POLIZIANO, Angiolo

Enciclopedia Italiana (1935)

POLIZIANO, Angiolo

Enrico Carrara

Agnolo di Benedetto nacque il 14 luglio del 1454 a Montepulciano da una famiglia popolana, che poi fu detta "dei Cini", ma che al padre e a lui piacque di denominare da un altro avo "degli Ambrogini"; sennonché, prevalendo allora su ogni altra designazione il luogo d'origine, egli stesso si firmava spesso "il Poliziano" e così fu comunemente detto. Per una rappresaglia di offese private gli fu scannato il padre (1464), e il ragazzo fu mandato a Firenze presso certi parenti per alleviar di lui il peso all'impoverita famiglia. Ben poco sappiamo di questi oscuri anni: un suo epigramma latino ci mostra come le sue precoci ambizioni si gelassero al vento della miseria.

Lo soccorse in tempo l'intelligente mecenatismo di Lorenzo il Magnifico: come questo aiuto si attuasse, non sappiamo; ma certo fu morale oltre che materiale; a noi, oggi, par d'intendere che Lorenzo vedesse nel giovanetto precoce, che faceva stupire i dotti per certe interpretazioni catulliane e sapeva egli stesso poetare elegantemente in latino e in greco, uno strumento ai suoi fini di restaurazione culturale della città. Proprio per lui (dirà poi il P. stesso) Lorenzo intrattenne nello Studio l'Argiropulo e Callisto Andronico e Demetrio Calcondila, maestri greci, e per lui raccolse da ogni dove codici greci; e la sua entrata nella "famiglia" medicea (1473) è congiunta al progredire della traduzione dell'Iliade. Lorenzo, dopo averlo ben saggiato ("tritus") per due anni, gli affidò (1475) l'educazione di Piero, il destinato erede della signoria. Era questo l'ufficio che di solito si assegnava ai letterati di palazzo, e non era una sinecura: tanto meno con quel bambino, che rivclò presto il carattere altero e impetuoso della madre Clarice Orsini. Se ne lagnò e recalcitrò talora l'istitutore, che pure vezzeggia nelle lettere al Magnifico l'immagine del tenero alunno; male gl'incolse però quando recalcitrò contro l'altera Clarice. Sia che alla madre codesta "institutio" del P. sembrasse troppo letteraria - il bambino doveva studiare anche il greco - o troppo pagana, o poco moralistica, certo è che gliene mosse rilievo; il P. le dovette rispondere secondo l'usata "volatile natura": ed eccolo scacciato dalla villa di Cafaggiuolo e confinato a Careggi, ad attendere ordini dal Magnifico. Questi, più longanime e bonario, almeno nei rapporti domestici, pur senza contraddire alla consorte, lo tenne occupato in qualche lavoro: ed è di questo tempo la traslazione latina del Manuale di Epitteto, dei Problemata, che andavano allora sotto il nome d'Alessandro d'Afrodisia, e di alcune lagrimose "amatoriae enarrationes" di Plutarco. L'incidente era accaduto nel maggio del '79: ma quando, nel dicembre, Lorenzo partiva per Napoli, il P. non gli seppe essere accanto: e allora lo vediamo abbandonare Firenze e andar cercando sua fortuna presso i signori della Valle Padana. E parve trovarla presso i Gonzaga di Mantova (1480): ma il cuore restava a Firenze, presso il suo Lauro (Lorenzo de' Medici), presso la mite Lucrezia Tornabuoni, che sapeva ascoltarlo e confortarlo, presso il suo Pierino. Fin da giovanetto era diventato tutto di casa Medici: era stato il poeta dei suoi fasti, quando in una giostra Giuliano aveva trionfato; il narratore delle sue tragedie, quando si era trovato al fianco dei due fratelli assaliti dai congiurati dei Pazzi; non poteva viverne lontano. Questo egli scriveva da Mantova a Lorenzo, nel marzo del 1480; e il perdono venne, e già nell'agosto lo troviamo tornato nelle grazie del signore e per il patrocinio di lui destinato alla cattedra - oggi diremmo di "filologia classica" - nello Studio di Firenze. Benché continui a curare l'istruzione di Piero (per qualche tempo ebbe anche affidata quella del blando Giovanni, il futuro Leone X), la sua esistenza diventa ora più autonoma: vive nella sua prioria di S. Paolo (ricca prebenda conferitagli dal 1477), tutto occupato nei doveri del magistero e degli studî. Non sappiamo quando si ordinasse sacerdote; ma nel 1486 era fatto canonico della Metropolitana; e, benché in certo carme avesse deprecati gli onori del cappello e della tiara, non sarà stato senza sua trepida attesa che Piero nel 1493 lo propose ad Alessandro VI in una terna per il cardinalato. Viveva dunque operoso e pugnace nelle polemiche letterarie, circondato da sempre crescente fama, che gli attirava discepoli da ogni parte d'Europa, in un′agiatezza che gli consentiva di aiutare il parentado, tra cui quel violento "sciagurato di Tommaso", suo cugino, a cui tuttavia si teneva obbligato perché gli aveva vendicato il padre. Ed ecco, primo assalto della fortuna, venirgli schiantato il suo Lauro (1492): grande fu il suo dolore, e dolce il lamento (Quis dabit) onde lo pianse. Due anni dopo, nella notte dal 28 al 29 settembre del 1494, il poeta, colto, come pare, da una perniciosa, si spegneva; ma fu morte torbida, nel delirio della febbre; onde un cronista, accogliendo l'impressione del volgo, che traveste paurosamente certi fatti morbosi, narrò che morì "con tanta infamia et pubblica vituperazione, quanta omo potessi sostenere". Ma più probabilmente il cronista rifletteva l'animosità fiorentina contro la vacillante signoria dei Medici, e contro quanti le erano stati congiunti. Sicché accadde che, mentre l'austero fra Girolamo Savonarola consentiva che il poeta, vestito dell'abito domenicano, fosse trasportato in San Marco, i cittadini vituperassero la memoria dell'elegantissimo poeta, dello squisito umanista. Le sue ossa andarono disperse, come i suoi manoscritti; le sue opere non ebbero la postuma cura di discepoli devoti; e per lungo tempo rimase noto di lui poco di più che il nome e il canto dei suoi brevi anni felici: le Stanze per la giostra.

