GRIMOARD, Anglic de

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)

GRIMOARD, Anglic de

Andrea Gamberini

Nacque verso il 1320 a Grisac, in Linguadoca, da Guillaume (II), signore di Grisac, Bedouès, Bellegarde, Montbel e Grasvillar, e Amphélise de Sabran-Montferrand.

Proveniente da una famiglia nobile e ricca, il G. entrò ancora giovane fra i canonici agostiniani di St-Ruf, a Valence, dove visse molti anni prima di divenire abate di St-Pierre de Die (Drôme) nel 1352. Era solo il principio di una brillante carriera ecclesiastica destinata a compiersi sotto gli auspici del fratello maggiore Guillaume, asceso il 28 sett. 1362 al soglio pontificio col nome di Urbano V. Già il 12 dicembre seguente il G. veniva nominato vescovo di Avignone, carica in cui si distinse per l'attento governo della diocesi - di cui si conservano le costituzioni sinodali - e, soprattutto, per la saggia amministrazione della mensa: promosse infatti la ricognizione dei diritti e i censi pertinenti all'episcopio - noti dal dettagliatissimo Terrier avignonnais redatto dal clavario Sicard du Fraisse - quindi recuperò molti beni sottratti, fra cui il castello di Lers, ottenendo al contempo ampi privilegi dall'imperatore.

Già da questo momento appaiono evidenti quelle doti - prime fra tutte la grande dimestichezza con le pratiche amministrative e la piena consapevolezza delle loro potenzialità per una efficace azione di governo - che ritornarono successivamente in altri ambiti della vita del G., dalla sua attività di legato pontificio a quella di oculato amministratore del proprio patrimonio personale (risale al 1373 un prezioso elenco dei beni dei Grimoard). Inventari, rendiconti, censimenti: sono questi gli strumenti di cui egli si avvalse costantemente. In questo suo intento si rivelarono particolarmente nuove la sistematicità con cui attinse a queste risorse e la fiducia in esse riposta, quasi che fosse impossibile governare - una diocesi, uno Stato o, più semplicemente, i propri beni personali - senza disporre di adeguati sussidi cognitivi. La conoscenza, dunque, come fondamento del potere, secondo una concezione straordinariamente moderna.

Meno di quattro anni dopo il G. ottenne la berretta cardinalizia: dapprima col titolo di cardinale prete di S. Pietro in Vincoli (18 sett. 1366), quindi con quello più prestigioso di cardinale vescovo di Albano (17 sett. 1367).

L'alto rango e la parentela col pontefice ne facevano ormai la figura più adatta per il difficile incarico di legato pontificio in Italia: la nomina, in data 15 nov. 1367, lo condusse in breve a Bologna. Il 26 novembre Urbano V ordinava infatti al cardinale Androin de la Roche, vicario a Bologna e in Romagna, di sottomettersi ai mandati del G.: era il preludio alla sua uscita di scena. Il 1° marzo 1368 il pontefice assegnava al G. anche il vicariato generale su Bologna e la Romagna, non senza incontrare resistenza da parte del de la Roche, restio ad abbandonare l'incarico.

L'azione del G. per riaffermare l'autorità papale fu energica, soprattutto nel Patrimonio, in Umbria e nella Marca anconetana. Con durezza fu trattata Todi, che rifiutava la sottomissione alla Chiesa. L'abrogazione dei privilegi concessi da Bonifacio VIII e il ridimensionamento del suo distretto furono il prezzo pagato dai Tudertini per la loro insubordinazione.

Il vescovo di Brescia, Enrico da Sessa, luogotenente del G., ricevette invece il compito di riformare il governo di Urbino, sottratto ai Malatesta, e di riportare l'ordine a Fabriano e nelle terre della Massa Trabaria, queste ultime appena tolte al controllo dei Brancaleoni di Castel Durante e ricondotte allo status di immediata dipendenza dal papa. In breve il legato recuperò tutte le fortezze a presidio della rete viaria e i principali centri della regione, compresa Città di Castello, dove un'insurrezione - cui non era estraneo proprio il governatore della Massa Trabaria - aveva provocato la cacciata dei Perugini e il ritorno di questo centro sotto il diretto governo papale. Provvedimenti tanto radicali finirono col creare non poco malcontento, sia tra i molti lignaggi signorili - a cominciare dai Montefeltro -, sia nella stessa Perugia, città che aveva visto sensibilmente ridursi negli ultimi anni l'area della sua egemonia: anche Assisi, Nocera e Gualdo erano infatti tornate sotto il diretto governo del legato. Sobillati da Bernabò Visconti, che in tal modo intendeva portare scompiglio direttamente nel cuore della rivale potenza pontificia, i Perugini si ribellarono e solo a fatica la loro sedizione fu domata.

