichi - era riservato ai re dopo la morte. Nel Libro dei morti il defunto compariva nella 'sala delle due Giustizie' al cospetto di un tribunale presieduto da Osiride, assistito da Iside, da Nefti, talvolta da Ra e da quarantadue consiglieri. Mentre il morto protestava la moralità della sua vita, il dio Thoth, dalla testa di ibis, controllava la pesatura del cuore sul piatto di una bilancia che sull'altro piatto reggeva la dea Maât, la Giustizia-Verità. Se la bilancia si assestava in una posizione di equilibrio, il defunto era salvo e andava ad abitare la dimora dell'eternità; in caso contrario un mostro vicino alla bilancia, la 'Grande divoratrice', si avventava sul morto e ne faceva scempio. Un'immagine del papiro di Ani riprodotta da Budge (1898, tav. III) e da Perry (1912-1913, tav. I A) rappresenta appunto il cuore del defunto pesato da Anubi davanti a Osiride su un piatto di bilancia, mentre l'altro piatto è occupato da una piuma che simboleggia la Giustizia-Verità. La bilancia è in equilibrio; il mostro che attende è deluso, non avrà il defunto che è salvato. Sono evidenti le somiglianze e le differenze con l'iconografia cristiana. Le similitudini sono costituite dal tribunale, dalla pesatura, dal pesatore e dalla presenza di un mostro sterminatore. Qui però il defunto parla, mentre nelle immagini cristiane l'a. del morto rimane muta; inoltre - e soprattutto - quel che viene pesato non è l'a. ma un cuore che rappresenta il defunto e ciò che si cerca non è se esista o no squilibrio tra il bene e il male ma equilibrio tra il morto e il bene. Due diverse antropologie, due diverse etiche si delineano dietro le due scene simili, delle quali la prima, quella egizia, giunse a ispirare l'iconografia cristiana medievale tramite, con ogni probabilità, i cristiani copti d'Egitto.

Il tema della pesatura delle a. non era sconosciuto ai Greci. In due passi dell'Iliade (VIII, v. 58 ss.; XXII, v. 179 ss.) si parla delle bilance d'oro di Zeus, attribuite a Giove in un passo dell'Eneide di Virgilio (XII, v. 722 ss.). In quanto alla psicostasia, essa appare nell'arte greca antica solo in qualche raro esempio in cui - come nell'Iliade - non si tratta di pesatura di a. ma di defunti rappresentati per lo più da figurette umane, micro-ritratti degli uomini i cui destini sono in causa. Su un vaso del sec. 6° a.C., conservato nel British Mus. di Londra, Hermes pesa su una bilancia due figurine di soldati che si affrontano, probabilmente Achille e Memnone. La stessa scena, con gli stessi personaggi, si ritrova in due vasi, uno a Parigi - ove la pesatura si svolge alla presenza di Zeus e di Teti - l'altro a Leida.

In un rilievo greco che si trova a Boston (Mus. of Fine Arts) un giovane alato, sorridente e in posizione eretta, tiene una bilancia, su ogni piatto della quale si trova una figurina di giovane; il piatto di destra pesa più di quello di sinistra. Due grandi figure femminili sono sedute a ciascun lato della scena, gaia quella di destra, in lamentazioni quella di sinistra. L'interpretazione tradizionale vede nel giovane alato Eros e nelle due donne le madri dei due giovani di cui la bilancia indica il destino, ma si potrebbe anche meglio interpretarlo come la personificazione del destino fausto o infausto di uno stesso adolescente a seconda che egli scelga la via della virtù o del vizio. In ogni caso, questo pezzo unico costituisce un anello nella catena delle rappresentazioni che portò alla psicostasia cristiana. Si tenga a mente la forma di queste figurine umane sui piatti della bilancia, perché così vennero rappresentate le a. cristiane e le ali del pesatore. L'accostamento tra l'a. e un uccello, il simbolismo dell'ascesa al cielo, la parentela tra le rappresentazioni dell'a. e degli angeli (le a. cristiane vennero talvolta dotate di ali) annunciano a loro volta altrettanti elementi dell'iconografia cristiana dell'anima. D'altro canto, si vede apparire nell'immaginario dell'antica Grecia il personaggio di Hermes (divenuto Mercurio a Roma) come psicopompo, accompagnatore delle a. nell'aldilà. È l'annuncio della funzione dell'arcangelo Michele nell'iconografia cristiana medievale, non già perché s. Michele sia il successore di Hermes, ma perché incarna una funzione identica in un sistema in cui il significato viene profondamente cambiato, nonostante un'apparente continuità.

IV) È nella filosofia greca classica che la dottrina dell'a. assume contorni più precisi. Socrate insegna che occorre prendersi cura della propria a. per renderla migliore (Apologia, 24d; 30a) e che "l'uomo è la sua anima" (Alcibiade, 130c); Platone mette a punto nel Fedone una vera e propria psicologia. L'a. che conosce le idee è come loro di natura divina e, contrariamente al corpo, ha per essenza la vita. Nella Repubblica e nel Fedro Platone sviluppa una teoria complessa a proposito delle componenti dell'a., ma in ogni caso quest'ultima resta per lui immortale, almeno in quella parte che conosce l'Idea, il νοῦϚ, mentre l'ade è il 'serbatoio' delle anime.

Aristotele consacra all'a. un trattato che, nella sua traduzione latina, il De anima, fu oggetto nel corso del Medioevo di numerosi commenti e riferimento costante di tutte le teorie psicologiche variamente elaborate. Superando il dualismo, Aristotele dimostra che l'a. è unita al corpo come la forma alla propria materia, "l'anima è la forma del corpo" (II, 1, 412a, 20-27). Grazie all'a. l'uomo può sfuggire alle vicende umane e mortali e "vivere una vita divina". Solo una parte dell'a. è separabile dal corpo: è il νοῦϚ, che costituisce l'a. immortale e divina.

Il mondo ellenistico e quello greco-romano videro nascere lo stoicismo, per il quale l'a. dell'uomo non è che una scintilla di vita cosmica destinata a ritornare al grande tutto alla fine dei periodi che riportano la conflagrazione universale (Saffrey, 1968). Per gli epicurei corpo e a. non sono se non una aggregazione provvisoria di atomi, gli uni più spessi, gli altri più sottili, che si disgregano alla morte. Questa dottrina che nega la spiritualità e l'immortalità dell'a. non si prestò ad alcun compromesso con il cristianesimo e pertanto non ebbe seguito nel Medioevo. I sostenitori della tradizione platonica operarono invece una importante mutazione che il cristianesimo fece propria e che ebbe sull'iconografia medievale una grande influenza: le a., dopo la morte, anziché scendere nell'ade salgono in cielo.

All'inizio dell'era cristiana, il rinnovamento neoplatonico - segnatamente in Plotino - mise a punto una sorta di schema della natura dell'a. che esercitò a sua volta una grande influenza sulle concezioni cristiane. L'a., una delle tre ipostasi divine (Uno, Intelletto, Anima), è immateriale ed eterna. Discesa nel corpo terreno, essa aspira all'ascesi e alla morte, a 'fuggire verso l'alto' e a ritrovare la sua patria celeste.

Fondamenti scritturali

Nella Bibbia non esiste una dottrina precisa e sistematica dell'anima.

Giudaismo antico e Antico Testamento

Nell'antico giudaismo, in fatto di a. e di problemi relativi alla sua unità e immortalità le idee rimangono a lungo vaghe.

La Bibbia presenta l'uomo composto di tre elementi: la nefesh (tradotta in gr. con ψυχή e che rappresenta quindi più particolarmente l'a.), ossia la respirazione, la vita, la persona; il basar, ovverosia il corpo attraverso il quale si manifesta la nefesh; la ruash (πνεῦμα, spiritus), il soffio, lo spirito trasmesso da Dio che assicura l'esistenza del composto nefesh-basar e la presenza di Dio nell'uomo. Una componente fondamentale di quest'ultimo è costituita inoltre dal leb (ϰαϱδία, cor), il cuore, che rappresenta il principio dei sentimenti e dei pensieri.

La Genesi oppone con vigore, al momento della creazione di Adamo per opera di Dio, il corpo materiale e l'a. spirituale: "formavit igitur Dominus Deus hominem de limo terrae et inspiravit in faciem eius spiraculum vitae et factus est homo in animam viventem" (Gn. 2, 7). È l'a.-spirito (ruah) - che solo l'uomo possiede a differenza degli animali, i quali hanno sì un'a. (nefesh), che però alla morte ritorna terra, mentre quella dell'uomo sale in cielo (Eccl. 12, 7) - è questa a.-spirito, che pone l'uomo come re terreno della creazione al di sopra degli animali, appena al di sotto degli angeli e gli assicura carattere divino e immortalità.In una linea di sviluppo tra Antico e Nuovo Testamento, il corpo ritorna alla terra, da cui proviene, mentre l'a. sale nuovamente a Dio che l'ha donata ad Adamo (Gn. 35, 19; Sal. 103, 29; Eccl. 12, 7); alla morte l'a. viene spogliata dunque del corpo come d'un abito (Is. 53, 12; Gb. 4, 19; 2 Cor. 5, 2) e la resurrezione si realizza con il ritorno dell'a. nel suo corpo (Ez. 37; Lc. 8, 55). A questa luce bene si comprende l'importanza che ha nel Medioevo la rappresentazione dell'a. in uno con il suo contesto iconografico: ciò che in essa viene posto in gioco è di fatto l'intera antropologia cristiana nei suoi elementi fondamentali.

Nuovo Testamento

Il Nuovo Testamento trae le conseguenze, per ciò che concerne lo status dell'a. umana, dalla incarnazione, dalla morte e dalla resurrezione di Gesù. L'immortalità dell'a. si compie per volontà di Dio nella resurrezione del corpo in virtù dello Spirito Santo, "dono che Dio si è ripreso dall'uomo in seguito al peccato" (Gn. 6, 3) e che gli rende attraverso l'unione al Cristo risorto (Saffrey, 1968). Oltre al dualismo a.-corpo viene messa in luce con ciò la sostanziale unità della persona umana: in particolare in Mt. 10, 28, in cui l'uomo viene designato con l'espressione anima et corpus e in un passo di s. Paolo (1 Ts. 5, 23), in cui l'autore (che ha molto contribuito ad arricchire il pensiero cristiano sull'a.), parlando dello spirito nella sua integralità di a. e corpo, sottolinea non già le interne divisioni, ma l'unità dell'essere umano. Se l'a. (ψυχή) rimane il principio vitale che vivifica il corpo e può servire a designare l'uomo nel suo complesso, essa è a sua volta retta dal πνεῦμα, principio pensante che porta all'uomo la vita divina. Questa distinzione resta fondamentale in tutta la mistica cristiana, tesa, nel variare delle pratiche ascetiche, a elevare l'uomo, dall'uomo 'psichico' (ψυχιϰόϚ), immerso nella vita naturale, all'uomo 'pneumatico' (πνευματιϰόϚ), che il soffio soprannaturale mette in relazione con lo Spirito Santo.