La gioventù poetica del P. - Attraverso il P. si compì primamente la trasposizione dell'esperienza artistica dei classici latini e greci alla poesia volgare: il che si deve all'essersi egli educato al vivace umanesimo fiorentino, e all'essere cresciuto nel ceto dei poeti medicei, che intorno al geniale loro signore intesero del volgare la vitalità ricca d'avvenire. A lui parrà pertanto naturale passare dall'austero epos di Achille all'amoroso di Iulio: "E tal del forte Achille or canta l'armi - E rinnova in suo stil gli antichi tempi - Che diverrà testor de' nostri carmi", cioè di Venere e di Cupido (Stanze, II, 75). Il P. infatti deve primamente la sua fama alla traduzione dell'Iliade.

Era un'antica aspirazione degli umanisti, codesta: e ci avevano insieme spese invano le loro forze, male armate quanto alla filologia, il Petrarca e il Boccaccio. Niccolò V, che aveva ideata tutta una sistematica traslazione in latino della letteratura greca, aveva dato il carico dell'Iliade a un umanista fiorentino dell'età precedente: Carlo Marsuppini maior. Ma la morte ne aveva troncato l'opera al 1° canto (1453). Il P., con l'audacia degli anni giovanili la riprese, e intorno al 1470 poté dedicare a Lorenzo il II libro, e nel 1472 il III. Ancora vi attendeva nel 1476; ma le interruzioni indicano che già se ne veniva staccando, sì che non andò oltre il libro V: in quei primi anni invece fu questo il viatico per il cammino che ambiziosamente intendeva percorrere; onde Marsilin Ficino, ammirato, lo salutò "omerico giovinetto". Veramente, aveva ragione il card. Ammannati di avvertirlo che Omero avrebbe preferito restare "colophonius" al diventare "florentinus": ma forse poteva meglio dire "vergilianus", perché in verità sin dai primi versi riconosciamo le forme virgiliane, decorose nel fasto alessandrino, sostituirsi "a quella grecità nuda e serena" dell'antico poeta. Mirabile prova tuttavia, e non solo perché di giovanetto, ma per intrinseci pregi di armonia e d'ingegnosa duttilità. Dopo e accanto a questa, vi è tutto un giovanile fiorire di poesie greche, latine e volgari; sicché, chi voglia cogliervi la poesia del P., conviene le studi insieme, prescindendo dalla lingua o dalla forma letteraria usata. Più di cento epigrammi latini accompagnano il poeta, dai primi anni di sconforto, dai primi approcci con gli sperati protettori, ai complimenti cortigianeschi, ai motti amicali, agli assalti satirici. Un altro gruppo, di finemente erotici, sembrano tratti dall'Anthologia, oppure riecheggiare i motivi dei popolari strambotti. Altri infine (epitaffî, epigrammi, motti) sono quelli che l'insistenza degli amici strappava all'impazienza del P. Quelli che si possono datare sono compresi nel decennio di cui discorriamo: anche i dieci In Mabilium, che non fu già il Marullo, come si credette, ma un poeta lombardo venuto a farsi schernire dai sottili Fiorentini (1473). Non meno varî i più di cinquanta epigrammi greci, che il P. stesso preparò per le stampe e ordinò cronologicamente dal 1471 al 1493: vi è un po' di tutto: complimenti e frizzi, epitaffî e cortesie madrigalesche; e sono fra i migliori che si facessero in Italia. Più perfetti quelli dei tardi anni, tra i quali notevole un gruppetto dedicato alla bella e dotta Alessandra figlia dell'umanista Bartolomeo Scala, che andò sposa a Michele Marullo. Donde nacque l'opinione che le più tarde schermaglie polemiche contro il padre e il marito della bella Alessandra denunciassero il livore d'un fallito innamoramento. Ma nel 1493 il P. era sacerdote da un pezzo e i suoi amori, caso mai, si volgevano ad altri oggetti.

