ANIMA

Enciclopedia Italiana (1929)

ANIMA

Alberto PINCHERLE
Carlo MAZZANTINI

(lat. anĭma; per l'etimologia, cfr. il greco ἄνεμος "vento, fiato"; fr. âme; sp. alma; ted. Seele; ingl. soul).

Le concezioni dei primitivi. - A prescindere tanto dalle idee dell'anima che troviamo anche nelle credenze popolari e superstiziose dei popoli più evoluti, quanto dalla dottrina particolare dell'animismo (v.) quello che importa notare è in primo luogo che la concezione che i primitivi si fanno della vita e, per conseguenza, dell'anima è ben lungi dall'essere così semplice come a prima vista potrebbe apparire. La vita ha molteplici manifestazioni e, per il selvaggio, nota E. Lehmann, "l'uomo anche fisicamente non è un individuum, cioè qualcosa di indivisibile". E poiché le varie funzioni della vita hanno manifestazioni differenti, o presiedono ad esse organi diversi, facile è l'assegnare a ciascuno di questi organi, o il ravvisare nelle singole funzioni un'anima particolare. Così l'anima può essere collocata in diverse sedi nel corpo, e si può parlare di pluralità di anime: benché qualche scrittore recente mostri di voler contestare l'esattezza di quest'ultima asserzione, sostenendo, per es., che "quando si dice che alcuni Africani riconoscono trenta anime, quello che s'intende è ch'essi ascrivono un principio di vita a trenta parti del corpo come sedi vitali". Queste "anime fisiche, perciò, devono essere tenute distinte come semplici anime locali dalle anime, anch'esse fisiche, ma non identificate con luoghi o organi" (Hopkins).

Sedi dell'anima sono, naturalmente, le parti del corpo in cui si manifesta maggior potere vitale: così l'occhio (e ciò spiega, almeno in parte, la credenza nel malocchio), il sangue, i capelli, il cuore, il fegato e il respiro (onde, per es., l'importanza religiosa data allo sbadiglio). Ma per quanto possa, in questi casi, trattarsi effettivamente di sedi diverse assegnate, sia ad un solo, sia a più poteri vitali (ma sostanzialmente simili), la credenza in una pluralità di anime, distinte quanto alle funzioni e al loro destino, è troppo bene attestata presso popoli d'ogni età e d'ogni parte del globo, perché si possa metterla in dubbio. Possiamo tuttavia raggrupparle in categorie, e distinguere, oltre l'anima-vita, un'anima che abbandona il corpo durante il sonno, vagando altrove e incontrandosi, nel sogno, con altre anime; l'ombra, che segue il corpo durante la veglia e, simile a questa, il riflesso del corpo nelle acque o in altri corpi lucenti; e una quarta anima, collocata fuori dell'uomo, in una pianta o in un animale, con cui, pertanto, l'uomo ha comune il destino e anche proprietà fisiche o morali (quest'ultima concezione è affine a quella, per cui il guerriero, lo stregone ecc., per sottrarsi più facilmente a sortilegi ostili, possiede oltre il palese anche un nome segreto). Così, i Dinka (Sūdān) riconoscono due anime, l'atiep, che lascia il corpo durante il sonno e somiglia all'ombra, o è la stessa ombra, e un'altra (rol o we) che dopo la morte resta nella tomba col corpo; gli Yakuti dell'Asia centrale ne riconoscono numerose, che hanno diversa l'origine e il destino; i Negri dell'Africa Occidentale ammettono tutte e quattro quelle che abbiamo ricordate, sicché, per es., nel meriggio il negro si astiene dall'esporsi in pieno sole per non perdere l'ombra (anima); mentre l'anima che sopravvive, dopo la morte del proprio corpo, ne cerca un altro, penetrando nel quale genera malattie, onde è compito dello stregone il cacciarla e confinarla nel regno dei morti; e credenze più o meno affini si trovano presso numerosi altri popoli. Né tale credenza in una pluralità di anime fu ignota ai popoli del mondo mediterraneo: gli Egiziani distinguevano il ka ("forza vivente" secondo A. Erman, La religione egizia, Bergamo 1908, p. 103 seg.) e il khaibit, il khu, il ba, il ran; i Greci, accanto alla ψυχή, conoscevano le varie attività vitali (come le ϕρένες), l'ombra (σκιά), l'immagine o simulacro (εἴδωλον), gli spettri dei defunti (Κῆρες); i Romani l'anima e l'animus (cfr. gr. ἄνεμος "vento"; mentre. gr. ϑυμός = lat. fumus), ma, insieme, il genius (femm. iuno), l'umbra che si aggira intorno al tumulo, lo spiritus che astra petit, "sale al cielo", e i manes che scendono nell'Orco, il regno sotterraneo delle ombre. Altrove, invece, un'anima che sopravviva al corpo è ritenuta dote soltanto delle classi più elevate; e vi sono popoli che la negano alla donna.