L'episodio ben mostra come la politica del legato all'interno delle terre ecclesiastiche non potesse andare disgiunta da quella seguita nelle relazioni con le altre potenze regionali della penisola. E infatti, accanto alla restaurazione dell'autorità papale nel Patrimonium, proprio la lotta contro la potenza viscontea era stato l'obiettivo che Urbano V aveva assegnato al fratello. Nelle ambizioni dei papi avignonesi non era affatto tramontato il sogno di una grande costruzione politica che abbracciasse larga parte dell'Italia centrosettentrionale. Ma era un progetto che già da qualche decennio si scontrava con quello concorrente promosso proprio dai signori di Milano, ben decisi a estendere l'area della loro influenza.

Nel 1368, al tempo dell'aggressione milanese contro Mantova, il G. diresse personalmente le operazioni militari dell'ampia coalizione impegnata in difesa dei Gonzaga. La pace, siglata a Modena il 5 ag. 1368 e riaffermata a Bologna con un nuovo e più completo trattato l'11 febbr. 1369, pose fine alle ostilità, ma non poté certo dirsi un successo per il Papato: nonostante la formale rinuncia di Bernabò alle rivendicazioni su Bologna e l'impegno del signore di Milano a revocare tutti i provvedimenti lesivi delle libertà ecclesiastiche adottati nei suoi domini, non un solo passo in avanti era stato fatto nella direzione che più interessava il pontefice, ossia l'espansione del dominio della Chiesa e il ridimensionamento dei Visconti. Forse per alleggerire l'opera del G., così da consentirgli di indirizzare ogni risorsa contro il pericolo visconteo, Urbano V nominò il cardinale Pierre d'Estaing, arcivescovo di Bourges, vicario generale "in nonnullis provinciis et terris" (almeno dal 15 luglio 1370: cfr. Lettres secrètes et curiales du pape Urbain V, pp. 541 s.). Era un mandato intenzionalmente vago, anche se nella prassi pare che il cardinale di Bourges - attivo soprattutto nel Patrimonio - agisse di concerto con il G., quando non in subordine.

La nomina del cardinale d'Estaing suonava come un richiamo e un'esortazione per il G. affinché si concentrasse su quel fronte da cui sembravano venire le maggiori preoccupazioni. Occupata già una volta Bologna dai Visconti - e poi solo con grandi sforzi riannessa alla Chiesa -, il papa non intendeva perdere nuovamente la città felsinea.

Come legato a Bologna il G. si preoccupò di sollevare gli abitanti dalle enormi gravezze: ridusse di un terzo il dazio sul macinato e così pure il prezzo del sale. Misure moralizzatrici - quali l'abolizione del dazio della baratteria e dei postriboli - si alternarono con altre di più marcato valore finanziario come la riduzione dell'imposta sui mulini. Si trattò, più in generale, di provvedimenti non privi di significato, ma vanificati nei loro effetti dal progressivo inasprirsi di altri carichi fiscali con cui il G. cercò di sostenere le sempre più alte spese militari.

I riflessi di questa condotta sembrano trasparire dai giudizi che i Bolognesi diedero del G.: inizialmente assai benevoli: "santissimo et bono signore" (cfr. Corpus chron. Bononiensium, p. 254), "homo de sancta vita" (ibid., p. 260) divennero assai più aspri alla fine del suo mandato: "la soa signoria fu a noi bona, ma non troppo; è vero che infino che llo fratello visse, zoè papa Urbano, nai questa città non ebbe sì bono signore, zoè di mantenere in paxe, de llibiare de gravezze, a soa possanza, et bene mantinia razone et iustisia […]. Incontinenti, dopo la morte del fratello, parve che 'l nemicho l'atentasse, ché mai non volse bene se non a lui proprio, d'achumulare moneta infinita" (ibid., pp. 271 s.).

Di almeno altri due giudizi, intorno al G., vale la pena di riferire: anch'essi non propriamente lusinghieri, furono scritti da un anonimo funzionario della Camera apostolica, che lo accusava di doppiezza e falsità: "Anglicus a tergo caudam gerit, est pecus ergo; cum tibi dicit ave, sicut ab hoste cave"; "Anglicus angelus est; cui numquam credere fas est" (cfr. Temple Leader - Marcotti, p. 56).

Nel 1371, poco dopo la morte di Urbano V (dicembre 1370), il G. chiese di essere esonerato dall'incarico di vicario pontificio, nel quale venne sostituito da Pierre d'Estaing (25 giugno 1371). Il passaggio di consegne avvenne però solo nel gennaio seguente e il G. ebbe ancora modo di partecipare agli eventi militari dell'estate, scontrandosi anche vivacemente con l'alleato Niccolò (II) d'Este, in prima linea nella lega antiviscontea formata da Ferrara, Lucca, Pisa, Bologna e Mantova, che gli rinfacciava lo scarso sostegno prestatogli in occasione della conquista di Reggio da parte dei Visconti e, prima ancora, nel corso della rivolta dei signori di Sassuolo (1370).