Poco dissimili dagli epigrammi, cioè da ingegnosi complimenti, sono alcune Elegie; ma ove appaia la luce della bellezza femminile, una gentile commozione le avviva. Sarà un "lusus" la finzione delle viole (In violas) dategli dalla donna; ma è sincero quel vedere i fiori spiritualizzarsi per il tocco delle amate dita; o dell'altra (X) che i critici chiamano "dell'amica risanata", perché il Foscolo vi s'ispirò per la sua ode, ove la grazia d'una rifiorente bellezza pare effonda una blanda luce mattinale. Ma il suo capolavoro fra queste Elegie è l'epicedio (VIII) per Albiera Albizzi. La giovinetta sedicenne era morta d'una polmonite contratta danzando nelle feste fiorentine per il passaggio di Eleonora d'Aragona, che andava sposa a Ercole d'Este (1473). Il caso impietosì e lo sposo curò una "raccolta" dei canti che ne furono ispirati, e tra gli altri questo. Vi è al principio un po' di pedanteria umanistica; ma come l'immagine della danzatrice appare al poeta, la sua fantasia ne è tutta occupata; e l'oro dei capelli e lo splendore degli occhi sembrano veramente illuminarla. Poi quando quella fragile giovinezza si estingue rassegnata ("Ne geme, cum dulce est vivere, dulce mori est") la pacata tristezza del transito di Laura rinnova i suoi accenti soavi in quel latino non meno soave. Così le forme classiche si armonizzano al cristiano idealismo, la sensualità allo psicologismo petrarchesco, il mito alla realtà presente.

Tale è anche la lirica volgare del P. Di una di quelle ballate che furono esaltate come "mirabile modello di eleganza e morbidezza spontanea e sorridente di veramente rosea facilità", quella appunto delle rose (Io mi trovai, fanciulle, un bel mattino) i critici scoprono la fonte in un epigramma dell'Anthologia: ora, codesto epigramma riatteggiato a ballata e superante tanta distanza di forme linguistiche, letterarie, culturali, rappresenta tipicamente l'attitudine insieme assimilatrice e rinnovatrice della poesia polizianesca. Molteplici sono i rivi dai quali essa deduce le sue acque: anche in queste ballate, che parrebbero dover essere ingenue e semplici come cori di giovanette danzanti, senti talora l'eco dell'aulica canzone siciliana (I), o dello spirituale lamento stilnovistico (II) e petrarchesco (V) o dell'elegante ingegnosità alessandrina (III e IV); talaltra invece, assunto il popolaresco metro delle stanze d'ottonarî (Deh, udite un poco amanti; Donne mie voi non sapete) o sorridono argute o accennano maliziose alle arti delle belle ingannatrici, o via via discendono nell'equivoco disonesto. Qualche altra, per lo schema delle stanze atteggiate a ottave, e per un certo languore sentimentale, di poco s'allontana dai "rispetti", ove il complimento amoroso, il motto ambiguo, il desiderio sensuale si conformano alla dimessità della musa popolare. Codesta produzione già impersonale nei modelli, impersonale resta pur nella rielaborazione dei poeti d'arte i quali ora, come accennammo, dietro l'esempio del Magnifico, si volgevano ai canti e alle forme volgari nella lirica, nella drammatica, nell'epopea. È pertanto incerta l'attribuzione dei singoli componimenti a questo o a quell'autore: forse può essere buon criterio attribuire al P. quelli che sono più nitidi, più bulinati, più freschi.

