CORRER, Angelo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 29 (1983)

CORRER, Angelo

Angelo Baiocchi

Nacque a Venezia il 2 dic. 1605 da Girolamo di Angelo e da Sofia Mocenigo.

Il padre (1584-1647) aveva ricoperto importanti magistrature; podestà e capitano a Rovigo, senatore, consigliere ducale per il sestiere di S. Croce; dal suo matrimonio con Sofia Mocenigo aveva avuto, oltre al C., Alvise e Cecilia. Nel 1622 si era sposato una seconda volta con una figlia di Francesco Morosini. Alvise, nato nel 1607, morì giovanissimo di peste nel 1631; Cecilia andò sposa a Francesco di Giovan Francesco Querini.

La prima menzione del C. nella vita pubblica veneziana è quella relativa alla sua partecipazione all'ambasceria straordinaria di Sebastiano Venier a Vienna: partì il 21 sett. 1630 e lasciò la corte imperiale il 5 ag. 1631. Il Venier lo lodò per le sue qualità. Nel dicembre 1631 fu eletto savio agli Ordini, una carica destinata per lo più ai giovani delle migliori famiglie per farli impratichire subito nei maneggi dello Stato ed affiancata direttamente alle magistrature più prestigiose dei savi di Terraferma e dei savi grandi del Consiglio.

La considerazione di cui era già circondato gli valse il 28 genn. 1634 l'elezione ad ambasciatore in Inghilterra; partì nell'estate; il 10 ottobre fu presentato a corte a Parigi; il 25 novembre entrò a Londra.

L'ingresso del C. nella politica estera veneziana avvenne in un momento in cui Venezia, dopo alcune esperienze negative e dopo il trattato di Cherasco, si era attestata sulla più rigorosa neutralità, respingendo le offerte e le richieste di ambedue i contendenti della guerra dei Trent'anni; pur tuttavia restava una sotterranea simpatia di fondo per lo schieramento antiasburgico. In questo contesto l'ambasceria inglese del C. non presentava grandi problemi di politica estera a livello di rapporti bilaterali; il C. sottolinea, infatti, nelle sue lettere e nella sua relazione il pacifismo e l'isolazionismo degli Stuart, commentando anche "... un popolo dianzi feroce, libertino, prodigo e guerriero, divenuto mansueto, tenace, soggetto e pacifico...". Più preoccupante è la situazione interna inglese, anche nel quadro degli equilibri di forze in Europa. Carlo I, sostiene il C., non governa più con il Parlamento ed ha perturbato i due elementi, "la religione e la libertà nei popoli", che vanno invece lasciati quieti per poter governare saldamente; il re inglese tende alla "realità assoluta" ed il C., pur mantenendosi sempre neutrale nel tono e critico nei confronti dell'eresia e del puritanesimo in particolare, non nasconde le sue preoccupazioni per il riemergere delle tendenze filo cattoliche di Carlo I, di quelle dottrine, cioè, che approdano al diritto papale di deporre i principi. Nella sua azione diplomatica il C. consiglia costantemente al re "vie soavi", nella considerazione del fatto che i popoli, se li si vuole governare con buoni risultati, devono essere liberi, cioè devono partecipare alle decisioni, ai rischi, agli utili. Ma sulla sorte dello stesso Carlo I il C. è pessimista; la sua convinzione è che "gran fortuna sarà se non cada in qualche gran turbolenza". Nelle lettere ufficiali, ed anche in un certo numero di lettere inviate dall'Inghilterra all'ambasciatore a Roma Alvise Contarini (conservate nel codice marciano It., cl. VII, 1928), il C. dà anche un quadro delle pressioni diplomatiche sul re inglese, specialmente da parte svedese, ma anche francese, per fargli prendere partito nella guerra europea; delle manovre cattoliche (invio di agenti per "l'aggiustamento dei religiosi" in Inghilterra, lettere del cardinale Barberini al confessore della regina) per sfruttare il filocattolicesimo stuartiano.

Durante la sua permanenza in Inghilterra, nel marzo 1635, il C. era stato eletto savio di Terraferma e gli era stato "riservato il loco" per quando sarebbe ritornato. Inoltre una sua biografia manoscritta (ms. Correr 1465) lo indica podestà a Lendinara nel 1636; si tratta di un errore: la lettera cui il biografo fa riferimento è di Angelo Correr di Francesco. Mentre si trovava in Inghilterra il C. venne designato dal Senato il 26 nov. 1636 ambasciatore in Francia; dopo circa un anno lasciò l'Inghilterra e si recò in Francia senza far ritorno a Venezia, per cui spedì da Richmond il 24 ott. 1637 la sua relazione inglese al Senato. Nel dicembre dello stesso anno era a Parigi.