Fondamentale, tra i temi base della dottrina cristiana quale risulta dalle Scritture, è la concezione secondo cui l'a., grazie allo Spirito Santo manifestato da Gesù, può rendere immortale il proprio corpo. La ψυχή si trasfigura in πνεῦμα che opera "la glorificazione e l'incorruttibilità del corpo umano" (Saffrey, 1968). Il cristianesimo appare in questo senso il compimento di secoli di filosofia greca sull'a.; mentre le parole di Gesù - "Qui voluerit animam suam salvam facere, perdet eam; qui autem perdiderit animam suam propter me, inveniet eam" (Mt. 16, 25) - suonano invito a divenire, in Gesù, persona umana perfetta, a. e corpo. Così come è stato sostenuto dal teologo protestante Cullmann (1956), ciò che il Nuovo Testamento insegna sulla sorte individuale dell'a. dopo la morte non è tanto l'immortalità dell'a., quanto la resurrezione dei morti. E la resurrezione dei corpi non poteva essere ammessa dalla filosofia pagana (At. 17, 32).

Si fa meglio evidente, a questa luce, il significato profondo di quello che è il tema essenziale dell'iconografia cristiana medievale, la pesatura dell'a. nel quadro del Giudizio universale, della resurrezione dei corpi e della riunificazione dell'a. e del corpo.

Dai Padri della Chiesa al Rinascimento

Il De anima di Tertulliano (inizio del sec. 3°) sembra essere stato il primo dei numerosi trattati sull'a. che i teologi latini scrissero nella Tarda Antichità e nel Medioevo. Va notato che molti di questi trattati, e probabilmente i più importanti, sono andati perduti: è il caso per es. di quello scritto dal medico stoico pagano Sorano, nel sec. 1°, come del trattato dell'influente retore cristiano africano, trasferitosi in Gallia alla fine del sec. 5°, Giuliano Pomerio. Tertulliano, che si ispirava a Sorano, credeva, come gli stoici, alla corporeità dell'anima. Non ci si sofferma qui che su quest'aspetto della dottrina del teologo africano e solo in quanto esso si collega all'iconografia medievale. Tertulliano aveva d'altronde fatto ricorso a una visione delle a. incarnate parlando della corpulentia animae ed evocando, a proposito della parabola evangelica di Lazzaro e del ricco epulone, le a. dei martiri.

Spettò al greco Origene (185-252 ca.) - che si riallacciava peraltro alle correnti platoniche, con venature di gnosticismo - formulare un inventario dei principali interrogativi posti dal cristianesimo a proposito dell'a.: "L'anima è corporea o incorporea, semplice o composta? [...] È stata creata, come alcuni ipotizzano, oppure è increata ? E se è stata creata, in che modo ciò è avvenuto? È essa contenuta, come certuni pensano, nella semenza corporale e trasmessa come il corpo, o viene dal di fuori, già perfetta, per rivestire il corpo già formato e pronto a riceverla nelle viscere della donna? E, in questa ultima ipotesi, giunge appena creata, fatta nell'attimo stesso in cui il corpo si forma, così da dover vedere la causa della sua creazione nella necessità di animare il corpo; oppure, fatta da molto, si deve pensare che abbia un qualche motivo per venire a prendere questo corpo; e, se così è, qual è questo motivo? [...] Bisogna sapere inoltre se essa si riveste del corpo una sola volta, non cercandolo più quando lo ha lasciato; o se, una volta lasciato, lo riprende di nuovo, vuoi per tenerlo per sempre, vuoi per riabbandonarlo un'altra volta. Per conoscere se stessa l'anima deve ancora sapere [...] se vi sono altri spiriti della sua stessa natura e altri di natura differente, vale a dire se vi sono altri spiriti ragionevoli come lei e altri sprovvisti di ragione; e se essa è o no della stessa natura degli angeli, dato che non si vede come potrebbero differire tra loro ragionevole e ragionevole" (Origene, In Canticum Canticorum, PG, XVI, coll. 1567-1610; Rotureau, 1948, coll. 430-431).

Per l'iconografia, la questione più importante è quella della corporeità o non corporeità dell'anima. Origene esita molto su questo punto, ma l'argomento da lui addotto in favore della corporeità sembra aver avuto un suo peso sul pensiero dei teologi e chierici medievali: come potrebbero gli spiriti sussistere nell'altra vita senza corpo "dato che solo Dio può essere concepito sussistente senza una sostanza materiale?" (De principiis, 7; PG, XI, coll. 126-127). D'altro canto l'allusione agli angeli sembra far appello a una qualche parentela a.-angelo, almeno a livello di problematica generale. Non vorremmo d'altronde soffermarci troppo sulle controversie medievali sull'origine e la molteplicità o unità dell'a., perché non sembra abbiano avuto grande influenza in campo iconografico. Si può dire che la tendenza a raffigurare l'a. in un unico modo, più o meno imposto dalla rappresentazione iconica, finì per rafforzare le teorie favorevoli all'unità dell'a. e che l'origine divina dell'a. umana - sottolineata dalla Genesi al momento della creazione di Adamo, figura emblematica dell'uomo - andò rapidamente affermandosi.

È stato detto che la chiesa medievale si pose il problema della realtà o meno dell'a. delle donne, ma è stato dimostrato (Berlioz, 1980) che si trattava di un falso problema, generato da una cattiva interpretazione di un passo dell'Historia Francorum di Gregorio di Tours; un problema più che altro linguistico, visto che in un concilio era stata posta la questione se la parola homo potesse applicarsi tanto a una donna quanto a un uomo. Il cristianesimo medievale non solo non rifiutò mai un'a. alla donna, affermò al contrario che Dio gliela diede - quando la creò dalla costola di Adamo - non già tramite la mediazione di quest'ultimo, ma direttamente. È un punto su cui l'iconografia porta una testimonianza inconfutabile: nelle immagini medievali le donne sono dotate di un'a. esattamente come gli uomini.

S. Agostino non ha una sua dottrina originale e sistematica sull'a., ma affronta - in una linea che era allora già divenuta tradizionale nel cristianesimo - tutti i problemi che la riguardano, formulandoli in modo che fece testo nel corso del Medioevo in ragione della sua personale autorità. Benché segnato dal platonismo, piuttosto che dallo stoicismo, Agostino sostiene sia l'unità dell'a. nell'uomo, sia l'unità naturale del complesso a.-corpo, respingendo esplicitamente l'idea che il corpo sia la prigione dell'a., il che offre un contrappeso a una frase di Gregorio Magno, altra grande auctoritas medievale, ove si parla del corpo come "dell'abominevole abito dell'anima". Inoltre in sottili disquisizioni sulla corporeità o non corporeità dell'a., arriva a una formula in grado di soddisfare i fautori così della materialità come dell'immaterialità dell'a., alla quale conserva una sorta di corporeità a livello di apparenza. Nel De anima et eius origine (IV, 21; PL, XLIV, col. 543) parla di similitudo corporis, aggiungendo "non omnis similitudo corporis corpus est" e rapportando la similitudo corporis dell'a. a quella vuoi dei personaggi che popolano i sogni vuoi degli angeli. Tuttavia ciò che soprattutto la teologia e la spiritualità medievali devono alla estrema raffinatezza delle analisi psicologiche di Agostino è la capacità di conservare molte sfumature nella trattazione di questioni come la memoria, l'immaginazione, gli stati e le operazioni dell'anima.I trattati relativi all'a. che si susseguono numerosi fino al sec. 12° non sembrano aver portato novità apprezzabili; alcuni, come il Tractatus de anima di Rabano Mauro, nel sec. 9°, sono più vicini al platonismo e dunque a una visione più spirituale dell'a. e a una maggiore attenzione ai conflitti tra questa e il corpo, altri, il maggior numero, s'ispirano soprattutto ad Aristotele, fautore della corporeità dell'a.; in ogni caso sono quasi tutti vicini, comunque, alla sintesi equilibrata dell'approccio agostiniano.

Nel sec. 12° venne attribuito ad Agostino un trattato che Tommaso d'Aquino giudicava volgare e che conobbe una grande popolarità, il Liber de spiritu et anima (PL, XL, coll. 779-832). La critica moderna tende ad attribuirlo ad Alcherio di Chiaravalle, il quale partecipava al grande movimento di pensiero e di sensibilità che veniva rinnovando le nozioni di peccato, di contrizione, di vita spirituale, consentendo, in particolare, una positiva interpretazione cristiana dei sogni. Secondo il Liber, "l'anima ha tre potenze, da cui dipendono tre modi di percezione: la potenza sensoriale, la potenza spirituale e la potenza razionale" (Schmitt, 1982). Attraverso la prima, l'a. partecipa anche delle facoltà del corpo, i sensi, e coglie gli oggetti corporei; la seconda, o 'visione spirituale', le consente di vedere non corpi, ma 'parvenze' di corpi, 'immagini' di corpi; la terza, o 'visione intellettuale', è legata all'esperienza del 'rapimento' dell'a., l'estasi. Si sviluppò così, su una base di ortodossia agostiniana, una teoria che precisava e ampliava l'attività dell'a. nel dominio del corporeo e in quello del quasi corporeo.

Anche il sec. 12° vide svilupparsi tutta una spiritualità dell'a. nel quadro di un grande rinnovamento teologico. È il caso dell'opera del grande teologo Ugo di San Vittore che nella prima metà del sec. 12° in molti trattati, fra cui il De claustro animae (PL, CLXXVI, coll. 1017-1182), approfondisce una spiritualità del cuore inteso come dimora dell'anima. Si tratta di un incastro di metafore legate alla casa: il cuore è la casa dell'a. e l'a. è la casa di Dio. Peraltro il problema, già sollevato nell'Antichità, della localizzazione corporea dell'a. non sembra aver influenzato l'iconografia medievale. Il Medioevo vide il trionfo del cuore come localizzazione della forza vitale, ma l'antico Egitto già pesava, lo si è visto, il cuore dei defunti. Nel De unione corporis et animae (PL, CLXXVII, coll. 285-294), Ugo corregge l'eredità del dualismo platonico con un naturalismo che ripensa Aristotele su basi cristiane, mentre l'abate cistercense inglese Isacco della Stella, alla metà del sec. 12°, nel suo De anima (PL, CXCIV, coll. 1875-1890), così come Guglielmo di Saint-Thierry, l'amico di s. Bernardo, nel suo De natura corporis et animae (PL, CLXXX, coll. 695-720), prolunga piuttosto la visione spirituale dell'a. di origine platonica.