Risalgono agli ultimi tempi del suo mandato (1371) alcune memorie che il G. volle trasmettere al successore. Il primo memorandum, in ordine di tempo, è senz'altro costituito dai Praecepta, sorta di rendiconto delle principali questioni politiche inerenti ai territori di Bologna, della Romagna, della Marca, della Massa Trabaria e del Ferrarese. Lo scopo era quello di facilitare l'azione del nuovo legato, cui il G. consegnava una serie di consigli e di osservazioni che rappresentavano l'essenza di un'intensa stagione di governo. In questo, probabilmente, il G. non faceva che uniformarsi a una tradizione antecedente, risalente al cardinale E. de Albornoz. A complemento dei Praecepta vennero compilate alcune relazioni integrative, di carattere descrittivo e statistico, intorno ai singoli territori del vicariato: si tratta della Descriptio civitatis Bononie eiusque comitatus e della più nota Descriptio Romandiole.

Concepite come strumenti ricognitivi delle capacità contributive delle terre soggette al dominio della Chiesa, le due descriptiones - per adottare la definizione data dagli archivisti vaticani del '700, ma in realtà assente nelle fonti - sono accomunate dalla ricchezza delle informazioni. Riduttivo sarebbe infatti considerarle come mere fonti fiscali. Vi troviamo così elencate tutte le città, i borghi e i castelli che rientravano sotto la giurisdizione del G., ciascuno corredato da notizie corografiche e politiche. Ma soprattutto sono riportati per ogni località i focularia, ovvero il numero dei nuclei familiari rilevati. Di qui un acceso dibattito storiografico sulla attendibilità dei dati raccolti dal G., soprattutto nella Descriptio Romandiole, e sul loro reale significato. Se in un primo momento la quaestio contrapponeva chi negava l'effettiva valenza demografica ai dati del G. (Larner, 1965) a chi ne riaffermava tutta l'importanza (Pini, 1976), anche sulla scorta di una solida tradizione storica, successivamente il campo della discussione pare essersi spostato. Accolta ormai pressoché unanimemente la duplice valenza - fiscale e demografica - dei fuochi, il dibattito ha interessato proprio il legame esistente tra questi due ambiti: da un lato chi sostiene la perfetta equivalenza fra i focularia - cioè i nuclei familiari - e le unità per la ripartizione dell'imposta della fumanteria (Mascanzoni, 1987) e, dall'altro, chi ha invece ipotizzato un rapporto meno diretto e più complesso (Pini, 1986).

L'intero corpus è edito in Codex diplomaticus Dominii temporalis S. Sedis, a cura di A. Theiner, II, Romae 1862. Si veda inoltre: La "Descriptio Romandiole" del card. Anglic. Introduzione e testo, a cura di L. Mascanzoni, Bologna s.d. [ma 1985]; La "Descriptio civitatis Bononiae eiusque comitatus" del cardinale Anglico (1371). Introduzione ed edizione critica, a cura di R. Dondarini, Bologna 1990. Nello stesso volume anche G. Cinti, Assetto territoriale e forme insediative della "Descriptio", pp.119-139.

Al principio del 1372 il G. poteva finalmente fare ritorno in Avignone. Fra il 1375 e il 1376 fu incaricato, insieme con il cardinale Pierre d'Estaing, di provvedere al rifornimento annonario della Curia e del Contado Venassino. Nella città rimase anche dopo la partenza di Gregorio XI per l'Italia, intervenendo ripetutamente nel governo municipale. Non partecipò quindi al conclave che portò all'elezione di Urbano VI, così come in precedenza non aveva presenziato a quella di Gregorio XI. Dopo essersi inizialmente congratulato con Bartolomeo Prignano, aderì però a Clemente VII, come testimoniò apertamente nella professio fidei del 29 maggio 1380. La decisione gli costò la perdita dei benefici goduti in Inghilterra, confiscati per volontà del Parlamento.

Poco d'altro si conosce intorno agli ultimi anni di vita del Grimoard. Nel 1379 intervenne a protezione degli abitanti di Montpellier che avevano ucciso alcuni officiali: la sua mediazione scongiurò la dura rappresaglia da parte del duca d'Angiò, Luigi I (cfr. Valois, I, p. 182). Dettò il suo testamento l'11 apr. 1388 e si spense ad Avignone pochi giorni dopo (fra il 13 e il 18 aprile); fu seppellito nella chiesa di St-Ruf di Valence, secondo la sua volontà.

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