Ma non soltanto con il rinnovare i modi della poesia volgare secondava il P. il proposito del suo signore: bensì per lui ne ordinava un'antologia riferentesi ai secoli XIII e XIV, che Lorenzo inviava in dono a Federigo d'Aragona (1476-77), premettendovi un discorso che è insieme esaltazione e storia della poesia italiana delle origini. È questo il momento in cui il P. si sente più preso dal compito sincretistico dell'antico e del moderno, che fu assunto dal Rinascimento fiorentino.

La Giostra. - È il tempo delle Stanze per la giostra, che fu corsa e vinta da Giuliano de' Medici nel gennaio del 1475. Altrove che a Firenze, un poemetto cortigiano in mano d'umanisti sarebbe stato scritto in latino. Anche il P. ha presenti i modelli dei panegiristi imperiali, di cui imita il meccanismo mitologico e introduce qua e là interi passi; ma ha pur viva la tradizione del Boccaccio rinnovante nell'ottava romanza il ricordo - o almeno il nome - di Troilo e di Teseo; e a quella si rifà con più squisito senso delle forme classiche, con più raffinato possesso della lingua poetica moderna. Iulio, sdegnoso di amore come l'Ippolito euripideo o il Troilo del Filostrato boccaccesco, irrita lo sdegno di Cupido, che, per punirlo, durante una delle cacce di cui il giovane più che d'altre gioie si dilettava, gli fa sorgere innanzi un'aerea cerva che lo devia a una fiorita radura, ove gli appare Simonetta (la donna nel cui nome Giuliano aveva giostrato) intessente una ghirlanda di fiori, con le chiome all'aura sparse, nell'amenità della selva, rinnovante insomma l'indistruttibile fascino della Laura petrarchesca. Nella soavità del trepido incontro, Iulio è vinto e conquiso, e tutto cangiato torna agli ansiosi compagni. Intanto Cupido, lieto della vittoria, vola alla madre, che voluttuosamente riposa delle carezze di Marte nella reggia di Cipro. La descrizione di questo aulente e canoro paradiso amoroso occupa poco meno della metà del I° canto; il che significa che per il P. era più importante dell'azione stessa. Rispondeva infatti al gusto umanistico di rinnovare le antiche immagini e al vanto di riconquistarle alla nuova espressione: ma nel P. c'è in più un consenso nelle emozioni medesime, dalle quali erano sorte un giorno: un alito di rinnovata freschezza spirituale nell'evocazione della vita all'aperto, che è nelle prime stanze; un abbandono dolce alla suprema legge dell'universo, nel che sta il significato della restante parte: non nuovo in sé, ma dal poeta sentito con un'anima nuova, che è "una sensualità non trasumanata, ma levata su dalla terra, in un estasioso mondo di sogno, nel quale il sensibile acquista un'ineffabile serenità e la voluttà si addolcisce e purifica sino ad essere soave ebbrezza di contemplazione spirituale".

Cupido, dunque, giunge a Venere tutto ansante e il poeta con lieve sorriso lo compone in comica gravità degna di Enea a narrare presso l'aureo letto la sua vittoria. Così comincia il c. II, che nell'insieme è però intonato a maggior gravità, rinnovando, umanisticizzato, il concetto dei Trionfi del Petrarca: Amore trionfa dei giovinetti protervi; Pallade (cioè la ragione e non più la castità) in figura di Simonetta, trionfa di Amore; e la Gloria della Ragione; e la Morte della Gloria. Salvo qualche tratto, anche qui la concettosità uccide la poesia: sicché l'interruzione improvvisa alla st. 46 ci lascia senza rimpianti. Resta in noi il ricordo di un delizioso paese evocato con giovanile freschezza d'impressioni, dove lo spirito individuale sente di partecipare alla vita di un tutto più ampio e potente. E ciò basta: le edizioni settecentesche recavano nel titolo Le elegantissime Stanze per la Giostra. Più che un titolo era un giudizio.