Sempre nel corso del sec. 12° si manifestarono, nell'universo a., alcune credenze che allargarono il dibattito sulla sorte delle a. dopo la morte. Fin dalla più remota antichità, in diverse religioni e in diverse culture, si ritrova la credenza che gli uomini siano dotati di 'doppi' che possono, dopo la morte, visitare, e il più delle volte tormentare, i vivi, i quali, a loro volta, escogitano sistemi per esorcizzare fantasmi e visitatori ultraterreni. Ora, l'a. è stata talora assimilata a questi 'doppi'. Nell'antico Egitto, secondo quanto attesta un sarcofago del Cairo (Egyptian Mus.), si immaginava che l'a., sotto forma di sparviero, potesse tornare a visitare il corpo di un defunto. Si tratta di credenze che le religioni ufficiali relegarono in genere tra le leggende popolari, nel folclore. Anche la Chiesa cristiana cercò a lungo di confinare i fantasmi nell'universo, condannato, delle superstizioni, dove essi finirono accanto a immagini pagane dell'a. ereditate da leggende marginali della religione greca o da un antico substrato folclorico celtico o germanico. È il caso dell'immagine dell'a. sotto forma di soffio, spesso incarnato da animali alati (farfalle, mosche, ecc., già rappresentate su alcuni vasi greci), un'immagine molto diffusa nel folclore germanico: ancora nel sec. 8° Paolo Diacono racconta dell'a. di un re malvagio che esce dalla sua bocca durante il sonno sotto forma di un serpente, reptilis, probabilmente alato (De gestis Langobardorum, III, 33; PL, XCV, col. 535). Gli spettri, come è stato egregiamente dimostrato da Schmitt (1982), invasero l'Occidente nel sec. 12° ricevendo spiegazioni e giustificazioni quando non addirittura vere e proprie legittimazioni. È la via per cui rientrano nella categoria delle 'parvenze di corpo', quali definite nel Liber de spiritu et anima.

Intanto un genere letterario fortemente segnato da suggestioni popolari aveva familiarizzato l'Occidente con viaggi di a. e apparizioni di spettri. Si tratta di viaggi nell'aldilà compiuti in sogno da un mortale o raccontati da un fantasma per inculcare nei vivi la paura dell'inferno e l'orrore del peccato, che conduce a esso. Questi 'viaggiatori' non avevano uno status ben definito e non esisteva, nella geografia dell'aldilà, un luogo ufficiale, un receptaculum animarum, da cui un'a. potesse legittimamente uscire per parlare della sorte riservata alle a. dei morti. Alla fine del sec. 12° questa lacuna venne colmata dal purgatorio, terzo luogo dell'aldilà, provvisorio e intermedio, tra l'inferno e il paradiso, tra la morte e il Giudizio universale, dove soggiornano più o meno a lungo le a. dei morti ammessi a riscattarsi con le pene del purgatorio prima di raggiungere, purificati, il paradiso. A questo punto esistono, nell'immaginario cristiano, spettri legittimi, le a. del purgatorio autorizzate a tornare momentaneamente in terra per incitare i suffragi dei vivi, a loro necessari per abbreviare le loro pene (Le Goff, 1981). Oramai, al di là dell'istante in cui, generalmente invisibile agli occhi di chi assiste il moribondo, l'a. di un morto fugge dal suo cadavere, alcune a., le a. del purgatorio, possono mostrarsi ai vivi, far vedere il loro stato e descrivere la loro condizione nell'aldilà. Conformemente alle concezioni cristiane che ammettono quasi tutte, sotto forme diverse, una certa materialità dell'a., le a. di queste apparizioni hanno un corpo.I mutamenti apportati dal sec. 12° nel paesaggio cristiano dell'a. furono consolidati nel secolo successivo in due punti importanti.

Innanzitutto il IV Concilio Lateranense, nel 1215, espresse una conferma dottrinale sull'unione dell'a. e del corpo nell'uomo: "Dio ha creato dal nulla l'una e l'altra creatura, la spirituale e la corporale, vale a dire l'angelica e la mondana, e in definitiva l'umana, costituita da una sorta di comunione tra spirito e corpo (ac deinde umanam quasi communem ex spiritu et corpore constitutam)".

Inoltre i grandi scolastici e specialmente Tommaso d'Aquino diedero un assetto sistematico alla dottrina cristiana dell'anima. "L'uomo non è un misto di corpo e anima, poiché non v'è in lui né separazione né mescolanza, ma distinzione e unione. L'anima non è solo il principio organizzativo del corpo ma il principio della sua esistenza. Non è solo, come sosteneva Aristotele, la forma del corpo, ne è l'atto, dal momento che ne assicura a un tempo l'unità e la realtà. Senza essere essa stessa corporea, è nell'essenza della sua natura informare un corpo" (Rotureau, 1948). Ora, dato che l'a. fa esistere il corpo in quanto tale, la sua immortalità implica la resurrezione del corpo. Essa gli assicura anche l'individualità poiché, se la materia è il principio passivo dell'individuazione, l'a. ne è il principio attivo. L'origine dell'a. è la creazione divina poiché in quanto esistenza contingente essa non può essere creata dal nulla o generata da un altro esistente. Tuttavia, poiché l'atto generatore del corpo non può essere la ragione sufficiente dell'a., che eccede infinitamente il corpo, l'a. è immediatamente creata da Dio. Infine, le a. separate dal corpo dopo la morte, quelle per es. che si trovano nel purgatorio, non sono sottratte alle sensazioni corporee, poiché perfino le a. spirituali non possono sussistere senza potenzialità corporee: le anime separate possono quindi patire un fuoco corporale, come accade nel purgatorio e nell'inferno.

Così si trova ancorata all'apice della teologia e della metafisica la credenza comune del cristianesimo medievale in una certa corporeità dell'a., nonché la sensibilità cristiana per un elemento corporeo, materiale, sempre sussistente nell'uomo, anche tra la morte e la resurrezione. Non esiste nel cristianesimo medievale spiritualismo puro, idealismo puro. Vi sussiste sempre un certo materialismo, ivi compreso un certo materialismo dell'anima.

Con i grandi scolastici, e dopo di loro, si trovano ancora numerosi commentatori del De anima di Aristotele, da Duns Scoto a Gregorio da Rimini, Pierre d'Ailly, Gerardo Harderuyck e, ancora nel sec. 16° fino al 17°, il gesuita Suarez, morto nel 1617, con il De anima, ultima sua opera incompiuta (Francisco Suarez, Opera omnia, III, a cura di D.M. André, Paris 1856). Nel frattempo si era sviluppata tutta una mistica dell'a. a cui si accenna qui solo schematicamente a causa della sua scarsa presenza nell'iconografia medievale, per quanto almeno oggi è noto.

Questo percorso mistico presenta, sotto le apparenze di una grande varietà, una certa unità. Questo anzitutto nella sua origine che è essenzialmente agostiniana, anche se Agostino recupera elementi provenienti dall'Antichità pagana o dalla mistica giudeo-cristiana primitiva, e inoltre nel ricorso - che è al centro della maggior parte di queste concezioni e di queste pratiche ascetiche - a una combinazione tra un movimento discendente verso il fondo dell'a. e un movimento ascendente verso la sua sommità. Agostino, infatti, quando discende nel più profondo della sua a., vi trova Dio, più interiore, più profondo ancora; quando si eleva fino alla sommità della sua a. vi incontra Dio, ancora più elevato: "Tu autem eras interior intimo meo et superior summo meo" (Conf., III, 8, 11). Le succitate correnti di origine agostiniana si basano sulle nozioni fondamentali di uomo interiore, di punta acuminata dell'a. (acies mentis: l'a. è qui rappresentata dalla sua parte intellettuale, mens), di contemplazione, di memoria, sviluppandosi da Agostino a Gregorio Magno, allo pseudo-Dionigi, eminente rappresentante della tendenza gerarchica e ascendente, sino ai grandi mistici del sec. 12°, Ugo di San Vittore, s. Bernardo, Guglielmo di Saint-Thierry, Isacco della Stella, Alcherio di Chiaravalle e, nel sec. 13°, a s. Tommaso d'Aquino e a s. Bonaventura. Vittorini, Cistercensi, Mendicanti arricchiscono ampiamente questi filoni di pensiero che nel sec. 14° giungono ai vertici della mistica dell'introversione, i cui grandi maestri sono i tedeschi Eckhart e Tauler e soprattutto il brabantino Ruysbroek (1293-1381), ispiratore di una corrente di spiritualità che commuove le masse: la devotio moderna (J. Chantillon, s.v. Devotio moderna, in DS, III, 1957, coll. 714-716). È una mistica che esalta la discesa nelle profondità ma ancora più l'ascesa verso le vette, rinforzando la valorizzazione dell'elevazione dell'a., linea di tendenza fondamentale nel sistema di valori cristiano, che trova vigorosa espressione nell'iconografia medievale dell'a. che fugge verso il cielo, sua vera 'patria'.

Tuttavia nell'autunno del Medioevo ricomparvero le tendenze platoniche, la sensibilità macabra concentrò l'attenzione sulla morte, in quanto morte individuale, e le Artes moriendi drammatizzarono la lotta attorno all'a. del moribondo (Tenenti, 1957). Ritornò inoltre, diffondendosi nella letteratura e nell'arte, una concezione medico-filosofica già elaborata dall'Antichità, la 'malattia dell'a.' si tratta della 'melanconia', ritorno alla sede corporale degli umori.

Riflessioni sull'iconografia dell'anima nel Medioevo. L'impressione che dà a prima vista l'iconografia medievale dell'a. è quella di un impoverimento generale così di idee come di opere. In realtà - se appaiono trascurati aspetti quali la struttura interna, l'origine (malgrado le numerose figurazioni relative alla creazione dell'uomo nella Genesi), la localizzazione corporale (a parte l'esalazione finale dalla bocca), il simbolismo del cuore come dimora dell'a. e così via - le immagini medievali concentrano lo sguardo e la riflessione dei fedeli su elementi essenziali quali la natura, il ruolo e il destino dell'a. nell'antropologia cristiana. I tre temi consacrati in modo particolare all'a. o nei quali l'a. gioca un ruolo importante sono: la psicostasia o pesatura delle a., sia al momento della morte sia nel Giudizio universale; l'attesa dei novissima tempora da parte delle a. che si trovano nell'aldilà, soprattutto nei receptacula animarum, nel 'seno di Abramo', paradiso provvisorio, o nel purgatorio, inferno temporaneo; l'esalazione dell'a. da parte dell'uomo nel momento della morte.

La psicostasia

Probabilmente di provenienza orientale, il tema della pesatura delle a. si sviluppò parallelamente, a quanto sembra, in Occidente e a Bisanzio (si veda per es. l'evangeliario della BN di Parigi, gr. 74, del sec. 11°, e il mosaico di Torcello, della fine del sec. 12°).

L'immagine della bilancia è confortata da diversi passi della Bibbia: "Tu sei stato pesato sulla bilancia" (Dn. 5, 27); "mi pesi pure Dio sulla bilancia della giustizia e riconoscerà la mia integrità" (Gb. 31, 6); "mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano" (Ap. 6, 5). Si può aggiungere poi questo passo del IV Libro di Esdra o Apocalisse di Esdra (3, 34), della fine del sec. 1° dell'era cristiana: "Pesa sulla bilancia le nostre colpe e quelle degli abitanti della terra e vedremo da che parte scende il piatto" (Apocalypsis Esdrae, Apocalypsis Sedrach, Visio Beati Esdrae, a cura di O. Wahl, Leiden 1977).

L'idea di un giudizio dell'a., sia alla morte individuale sia al Giudizio universale collettivo, apparve molto presto nel cristianesimo e nell'iconografia cristiana, ove viene configurata in origine sul modello di un tribunale romano, come mostrano alcuni dipinti delle catacombe (Roma, catacomba di S. Ermete, sec. 4°; ipogeo sabaziaste di Vibia).