Il C. trovò una Francia dominata dal cardinale di Richelieu e tutta tesa alla fase finale della guerra contro la Spagna; suo compito principale era quello di mantenere buoni rapporti con la monarchia francese, insostituibile punto di riferimento per chi, come i Veneziani, temeva il prepotere papale ed asburgico in Italia, senza però impegnare minimamente Venezia in guerra a fianco della Francia. Compito difficile, che il C. affrontò basandosi soprattutto sul proprio prestigio di diplomatico e di uomo di cultura, puntando sui rapporti personali col cardinale ed anche con il re, collaborando in talune occasioni con il Richelieu in operazioni diplomatiche non ufficiali e che richiedevano particolare discrezione; informando però sempre il Senato, anche al di là dei desideri stessi del cardinale. Notevole fu la parte avuta dal C. nella liberazione del principe Casimiro di Polonia, fratello del re Ladislao, fatto prigioniero dai Francesi; Venezia, che voleva ingraziarsi il re polacco, appoggiò l'azione di mediazione svolta dal C. e ricevette poi una lettera di ringraziamento da parte di Casimiro.

Il C. seguì spesso il re nei suoi movimenti in territorio francese e, a suo dire, era entrato in rapporti molto stretti con Luigi XIII che lo metteva a parte di conversazioni riservatissime. Ma, ed è questa l'opinione che egli invia costantemente a Venezia, tutta la politica francese dipende dal cardinale di Richelieu, di cui afferma di essere diventato una sorta di consigliere e che domina l'intricato affresco dei giochi e delle manovre della corte francese che il C. dipinge nella prima parte della sua relazione di Francia. Della Francia il C. rileva, nonostante la guerra, la sostanziale buona salute e l'obbedienza e l'unione dei sudditi; si adopera per la conclusione della pace europea, che al momento sarebbe favorevole alla Francia, ma ritiene che la cosa sia difficile e che la guerra durerà ancora molto a lungo. Ai Francesi spiace la neutralità veneziana ma Richelieu, sostiene il C., non ha perduto tutte le speranze e comunque non sembra voler drammatizzare troppo la cosa, rischiando di rovinare le buone relazioni tra i due Stati.

Durante la sua ambasceria in Francia il C. rivelò a pieno quelle qualità che ne avrebbero poi sempre caratterizzato la figura, che sarebbero entrate nella sua agiografia e di cui egli stesso parlava con malcelato orgoglio. Grande infatti fu il suo prestigio alla corte francese e notevolissime le doti di diplomatico e di oratore che il C. rivelò; nelle fonti contemporanee e di poco successive è ricordato come "orator celeste", come uomo equilibrato ed intimo confidente di potenti. Altro suo lato caratteristico fu l'interesse per la cultura e la protezione accordata a numerosi intellettuali; a Parigi, considerato amico delle lettere e delle arti, diventò protettore di Tommaso Campanella, del quale, nel 1639, annunciò la morte al Senato. Egli stesso, dicono le fonti, era soprannominato "il filosofo".

Nel 1640 il C. cominciò a chiedere di poter tornare in patria, dalla quale mancava da sei anni. Il Senato elesse il suo successore nella persona di Girolamo Giustinian, ma invitò il C. a rimanere in Francia ancora un anno, perché il re stesso lo voleva lì fino alla conclusione della pace generale. Dato che tale prospettiva si allontanava sempre più, al C. fu concesso di tornare; lasciò Parigi alla metà del 1641 e lesse la sua relazione in Senato il 14 novembre dello stesso anno. Nel 1639, essendo assente da Venezia, si era sposato con Angela di Domenico Trevisan.

Tornato a Venezia, il C. iniziò subito un'intensa attività politica ed amministrativa interna, entrando in Senato e ricoprendo varie magistrature: tansador alle Spese superflue, depositario in Zecca, provveditor e commissario sopra le Milizie.