Il pugnale di Bernardo Bandini (fu detto) rompendo il petto di Giuliano (1478) anche interruppe il capolavoro del poeta: ma l'unità d'ispirazione che l'informa ci fa pensare, almeno per il primo canto, a più breve elaborazione, tra la data della giostra e della morte di Simonetta, la quale, come la sua minor sorella poetica Albiera, si spense ancor giovane (aprile 1476).

L'Orfeo. - Qualche anno dopo, al tempo della dimora mantovana, in occasione di certe feste gonzaghesi, al P. venne commesso di allestire una rappresentazione; ed egli in due giorni la congegnò, prendendo al solito l'argomento dai miti classici, ma atteggiandolo nelle usuali forme rappresentative, che erano dell'egloga per le feste cortigiane, delle sacre rappresentazioni per il popolo della sua Toscana. Un'egloga in terzine è infatti la prima scena in cui Aristeo, pastore giovane, confessa a Mopso di amare Euridice; al che segue una graziosa ballata, contesta di motivi bucolici. Ma il ritorno del servo Tirsi conferisce alla scena un tono più rozzo, introducendovi la popolaresca ottava. All'apparire di Euridice Aristeo l'insegue ed ella fugge; ma Orfeo scende cantando da un monte - scorgiamo qui un apparato tipico delle sacre rappresentazioni -; e perché è Orfeo, canta una classica ode saffica: non proprio in greco, ma in bel latino, esaltando il cardinal Gonzaga. Ma ecco che un Pastore viene a narrare in una spiccia ottava come Euridice sia morta per il morso d'una serpe: ed ecco che Orfeo, nello stesso metro, canta il suo dolore e sempre dolcemente cantando, scende all'Averno per ritoglierne l'amata. In poche ottave si narra come Euridice gli sia data e ritolta; come Orfeo rinunci all'amor delle donne e sia ucciso dalle baccanti. Chiude la scarna favola un coro di Menadi, ove il ditirambo si attenua in un canto carnascialesco, forse per servire alla catarsi degli animi del nobile uditorio commosso. È questa l'unica cosa volgare che il P. permise si pubblicasse, benché la giudicasse una deforme creatura, degna d'essere precipitata dal Taigeto: eppure era piaciuta e fu poi rielaborata, o dal P. o da altri, in più ampie linee. Gli è che aveva in sé una possibilità d'avvenire: nasceva con essa il teatro moderno. La favola profana, smessa la veste latina, si sostituiva alla leggenda sacra, consertando le nobili forme antiche con l'armonia dei nuovi modi volgari e con le libere movenze della scena popolare. Ma la superstizione rettorica soffocò in breve in Italia questa nascente drammatica nazionale, e si ebbero le tragedie del Trissino o del Giraldi.