Il culto di s. Michele, legato a luoghi situati su alture, si diffuse durante l'Alto Medioevo, quando divennero 'attributi' di s. Michele talora la sua lotta leggendaria contro il drago che tiene prigioniero un essere umano (di solito una principessa), talora la sua funzione di psicopompo e quindi pesatore delle a. in lotta contro Satana che cerca di far pendere la bilancia dalla parte della dannazione del defunto. Nel suo primo sermone per la vigilia della Pentecoste s. Agostino parlava della bilancia in cui sono pesate le buone e le cattive azioni e il cui giudizio salva e danna, mentre, sempre di s. Michele, il versetto 9 della Lettera di s. Giuda dice: "L'arcangelo Michele, quando disputava al diavolo il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: Ti umilii il Signore".A partire dal sec. 13° s. Michele viene a volte sostituito, come personaggio psicopompo e campione dei morti, dalla Vergine Maria, a riprova della importanza crescente di quest'ultima, non solo come intermediaria tra Cristo e gli uomini, ma anche come protettrice dei peccatori, con un suo ruolo anche alla loro morte, nella prospettiva della loro salvezza. La Legenda aurea sottolinea in particolare il suo ruolo come salvatrice di a.: si veda per es. la caratteristica immagine della Vergine che inclina il giogo della bilancia appoggiando la mano su uno dei piatti (Jacopo da Varazze, Legenda aurea, vulgo Historia Lombardica dicta, a cura di T. Graesse, [Dresden] 18903, pp. 414-415). Alcune sculture in alabastro dei secc. 14°-15° la rappresentano invece in atto di deporre degli Ave sulla bilancia del giudizio.

Al momento della pesatura, s. Michele ingaggia talvolta un vero e proprio combattimento con Satana, reminiscenza della sua lotta contro il drago. Così, nel clima della stravaganza cavalleresca propria dell'autunno del Medioevo, s. Michele abbandonò poco a poco la sua pacifica veste bianca o il suo abito imperiale per rivestire l'armatura (Giudizio universale di Hans Memling, nella chiesa di S. Maria a Danzica).

Altre volte l'a. è oggetto di una disputa tra angeli e demoni sulla via del paradiso o dell'inferno. Nel Dialogus magnus visionum et miraculorum del cistercense Cesario di Heisterbach (Dialogus magnus visionum et miraculorum, a cura di J. Strange, Köln 1851; 1220 ca.) si vede un'a., già nell'aldilà, affannarsi arrotolata a palla per superare una profonda vallata tra due gruppi di diavoli e di angeli che se la contendono come due squadre di calcio farebbero oggi con un pallone.

Esistono exempla che narrano aneddoti sulla pesatura dell'a. di personaggi storici salvati miracolosamente dall'inferno grazie all'intervento di un santo, come nel caso di re Dagoberto (612-638), dell'imperatore Enrico II - la cui vita è stata scritta verso il 1146 - e di Carlo Magno, nel racconto dello pseudo-Turpino, risalente al 12° secolo.

Il 'seno di Abramo' e i 'receptacula' delle anime nell'aldilà

La parabola di Lazzaro e del ricco epulone, quale narrata da Luca (Lc.16, 19-26), ha conseguenze importanti per l'iconografia medievale della condizione corporale delle a. nell'aldilà, poiché da una parte Lazzaro è invitato a intingere la punta del dito nell'acqua e dall'altra il ricco epulone chiede che quel dito umido vada a refrigerargli la lingua, il che prova che esiste un luogo di refrigerio, un refrigerium, per le a. dei giusti come il povero Lazzaro e che questo luogo è il seno di Abramo. Da qui la fortuna di quest'ultimo nell'iconografia medievale, che lo interpretò come paradiso provvisorio o prefigurazione del purgatorio. Nella scultura il tema ebbe successo soprattutto nel sec. 12° (per es. a Saint-Pierre a Moissac), mentre a partire dal sec. 13° lo si ritrova particolarmente in opere di ispirazione teologica arcaica (per es. nel timpano della cattedrale di Bourges).

È interessante vedere, a proposito del seno di Abramo, come l'iconografia possa ignorare i testi. L'idea di far stare numerose a. in un luogo tanto angusto era parsa ridicola a molti teologi di primo piano, a partire da Agostino che si doleva che si potesse scherzare con cose tanto serie ("corporeum unius hominis sinum ferre tot animas") e da Rabano Mauro che cerca una soluzione diversa da quella di Agostino. Se quest'ultimo aveva sostenuto che il seno di Abramo voleva semplicemente significare "il luogo in cui Abramo si trova nell'altro mondo, libero da ogni sofferenza", Rabano Mauro suggerisce la possibilità che il seno di Abramo sia da immaginare di dimensioni altre, immateriali, senza rapporto con quelle degli "uomini corporali".

L'iconografia dei receptacula delle a. del purgatorio è in ogni caso poco conosciuta, dato che gli storici si sono preoccupati soprattutto dell'inferno e del paradiso, concernenti le scelte e i destini eterni dell'uomo. Del resto, raffigurare un aldilà temporaneo dovette costituire una notevole difficoltà anche per gli artisti medievali, che la superarono distinguendo, per es., le anime sofferenti nel fuoco del purgatorio da quelle tormentate dal fuoco infernale per il fatto che le prime pregano, manifestando così una speranza (il purgatorio è speranza, aveva detto Cesario di Heisterbach) che, riferita all'inferno, sarebbe un controsenso. In altri casi si vedono a. che, avendo terminato il loro periodo di purificazione in purgatorio, sono in procinto di lasciarlo, aiutate da angeli a salire in cielo. È quanto si trova nella più antica - per quanto oggi si conosca - immagine del purgatorio, una miniatura del Breviario di Filippo il Bello, della fine del sec. 13° (Parigi, BN, lat. 1023, c. 49) e ancora sia alla c. 129v (Vespri dei morti) delle Ore di Peyre de Bouretos, un manoscritto limosino dei primi del sec. 15° di recente acquisito dal Mus. du Pays d'Ussel, sia in quel capolavoro della pittura del sec. 15° che è l'Incoronazione della Vergine (1453-1454) di Enguerrand Charonton al Mus. Mun. di Villeneuve-lès-Avignon.

L'esalazione dell'a. dei defunti dalla bocca, al momento della morte, comunica una ulteriore nozione relativa all'anima. Ne sottolinea il carattere spirituale (anche se il respiro esce dal cadavere in forma di micro-personaggio dotato di corpo umano), la natura immortale, la tendenza a elevarsi.

Ben conosciuto fin dall'Alto Medioevo, questo tema si sviluppò ulteriormente a partire dal sec. 13° in accordo con l'attenzione spostata sulla morte in quanto vicenda individuale e sulla eccezionale gravità, per il singolo, del momento in cui essa si verifica: di fatto, con l'evoluzione del concetto di purgatorio, come della dottrina della contrizione, l'accento viene ormai a cadere sull'individuo solo di fronte alla morte e sul fatto che la sua salute eterna o dannazione eterna si giocano in quel momento. Molto spesso la rappresentazione di questo istante decisivo comporta la presenza almeno di un angelo e almeno di un demonio, pronti a disputarsi l'a. nell'attimo in cui uscirà dalla bocca del cadavere. È il caso di una miniatura contenuta in una Ars moriendi del sec. 15° (Ariès, 1983, p. 156), ove, accanto al letto del moribondo, si trova raccolta una schiera di angeli, uno dei quali sta raccogliendo la figuretta dell'uomo-a. fuoriuscente dalla bocca del defunto, meritevole dunque, a evidenza, per aver seguito i consigli del trattato, di essere salvato a cospetto di un drappello di demoni delusi e minacciosi.

Ma per lo più vengono raffigurati solo angeli, segno certo della salvezza del defunto, la cui a. appare difatti dotata, in genere, di un attributo atto a far comprendere come il morto si è salvato. Così avviene per es. in un rilievo sulla tomba di un vescovo di Tarragona, ove due angeli aiutano la salita al cielo di un'a. munita di mitra, dignità terrena che le garantisce, a quanto si può credere, la elezione nell'aldilà. L'iconografia dell'a. prende qui posto in una serie di atti pro anima (preghiere, messe, donazioni) che vogliono assicurare ai defunti la salvezza e nello stesso tempo rassicurare i vivi in proposito. Ne è documento, alla fine del sec. 13°, la tomba-miniatura del canonico Aimerico, nel Mus. des Augustins di Tolosa, sulla quale un rilievo mostra l'a. che, senza lotte, è accolta in cielo da un angelo. Ancora meglio l'assenza di demoni si spiega in una miniatura raffigurante la Morte di s. Luigi (Guglielmo di Saint-Pathus, Vie et miracles de Saint Louis, Parigi, BN, fr. 5716, c. 277) e risalente all'inizio del 14° secolo. Dato che il re era stato canonizzato nel 1297, è giusto che la sua a., aureolata dal nimbo dei santi, venga accolta solo da angeli.Così l'iconografia dell'a. vale a documentarci non solo sulla antropologia cristiana, ma anche sulla sua evoluzione storica nel corso del Medioevo, con il progressivo emergere dell'individuo in prima linea nella vita come nella morte: cosa quest'ultima che è ciò che egli soprattutto teme, più ancora che non l'inferno. L'iconografia medievale dell'a. si conclude così trasfigurandosi in iconografia moderna.

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ICONOGRAFIA

di J. Baschet

Viene qui presa in considerazione l'a. umana, escludendo una serie di problemi contigui come quello dell'a. degli animali (di cui non si conoscono rappresentazioni, a eccezione del caso della leonessa che resuscita, grazie al suo soffio vitale, i propri piccoli nati morti). Allo stesso modo non sono considerati in questa sede gli spiriti degli alberi, evocati e talvolta raffigurati a proposito della lotta dei chierici contro le superstizioni animistiche. Il problema dell'a., infine, viene distinto da quello degli altri esseri spirituali (spiriti diabolici che escono dalla bocca dei posseduti, angeli o Spirito Santo), anche se la loro natura, e ancor più il modo in cui sono rappresentati, ne suggeriscono la vicinanza.

Vari sono i contesti nei quali è rappresentata l'a. così come varie sono nel Medioevo le forme con cui è raffigurata.