Anche le raffigurazioni delle anime risentono di queste credenze; ed è naturale che, in conseguenza altresì delle particolari esigenze dell'arte, esse permangano a lungo, anche quando le credenze che vi hanno dato origine sono tramontate. Così l'anima viene spesso concepita e rappresentata sotto lo stesso aspetto del corpo che l'albergava, per quanto più pallida e tenue, di una sostanza eterea (benché certo, nelle concezioni dei primitivi e degli antichi, non immateriale), simulacra modis pallentia miris: gli eroi d'Omero riconoscono le immagini dei compagni caduti che appaiono e parlano loro nel sogno, come Dante ravvisa le anime che incontra nel suo viaggio ai regni oltremondani; e così accade per le arti figurative, anche in età a noi più vicina, come nelle numerose raffigurazioni del giudizio finale. Altre volte, invece, ha maggiore influenza la concezione dell'anima come respiro, che lascia il corpo del morente attraverso la bocca: così nelle frequentissime pitture vascolari greche, dove l'anima è presentata in forma di farfalla, di mosca, o d'altro insetto alato uscente dalla bocca del morente (si può paragonare a questa rappresentazione una concezione abbastanza diffusa nel folklore germanico, e raccolta anche da Paolo Diacono, che racconta, in De gest. Langob., III, 33, come l'anima di un re fosse veduta uscirgli dalla bocca durante il sonno, in modum reptilis); così nelle raffigurazioni egiziane del ka in forma d'uccello; così, infine, anche nell'arte cristiana, dove le anime, anche in forma umana, sono, abbastanza spesso, dotate di ali.

In ogni caso, tuttavia, occorre tener presente la particolare mentalità, ben diversa dalla nostra, dei primitivi e degli antichi; i quali, come tra il mondo umano e l'animale, tra l'animato e l'inanimato, non scorgono differenza sostanziale, così neppure posseggono chiaramente l'idea di immaterialità.

Bibl.: E. Lehmann, in Chantepie de La Saussaye, Lehrbuch der Religionsgeschichte, 4ª ed., rifatta, fascicolo 2, Tubinga 1924 (I, p. 43 seg.); C. H. Toy, Introduction to the History of Religions, 3ª rist., Cambridge Mass. 1924, cap. II; E. W. Hopkins, Origin and Evolution of Religion, New Haven 1924, pp. 109-150; art. Soul, in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, XII, Edimburgo 1920; J. G. Frazer, The Golden Bough, ed. minor, Londra 1924, trad. italiana di L. De Bosis, Roma 1925; per la Grecia: E. Rohde, Psyche, trad. it., 2ª ed., Bari 1928, voll. 2.

Le concezioni filosofiche. - La significazione fondamentale di anima è quella di causa intrinseca, per virtù della quale un essere vive. Siccome tra le varie operazioni vitali le più alte sono quelle accompagnate da coscienza, e tra queste ancora le più elevate, e caratteristiche dell'uomo, sono gli atti di pensiero e di volontà; così spesso, parlando dell'anima, si pensa ad essa come a quel che in noi è "capace di pensare". Ma la concezione dell'anima, nel suo progresso dalle fasi più primitive a quelle più evolute, si sviluppa attraverso una grandissima varietà di forme.

Sulla rappresentazione materialistica dell'anima, propria dei primitivi, non riuscirono del resto a sollevarsi i filosofi più antichi. Gli atomisti greci, per esempio Leucippo e Democrito (sec. V e IV a. C.), ritennero che l'anima fosse composta di atomi sferici, più piccoli, più lisci, più caldi, capaci di dar movimento solo perché essi medesimi sono in un continuo rapidissimo movimento. Questa dottrina fu ripresa da Epicuro e poi da Lucrezio; e più tardi, dopo un lungo periodo di scarsa fortuna, nel XVII secolo, dal Gassendi.

