CAVALCABÒ, Andreasio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979)

CAVALCABÒ, Andreasio (Andrea de Cavalcabobus)

Giancarlo Andenna

Nacque prima del 1350 da Guberto, marchese di Viadana, e da Ricadona Sommi, figlia del milite cremonese Maffeo Sommi. Il C. era dunque nipote di Giacomo, che era stato signore di Cremona all’inizio del Trecento.

Studiò con ogni probabilità a Bologna, ove è ricordato per la prima volta dalle fonti il 28 marzo 1373 con la qualifica di legum doctor. In tale data il C., che da altre fonti sappiamo essere lettore di diritto civile presso l’università, ottenne dal bolognese Pietro Aurifice un prestito di 412 ducati d’oro, con impegno di restituzione entro giugno. La cifra doveva servire per il ritorno alla natia Viadana, ove dimorava il padre Guberto, giacché gli anni 1373 e 1374 furono funestati da una gravissima pestilenza che interessò in special modo Bologna, ove fu chiuso lo Studio. In questo senso il 17 maggio 1373 Guberto scrisse al signore di Mantova, Ludovico Gonzaga, per ottenere un lasciapassare al figlio.

La permanenza del C. a Viadana si protrasse sino al settembre dell’anno successivo, quando la pestilenza cessò di mietere vittime. Ma già il 24 ag. 1374 suo padre Guberto inviava ancora al Gonzaga una lettera in cui chiedeva di interporre favori presso il signore di Padova, Francesco da Carrara, affinché il figlio fosse nominato lettore di diritto civile in quella università. La risposta del da Carrara, cortese ma evasiva, assicurava che in caso di bisogno il C. sarebbe stato interpellato. Il C. dovette ritenere che la sua presenza a Padova avrebbe accelerato la nomina e prima del 16 settembre si avviò verso la città veneta. Non sappiamo se riuscisse a ottenere l’incarico del lettorato; qualche tempo dopo, comunque, abbandonò l’attività docente per abbracciare la professione politico-diplomatica.

Dal 10 apr. 1376 al 10 ottobre dello stesso anno il C. fu podestà di Firenze; al termine del mandato fu accusato di abuso di potere per aver messo a morte alcuni cittadini, ma venne prontamente assolto. Nel dicembre 1376 era podestà di Perugia: durante il suo mandato nella città avvennero profondi rivolgimenti politici, poiché la fazione dei nobili intraprese una vera lotta armata contro il partito popolare. Il C. per riportare la pace usò le maniere forti e fece impiccare due capi del partito popolare; perciò al termine della podestaria fu nuovamente accusato di abuso di potere; anche in questa occasione ottenne l’assoluzione.

L’energia e la decisione dimostrate nel corso delle due podestarie lo fecero apprezzare presso la corte pontificia e nel 1381 egli entrò al servizio di Urbano VI che il 26 maggio lo inviò a Todi, latore di una bolla in cui si intimava al priore ed al popolo della città di prestar fede alle parole del Cavalcabò. Probabilmente il C. aveva ricevuto l’incarico di discutere con i magistrati cittadini il passaggio di Todi sotto il dominio della Chiesa, passaggio che poi effettivamente avvenne nel 1387. Al termine della missione il patriarca commendatario di Aquileia, Filippo d’Alençon, lo volle al suo servizio per affidargli le trattative diplomatiche con la Repubblica veneta.

Il 16 sett. 1381 il C. fu inviato dal patriarca, con due altri giureconsulti, a trattare con i rappresentanti di Venezia il difficile problema della giurisdizione sull’Istria, rivendicata sia dal patriarca sia dalla Serenissima. Mancano altre notizie su questa missione. Il C. è ricordato nelle fonti soltanto nell’anno successivo, 1382, quando non era più al servizio del patriarca ma era passato alle dipendenze del marchese Niccolò II d’Este, il quale inizialmente lo utilizzò come ufficiale addetto ai rifornimenti del suo esercito. Nel dicembre è infatti testimoniata la sua presenza a Rivarolo Mantovano, per provvedere l’esercito di farina, frumento, spelta e legna da ardere. Successivamente Niccolò volle utilizzare l’esperienza politica del C. e lo fece eleggere nel 1385 podestà di Ferrara, carica che il C. ricoprì sino alla morte del marchese, avvenuta nel 1388. Morto Niccolò II il C. passò al servizio di Giangaleazzo Visconti e prese dimora a Milano nella parrocchia di S. Tommaso, presso la porta Comacina.