L'anima al momento della morte

Nelle scene della morte dei santi, rappresentati nel momento del martirio oppure adagiati su un letto, l'ascensione della loro a., portata in cielo dagli angeli, è il segno della loro elezione. Nell'altare carolingio di S. Ambrogio a Milano l'iscrizione esplicita il legame tra il corpo privo di vita e la destinazione celeste dell'a. glorificata: "Ubi anima in celum ducitur, corpore in lecto pos(ito)" (de Chapeaurouge, 1973, p. 28, fig. 7). L'associazione di questi due motivi, ricorrente nell'arte monumentale e nei manoscritti, appare anche sui reliquiari, attestando così il soggiorno celeste dell'a. santa e quindi il valore dei resti corporei contenuti nella teca (rappresentazione dell'assassinio di Tommaso Beckett e dell'ascesa della sua a. nel reliquiario limosino del sec. 13° conservato a Parigi, Louvre). La buona morte è anche quella dei semplici eletti, personaggi storici o leggendari, la cui fama è tale che non si esita a rappresentare l'ascesa immediata della loro a. (immagine dell'annegamento dell'imperatore Federico Barbarossa nel De rebus siculis di Pietro da Eboli, 1195 ca., Berna, Stadt- und Universitätsbibl., 120, c. 107, e della morte di Orlando a Roncisvalle, Grandes Chroniques de France, sec. 14°, Parigi, BN, fr. 2813, c. 122v). L'ascesa dell'a. può anche svolgere una specifica funzione all'interno di una narrazione o di un racconto morale, rappresentando per es. la ricompensa promessa a coloro che compiono le opere di misericordia (Bréviaire d'Amour, Leningrado, Saltykov-Ščedrin, Sp. F. v. XIV. 1, c. 80v) o illustrando l'efficacia dell'intercessione mariana (elezione di Teofilo dopo la rottura del patto diabolico). La sorte dell'a. è ugualmente evocata in relazione alla liturgia della morte, nei sacramentari e, più tardi, nei libri d'ore (si veda l'illustrazione dell'estrema unzione nel Sacramentario di Varmondo, 1000 ca., con l'iscrizione mens - e non a. - redit ad Dominum; Ivrea, Bibl. Capitolare, 86; Magnani, 1934, tav. XXXVI). L'immagine può testimoniare infine una forma di autoelezione, quando un individuo - o la sua famiglia - fa rappresentare l'ascensione della sua a. sul proprio sarcofago o al di sopra della tomba (come in quella di Ato de Foces, m. nel 1302, chiesa di San Miguel de Foces a Ibieca, in Aragona).

Nella Dormizione della Vergine gli apostoli sono riuniti attorno a Maria, distesa sul letto, mentre Cristo al suo capezzale porta via la sua a., ora tenendola in braccio, ora nell'atto di affidarla a un angelo (Schiller, 1966-1980, IV, 2, figg. 587-690). Una difficoltà nasce dallo sviluppo, soprattutto a partire dal sec. 11°, della questione dell'assunzione corporale della Vergine: già Gregorio di Tours (De gloria martyrum, I, 4; PL, LXXI, col. 708) riferiva che Cristo era tornato, tre giorni dopo la morte di Maria, per portarne il corpo in cielo, dove esso andò a ricongiungersi con l'anima. Quando l'immagine è priva degli elementi aneddotici che consentono di identificare la scena, diventa difficile stabilire se sia rappresentata una ascensio animae o una ascensio corporis di Maria. Solo la rappresentazione stessa della Vergine può in questo caso essere determinante; tuttavia l'iconografia medievale dell'a. non consente sempre di distinguerla da una rappresentazione del corpo (tra gli esempi in cui questa distinzione è più difficile: Pericopi di Enrico II, Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 4452; Lezionario-Collettario di Reichenau, Hildesheim, Dombibl., Beverinsche Bibl., 688; Schiller, 1966-1980, IV, 2, figg. 587-598; de Chapeaurouge, 1973, pp. 30-34; Verdier, 1980, pp. 59-79). Quanto agli empi e ai peccatori, la loro a. viene portata via da diavoli: è il caso di Nerone, la cui morte è a volte messa a confronto con quella degli apostoli dei quali ordinò il martirio (Parigi, BN, fr. 2091, c. 64v, 1317 ca.), e di Giuda, la cui a. esce non attraverso la bocca, ma dalle sue viscere squarciate (At. 1, 18). Spesso posto in relazione con il fatto che la bocca di Giuda è stata santificata dal contatto con Cristo, questo modo di uscire dell'a. definisce soprattutto il carattere infamante che ben si addice alla natura particolarmente odiosa del traditore supremo. Tuttavia, pur costituendo la variante iconografica più diffusa, questa soluzione non sempre venne adottata, in particolare durante l'Alto Medioevo (Der Stuttgarter Bilderpsalter, 1965, c. 8).

Altre scene permettono di confrontare il destino dell'a. giusta con quello dell'a. peccatrice, come per es. in immagini con la Crocifissione che, mostrando l'a. del buon ladrone portata via da un angelo mentre quella del cattivo è preda di un demonio, presentano uno schema che non può non evocare il Giudizio universale. Allo stesso modo, l'illustrazione della parabola di Lazzaro oppone la buona e la cattiva morte (Codex Aureus Epternacensis, 1039 ca., Norimberga, Germanisches Nationalmus., 2-156142, c. 79; portale di Saint-Pierre a Moissac; capitello della Sainte-Madeleine a Vézelay), così come accade a partire dal sec. 15° nelle illustrazioni dell'Ars moriendi.Il destino dell'a. dopo la morte, tuttavia, non sempre è segnato, con altrettanta chiarezza. È da citare il caso eccezionale della leggenda della dannazione di Dagoberto che narra delle peripezie dell'a. del re, che sotto il peso di numerosi peccati viene portata dai demoni su una barca prima che i santi Dionigi, Rustico ed Eleuterio intervengano per strapparla all'inferno e portarla in cielo (Parigi, BN, nouv. acq. fr. 1098, c. 57v, 1250 ca.). Più spesso il carattere incerto della sorte dell'a. viene evocato dalla lotta che gli angeli e i demoni ingaggiano per assicurarsene il possesso. Una tale immagine, che si potrebbe definire una rappresentazione non istituzionale del giudizio dell'a. (poiché essa raffigura il conflitto del bene e del male come uno scontro fisico e non attraverso la mediazione di un tribunale), si sviluppò soprattutto alla fine del Medioevo (tra gli esempi anteriori si veda l'illustrazione dello Scivias di Ildegarda di Bingen; Corpus Christianorum, XLIII, 1, 1978, fig. 7). In numerosi casi i diavoli non appaiono come avversari troppo temibili, ma la lotta può anche avere uno svolgimento più drammatico: nelle Heures de Rohan, l'angelo interviene solo in ultimo per riprendere l'a. al demonio che se ne era impossessato (Les Heures de Rohan, 1973, tav. 63). La stessa incertezza appare, in un contesto collettivo, nel Trionfo della morte nel Camposanto di Pisa (1330-1340): tutte le a. che escono dai corpi vengono portate via da demoni e quelle che beneficiano dell'intervento tardivo degli angeli sono dilaniate prima di essere strappate ai diavoli. Il vantaggio in questo caso concesso alle forze del male suggerisce che la morte non è temibile se non per il fatto che essa apre la via dell'inferno. Più in generale, però, la drammatizzazione della lotta tra gli angeli e i demoni traduce un'inquietudine - crescente alla fine del Medioevo - per la sorte dell'a. nell'aldilà: non si può parlare di un vero e proprio terrore della dannazione, tuttavia la possibilità della salvazione, senza essere minimamente preclusa, si ottiene in un contesto di tensione accresciuta tra le forze del male e quelle del bene.

L'anima e la prova della pesatura

La rappresentazione di una bilancia, utilizzata per stabilire la qualità morale di un individuo e la sorte che gli spetta nell'aldilà, si sviluppò soprattutto dopo il 1100, anche se alcune immagini, come la croce irlandese di Muiredach o il rilievo del santuario di S. Michele Arcangelo a Monte Sant'Angelo, permettono di risalire al sec. 10° (Perry, 1912-1913; Yarza Luaces, 1981). Si tratta di un motivo complesso, dalle molteplici funzioni e la cui denominazione corrente di 'pesatura delle a.' genera confusione. Infatti, le due figurine nude che il più delle volte appaiono nei piatti della bilancia non devono essere interpretate come altrettante rappresentazioni dell'a., ma come personificazioni delle buone e delle cattive azioni di una stessa anima. È questa valutazione delle colpe e delle virtù che, da Agostino a Jacopo da Varazze, i chierici riconoscono nella pesatura (Perry, 1912-1913). Salvo eccezioni, la posizione dei piatti indica in genere una pesatura favorevole, a dispetto dei diavoli che si aggrappano a quello delle cattive azioni e talvolta grazie all'intervento della Vergine che poggia un rosario sull'altro piatto, come nell'affresco di Lenham (sec. 14°). Talvolta i piatti della bilancia restano vuoti e la valutazione degli elementi a favore o a sfavore dell'individuo viene evocata dalle azioni contrastanti dell'arcangelo e del demonio che premono ciascuno da una parte dell'asta. In questo caso è chiaro che la figura che si trova a fianco della bilancia rappresenta l'a., il cui destino è stabilito dalla pesatura (De civitate Dei, Firenze, Laur., Plut. 12.17, c. 1v, 1125; affreschi dell'oratorio di S. Pellegrino a Bominaco in Abruzzo, 1263). Lo stesso dicasi per gli affreschi della chiesa dedicata ai ss. Pietro e Paolo a Chaldon (Surrey, 1200 ca.), dove la pesatura si inserisce in una più vasta rappresentazione del destino delle a. nell'aldilà; qui però la pesatura non è la sola prova a cui le a. vengono sottoposte: esse devono ancora salire la scala che le conduce fino al cielo, la quale, essendo scossa da un demonio, può anche farle precipitare all'inferno (Eriksson, 1964).

Altrove la personificazione delle buone azioni è sostituita da un calice, da una croce o dall'agnello, a indicare che la salvazione è il frutto dell'azione redentrice del Cristo e dei sacramenti (timpano delle cattedrali di Bourges e di Reims) piuttosto che dei meriti dell'individuo. La rappresentazione delle cattive azioni può essere sostituita da un'evocazione dei peccati, più efficace e allo stesso tempo più simbolica (figura diabolica nel timpano di Saint-Lazare ad Autun; rospi a Chartres; fascine di legna accumulate dai diavoli a Siblingen, affresco del sec. 14°). In questo caso, ci si può chiedere se il personaggio in preghiera raffigurato sull'altro piatto non sia una rappresentazione dell'a., che spera di non essere trascinata dal peso delle sue colpe (Perry, 1912-1913, p. 209); si tratterebbe però di ammettere qui una distorsione del concetto di a., ridotta esclusivamente alla sua dimensione virtuosa, a quella parte dell'uomo che aspira a Dio.

Accade talvolta di constatare, infine, che una delle figurine viene portata via da un angelo e l'altra da un diavolo, tanto che sembra questa volta trattarsi di due a. diverse. Questa iconografia si sviluppò relativamente tardi, soprattutto nel corso del sec. 15° (una delle prime immagini compare in un manoscritto appartenuto a Carlo V del De civitate Dei; Parigi, BN, fr. 22913, c. 370): la bilancia è utilizzata più come segno visibile della divisione operata tra gli eletti e i dannati che come strumento di valutazione degli individui. Si può desumere quindi che, nonostante il nome e il fatto che essa costituisca una forma di giudizio dell'individuo, la psicostasia dia raramente luogo a una rappresentazione dell'a., se si eccettuano i casi in cui questa è raffigurata a lato della bilancia, nell'attesa del verdetto o, più spesso, a sentenza favorevole pronunciata.