Intanto era precipitata la crisi tra il papa Urbano VIII Barberini ed Odoardo Farnese a proposito del feudo di Castro, feudo farnesiano occupato dai pontefici nel 1641. Con il benestare francese si costituì una lega tra Venezia, Firenze e Modena in favore del Farnese; Venezia fu ancora una volta percorsa da una ventata antipapale e da una quantità di scritti polemici nei confronti di Roma.

Il C. intervenne per conto di Venezia nella vicenda in due riprese: in un primo tempo, 1642, venne inviato come plenipotenziario della Repubblica a Modena per le trattative di pace. L'anno successivo, ritornati alle armi e confermata l'alleanza, venne inviato con 3.000 uomini nel Modenese, da dove poi venne richiamato a difesa del territorio della Repubblica, data la controffensiva dei pontefici, ed ottenne un successo a Castelfranco. Il 6 ag. 1643 era stato eletto provveditore in campo. La pace fu conclusa nell'aprile del 1644, con la garanzia della Francia.

Nel 1645, crescendo il sospetto di un'avanzata turca da parte di terra, il C. venne eletto provveditore generale dell'armi venete in Friuli e Carnia; la sua permanenza in Friuli gli valse, alcuni anni dopo, la dedica da parte dei provveditori e sindaci di Cividale dell'opera dell'erudito Basilio Zancarolo Antiquiquitatum Civitatis Fori Iulii pars 1, Venetiis 1669. Nello stesso 1645 gli nacque il primo figlio, Girolamo, che fu dotto matematico e cultore di astronomia; ebbe poi Domenico nel 1646 ed una figlia, Sofia.

Tornato a Venezia, il suo raggiunto prestigio fu coronato dall'elezione ai massimi uffici della Repubblica, che avrebbe ricoperto in seguito molte altre volte: nel 1647 fu eletto prima savio di Terraferma poi, nel luglio, consigliere per il sestiere di S. Croce. Il 2 ott. 1648 fu eletto Podestà a Brescia, uno dei rettorati più importanti del dominio veneto; mentre era ancora a Brescia fu eletto savio di Terraferma; poi, nel giugno 1650, savio del Consiglio, che era la più importante delle tre magistrature dei Savi; l'anno successivo fu cassier del Collegio, fece parte del Consiglio dei dieci, fu provveditore all'Artiglieria e, nel settembre, nuovamente savio del Consiglio. Nel 1652 fu savio alla Mercanzia e provveditore straordinario a Peschiera. Nel 1653 fu eletto ancora savio del Consiglio e di nuovo fece parte del Consiglio dei dieci; nel 1654 ancora savio del Consiglio, savio alla Mercanzia e, nel novembre, consigliere ducale. Il ripetersi regolare, intervallato pressoché solo dalle contumacie di legge, delle sue elezioni a savio grande, a consigliere ducale, a membro dei Dieci, sono il segno inequivocabile del suo essere entrato nella ristretta oligarchia che occupava sistematicamente quelle cariche nelle quali si assommava gran parte del potere politico a Venezia.

Questa sua posizione, consolidata anche dal fatto che il C. si era distinto in campi diversi, diplomatico, militare, rettorale, politico, venne confermata dalla sua elezione a due dei principali uffici esterni della Repubblica: quello di podestà di Padova e quello di ambasciatore a Roma.

L'elezione a podestà di Padova, con Angelo Giustinian in qualità di capitano, è del 3 ott. 1655; ma il C. rimase nella città solo pochi mesi, essendo stato nominato ambasciatore il 25 ag. 1656, in sostituzione di Girolamo Giustinian, morto di peste durante il suo incarico diplomatico. I pochi mesi trascorsi a Padova furono però sufficienti per consolidare la fama di buon amministratore del C.; fu posta una iscrizione in suo onore nel palazzo pretorio; gli fu dedicato un libro: Il singolare governo dell'ill.mo ed ecc.mo Signor Angelo Correr cavaliere podestà in Padova ed eletto ambasciatore in Roma, panegirico di Girolamo Bigonel, canonico di Traù, Padova 1656.

Nell'aprile 1657 il C., dopo un lungo indugio che aveva indotto in un primo tempo il Senato a sostituirlo, partì per Roma, in qualità di ambasciatore presso il pontefice Alessandro VII Chigi.