Il C. doveva essere già da prima noto al Visconti, dato che questi lo nominò immediatamente suo consigliere, carica che mantenne per circa tre lustri. Per conto di Giangaleazzo il C. svolse un’intensa attività diplomatica: i successi conseguiti ne fanno uno dei principali artefici dell’espansionismo visconteo in Italia. La prima missione da lui condotta riguardava il problema della conquista di Padova. Nell’ottobre 1388 Giangaleazzo, cui premeva staccare dall’alleanza con i signori di Padova il duca d’Austria Alberto, inviò il C. a Bolzano per prendere contatti con gli ambasciatori del duca. Il 24 ottobre le due parti giunsero ad un compromesso: il duca avrebbe impedito l’invio di rinforzi ai signori di Padova, mentre il Visconti avrebbe pagato ad Alberto 60.000 fiorini d’oro tre mesi dopo aver occupato Padova. Inoltre si sarebbe permesso al duca d’Austria di occupare Treviso, Feltre e Cividale. Era indubbiamente un accordo gravoso per Milano, ma il C. aveva avuto istruzioni di concludere l’alleanza con Alberto ad ogni condizione e nel minor tempo possibile. Firmato l’accordo, il C. raggiunse Giangaleazzo ad Abbiategrasso per informarlo dell’esito delle trattative. Il Visconti accettò di buon gradol’accordo e in una lettera del 2 nov. 1388 al doge di Venezia giustificò con ferme espressioni l'operato del Cavalcabò. Il frutto di queste trattative diplomatiche fu raccolto poco dopo: il 23 novembre i Milanesi si impossessarono della rocca di Padova, e l’11 febbr. 1389 i da Carrara, signori della città, firmarono a Milano l’atto di cessione perpetua del loro dominio al Visconti.

Nell’estate del 1389 l’espansionismo visconteo si rivolse verso la Toscana con la dichiarata intenzione di sfruttare la rivalità esistente tra Siena e Firenze. Infatti, su sollecitazione di ambasciatori senesi, Giangaleazzo inviò il 20 luglio in Toscana il C., con il compito di firmare un regolare trattato di alleanza con Siena, a cui si giunse il 22 settembre. I patti prevedevano una lega offensiva e difensiva tra le due città per dieci anni e stabilivano che il Visconti avrebbe fornito a Siena truppe e materiale bellico contro Firenze. La conclusione dell’accordo non pose termine alla missione del C. il quale, per accentuare la presenza milanese a Siena, si recò da Pisa, località in cui era stata firmata la convenzione, nella stessa Siena per sostenere finanziariamente e politicamente la ghibellina famiglia dei Salimbeni, al fine di rafforzare in città il partito favorevole al Visconti. Contemporaneamente a Siena convergevano i più abili capitani di ventura italiani, inviati da Giangaleazzo a difendere la città.

La guerra ebbe inizio nel giugno del 1390 e sino all’ottobre si combatté con alterne vicende. Nell’ottobre i Fiorentini tentarono con un colpo di Stato di cacciare da Siena i ghibellini e gli uomini del Visconti; il tentativo fallì e il C. promosse una dura e spietata repressione del partito filofiorentino. Subito dopo si recò a Milano per informare direttamente il Visconti della situazione e per richiedere nuove milizie e nuovi finanziamenti.

Il C. ripartì immediatamente per la Toscana, e il 9 marzo 1391 i priori del Comune di Siena comunicarono al Consiglio generale che stava per entrare in città e pertanto proponevano che fosse eletto Senator civitatis Senarum e che gli fossero concessi pieni poteri di governo; la proposta fu accettata con 194 voti favorevoli e 23 contrari. Siena era così nelle mani del Cavalcabò. La notizia gli venne comunicata a Perugia, dove egli si trovava perlomeno dal 26 febbraio, con l’incarico di negoziare un’alleanza con Milano. Il 12 marzo prese possesso di Siena e a nome di Giangaleazzo chiese la signoria della città. I ghibellini, che costituivano la maggioranza del Consiglio generale, accettarono la proposta, ma il partito avverso, capitanato dalla potente famiglia dei Tolomei, seppe far insorgere il popolo. Dopo un giorno di lotta cruenta i soldati del Visconti ebbero ragione dei ribelli e la reazione che ne seguì fu spietata. Il 15 marzo il Consiglio generale attribuiva la signoria della città a Giangaleazzo con 430 voti favorevoli e 7 contrari.