Le Odae e le Sylvae. - Nella raccolta dei Carmina del P., la saffica predetta apre la serie delle Odae, che appartengono la maggior parte al secondo decennio (1480-1490): tale l'asclepiadea per un'edizione d'Orazio del Landino (1482) e i faleci per la propria traduzione d'Erodiano (1487), e un Prologus ai Menaechmi di Plauto, recitati a Firenze circa il 1490, ove il P. con la sua portentosa virtù assimilatrice rinnova i modi e gli spiriti plautini. Del 1484 è l'ossequiosa saffica per il pontificato d'Innocenzo VIII: che se la cerimoniosa ad Alessandro Cortese, la carezzevole In Puellam, la vituperosa In anum, non si lasciano datare, gli altri giambi contro Bartolomeo Scala (X) saranno d'intorno al 1490; e la geniale prolusione in cui invita i suoi discepoli "docilis turba" a seguirlo "seu comitem seu ducem" sul bivertice giogo di Parnaso, sappiamo essere del 1487. Di queste Praelectiones ai suoi corsi universitarî ve n'hanno di due specie: in prosa e in versi; quelle, condotte con brio discorsivo e al tempo stesso con sfoggio di dottrina, erano veramente dedicate agli auditores, che seguivano il suo corso: da quella del 1480 su Quintiliano e Stazio, che fu la prima, all'ultima sulla Dialettica d'Aristotele, del 1493. Le altre quattro, in esametri, erano dedicate a una più ampia cerchia di pubblico, ai culti cittadini dell'aonia Firenze, e le chiamò Sylvae, cioè improvvisi. Anche Lorenzo de' Medici, il suo Lauro, aveva così intitolate certe fantastiche scorribande del pensiero e del canto, ma erano amorose: dottissime sono invece le sue; ma sylvae, in quanto nate da un fervore di commozione che sorge nel ripensare alle opere, di, cui sarà per trattare, e che si svia di sentiero in sentiero dietro il canto dei suoi poeti: cose sorte lì per lì, destinate ad aver la vita d'un giorno. Oltre il titolo, è derivato da Stazio e dai tardi panegiristi imperiali il tenue apparato mitologico con i soliti vaticinî di antiche divinità. Ma tutta del P. è quella copia armoniosa e pur sempre contenuta del canto; e soprattutto quel docile e pronto conformarsi alla temperie dei varî mondi poetici, che si viene ridestando con le immagini che furono loro proprie, e con le reminiscenze verbali, che sono qui ben altra cosa che l'industria d'un centonista. La Manto che prelude a un corso sulla poesia bucolica (1482), è un panegirico di Virgilio, profetato dalla "vergine cruda" che fondò Mantova, con un ingegnoso riassunto delle tre maggiori opere e dell'Appendix virgiliana; ma l'avviva verso la fine il richiamare i suoi giovani uditori a esaltarsi nella contemplazione della poesia, più meravigliosa e più duratura delle sette antiche meraviglie del mondo. Più ricca d'ispirazione e più rifinita la seconda, Rusticus (1483), memore della dimora mantovana e dedicata allo studio della poesia georgica; ove il senso della natura, che le belle ville medicee educavano in lui, desta le lodi tradizionali della vita rustica. L'idillio, che arride dalle prime stanze della Giostra, si concreta in una realistica, benché idealizzata, rappresentazione di laboriosa ma facile e copiosa esistenza agreste. Chiude la selva un breve accenno alla villa fiesolana, ove fu scritta; un'altra, la poetata Ambra di Poggio a Caiano, dà il titolo alla terza selva, forse a ricordo di Stazio, che due selve dedicò a simile argomento. La rappresentazione di questa villa, con le sue bellezze naturali e artistiche, e con la sua opulenza di allevamenti di bestiame d'ogni genere, chiude un po' inaspettatamente questa terza prolusione dedicata a Omero: ma forse il poeta del palazzo itacense d'Ulisse non l'avrebbe sdegnata! Il resto non è che la verseggiatura di ciò che di più entusiastico gli antichi apologisti avevano detto di Omero, fonte d'ogni arte, d'ogni scienza, d'ogni filosofia che abbiano arricchita la civiltà classica. Il P. si abbandona al fluttuare di quel mondo di fantasie e di suoni, che gli era così familiare, e noi non sentiamo seco la lunghezza del suo navigare. La sentiamo invece nell'ultima (1486) intitolata Nutricia, ossia il compenso dato alla nutrice: e la sua nutrice fu la Augusta poetica, la sovrana poesia. L'alta lode della poesia, incivilitrice della barbarie fra gli uomini, si spegne in una ben ordinata ma un poco pedantesca trattazione della storia d'essa poesia tra i Greci, gli Ebrei, i Latini e - notevole continuazione - presso i Toscani: Dante, Petrarca, Boccaccio, Cavalcanti: a cui si congiunge l'opera del Magnifico e, ahimé! del non simile Piero. Inganno della pietas magistri o tributo di cliente?

La prolusione Lamia (la strega), che è la più vivace delle prosastiche, segna il passaggio suo alla filosofia, anche nell'insegnamento (1492), benché protestasse che ai testi filosofici attendeva come grammaticus, non come filosofo. Colpa o merito, che ciò fosse, del Pico, il P. fu perduto per la poesia; vero è che sopravvisse così poco, da non potersi dire se il distacco sarebbe stato definitivo. Certo non giunse in tempo a essere "filosofo" come gli avevano predetto le streghe; né sarà da dirsi giurista, anche se si occupò criticamente del testo delle pandette, collazionandone il famoso codice detto Littera pisana o florentina (v. giustiniano, XVII, p. 391). Restava pur sempre il filologo, che oramai il mondo letterario riconosceva per principe.