Alla raffigurazione materialistica dell'anima non sembra sia sfuggito completamente neppure Platone (427-347 a. C.). Egli la divide in tre parti, e considera ciascuna parte come circoscritta nello spazio, e localizzata in una parte corrispondente del corpo. La parte superiore però (anima intellettiva, νοητικόν, con cui si conosce; distinta dall'anima irascibile, ϑυμός, e dall'anima concupiscente, ἐπιϑυμητικόν) ha, secondo Platone, partecipato al mondo delle idee in un'esistenza pre-natale, e può tornare a parteciparvi dopo un processo di purificazione. Tale partecipazione alle idee nel pensiero di Platone appare così intima da far assurgere l'anima intellettiva a un'incorporeità (e anzi quasi anticorporeità) analoga a quella delle idee.

Se Platone ha tentato di valorizzare filosoficamente i miti che parlavano di esistenze successive e di passaggio dell'anima da un corpo ad un altro (v. metempsicosi), interpretando a suo modo quel che aveva udito insegnare dai sacerdoti nei misteri (cfr. Menone, XIV-XV), ciò è dovuto in parte a ragioni teoriche (evidenza assoluta della vera scienza, che l'anima sembra trovare in sé stessa come un suo possesso antico, piuttosto che accogliere dal di fuori) e in parte (sotto l'influsso fors'anche di teologie dualistiche orientali, che ebbero larghe risonanze nei secoli posteriori) alla necessità di trovare una soluzione soddisfacente ai problemi del male e del dolore, e di spiegare il conflitto, caratteristico della psicologia umana, fra aspirazione e realizzazione.

Nella stessa linea spiritualistica, però, al dualismo platonico si oppose la dottrina di Aristotele, secondo la quale l'uomo è un sussistente unico, e ha un unico atto di esistenza. Il corpo non costituisce un'attualità a parte, indifferente od ostile all'anima; è invece una potenza recettiva dell'attualità di questa.

L'anima secondo Aristotele è principio determinante attivo, dinamico (non semplice armonia statica, risultante dalla disposizione delle parti del corpo): è μορϕή (forma), ma anche ένέργεια (attività); e mentre costituisce l'essenza profonda e il bene intrinseco dell'uomo, subordina già sempre in parte, ma nel successivo sviluppo sempre più deve subordinare il corpo, in quanto essa è, specialmente per le sue funzioni intellettive, il fine dell'uomo che vive dentro all'uomo: έντελέχεια ἡ πρώτη (De anima, II, 1, 412 b 5). Le funzioni intellettive sono compiute dall'uomo per mezzo dell'anima soltanto, senza organo corporeo; e sono il pensiero (νόησις) e la volontà (βούλησις). In tali funzioni l'anima emerge dalla vita corporea; è qualche cosa di puro (ἀμιγές) e di separato (χωριστόν). I passi che parlano delle funzioni intellettive dell'anima sono però in Aristotele assai concisi ed oscuri, e i commentatori ne hanno date differenti interpretazioni.

Nelle scritture sacre e nella tradizione cristiana uno dei concetti fondamentali è quello del valore ultra-corporeo e ultra-animale della persona umana (Matteo, XVI, 26). L'uomo vive per un soffio (néfésh) di Yahvé (Genesi, II, 7); e dall'istante in cui viene al mondo è illuminato dalla luce vera, che è il Verbo (Giovanni, I, 9). La salute messianica è quindi una partecipazione personale a quei beni soprannaturali, che sono la liberazione dal peccato e l'avviamento alla vita eterna; sebbene tale partecipazione sia subordinata a un corpo sociale, la Chiesa, la cui vita nel tempo è la fase terrestre del Regno di Dio.