Si trattò di un'ambasceria difficile e scandita anche da momenti amari per il Correr. Era in corso la guerra di Candia tra Venezia ed i Turchi e la diplomazia veneziana era impegnata ovunque a cercare di conquistare alleati ed aiuti. Alessandro VII, da cardinale, era sembrato un sostenitore della causa veneziana ma, una volta papa, aveva deluso le attese; aveva colto l'occasione delle difficoltà veneziane per ottenere la riammissione dei gesuiti a Venezia e si era limitato a scarsi aiuti, pochi fanti e modesti sussidi. Con le vittorie di Lorenzo Marcello e di Lazzaro Mocenigo nel 1656, i rapporti veneto-pontifici erano migliorati, in quanto il papa era stato preso dall'entusiasmo; ma con la morte del Mocenigo e la perdita di Tenedo a Roma si cercava di sottrarsi sempre più alla guerra, avanzando anche pesanti accuse nei confronti dei Veneziani. Il C. arriva in questo momento: a Roma, scrive con grande amarezza, si parla con "sprezzo" di Venezia e si "oscurano le glorie" di Lazzaro Mocenigo. Nel 1658 il Senato respinge le proposte di pace basate sulla cessione di Candia ed il C. riprende i negoziati nel tentativo di riottenere l'aiuto papale; ottiene una leva di 3.000 fanti e l'armamento di dieci navi. Ma l'accordo è di breve durata: valutazioni politiche, pregiudizi, rivalità personali rallentano la possibilità di una decisa azione comune, il C. continua a trattare, soffrendo della necessità di cercare di mantenere, pur nella rabbia, buoni rapporti con il papa e con i potenti della corte romana. Alessandro VII, scrive il C., è convinto che la guerra non toccherà il resto della cristianità ed afferma di non avere soldi anche per colpa dei Veneziani, fomentatori della guerra di Castro che ha costretto Urbano VIII a dissanguare le finanze pontificie.

In qualità di ambasciatore a Roma, il C. si trovò anche a dover affrontare i mai sopiti attriti che caratterizzavano i rapporti tra Roma e Venezia: il problema, come si è detto, del rientro dei gesuiti, questioni concernenti i beni ecclesiastici e gli Ordini religiosi, i poteri del S. Uffizio, i processi a carico di ecclesiastici. Scoppiò anche il contrasto sulla circolazione della Istoria del concilio di Trento del padre Sforza Pallavicino.

Il Senato ordinò di impedirne la vendita e di sequestrare le copie già spedite dal Casoni, editore romano e libraio dello Sforza. Alle proteste dell'autore, il C. assunse una posizione di mediatore, sostanzialmente favorevole però alle richieste dello Sforza Pallavicino. Ne seguì un breve carteggio tra i due; senza frutto, però: nonostante la posizione favorevole del doge di "altri grandi senatori", la massa del patriziato prevalse, legata alla memoria del Sarpi e dell'anticurialismo. Fu proibita la vendita del libro, ma si concesse che ognuno potesse tenerlo privatamente.

L'ultimo dispaccio della missione diplomatica del C. è del 3 apr. 1660. La relazione di Roma che il C. scrisse al termine dell'ambasceria è celebre; ne esistono varie copie manoscritte e fu poi pubblicata a Leida, presso Lorens nel 1663, la relazione di Roma di un Angelo Correr che è stata poi unanimemente giudicata apocrifa.

Il Gerin, approfondendo il problema, ha sostenuto che si tratta di un pamphlet antipapale teso a sostenere la politica francese, da attribuire a Charles du Tot, consigliere al Parlamento di Rouen. Tale relazione fu poi nuovamente stampata nei Tesori della corte romana in varie relazioni fatte in Pregadi, Bruxelles 1672.

Il C., concludendo la sua relazione romana, dichiarava che, dopo 27 anni di peregrinazioni, pensava di "meritare qualche respiro". Ma quel momento non era ancora giunto. In occasione del ritorno sul trono degli Stuart in Inghilterra nella persona di Carlo II, il Senato decise l'invio di un'ambasceria straordinaria per le consuete felicitazioni ma anche per rinnovare le istanze di aiuto nella guerra contro i Turchi. Furono designati il C. e Michele Morosini, accompagnati dal segretario Lorenzo Paoluzzi, esperto di cose inglesi, che già aveva svolto analogo compito di ricerca di sostegno presso Cromwell. I due ambasciatori giunsero a Londra il 29 giugno 1660 e ne ripartirono l'11 agosto.