I Miscellanea e le Epistolae. - A parte le traduzioni, cui attese anche per fini pratici, come quella di Erodiano, dedicata a Innocenzo VIIl, la grande opera che coronò la sua disciplina filologica fu la Miscellaneorum centuria prima, che già pronta da tempo, fu pubblicata nel 1489, e di poi più volte, o sola, o con similari centurie di "adnotationes, castigationes, observationes" come allora usava di mettere insieme: noi le diremmo "varietà"; il P. avrebbe voluto grecamente intitolarla Στρώματα "misture". La novità, la purezza, la copia di dottrina ivi adunata, doveva guadagnargli quella posizione eminente, a cui anelava, e quel titolo di Ercole, debellatore dei mostri della barbarie, che M. Ficino gli aveva attribuito. Ma oltre a ciò, gli conferisce alto nome nella storia della filologia l'intuizione ch'egli ebbe di quel complesso di cognizioni onde si ricostruisce l'immagine viva dell'antichità classica. L'accertamento critico dei testi - che la copiosa suppellettile dei codici medicei gli consentì largamente di collazionare - l'epigrafia, la paleografia si affiancano alla mitologia, alla scienza dei costumi e delle istituzioni. A intendere un poeta occorre anche conoscere l'ambiente culturale in cui egli visse (Misc., IV): quanti più rapporti s'istituiscono fra le nozioni, tanto queste si chiariscono meglio. L'investigazione si amplia e tien conto delle grandi come delle piccole cose, nei loro graduati valori. Che si abbia a dire Vergilius o Virgilius, adolescens o adulescens, mihi o michi, possono apparire, se isolate, nugae da litteratores, da maestrucoli. Eppure appartengono alla storia del linguaggio - che è un'alta questione - non meno delle norme grammaticali, lessicali, stilistiche.

Questi pregi, che gli procurarono un'alta estimazione presso i filologi d'ogni età e paese, non furono allora l'unica ragione della nominanza che ebbero i Miscellanea: come accade talora anche delle opere grau, furono le punte dirette contro questo o quel personaggio, contro questa o quella scuola, a muovere le acque. L'iroso genus dei letterati parte se ne compiacque, parte se ne adontò: donde sorsero infinite querele, delle quali il P. materiò un'altra opera, che dei Miscellanea è per così dire l'appendice dottrinale e polemica. Chi infatti apre i dodici libri delle sue Epistolae (1494), credendo di trovarvi la storia della sua esistenza spirituale, resterà deluso. Non solo molte Epistole riprendono le trattazioni filologiche dei Miscellanea, ma le più ne ribattono le critiche o comunque a questi si riferiscono. Il P. infatti vi raccolse, oltre le proprie lettere o di altri a sé dirette, anche quelle di altri ad altri, purché trattassero della sua Centuria. Naturalmente, nella vastità della raccolta si troveranno eccezioni a tale criterio, specie nel libro VII, che è materiato di brevi letterine, quasi epigrammi in prosa; e del resto anche lui, come già il Petrarca, pensava che un nome accolto nel suo epistolario fosse serbato alla storia; onde scriveva al Pontano che gli volesse inviare una lettera, affinché "extaret aliqua saltem epistola, quae... nos certe inter nos fuisse haud ignotos testaretur". Il Pontano non rispose e il P. non mise questa nel suo epistolario. Ma ciò che gli premeva era di rincalzare la ferma e precisa dichiarazione dei suoi criterî di studioso e di scrittore: sia che definisca la soggettività dello stile come un'intima fermentatio (VIII, 6) di elementi tratti di fuori e in noi maturatisi; sia che difenda il suo eclettismo e preziosismo lessicale (VI,1), ancor che spiaccia ai pedanti, ai ciceroniani, che di Cicerone conoscono sì e no una decina di pagine (Praefatio in Misc.), mentre egli ciceroniano era già stato, ma solo nel cominciare. Poiché l'essenziale è la soggettività dell'espressione (VIII, 16): importantissima affermazione, che segna (a ben considerare) la fine del primo umanesimo. Innanzi di ordinare la raccolta, finiva egli stesso precocemente, ma non senza avere assolto il compito destinato all'umanesimo fiorentino, che fu di aprire la via alla letteratura nazionale, guidata dalla disciplina dell'antica tradizione classica "quae tota nostra est", ma ricongiunta alla recente tradizione trecentesca, che la nuova storia aveva da sé espressa.