Il soggiorno dell'anima nell'aldilà

È bene ricordare che prima del Giudizio universale i luoghi dell'aldilà sono occupati dalle a. dei morti, mentre dopo questo evento ultimo l'altro mondo diviene la sede dei corpi resuscitati e ricongiunti alle anime. Non raffigurando la sorte delle a., le rappresentazioni dell'inferno e del paradiso integrate nel Giudizio universale, che pure sono le più frequenti, dovrebbero quindi, a rigore (ma non si può escludere qualche ambiguità), essere tenute ai margini di questa trattazione.L'illustrazione della parabola di Lazzaro e del ricco epulone è l'occasione principale - e quella più anticamente attestata - che consente di rappresentare la sorte dell'a. nell'aldilà. L'a. di Lazzaro appare nel seno di Abramo, in un lenzuolo tenuto dal patriarca o sulle sue ginocchia, mentre il ricco è in un luogo di castigo, il dito puntato verso la lingua a significare la sete che lo divora e la richiesta di sollievo che rivolge invano ad Abramo (The Hortus Deliciarum, 1979, tav. 80). L'episodio evangelico descrive una situazione anteriore alla redenzione, cosicché il seno di Abramo viene a costituire un equivalente del limbo dei patriarchi (Mangenot, 1930); tuttavia, la figura di Lazzaro è stata interpretata come un'allusione al popolo cristiano e la parabola ha potuto così dar luogo a rappresentazioni dell'aldilà cristiano che vanno oltre il contesto del racconto evangelico, come nell'immagine, particolarmente sviluppata, dei castighi infernali a Moissac o come nel tema del seno di Abramo o dei tre patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe), utilizzato per significare il soggiorno collettivo delle a. elette (Necrologio di Obermünster, Monaco, Bayer. Hauptstaatsarch., Oberm. 1, c. 74v, sec. 12°; pavimento della cattedrale di Otranto; affresco di Bominaco).

In altre rappresentazioni paradisiache è posto maggiormente l'accento sul contatto tra l'a. eletta e Dio. Tali immagini si diffusero soprattutto alla fine del Medioevo, sulla scia delle mutate tendenze teologiche della seconda metà del sec. 12°, che affermavano l'ingresso immediato nel paradiso delle a. giuste (e scevre da colpe non espiate). Già prima della conclusione della disputa aperta da Giovanni XXII erano maturi i tempi per una rappresentazione della Visione beatifica, vale a dire dell'a. al cospetto di Dio. Si vedono così le a. ammesse nelle gerarchie angeliche (Speculum historiale, sec. 14°, Dublino, Chester Beatty Lib., 75, c. 11v) o che si ricongiungono in paradiso ai santi che contemplano la Maestà divina (affresco di Andrea di Bonaiuto, 1366-1368, Cappellone degli Spagnoli in S. Maria Novella a Firenze). Quanto ai casi individuali di a. presentate al cospetto di Cristo e da lui incoronate, esempi si possono trovare nel sec. 13°, ma è alla fine del periodo considerato che questa iconografia raggiunge il massimo sviluppo, come sta a testimoniare l'apoteosi celeste del duca di Milano nell'Elogio funebre di Giangaleazzo Visconti di Michelino da Besozzo (Parigi, BN, lat. 5888, c. 1).

Le a. appaiono anche nei luoghi intermedi dell'aldilà: il limbo dei bambini (il solo la cui esistenza si prolunghi dopo il Giudizio universale e che non riguarda quindi specificamente le a.), il limbo dei Padri (non si dimentichi che l'Anastasi mostra Cristo nell'atto di liberare le a. dei giusti morti prima del suo sacrificio redentore) e il purgatorio (miniature della Commedia; affreschi del 1346 con il Purgatorio di s. Patrizio nel coro della chiesa del convento di S. Francesco Borgonuovo a Todi).

Oltre che nelle immagini della Resurrezione di Lazzaro e in quelle d'insieme dell'oltretomba, come a Chaldon e a Bominaco, la sorte delle a. è rappresentata nell'illustrazione delle visioni e dei viaggi nell'aldilà. Questo fenomeno è tuttavia tardo: rari sono gli esempi anteriori alla seconda metà del sec. 13° e i testi interessati, prima del sec. 15°, sono essenzialmente l'Apocalisse di Paolo (Verger de Soulas, Parigi, BN, fr. 9220, cc. 7v-8), la Commedia di Dante (Brieger, Meiss, Singleton, 1969) e il Pellegrinaggio dell'anima di Guglielmo di Diguleville (a cura di Stürzinger, 1895). Quando il miniatore segue passo per passo il testo, la descrizione dell'aldilà diventa molto dettagliata e, in particolare, vengono considerevolmente diversificati i castighi infernali. In questo tipo di racconto appare anche l'a. del visionario, che, temporaneamente uscita dal corpo, visita i luoghi dell'aldilà; non è tuttavia il caso dell'Apocalisse di Paolo, né dell'opera di Dante, che non si presentano come un'avventura dell'a. e i cui eroi non sono mai rappresentati con i tratti caratteristici dell'anima. Per contro, l'iscrizione anima, anche se posteriore all'illustrazione, non lascia alcun dubbio circa la natura della figura che in un manoscritto carolingio della Visio Baronti mostra i dannati precipitati all'inferno (Leningrado, Saltykov-Ščedrin, Lat. O.v.I. 5, c. 1v; MGH. SS. rer. Mer., V, 1910, tav. 1). Da notare ugualmente la rappresentazione straordinaria della visione di s. Giovanni e della sua a. separata, tenuta però unita al corpo da una linea bianca (Ap. 4, 2; manoscritto di Beato, Gerona, Mus. de la Catedral, Arch. y Bibl. 1, c. 107). Il Pellegrinaggio dell'anima di Guglielmo di Diguleville fa dell'a. la vera protagonista della narrazione, illustrandone con immagini le avventure (Parigi, Bibl. Sainte-Geneviève, 1130, 1360-1370 ca.): dopo l'uscita dal corpo e la disputa che l'oppone a questo, l'a. è condotta in giudizio, il cui carattere istituzionale e molto formalizzato ne spiega la lunghezza; una volta emanata la sentenza, l'a. è caricata di un fardello, simbolo delle sue colpe non espiate; essa attraversa quindi l'inferno, prima di scontare la pena nel purgatorio e di guadagnare il paradiso.

Benché in linea di principio l'a. come tema iconografico non sia coinvolta nella rappresentazione del Giudizio universale, va menzionato un avorio dell'inizio del sec. 9° che mostra le a. sotto forma di uccelli, che vanno a unirsi ai corpi che escono dalle tombe (Londra, Vict. and Alb. Mus.; Brenk, 1966, fig. 35).

A eccezione di questa immagine, uno dei più antichi giudizi universali non allegorici, il ricongiungimento dei corpi e delle a. non sembra trattato nell'iconografia medievale. Una difficoltà più seria di interpretazione riguarda l'utilizzazione del seno d'Abramo, o dei tre patriarchi nell'iconografia d'ispirazione bizantina, in numerose rappresentazioni del Giudizio universale (The Hortus Deliciarum, 1979, tav. 152; avorio veneto del sec. 12°, Brenk, 1966, fig. 23). Il legame così stabilito con la resurrezione di Lazzaro e il fatto che gli eletti siano, anche in quel caso, rappresentati come minuscole figurine consente di identificarle con delle a., creando così una contraddizione fondamentale con la natura del Giudizio universale. L'utilizzazione del seno di Abramo introduce dunque un'ambiguità nella misura in cui, rimandando alla rappresentazione della sorte delle a. prima dell'ultimo giorno e non mostrando la riunificazione degli eletti a Dio, non costituisce un'immagine compiuta del paradiso. Ci si può domandare, tuttavia, se il seno di Abramo debba essere considerato come un luogo proprio alle a.: le sue menzioni nella liturgia funeraria, che per natura si preoccupa della sorte delle a. all'indomani della morte, e il suo legame privilegiato con il miracolo di Lazzaro non sono su questo punto decisivi. Inoltre, il seno di Abramo viene talvolta assimilato a un vero e proprio luogo paradisiaco: in un evangeliario del 1039-1043 l'immagine della Resurrezione di Lazzaro è accompagnata dall'iscrizione "Lazarus volat in paradysum" (Brema, Staats- und Universitätsbibl., C. 21; de Chapeaurouge, 1973, fig. 16; si veda anche l'analisi di s. Tommaso, Mangenot, 1930). Del resto, un'immagine come il Giudizio universale del timpano del portale centrale della cattedrale di Bourges stabilisce una tale continuità tra il corteo degli eletti verso il paradiso e il seno di Abramo, che l'opposizione fra i personaggi vestiti e di dimensione maggiore e le figurine nude sembra corrispondere più a una differenziazione del modo di rappresentare gli eletti, a seconda che gli stessi si trovino nel paradiso o al di fuori, che a un'opposizione fra l'a. e il corpo. Malgrado la sua invariabilità sul piano iconografico, il seno di Abramo sembra quindi evocare, in rapporto al contesto in cui esso appare, la sorte delle a. o quella degli eletti resuscitati.

L'anima nell'illustrazione dei libri biblici

Particolarmente importanti, e molto presto tradotti in immagini, i Salmi e l'Apocalisse diedero luogo a numerose rappresentazioni dell'anima. Davide evoca di frequente le sofferenze, le inquietudini o le speranze della sua a. (Sal. 6, 5; 7, 3; 10, 2-3; 15, 10; 22, 3; 24, 1; 29, 4; 42, 5; 56, 2-7; 58, 4; 61, 2; 85, 2; 114, 8; 118; 123, 7; 145, 4; secondo la numerazione della Vulgata a cui si fa qui riferimento). Si tratta spesso di una descrizione del suo stato d'animo, tanto che in alcuni salteri si preferisce rappresentare l'uomo-Davide piuttosto che la sola a. (Der Stuttgarter Bilderpsalter, 1965, cc. 7, 68v). Altri salteri adottano tuttavia un'illustrazione letterale, mettendo così in scena l'a. propriamente detta (numerose rappresentazioni nel Salterio di St Albans, Hildesheim, St. Godehardskirche; The St Albans Psalter, 1960). Nell'intaglio sulla coperta in avorio del Salterio di Carlo il Calvo (Parigi, BN, lat. 1152) l'a. appare sulle ginocchia di un angelo che la protegge dai leoni e dai soldati ("Eripuit animam meam de medio catulorum leonum", Sal. 56). L'illustrazione di Sal. 24 ("Ad te levamini animam meam") mostra generalmente Davide in ginocchio, mentre tiene tra le mani la propria a. che innalza a Dio. Tenuto conto della finalità liturgica di questo versetto, numerosi messali contengono, soprattutto a partire dal sec. 14°, l'immagine dell'elevazione dell'a., a opera, questa volta, di un chierico posto davanti l'altare (Messale di s. Cornelio, sec. 12°, Parigi, BN, lat. 17318, c. 18; Messale-Pontificale di Etienne Loypeau, fine del sec. 14°, Bayeux, Bibl. Capitolare, 61, c. 15v).Tre passi dell'Apocalisse danno luogo a una rappresentazione dell'anima. Al momento dell'apertura del quinto sigillo (Ap. 6, 9-12) appaiono le a. dei martiri (spesso identificate nei santi innocenti) con le sembianze di bambini nudi, sotto l'altare, mentre un angelo, o lo stesso Cristo, tende loro degli abiti bianchi o delle stole (Apocalisse di Treviri, de Chapeaurouge, 1973, fig. 5; Apocalypse Cloisters, 1971, c. 9v; cripta di Anagni). L'illustrazione dei codici spagnoli di Beato di Liebana è sensibilmente differente e raffigura talvolta i martiri decapitati (Klein, 1976, tav. 44). L'illustrazione di Ap. 14, 13 mostra le a. dei giusti portate in cielo (Apocalypse Cloisters, 1971, c. 27v). Infine, Ap. 20, 4-6 evoca la prima resurrezione e la partecipazione delle a. dei martiri al millenium, ma a eccezione dei manoscritti di Beato in tale immagine non sempre compaiono rappresentazioni delle anime.