Nel linguaggio paolino si parla di anima (ψυχή) e di spirito (νοῦς); non però nel senso dualistico orientale e platonico, ma piuttosto nel senso che l'anima spirituale, per mezzo della mente (νοῦς), partecipa ai beni divini. Perciò, sebbene l'anima dopo la morte continui ad esistere e a pensare senza il corpo (solo alcuni sostennero la morte temporanea: tnetopsichiti; o il sonno temporaneo: ipnopsichiti), pure durante la vita forma veramente col corpo un essere unico, e dovrà poi rivestirsi della carne nella vita eterna: οἱ νεκροὶ ἐγερϑήσονται ἄϕϑαρτοι (I Corinzi, XV, 52).

Dopo una lunga serie progressiva di sforzi, la filosofia scolastica nel sec. XIII riuscì nel grande compito di armonizzare pienamente la dottrina aristotelica con la credenza cristiana nella personalità e immortalità dell'anima umana. Tipica al riguardo fu l'opposizione di S. Tommaso d'Aquino contro gli averroisti latini, capitanati a Parigi da Sigieri di Brabante. S. Tommaso, accettando la dottrina aristotelica dell'anima come forma del corpo, afferma però in modo pieno ed esplicito alcune tesi, che nelle parole di Aristotele erano contenute solo in modo oscuro e virtuale (secondo taluni interpreti), o non erano contenute punto (secondo altri): 1° che l'anima dell'uomo, a differenza di quella dei bruti, è principio subsistens, e cioè capace di esistere senza il corpo, come è attestato dalle operazioni intellettive le quali si compiono senza organo corporeo; in altri termini, è principio spirituale, intendendosi designare col termine spirito una sostanza capace di pensare e di volere; 2° che però l'anima umana è veramente forma, atto del corpo (actus corporis: De An., l. I, lect. XIV, n. 276) in ciascun individuo, e costituisce col corpo, appunto, una sostanza individua; 3° che tale unione intima col corpo è ordinata per il meglio (propter melius: Summa theol., I; q. LXXXIX, a. 1) dell'anima, perché questa, essendo infima tra le sostanze intellettuali, non può conoscere nulla di ben distinto se non mediante astrazione dai fantasmi; e che la stessa anima intellettiva (e non altre anime inferiori), mentre dà al corpo umano attualità e sussistenza, compie, informando il corpo stesso le funzioni della vita sensitiva e vegetativa.

Un'antropologia dualistica prevalse invece nella filosofia cartesiana. Il Descartes sosteneva che nell'uomo, come in genere nell'universo, esistono due sostanze: l'anima (substantia cogitans) e il corpo (substantia extensa). L'anima, secondo il Descartes, è principio del pensiero soltanto, non della vita in tutte le sue manifestazioni.

Questo spiritualismo estremo fu sostenuto poi da tutti coloro i quali, valendosi appunto del metodo cartesiano, affermarono non solo che l'uomo è più certo dell'esistenza della sua anima che del suo corpo, ma che a rigore è certo soltanto della prima: mentre la seconda o gli è attestata soltanto dalla rivelazione (Malebranche), o è senz'altro da escludere (Berkeley).

Invece la scuola degli empiristi inglesi arrivò a considerare l'idea dell'anima-sostanza come idea oscura di un non-so-che (I-know-not-what: Locke); o addirittura a negarne l'esistenza e la pensabilità, in quanto la si voglia affermare come qualchecosa di distinto dal fascio delle nostre sensazioni (heap of sensations; Hume). Lo stesso indirizzo fu proseguito, in senso più crudamente materialistico, dagli idéologues francesi dello stesso secolo XVIII.

Nella filosofia di Kant, e in qualunque filosofia che accetti la gnoseologia kantiana (v. criticismo), non si può parlare dell'anima se non come di un certo raggruppamento di fatti psichici, dati al senso interno in un certo ordine di simultaneità e successione (Io empirico); o come di quell'attività sintetica universale dell'appercezione, che è il presupposto gnoseologico perché sia pensabile qualsiasi cosa (Io trascedentale).

Fichte concepì l'Io trascendentale come creatore dell'oggetto (Non-Io). Tale oggetto è semplicemente un limite (Grenze) o sfera (blosse Sphäre) della sua attività; esso pone l'oggetto come ostacolo da superare, per potere essere pratico. Nello Schelling e nel Hegel, mentre si accentua un'interpretazione antisoggettivistica e antipersonalistica del pensiero trascendentale, con tanto maggiore energia è negata l'anima sostanza.