Ediz.: Opera (quasi tutte quelle latine, Basilea 1553); Prose volgari inedite, poesie edite e inedite, a cura di I. Del Lungo (Firenze 1867); Le aanze, l'Orfeo e le Rime, a cura e con ampio Discorso introduttivo, bibliogr. e critico, di G. Carducci (2ª ed., Bologna 1912). Inoltre: Il P., il Magnifico, Lirici del Quattrocento, a cura di M. Bontempelli (Firenze 1910); Opere del P., con introd. di F. Neri, Strasburgo 191i (numeri 130-131 della Biblioth. roman.); Le stanze, l'Orfeo e le Rime, a cura di A. Momigliano (Torino 1921); Le Stanze, l'Orfeo e le Rime, a cura di G. De Robertis (Firenze 1932). - Le Sylvae, oltre che in Prose, cit., anche in Le Selve e la Strega, prolusioni nello Studio fiorentino (Firenze 1925). Una probabile "Selva" inedita del P., pubblicò M. Campodonico, in Atene e Roma, n. s., III (1922), pp. 190-200; ma l'attribuzione è assai dubbia. C. Di Pierro pubblicò Zibaldoni autografi di A. P. ined. e sconosciuti, in Giorn. stor. d. lett. ital., LV (1910), pp.1-32.

A. Wesselski (A. P.s Tagebuch, Jena 1929) vuol dimostrare che il "bel libretto", che fu principalissima fonte delle Facezie et motti arguti pubblicato da L. Domenichi a Firenze nel 1548, è opera del P. Tuttavia qualcuno ha mosso obiezioni gravi a tale tesi: cfr. L. Di Francia, in Giorn. stor. d. lett. ital., CI (1933), p. 130 segg.

Bibl.: Una ricca bibl. è data da V. Rossi di seguito alle penetranti pagine dedicate al P. nel suo Quattrocento, 2ª ed., Milano 1933. Per la vita: I. Del Lungo, Florentia, Firenze 1897; G. B. Picotti, Tra il poeta e il Lauro, in Giorn. stor. d. lett. ital., LXV-LXVI (1915), pp. 263-303, 52-94; id., Aneddoti polizianeschi, in Miscell. in onore di F. C. Falletti, Modena 1914; G. Pesenti, Diario adeporico-bibliografico inedito del P., in Mem. del R. Ist. lomb., XXIII (1914-1917), pp. 229-242; P. Micheli, La vita e le opere di A. P., Livorno 1917. Sull'arte del P., cfr., oltre alle introduzioni alle citate edizioni del Bontempelli, del Momigliano e del De Robertis: B. Zumbini, Studi di lett. it., 2ª ed., Firenze 1906; K. Vossler, Die Lyrik des A. P., in Neue heidelberger Jahrbücher, IX (1900); A. Fumagalli, A. P., Roma 1914; O. Mayr, Von der dichterischen Technik in P.s "Stanze", in Germ.-roman. Monatschrift, XV (1917), pp. 350-73; E. Rho, La lirica di A. P., I: La poesia volgare, Torino 1923; G. Vaccarella, P., nuova ed., Torino 1925; M. Rossi, La poesia di A. P., in Annali della Istruz. media, VI (1930), pp. 300-328; L. Grilli, Versioni poetiche con una notizia sul P. latino, Firenze 1918; B. Croce, in Critica, XXX (1932), p. 248 segg.; G. Pesenti, Le poesie greche del P., in Mem. del R. ist. lombardo, XXIII (1914-1917), pp. 67-86; E. Bignone, in Studi ital. di filol. class., n. s., IV (1927), pp. 391-400. Sul P. filologo: F. O. Mencken, Hist. vita et in literas meritorum A. P., Lipsia 1736; L. Dorez, L'hellénisme d'A.P., in Mélanges d'arch. et d'hist., XV (1895), pp. 3-32. - Sul P. giureconsulto: F. Buonamici, Il P. giureconsulto, Pisa 1863; L. Sighinolfi, A. P., L. Bolognini e le Pandette fiorentine, in Studi e mem. per la st. dell'Univ. di Bologna, VI (1919), pp. 187-308; id., in La Bibliofilia, XXIV (1922), pp. 165-202.