Rappresentazioni allegoriche dell'anima

Nelle scene della Creazione, gli artisti rappresentano a volte il momento in cui Adamo, appena plasmato con l'argilla, riceve da Dio il soffio vitale (Gn. 2, 7). L'espressione della Vulgata (spiraculum vitae) non induce a identificare visivamente questo soffio con un'a., tanto che in numerose immagini Dio si limita a guardare Adamo o a puntare il dito verso di lui. Altrove raggi provenienti dalla bocca di Dio materializzano questo soffio vivificante, analogamente a quanto avviene nell'immagine della leonessa a cui si è accennato all'inizio (The Hortus Deliciarum, 1979, tav. 10). Più raramente l'immagine indica che è l'a. di Adamo a essere creata in questo modo: questa è rappresentata da una colomba nella Bibbia del Pantheon (1125-1130; BAV, lat. 12958, c. 4v) e da una figurina alata nei mosaici di S. Marco a Venezia. La diversità delle soluzioni adottate illustra le ambiguità del concetto di a., che comprende contemporaneamente un principio di vita corporea e un principio di vita spirituale (Peillaube, Bainvel, 1930).

Tra le rappresentazioni allegoriche dell'a. va annoverato il motivo dell'uccello in gabbia, che bisogna interpretare sia in relazione alla concezione neoplatonica del corpo come prigione dell'a., sia come metafora delle protezioni (il chiostro in particolare) che preservano l'anima dai pericoli che la minacciano (Grabar, 1966; Hjört, 1968; Toubert, 1970, pp. 145-148). D'altra parte il cervo che beve l'acqua di un fiume può, anche se ha altri significati, simboleggiare l'a. del fedele che si abbevera alle delizie paradisiache, conformemente all'immagine di Sal. 41, 2 (Toubert, 1970, pp. 132-135). Infine, nello Scivias di Ildegarda di Bingen, l'a. è rappresentata da un albero, conformemente alla comparazione che conclude l'esposizione delle facoltà dell'a. (Corpus Christianorum, XLIII, 1, 1978, tav. 7). Benché si tratti di un'opera molto particolare, altri indizi suggeriscono le affinità che legano l'a. e l'albero: è sufficiente segnalare che nell'Inferno di Dante gli alberi della selva dei suicidi sono altrettante a. dannate (Inf. XIV, vv. 1-3).

Infine, nonostante non riguardi l'a. umana, si deve menzionare il solo caso conosciuto di traduzione in termini visivi del concetto platonico di anima mundi: nella Clavis physicae di Onorio Augustodunense (a cura di P. Lucentini, Roma 1974) la forza che conferisce la vita all'universo è simboleggiata da una grande figura femminile vestita di una lunga tunica (Parigi, BN, lat. 6734, c. 1v; d'Alverny, 1953).

L'anima-uccello

Molto frequente nell'epoca paleocristiana, la rappresentazione dell'a. eletta sotto le sembianze di una colomba è ugualmente attestata nelle fonti agiografiche: martirio di Eulalia riportato da Prudenzio (In honorem B. Eulaliae Martyris; PL, LX, coll. 340-357), morte di s. Scolastica e dell'abate Speranza riportate da Gregorio Magno (Dial., II, 34; IV, 10; PL, LXVI, col. 196; LXXVII, coll. 333-336; Leclercq, 1907; Kirsch, 1914; Sühling, 1930, pp. 110-191). Questo tipo di rappresentazione ricorre ancora nei codici di Beato dei secc. 10° e 11° (Klein, 1976, figg. 73-75), ma la sua importanza nell'iconografia medievale si ridusse progressivamente, anche se si mantenne in un numero limitato di casi, in particolare per la morte di s. Scolastica (Subiaco, Sacro Speco) e di altri santi (martirio di s. Albano; The St Albans Psalter, 1960, tav. 99). Questo simbolismo zoomorfo può anche assumere valore negativo e l'a. dei peccatori è allora rappresentata da un uccello nero (morte di Giuda nel Salterio di Stoccarda, Der Stuttgarter Bilderpsalter, 1965, c. 8; morte di Saladino nell'Historia Maior di Matthew Paris, Cambridge, C.C.C., 16, c. 9v, sec. 13°).

La rappresentazione dell'a. come figurina alata fu eccezionale nel Medioevo (oltre alla Creazione di Adamo in S. Marco a Venezia, si veda l'illustrazione dello Scivias, tav. 5, e le a. alate di Pietro e Paolo nel polittico Stefaneschi, Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca). Decisamente si era esaurita ormai la suggestione delle concezioni antiche della ψυχή, così come quella del mito di Icaro, che avevano assicurato la diffusione di questo tipo di rappresentazione nel periodo paleocristiano (Leclercq, 1907).

L'anima simboleggiata dall'orante

L'arte paleocristiana rappresentò spesso l'a. eletta con una figura femminile (anche quando si trattava dell'a. di un uomo) in posizione di orante, vestita con una lunga tunica e della stessa dimensione dei personaggi vivi, anzi più grande del corpo che essa aveva appena abbandonato (Leclercq, 1907). Diversi aspetti di tale raffigurazione (il carattere femminile dell'a., le sue grandi dimensioni) scomparvero quasi del tutto dalla sua iconografia nel Medioevo. Tuttavia, sebbene non ricorra più sotto la stessa forma, questo tipo iconografico può aiutare a capire alcuni aspetti delle rappresentazioni medievali.

L'anima-eidolon

L'iconografia dominante dell'a. durante il Medioevo la rappresenta come una figurina, una sorta di copia miniaturizzata dell'individuo (l'antropomorfismo dell'a. è teologicamente fondato, nella misura in cui questa è creata dal solidificarsi del soffio divino nello stampo costituito dal corpo di Adamo; Tertulliano, De anima, PL, II, coll. 641-752; Peillaube, Bainvel, 1930, col. 988), ed è proprio questa rappresentazione che si descrive, insistendo sulle varianti morfologiche e sulla diversità dei suoi attributi.

L'a. appare di frequente nel momento in cui essa abbandona il corpo, trattenuta nella bocca del defunto solo dai piedi o, più raramente, ancora dentro fino al busto o addirittura fino alla testa (The St Albans Psalter, 1960, tavv. 49, 50, 99). A eccezione di quella di Giuda, l'a. esce sempre attraverso la bocca, anche quando la testa è staccata dal corpo (The St Albans Psalter, 1960, tav. 99); l'arte antica aveva invece rappresentato l'a. di Medusa che usciva dal collo mozzato (Leclercq, 1907, figg. 363-364). Talvolta l'a. che si innalza è unita alla bocca per mezzo di tratti ondulati, a sottolineare, come nella Creazione di Adamo, l'associazione tra il soffio vitale e l'a. propriamente detta (Evangeliario di Brema; de Chapeaurouge, 1973, fig. 16). La rappresentazione dell'uscita dell'a. dannata, che i diavoli estraggono sovente con un uncino, è più frequente di quella dell'a. degli eletti; questa forma di 'parto buccale' riveste un carattere più traumatico che liberatorio: si preferì, quindi, adottare per gli eletti una rappresentazione che evocasse maggiormente la gloria celeste alla quale essi sono promessi. La rappresentazione dell'ascensione dell'a. rispondeva a quest'esigenza: il più delle volte essa viene portata da un angelo o in un panno tenuto da due angeli. Può anche apparire a mezza figura in un medaglione, come nell'imago clipeata dell'arte funeraria antica (rappresentazione dell'a. di s. Germano, che echeggia la sphaera ignea di Gregorio Magno; Dial., II, 35, PL, LXVI, coll. 196-200; Lezionario di Montecassino, Roma, BAV, lat. 1202, c. 79v), in posa di orante, raffigurata fino a mezza coscia (teche di S. Stefano a Guéret e di Tommaso Beckett al Louvre; Morte di s. Francesco dipinta da Giotto in Santa Croce a Firenze) o, ancora, in piedi in una mandorla (S. Benedetto in un sacramentario del sec. 11°, New York, Pierp. Morgan Lib., M. 641, c. 23v; Paolo eremita a S. Angelo in Formis; Lazzaro sul capitello di Vézelay). Conformemente alla versione della Legenda aurea, l'a. di s. Benedetto s'incammina talvolta su una strada coperta di tappeti riccamente ornati (affreschi di Spinello Aretino a S. Miniato a Firenze), motivo che ha forse ispirato la rappresentazione della morte di s. Francesca Romana nella cappella del monastero delle Oblate di Tor de' Specchi a Roma.

La gestualità degli eletti è limitata e il loro atteggiamento è calmo: essi stanno in posizione eretta, di solito raccolti in preghiera. Fanno tuttavia eccezione alcune a. che si elevano verso Dio in atteggiamento molto dinamico (The St Albans Psalter, 1960, tav. 59) o quelle che sono oggetto della contesa tra gli angeli e i demoni (Scivias, fig. 7). Quanto alle a. dannate, esse esprimono tutto il repertorio dei gesti di disperazione; in balia delle torture e dei tormenti inflitti da demoni o da elementi naturali, esse sono, come quelle del Purgatorio di s. Patrizio a Todi, delle gesticulées (Le Goff, 1985, pp. 127-135). Il castigo può anche investire l'integrità delle a. (amputazione), se non addirittura la loro identità, come nella Commedia, dove alcune di loro vengono trasformate in rettili o in alberi. Già negli affreschi della cattedrale di Brioude (1200 ca.) l'a. trasportata all'inferno subisce l'amputazione delle braccia e di una gamba e il suo volto è letteralmente annientato dal soffio infuocato di un demonio.