Gli psicologi moderni, a partire dal Wundt, parlano molto di un'anima attuale, contrapposta all'anima sostanziale della tradizione. Non si tratta per questi, come per gli idealisti post-kantiani, di un'attività trascendentale; ma piuttosto di una corrente psichica immediatamente accessibile all'osservazione, data in un presente che non è istantaneo ma prolungantesi in duplice frangia (specious present: James).

Nella seconda metà del sec. XIX ebbero un periodo di rinnovata fortuna l'empirismo (sotto il nome di positivismo, a partire dal Comte) e la metafisica materialistica. Per quest'ultima l'anima è un semplice mito; e "... la pensée est une sécretion du cerveau", come aveva già detto il Cabanis nel suo Rapport du physique et du moral de l'homme.

Una vigorosa reazione contro il positivismo e il materialismo caratterizza invece il periodo attuale (primo trentennio del secolo XX). In Italia la reazione si è prevalentemente atteggiata come un ritorno all'idealismo assoluto di Fichte e di Hegel; ha come principali rappresentanti il Croce e il Gentile. Così l'uno come l'altro negano l'anima sostanziale della tradizione; e col termine Spirito intendono designare quell'attività trascendentale del pensiero, che per loro è anche il processo universale della realtà. La persona individua finita è per il Croce una costruzione di carattere pratico, una "istituzione": per il Gentile essa è un oggetto della coscienza trascendentale, da cui si può distinguere solo per astrazione.

La dottrina dell'anima umana sostanziale, spirituale, sussistente, forma del corpo organico, continua a essere sostenuta nella filosofia scolastica e neoscolastica, che ebbe un periodo di rinnovata larga diffusione in tutti i paesi civili dopo l'enciclica Aeterni Patris (1879) di Leone XIII; ma che oggi incontra favore anche presso altri psicologi e fisiologi estranei a quella corrente, almeno per quanto riguarda l'esistenza di un principio autonomo della vita in ciascun individuo (V. tavv. LXXIX, LXXX).

Bibl.: Per gli atomisti antichi, oltre ai frammenti di Democrito e di Epicuro rispettivamente nel II vol. dei Fragmente der Vorsokratiker, del Diels, e nelle raccolte dell'Usener, del Bignone, ecc.), v. specialmente se è necessario Lucrezio, De rerum natura, libro III; Platone, Dialoghi, in generale e specialmente Fedone, Timeo, Fedro, Filebo, Menone, Repubblica, ecc.; Aristotele, De anima; S. Tommaso, Summa Theol. e Summa Philos.: della prima in modo particolarissimo le qq. LXXV, LXXVI, LXXXIX, XC, XCI. - Per R. Descartes, Disc. de la méthode (specialmente p. IV); Médit. métaphys. (spec. II e VI con le Réponses alle obiez.); Princ. philosophiae (n. 52 e 54); J. Locke, Essay on human underst., specialmente II, cap. XXIII; D. Hume, Treat. on human nature, IV, sez. VI; E. Kant, Krit. d. rein. Vern., Transz. Dial., II, pp. 293-339 (ediz. Reclam) J. G. Fichte, Ges. Werke, Berlino 1845 segg.; G. W. Fr. Hegel, Phänom. d. Geistes, Berlino 1840; e nelle ristampe ulteriori; A. Comte, Cours de philos. posit., Parigi 1840-42; W. Wundt, Vorles. über die Menschen- und Tierseleen, Lipsia 1853-64; B. Croce, Sulla filosofia teologizzante e le sue sopravvivenze, in Nuovi Saggi di estet., Bari 1920; L'individuo, la provvidenza e la grazia, in Framm. di Etica, Bari 1922; G. Gentile, Teoria generle dello spirito come atto puro, 4ª ediz., Bari 1924; Somm. di pedag. come scienza filosofica, Bari 1913. Tra i Neoscolastici: D. Mercier, Les orig. de la psychol. contemp. Lovanio 1897; Psychol., vol. III del Cours de Philos., 2ª ed., 1923; A. Zacchi, L'uomo, Roma, 1921, alla quale ultima opera si rimanda anche per una bibliogr. gener. (I, pp. 3-6) e le bibl. spec. (innanzi a ogni cap. per ogni argomento).

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