Da questo momento per opera del C. Siena divenne il centro di tutta la politica viscontea in Toscana. Egli a metà aprile era di nuovo a Perugia forse per convincere i rettori della città a provvedere alle spese di guerra e alle paghe dei soldati che combattevano per i Visconti in Toscana. Inoltre era impegnato a coordinare le forze politiche ghibelline dell’Italia centrale contro Firenze, che ormai preparava apertamente la guerra.

Tra il giugno e l'agosto 1391 i Fiorentini devastarono il territorio senese, giungendo sino a due miglia dalla città. In seguito alla nomina del C. a capitano generale dei ghibellini toscani le sorti del partito visconteo migliorarono, ma nessuna delle due parti riuscì vittoriosa, cosicché si giunse alla pace del 2 febbr. 1392, mediata dal doge di Venezia e dal pontefice. Le condizioni erano molto pesanti per il Visconti, a cui s’impediva di intervenire negli affari politici toscani. Pertanto il 16 febbraio i priori e il Consiglio generale di Siena considerarono decaduto il mandato politico concesso al C. e procedettero alla nomina di un nuovo senatore.

Tra il febbraio e il maggio il C. soggiornò a Cremona ove effettuò un importantissimo acquisto dai fratelli Benzoni: infatti con istrumento dell’8 apr. 1392 egli si impadroniva di tutti i beni che i Benzoni possedevano in Gazzuolo, Belforte, San Martino dell’Argine, Commessaggio, Montesauro e Brugnolo. Si trattava di una serie di paesi posti sui confini della signoria di Viadana: probabilmente questa operazione economica nascondeva un investimento del danaro guadagnato in Toscana e costituiva un tentativo di porre le premesse per una possibile estensione della signoria rurale di Viadana.

Ritornato a Milano nel settembre, il C. fu inviato, con il vescovo di Novara Pietro Filargo e con Ruggero Cane, a Firenze come ambasciatore del Visconti per confermare la sua buona volontà di rispettare le clausole di pace. Conclusa la missione, si ritirò nel proprio feudo di Viadana, ove lo troviamo il 2 febbr. 1393. Tra quest’ultima data e la morte di Giangaleazzo il C. non ebbe più incarichi politici, ma fu frequentemente a Cremona e a Viadana intento a curare il proprio patrimonio.

Alla morte del duca di Milano (1402) continuò a far parte del Consiglio ducale per appoggiare la reggenza di Caterina Visconti, che governava a nome del figlio Giovanni Maria; dopo la rivolta del giugno 1401, che abbatté il potere di Francesco Barbavara, il C. rimase nel Consiglio ducale, ma in posizione isolata, finché nel giugno 1404 non decise di abbandonarlo. D’altra parte Ugolino Cavalcabò, suo stretto congiunto, aveva strappato Cremona ai Visconti, cosicché la posizione del C. era divenuta sempre più pericolosa a Milano.

Si ritirò pertanto a Viadana con la moglie Malgarita da Casate, che aveva sposato il 17 ott. 1396 e da cui aveva già avuto i quattro figli, Agostino, Giovanni Maria, Nicolò e Beatrice. Ma il 13 dic. 1404 Ugolino fu catturato dai Visconti a Manerbio, e il C. dovette intervenire per trattare il 16 dicembre una convenzione tra Ugolino e i Visconti: nei patti Ugolino sarebbe stato liberato se avesse ceduto Cremona ai Milanesi. Ma il 19 dicembre un altro Cavalcabò, Carlo, per non perdere la città si proclamò signore di Cremona. Il C., abbandonato definitivamente il partito dei Visconti, divenne artefice della politica estera di Carlo e tra il genn. 1405 e il genn.1406 sostenne lunghe trattative per stabilire un’alleanza offensiva di otto mesi tra il signore di Cremona e Francesco Gonzaga, signore di Mantova. Nel marzo dello stesso 1406, essendosi profilata la rivalità tra Carlo e Ugolino, fuggito da Milano, il C. tentò inutilmente di mediare tra i due, anche perché temeva il pericolo di una forte influenza su Carlo di un uomo nuovo, Cabrino Fondulo. Quest’ultimo convinse Carlo della necessità di arrestare Ugolino.