La missione si concluse con un nulla di fatto, sia per quanto riguardava i principi tedeschi incontrati durante il viaggio, sia per quanto riguardava la monarchia inglese. Il re dichiarò di non essere ancora bene ristabilito nel regno" e alle insistenze dei due Veneziani, che cercavano di convincerlo che i buoni rapporti con i Turchi non erano vantaggiosi per gli interessi inglesi nel Levante, rispose solo con attestazioni di comprensione e buona volontà. Le commissioni per il C. ed il Morosini insistevano anche sulla necessità di ricercare un più stretto contatto con i diplomatici olandesi, in modo da riprendere "gli usi dell'antica corrispondenza".

Nel 1660, tornato a Venezia, il C. coronò la sua carriera politica con l'elezione a procuratore di S. Marco de citra, in luogo di Girolamo Dolfin. Continuò, inoltre, a ricoprire una lunga serie di magistrature cittadine; nel 1662 fuprovveditore all'Arsenale ed esecutore contro la bestemmia; nel 1663 fu eletto capitano generale da mar per la guerra di Candia, ma chiese di poter rifiutare, ritenendosi inesperto nelle cose di mare; nello stesso anno funuovamente provveditore all'Arsenale. Nel 1664 e nel 1665 fudue volte savio del Consiglio; nel 1666 provveditore alla Sanità; ancora savio del Consiglio, riformatore dello Studio di Padova; nel 1667 savio sopra le Decime del clero; nel 1669 fupatrono all'Arsenale; nel 1670provveditore all'Arsenale; nel 1671ancora una volta savio del Consiglio; ancora savio del Consiglio nel 1672e, nuovamente, riformatore dello Studio di Padova e savio all'Eresia; nel 1673 fuinquisitore al Banco Giro, esecutore contro la bestemmia, savio all'Eresia. Nel 1674 fuuno dei principali candidati al dogado e, secondo le fonti, dette grandi "prove di modestia"; nell'agosto 1675 fueletto, oltre che a magistrature già più volte ricoperte in precedenza, correttore delle promissioni ducali; nel 1677 furiformatore dello Studio di Padova e provveditore alla Sanità. Morì a Venezia il 27 apr. 1678 e fuseppellito ai Frari. Una sua biografia manoscritta afferma che "dicesi fosse guercio"; numerose sono le lodi alla sua prudenza nell'assumere cariche non adatte, alla sua generosità nel proteggere i talenti della cultura, alle sua capacità oratorie.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia: Misc. cod., I, Storia veneta 19:M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, III, cc. 134, 142; Ibid., Inghilterra, filza 38, nn. 1-81 ; filza 39, nn. 82-211; filza 52, nn. 1-11; Ibid., Archivio proprio Francia, 5 bis, filza 97, nn. 1-6; filza 91, nn. 496-506; filza 92, nn. 1-78, filza 93, nn. 79-161, 90a; filza 94, nn. 162-229, 232-251; filza 95, nn. 252-360, 284a; filza 96, nn. 361-505, 505a-e; Ibid., Archivio proprio Roma 18, filze 142-147, nn. 2-131, 133-173, 146a, 174-272, 223a, 229a, 273-360, 341a, 353a, 361-463, 404a, 448a, 464-561, 529a; filza 148, nn. 4-10; Ibid., Commissioni, 2, ff. 24-5r-251v; Ibid., Segretario alle voci, Elezioni Maggior Consiglio, regg. 17-23; Elezioni Pregadi, regg. 1-3-19; Capi Consiglio dei dieci. Lettere rettori, b. 93, ff. 103-109; Inventario Archivio provveditori di Terra e da Mar, Lettere provveditori estraordinari di Terraferma, n. 190; Lettere provveditori in campo, nn. 251, 251 bis; Venezia, Bibl. civico Museo Correr: Mss. Correr 1465, cc. 234-239; 1484-1486; 1488; 1468/1 (1-6); 1490, 4-11; Ibid., Cod. Cicogna 2524/114; 2151; 2224 v; Ibid., Cod. P. D. 374 s. I, p. 63; Mss. Zen P. D., c. 917/ 130; Mss. Barbarigo P. D., cc. 1287/9; Ibid., Archivio Morosini-Grimani, nn. 376, 385, 386, 399, 400; b. 564, cc. 260, 277, 301, 332, 338; b. 