L'a.-eidolon è molto spesso nuda, e questo indipendentemente dall'epoca considerata, dal tipo di trasporto o dalla dignità del personaggio. Tuttavia, se l'a. dei dannati è sempre condannata alla nudità, quella degli eletti può ricevere un abito, anche se si trova nel seno di Abramo. Può trattarsi di una semplice tunica bianca (Purgatorio di s. Patrizio a Todi; Cappellone degli Spagnoli; a. dei martiri dell'Apocalisse); di un abito la cui lucentezza evoca già gli splendori del paradiso (Morte di s. Francesco, tavola dello pseudo-Jacopino di Francesco, Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca, sec. 14°); di un vestito conforme alla dignità del defunto (episcopale per s. Severo negli affreschi della chiesa di St. Severus a Boppard, in Renania, sec. 13°; diaconale per s. Stefano, in una tavola attribuita a Pacino di Bonaguida, Offner, 1930, tav. XI; tunica bruna di s. Francesco a Santa Croce) o che richiama talvolta, in maniera più sconcertante, abitudini sociali non scevre da preoccupazioni mondane (Brno, Arch. Com., 1, c. 96; affresco di Bominaco). Alla Vergine è riservato un trattamento particolare: nell'iconografia ispirata da Bisanzio, la sua a., tenuta da Cristo, è tutta fasciata da bende, così da sembrare una piccola mummia o un neonato in fasce (mosaici della Martorana a Palermo; Sacramentario di Varmondo; capitello della cattedrale di Clermont-Ferrand; affresco di Taddeo di Bartolo nel Palazzo Pubblico di Siena; Schiller, 1966-1980, IV, 2, figg. 592, 600, 643, 665). La Vergine però può anche essere vestita di una tunica (Roma, S. Maria in Trastevere) o, più raramente, essere rappresentata nuda (portale di Notre-Dame di Chartres; Salterio della regina Ingeborg; Schiller, 1966-1980, IV, 2, fig. 618).

Vari sono gli attributi dell'a.: essa può presentare il nimbo allo stesso modo dei santi, mentre la corona costituisce un segno di elezione più specifico, evocando la ricompensa dei giusti nell'aldilà (The Hortus Deliciarum, 1979, tav. 152; corone di fiori poste dalla Vergine sulla testa delle a. reduci dal purgatorio, a Todi). Così come per gli abiti, le insegne caratteristiche del morto possono trasmettersi alla sua a.: mitra e pastorale, corona (insegna di regalità e non di elezione nella leggenda di Dagoberto), chierica. Questo vale per gli eletti come per i dannati, numerosi dei quali portano mitra, corona o chierica (Verger de Soulas, Parigi, BN, fr. 9220). Perfino le stimmate, segni pure eminentemente corporali, possono essere attribuite all'a. (come nel caso di s. Francesco in Santa Croce a Firenze), suggerendo così l'idea che l'adesione dell'a. all'apparenza del corpo che essa abita non conosca limiti.

Nella maggior parte dei casi, l'a. ha le sembianze di un bimbo: i suoi lineamenti fisici sono poco marcati e il più possibile neutri (il contrasto tra l'a. e il corpo è netto nel ricco del Codex Aureus Epternacensis, Norimberga, Germanisches Nationalmus., 2-156142, o in s. Martino in un lezionario tedesco del sec. 13°, Bruxelles, Bibl. Royale, 9222, c. 150). Tanto la morfologia quanto gli abiti e gli attributi dell'a. tendono a un annullamento dei caratteri individuali: in quest'ottica, tutte le a. dovrebbero apparire identiche. La scelta di un 'doppio bambino' corrisponde innanzitutto a un'eufemizzazione della sessualità, tendente a rendere la questione del sesso delle a. vana quanto quella del sesso degli angeli, ma il più delle volte una pur minima distinzione è indicata dalla pettinatura ed eventualmente dall'abito e dai lineamenti del volto: si constata allora che le a. si dividono in due generi, in conformità con gli esseri che esse vivificano. Esisteva comunque un'altra possibilità, che consisteva nel rendere tutte le a. esseri femminili, come testimoniato dalle raffigurazioni paleocristiane dell'orante e da testi quali la Passio Petri et Marcellini, in cui le a. dei martiri sono giovinette sontuosamente vestite (Leclerq, 1907, col. 1489). Del resto, sembra di poter trovare un'eco di questa concezione nel Cappellone degli Spagnoli, dove tutte le a. che entrano in paradiso sono giovinette vestite di bianco e con lunghe trecce bionde.

La rappresentazione del 'corpo' delle a., e in particolare dei suoi caratteri sessuali, può diventare molto esplicita. Il fenomeno si sviluppò precocemente nelle scene infernali (nelle quali la sessualità viene rappresentata senza eufemismi), per es. attraverso il motivo della donna lussuriosa morsa ai seni da rettili (S. Pellegrino a Bominaco). Esso però interessa anche - con l'aumentare, in tutti i campi, dell'attenzione degli artisti nei confronti dell'anatomia dei corpi - le a. giuste, quelle del purgatorio (chiesa di S. Michele Arcangelo a Paganico, Grosseto) e quelle del limbo (Parigi, BN, fr. 117, c. 50v). A partire dal sec. 14° si afferma la tendenza a dare all'a. gli stessi tratti fisici dell'individuo vivente: l'a. di Paolo è calva, quella di Nerone ha la stessa acconciatura, la stessa barba e la stessa corona del corpo da cui essa esce (Parigi, BN, fr. 2091, c. 64v). La rassomiglianza e finanche il parallelismo delle posizioni sono spinti all'estremo tra il vescovo e l'a. con la mitra che egli offre a Dio (Messale di Bayeux); in seguito si ebbe la rappresentazione dell'a. di Giuda dotata di un membro virile nettamente disegnato, d'una barba incolta e perfino di un profilo 'ebreo' caricaturale (affreschi del Canavesio del 1492 nella cappella di Notre-Dame-des-Fontaines a La Brigue, dip. Alpes-Maritimes). Sembra dunque che la rappresentazione indifferenziata delle a. nei periodi anteriori sia stata in gran parte legata ai modi convenzionali di raffigurazione del corpo, poiché, evolvendo il linguaggio figurativo, l'immagine tende a fare dell'a. un vero e proprio 'doppio' con tutte le caratteristiche dell'essere vivente.

Che abbia o no i tratti di un bambino, l'a. appare generalmente piccola di statura, in confronto al corpo da cui essa proviene o agli altri personaggi. L'a. del racconto di Guglielmo di Diguleville è sempre più piccola dell'angelo che la guida (mentre nella Visione di s. Paolo, che non descrive il viaggio di un'a., il santo ha la stessa statura dell'angelo). Tuttavia non si tratta di una regola assoluta e il modulo ridotto dell'a. risponde spesso a esigenze di ordine figurativo, in particolare quando l'a. appare nella parte superiore di un'immagine dedicata essenzialmente alla morte del personaggio, quando esce dal corpo o quando è portata in cielo dagli angeli. Invece, quando l'a. è rappresentata sola, in piedi, la sua statura può essere paragonabile a quella degli altri personaggi (ciò si ritrova in numerose teche smaltate, in particolare quella di s. Saturnino, a Tolosa; nella tomba di donna Sancia a Santa Cruz de la Seros, 1100 ca.; nell'affresco di S. Pellegrino a Bominaco; nella rappresentazione dell'a. del re Marsilio portata all'inferno, Parigi, BN, fr. 2813, c. 123v; nelle apparizioni post mortem di Francesco ad Assisi). Occorre a questo punto sottolineare un'ambiguità fondamentale, poiché se l'a. può essere di statura reale, vestita e dotata di tratti fisici specifici, non v'è più nulla che la distingua dalla rappresentazione di un essere vivente. Siamo alla radice del problema già evocato a proposito della rappresentazione della morte della Vergine (la cui a. è talora raffigurata secondo lo stereotipo antico dell'orante) e che ritroviamo nella Discesa al limbo, poiché i giusti (o meglio le loro a.), lungi dall'essere sempre rappresentati come piccoli personaggi nudi e identici, formano spesso una sorta di prefigurazione dell'assemblea dei santi resuscitati (Cappellone degli Spagnoli). Allo stesso modo, certe rappresentazioni non escatologiche della corte celeste danno l'impressione che i santi siano corporalmente presenti in paradiso. Infine, nei rilievi romanici della chiesa di Gensac-la-Pallue (Saintonge), S. Martino e la Vergine, rappresentati in due mandorle mentre ascendono in cielo, hanno conservato tutte le sembianze della loro vita terrena. L'elevatio animae (necessariamente di s. Martino e probabilmente di conseguenza della Vergine) è rappresentata sul modello dell'ascensione di Cristo: si tratta con ogni probabilità di assimilare l'ascesa dell'a. a una glorificazione della persona, proprio come il trattamento della corte degli eletti tende a sottolineare la realtà del soggiorno celeste degli intercessori.In definitiva, prescindendo dalle rappresentazioni paleocristiane e a eccezione di una sensibile influenza bizantina per quanto riguarda la Vergine, la rappresentazione medievale dell'a. non conobbe variazioni cronologiche o geografiche fondamentali: le differenze che si sono viste si limitano essenzialmente alle modalità di raffigurazione dell'a.-eidolon. Tuttavia, va notato che l'ambito di apparizione dell'a. si estende progressivamente, poiché alle rappresentazioni paleocristiane dell'a. dei santi e dei fedeli nell'arte funeraria vanno ad aggiungersi le illustrazioni della parabola di Lazzaro, dei Salmi e dell'Apocalisse (sec. 9°), quindi, a partire dal sec. 11° e più ancora alla fine del Medioevo, le rappresentazioni d'insieme dell'aldilà e della sorte dell'a. dopo la morte.

Fra le tante ambiguità evidenziate, la principale è legata al rapporto tra l'a. e il corpo, a conferma del problema dello status dell'anima separata. In generale, l'iconografia illustra una concezione corporale dell'a., che si presenta in apparenza (l'immagine non può dire di più) con i caratteri, gli atteggiamenti e le sofferenze del corpo. Questo fenomeno è sottolineato dall'emergere di un vero ritratto dell'a., effetto a un tempo di un'evoluzione del linguaggio figurativo ed espressione dell'affermazione dell'individuo. Più problematica ancora è la tendenza ad abolire ogni distinzione tra l'a. e il corpo, come si se trattasse di riprodurre nell'aldilà la società dei vivi: ci si può allora chiedere se l'immagine non si allontani da una concezione dell'a. come principio di vita e di ragione - la parte dell'uomo fatta ad imaginem Dei - a vantaggio di un'a. concepita come 'doppio' e con la stessa materialità degli spettri e dei morti delle credenze popolari.

Una difficoltà inversa, infine, deriva dall'assimilazione degli eletti resuscitati con le a. del seno di Abramo. Quel che entra in gioco qui è forse la forza dell'immagine del ritorno all'infanzia, se non addirittura all'universo prenatale, come 'metafora dell'elezione': "Nisi conversi fueritis et efficiamini sicut parvuli, non intrabitis in regnum caelorum", Mt. 18, 3; "Nudus egressus sum de utero matris meae et nudus revertar illuc", Gb. 1, 21 (de Chapeaurouge, 1973, p. 24). Infatti il seno di Abramo non è altro che l'immagine privilegiata di una parentela protettrice, mentre la figura del bambino evoca la suprema beatitudine del giusto (a. o corpo poco importa), ritornato a uno stato paradisiaco anteriore alla caduta, uno stato che non conosce la sofferenza, la sessualità e tutte le altre forme di distinzione tra gli uomini.

Bibliografia

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