Nel luglio 1406 Cabrino Fondulo mise in atto il suo piano per eliminare la signoria dei Cavalcabò e impadronirsi di Cremona: il C., Carlo e Antonio Cavalcabò si erano recati a Milano per trattare una tregua di quattro mesi con i Visconti e al ritorno, il 25 luglio, si fermarono nel castello della Maccastorna, che Carlo aveva regalato al Fondulo. Nella notte Cabrino li uccise tutti e tre.

Alcuni storici, fra cui il Litta, vogliono che il C. sia scampato al massacro e sia ancora vissuto sino al 1419; la tesi non ha fondamento dato che in un gruppo di pergamene conservate presso l’Archivio di Stato di Mantova, datate aprile e maggio 1412, si nominano esplicitamente i figli del defunto C.; d’altra parte il suo nome non compare più dopo la strage del 1406.

L’Arisi ci ha fornito notizie di quattro opere manoscritte del C., di cui ricorda anche i rispettivi titoli: due sarebbero stati lavori di diritto civile, uno di diritto romano, e infine una storia della vita di Giangaleazzo. I loro titoli sono i seguenti: De compromisso libri IV, De Fideicommisso libri IV, De Romanorum Magistratu, Compendium rerum a Io. Galeatio Vicecomite Mediolani Duce gestarum. Tali lavori sembrano sino a questo momento irrimediabilmente perduti.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Mantova, Sezione Gonzaga, buste 43, 387, 1590, 2382, 7387; Archivio di Stato di Firenze, Signori, Carteggio, Missive, Registri, I, Cancell., v. XVII, f. 44v; Codice 25 dei Sindacati, 1376, f. 35v; Todi, Arch. comunale, sala III, armadio I, casella IX, n. 424; Arch. di Stato di Siena, Calefffo Rosso, ff. 26 s.; Consiglio Generale, Deliberazioni, 162, f. 19; Biccherna, 278, f. 55; Concistoro, Deliberazioni, 162, f. 19; Missive, 1605; Cronica volgare di anonimo fiorentino dallanno 1385 al 1409, in Rerum Italicar. Scriptores, 2 edizione, XXVII, 2, a cura di E. Bellondi, pp. 48, 79, 93, 105, 117, 123, 129, 137, 152; Frammento di una Cronaca di Cremona dallanno 1399 al 1442, in Bibliotheca hist. Italica, I, a cura di F. Robolotti, Mediolani 1876, pp. 167 s.; A. Campo, Cremona fedelissima città, Cremona 1585, p. 100; O. Malavolti, Historia de fatti e guerre de Sanesi, Venezia 1599, II, p. 170; F. Arisi, Cremona literata, I, Parmae 1702, p. 230; S. Verci, Storia della Marca Trivigiana e Veronese, XVII, Venezia 1790, p. 1 s; A. Mariotti, Saggio di memorie histor., civili ed ecclesiastiche della città di Perugia e suo contado, Perugia 1806, I, 2, p. 295; G. Tiraboschi, La fam. Cavalcabò, Cremona 1814, pp. 140 ss.; L. A. Minto, Cabrino Fondulo, Cremona 1896, pp. 47-58; P. Pecchia, Cristoforo della Strada e un episodio delle lotte guelfo-ghibelline in Milano durante il dominio del duca Giovanni Maria Visconti, in Arch. stor. lomb., XLIII (1916), p. 399; A. Cavalcabò, Un cremonese consigliere ducale di Milano, in Boll. stor. cremonese, II, (1932), pp. 5-56; C. Santoro, Il registro di Giovannolo Besozzi, cancelliere di Giovanni Maria Visconti, in Comune di Milano, Milano 1937, ad annos 1402-1403; D. M. Bueno De Mesquita, Giangaleazzo Visconti, Cambridge 1941, pp. 113 ss.; A. Cavalcabò, Le vicende stor. di Viadana (secc. XIII-XV), in Boll. stor. cremon., XVIII (1952-1953), pp. 159-216; F. Cognasso, Il ducato visconteo da Giangaleazzo a Filippo Maria, in Storia di Milano, VI, Milano 1955, p. 89; P. Litta, Le famiglie celebri ital., sub voce Cavalcabò, tav. I.

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