503/IV; b. 559; fasc. II/6, 13, 20, 24; b. 567, fasc. 6; Venezia, Bibl. naz. Marciana: Mss. It., cl. VII, 925 (= 8595), c. 33r; cl. VII, 15 (= 8304), cc. 341r, 343r; cl.VII, 602 (= 7890); cl. VII, 658 (= 7482); cl. VII, 1207 (= 8852), c. 98; cl. VII, 1208 (= 8853), cc. 7, 129, 135; cl. VII, 1928 (= 9057), cc. 15-57; Relaz. di ambasciatori veneti al Senato, a c. di L. Firpo, I, Torino 1965, pp. XXVII, XXXIX, 795-814, 895-906 (per le relazioni dall'Inghilterra); VI, ibid. 1975, pp. 20, 877-926 (per la relazione di Francia); V, ibid. 1978, P. XXVIII; Relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti, a cura di N. Barozzi-G. Berchet, s. 4, Venezia 1863, pp. 321-340, 421-432 (Inghilterra); s. 2, 11, Venezia 1859, pp. 309-362 (Francia); s. 3, 11, Venezia 1878, pp. 193-225 (Roma). Inoltre, per l'ambasceria e la seconda relazione inglese vedi: G. Berchet, Cromwell e la Repubblica veneta, Venezia 1864, pp. 99-118. Sulla relaz. di Roma apocrifa, cfr. A. Gerin, La relation de la cour de Rome d'A. C., ambassadeur vinitien, en 1660, in Revue des questions historiques, XXVII (1880), pp. 570-584. Calendar of State Papers…, Venice, XXIII (1632-1636), London 1922, ad Indicem; XXIV (1636-1639), London 1923, a cura di R. Brown, ad Indicem; XXXII (1659-1661), London 1931, a cura di R. Brown, ad Indices; Dispacci di A. C. e Michele Morosini ambasciatori straordinari della Repubblica veneta a Carlo II re della Gran Bretagna l'anno 1661, a cura di A. F. Podreider, Venezia 1862; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, III, Torino 1968, p. 846; S. Carbone, Note introduttive ai dispacci al Senato dei rappresentanti diplomatici veneti. Serie Costantinopoli, Firenze, Inghilterra, Pietroburgo, Roma 1974, p. 67; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, IV, Podestaria e capitanato di Padova, a cura dell'Istituto di storia econ. dell'Univ. di Trieste, Milano 1975, p. L; F. Sansovino-G. Martinioni, Venezia città nobilissima e singolare, Venezia 1663, p. 752; A. M. Vianoli, Hist. veneta, parte seconda, Venezia 1684, pp. 457, 517 ss., 550, 671; B. Nani, Historia della Repubblica veneta, in Degl'istor. venetiani i quali hanno scritto per pubblico decreto, VIII, Venezia 1720, pp. 592, 707, 749-753; IX, ibid. 1720, pp. 65, 407, 488; I. Gratiani Historiarum Venetarum libri XXXII, I, Patavii 1728, pp. 429, 499, 505, 523, 530, 590; II, ibid. 1728, pp. 75, 106; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, II, Venezia 1827, p. 308; III, ibid. 1830, p. 103, VI, ibid. 1853, p. 823; P. Litta, Cenni ad alcuni distinti uomini della veneta patrizio famiglia Corraria, Venezia 1841; E. A. Cicogna, Saggio di bibliografia veneziana, Venezia 1847, pp. 166 ss.; M. Foscarini, Della letteratura veneziana ed altri scritti intorno ad essa, Venezia 1854, p. 491; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VII, Venezia 1858, p. 372; G. Soranzo, Bibliografia venez., Venezia 1885, pp. 122, 126 s.; A. Leman, Urbain VIII et la rivalité de la France et de la maison d'Autriche de 1631 à 1635, Lilleparis 1920, p. 9; L. von Pastor, Storia dei papi, XIII, Roma 1931, pp. 820, 831; XIV, I, ibid. 1932, p. 328; F. Antonibon, Le relaz. a stampa di ambasciatori veneti, Padova 1939, pp. 56, 79, 104; G. Romano, Di una controversia tra il P. Sforza Pallavicino e la Repubblica veneta, in Nuovo Arch. veneto, VII (1894), pp. 149-156; E. Sestan, La politica venez. del Seicento, in Storia della civiltà veneziana, a cura di V. Branca,III, Firenze 1979, p. 9; V. Spreti, Enc. storico-nobil. italiana, II, n. s., p. 547.

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